La terribile campagna di Russia la raccontammo qualche anno fa attraverso il viaggio di una cartolina partita da San Donà di Piave e mai arrivata a quel figlio poi caduto in quella terra lontana http://bluestenyeyes.altervista.org/quel-terribile-inverno-russo-del-42/. Altri giovani soldati nati a San Donà di Piave sono caduti in Russia, per la maggior parte appartenenti a degli stessi Reggimenti, i più sono stati dichiarati dispersi durante le offensive russe di fine gennaio 1943:
• Bragato Mario (1921), fante del 277° Reggimento Fanteria, morto il 10 marzo 1943 campo 188 (Tambov)
• Brollo Angelo (1914), mitragliere del 156° Battaglione Mitraglieri, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)
• Conte Antonio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)
• Dalla Francesca Elio (1921), fante del 278° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)
• Giacomel Giuseppe (1922), fante del 278° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)
• Mattiel Attilio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)
• Miozzo Angelo (1922), fante del 278° Reggimento Fanteria, caduto 30 gennaio 1943 (disperso)
• Ongaretto Ferruccio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, morto 28 marzo 1943 campo 56 (Uciostoie)
• Pavan Giannetto (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, morto il 10 novembre 1944 campo 56 (Uciostoie)
• Scomparin Gregorio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)
• Sgnaolin Renato (1922), mitragliere del 156° Battaglione Mitraglieri, caduto 31 dicembre 1942 (disperso)
• Stefanello Alfredo (1922), caporale del 278° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)
• Vallese Antonio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 23 gennaio 1943 (disperso)
• Zamuner Arturo (1914), mitragliere del 156° Battaglione Mitraglieri, caduto 31 dicembre 1942 (disperso)
• Zanutto Pacifico (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)
• Zecchin Luigi (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, morto 11 marzo 1943 campo 62 (Nekrilovo)
Una Cerimonia Solenne il 15 settembre 2024
Per Ricordare e Onorare i Soldati del Csir e dell’ARMIR, i Reduci, i Caduti, i Dispersi e i Morti in Prigionia nell’ottantunesimo anniversario del Ripiegamento di Russia, domenica 15 settembre 2024 è stata indetta una Cerimonia Solenne dall’UNIRR presso il Tempio di Cargnacco a Pozzuolo del Friuli (Ud) con inizio alle ore 9.30.
Un terribile settembre quello del 1882, ben rappresentato dal bollettino del ministero dell’agricoltura commercio: « Le piogge copiosissime, torrenziali che si verificarono in questa decade, ma specialmente dall’1 al 19, le quali furono cagione di così tremendi disastri nel Veneto, si devono alla persistenza di due depressioni atmosferiche, le quali persistettero per ben sette giorni l’una di qua e l’altra aldilà delle Alpi, mantenendo i loro centri in continua oscillazione. La depressione aldilà dei monti si mantenne quasi sempre a Nord Nord-Est; la posizione del centro di quella al di qua oscillò tra il Golfo di Genova ed il Veneto. In causa della reciproca posizione di questi due cicloni furono le Alpi del nord e del nord est quelle nelle quali si operò la massima condensazione del vapore acqueo. »
L’ alta Italia ne venne tutta travolta
Dalle pagine di Illustrazione Italiana le tremende cronache di quel settembre che segnarono solo l’inizio di un racconto che continuò anche nel mese successivo: « Le piogge pressoché incessanti che da 15 giorni cadono sulla zona media del continente europeo, hanno straordinariamente gonfiato i torrenti alpini che precipitano dai gioghi dei nostri monti: essi hanno rovesciato la piena sui laghi e sui fiumi, i quali, comunicandosela via via per tutta la fitta rete idrografica dell’alta Italia, han convertito la Lombardia e più specialmente il Veneto, in un vasto campo di rovine. I giorni 15, 16 e 17 settembre segnano la data del funesto avvenimento. Ci sarebbe impossibile enumerare soltanto le rovine fatte dagli elementi anche perché un cielo implacabilmente rannuvolato continua a versare le acque del nuovo diluvio. […] Spaventevole è il disastro che ha colpito il Veneto, e più propriamente le sue più fiorenti città: Verona, Vicenza, Padova, ecc. L’inondazione di Verona resterà tristemente celebre nella storia contemporanea. L’Adige, turgido ed impetuoso, inondò la città il 15 e il 16, rompendo tutti i quattro ponti che l’accavalcano, rovesciando case, molini, piantagioni ecc.; poi, sotto Verona, ruppe gli argini in quattro punti e per le larghe brecce si rovesciò sulle campagne vicine. Tutti i fiumi e torrenti che dalle Alpi scendono nelle lagune, imitarono l’esempio del loro maggior fratello: il Piave, la Livenza, il Brenta, il Bacchiglione, il Cordevole. l’Astico, il Timonchio, ruppero ponti, squarciarono argini, devastando borgate e campagne; ed anche qui, pur troppo, si hanno a deplorare vittime umane. I ragguagli per ora sono incompleti, e le notizie disastrose si succedono senza posa: e, quello che è peggio, piove, piove dirottamente, facendo prevedere altri e maggiori guai. La grandezza della sciagura sembra scoraggiare qualunque opera di beneficienza. I raccolti del riso, dell’uva, della mellica e delle castagne sono irreparabilmente perduti: migliaia di famiglie son rimaste senza tetto, sprovviste di tutto, senza strumenti da lavoro, senza lagrime per piangere la morte de’ loro cari e la rovina della loro esistenza!»
L’indomito Piave s’aprì la via
In quei giorni il livello del Piave toccò picchi sino ad allora mai raggiunti, mettendo in sofferenza tutti gli argini ed esondando in più punti, tanti anche i ponti danneggiati irrimediabilmente, tra cui il Ponte Vecchio di Belluno. In quel 16 settembre tutte le zone del basso corso del Piave pagarono un loro pesante tributo. La furia delle acque provocò molti danni esondando in più punti a Noventa dove il Piave ha un corso tortuoso. Le acque si aprirono un varco negli argini al Montiron, un altro più largo a Sabbionera, giorni dopo una terza breccia s’aprì a La Favorita. Furono 400 le famiglie che videro le proprie case allagate e la necessità di mettersi in salvo. L’impeto del Piave fu tale che nel tratto sandonatese l’ansa tra San Donà e Musile venne spazzata via, il Piave decise di andar dritto lasciando il proprio letto costeggiante l’argine San Marco; le poche case all’interno dell’ansa vennero travolte e a farne le spese fu anche il ponte di legno, all’epoca chiamato “della Pedona”, che dopo secoli aveva unito San Donà a Musile, ed ora irrimediabilmente danneggiato a soli sette anni dall’inaugurazione. Si narra che solo grazie al coraggio dell’impiegato del telegrafo Bressanin si riuscì a mantenere intatta la linea; il coraggioso si issò sulla pericolante struttura del ponte sganciando il prezioso filo del telegrafo prima che quella fondamentale linea di comunicazione s’interrompesse, seguendo il triste destino del ponte, isolando ancor di più l’intera zona.
Danni e allagamenti
Indicibili furono le sofferenze sopportate dalla popolazione prigioniera delle acque, infinite le esondazioni e le tracimazioni che inondarono le campagne, alto pure il numero degli sfollati messisi in salvo con difficoltà vista la portata degli allagamenti. Potente il grido di aiuto lanciato dal sindaco di San Donà Giorgio Trentin: «Siamo inondati attendiamo subito barche e truppe per salvare e soccorrere gli abitanti sorpresi nella notte e privi di tutto.». La violenza delle acque travolse la chiesa e il cimitero di Musile, posti allora nelle vicinanze del fiume, vennero poi ricostruiti in una zona più sicura. Non meglio andò sulla sponda sandonatese con importanti danni al Molino Finzi con il suo costoso macchinario a vapore e che creò alla popolazione un’immediata emergenza alimentare. Nella vicina Noventa furono ben 1500 i senza tetto obbligati a mettersi in salvo lontano da quel fiume che rappresentava un importante polo economico grazie al porto fluviale.
I difficoltosi soccorsi
I soccorsi furono rallentati dagli allagamenti e dalla rottura di quell’unico ponte che collegava le due sponde. Impreparata si trovò anche la Regia Marina con le sue imbarcazioni che si rilevarono inizialmente inadatte a quel tipo di operazione di soccorso nelle zone alluvionate. La situazione restò grave per giorni a causa della pioggia che non cessava e del livello delle acque che non sembrava deciso a calare, tanto che molte zone rimasero allagate per settimane, talune anche per mesi. Forte la solidarietà delle comunità vicine che inviarono viveri e aiuti alla popolazione in sofferenza.
Un’alluvione generalizzata
Il problema della piena, come detto, nel mandamento sandonatese non interessò solo il Piave, proprio l’ingrossamento generalizzato dei fiumi generò un effetto domino che vide esondare altri importanti corsi d’acqua. Già il giorno 16 settembre assieme al Piave ruppero gli argini sia il Meduna che il Monticano, il 23 settembre ci fu la rotta del Livenza a Torre di Mosto le cui acque si riversarono nelle campagne e si sommarono a quelle del Piave riportando indietro l’orologio della storia a prima delle bonifiche. Ben 37 mila ettari dei 44 mila che costituivano il dipartimento di San Donà vennero allagati. I raccolti ne furono intaccati con una popolazione costretta ad attendere i soccorsi, cercando al contempo di salvare i propri beni e i propri animali. Tutto il territorio ne pagò un prezzo anche per i lunghi mesi a venire, dove il semplice vivere dovette fare i conti con l’allarme sanitario in zone dove ancora la malaria mieteva le sue vittime. Furono anni difficili dove molti scelsero l’opzione di emigrare, tanti seguirono l’illusione del trasferimento oltre oceano in Sud America, come se lì la vita fosse meno dura.
Comitato di Soccorso del Basso Piave
Tra le tante richieste di aiuto, una vide l’unione di tutti i Comuni del comprensorio di San Donà uniti nel “Comitato di soccorso per gli inondati dal Piave” che inviarono una missiva ad ogni Comune del Regno per richiedere un aiuto in questo grave momento di difficoltà, così recitava l’appello:
« Onorevole Municipio, il tremendo disastro dell’inondazione di questo vasto territorio è oramai noto ovunque. Narrare i particolari strazianti per eccitare gli animi alla comprensione sarebbe quanto dubitare della potenza di quel sentimento spontaneo di fraterna solidarietà che fa della grande famiglia italiana una nazione civile rispettata e forte. Il comitato quindi, ricordando con raccapriccio il danno generale di oltre quattro milioni di lire e l’importanza a prestare i più urgenti soccorsi a più di 20 mila contadini vivi del necessario alla vita, e con una certa compiacenza di aver questo Distretto sempre risposto ai gridi di dolore delle popolazioni dei più remoti angoli della penisola colti da gravi jatture, si lusinga di trovare corrispondenza di sentimenti.
Qualunque sia la forma e la misura del sussidio che codesto Municipio e codesta cittadinanza crederanno di largire si avranno la gratitudine imperitura dei poveri disgraziati e dei loro rappresentanti.
San Donà di Piave 25 settembre 1882
Il comitato organizzatore: Trentin cav. Giorgio San Donà di Piave Sindaco di San Donà di Piave, Crico cav. Matteo Sindaco di Noventa di Piave, Vianello Alessandro Sindaco di Grisolera, Vian Lorenzo Sindaco di Torre di Mosto, Loro cav. Paolo Sindaco di Ceggia, D’Este Carlo Sindaco di San Michele del Quarto, Ferraresso Francesco Sindaco di Musile, Meneghini Giuseppe Assossre facente funzioni di Sindaco di Cavazuccherina, Varischio Antonio Sindaco di Fossalta di Piave, Placa Antonio Sindaco di Meolo.
Plateo Segretario.
I fondi per la ricostruzione
Imponente fu la raccolta di fondi per aiutare le zone colpite dalla grave calamità naturale. Alla elargizione che subito venne fatta dal Re, si aggiunse quella dello Stato, ed anche le varie amministrazioni comunali non si sottrassero nel dare un loro concreto contributo. Grandi erano i danni che tutta l’Italia settentrionale aveva subito, in Veneto i danni più gravi li aveva causati l’Adige destinatario dei maggiori aiuti, ma furono ben pochi i luoghi vicino a dei corsi d’acqua che non avevano avuto danni nel terribile settembre 1882. Tra le iniziative di raccolta fondi molte erano, come d’uso all’epoca, quelle legate a lotterie o tombole, tanti anni dopo San Donà fu beneficiaria di una iniziativa del genere quando dopo la grande guerra fu necessario ricostruire l’ospedale. Curiosamente i fondi destinati al distretto di San Donà ebbero un eccesso, che venne accantonato per destinarlo alla costruzione dell’ospedale. In questo caso i tempi si allungarono a dismisura e l’importante struttura dovette aspettare il nuovo secolo per trovare concretizzazione.
Ad ottobre, una nuova esondazione
All’alluvione del settembre 1882 ne seguì una ad ottobre che, fortunatamente, pur colpendo con una portata similare un territorio già in ginocchio per gli eventi del mese precedente, ebbe una durata inferiore. Dopo pochi giorni, le acque dell’irascibile fiume iniziarono a calare rientrando nell’alveo, ma furono molti i mesi nei quali le campagne continuarono a rimanere gonfie dell’acqua che le aveva attraversate, in un quasi ritorno alle origini, quando le bonifiche le avevano affrancate dalla realtà paludosa. Le stesse bonifiche che trovarono nuovo impulso anche negli anni a venire rivelandosi preziose nel salvare ancora una volta tutto il territorio.
La lenta ricostruzione
Furono imponenti le opere di risanamento che subirono i fiumi dopo un tale disastro. Per quanto riguarda il Piave si iniziò una lunga opera generalizzata di innalzamento degli argini quanto mai necessaria per riuscire a fronteggiare delle piene della portata di quella appena sostenuta. Nel sandonatese venne innanzitutto dato il via alla progettazione del nuovo ponte, opera la cui mancanza venne subito rimarcata rendendosi assolutamente necessario un suo veloce ripristino. Il nuovo corso del fiume ne impose una diversa collocazione, ma ovviamente venne subito accantonata la possibilità di rifarlo in legno. Solo sette anni era durato quello travolto dall’alluvione, venne scelta per cui una costruzione in ferro sorretta da piloni in muratura. Prima però venne inaugurato il ponte ferroviario che fu la grande novità di quegli anni, con la ferrovia che collegò prima San Donà e poi Portogruaro con Venezia. Inaugurato nel giugno 1885, il ponte ferroviario superò una prima piena del Piave nell’autunno, così come anche il costruendo ponte stradale resistette e dall’aprile 1886 San Donà e Musile tornarono ad essere collegate dal desiderato ponte.
I nuovi argini alla prova della piena del 1889
L’emergenza non terminò con l’innalzamento degli argini, le piene del Piave erano una costante e regolarmente si susseguivano anno dopo anno. Quella del 1889 ebbe una portata pari a quella record del 1882. Gli argini furono messi a dura prova, una prima breccia si aprì in quei nuovi argini innalzati tra il ponte stradale e quello ferroviario, la successiva pressione delle acque sull’argine San Marco fu tale che cedette in due punti, travolgendo sette case e causando ben dieci vittime in una stessa famiglia. Un’enorme massa d’acqua si riversò su Musile, tanto da allagare ben tre quarti del suo territorio, danni ingenti subirono anche Passarella e Chiesanuova. Ancora una volta passarono mesi prima che il territorio potesse liberarsi dalle acque ed iniziare la ricostruzione, con dei fondi per il ripristino e l’aiuto alle popolazioni che tardarono ad arrivare.
Nel 1903 la tragica alluvione ancor si ripete
A chiudere le grandi alluvioni di quel tempo ci fu quella del 1903. Ancora una volta delle eccezionali precipitazioni gonfiarono i fiumi, come vent’anni prima l’Adige allagò Verona, seppur in misura minore. Peggio ancor una volta quel che il Piave riservò alla popolazione del suo basso corso. Tremò la sponda sandonatese tenendo in apprensione tutti gli abitanti di Mussetta, poi nella notte tra il 30 e il 31 ottobre accadde la rotta: «…il fiume era minaccioso; una rotta degli argini si aspettava, nel posto detto Mussetta, dove vivevasi con ansia; invece, nel sito detto Intestadura la fiducia era unanime. D’un tratto, un rumore sordo avvertì quelli di Mussetta che il Piave aveva rotto lungi da loro: aveva rotto a Intestadura, villaggio di un migliaio di abitanti. Le acque, per uno squarcio largo oltre cento metri, irruppero spaventose, tutto travolgendo nella loro furia livellatrice: capanne, stalle, case, sui tetti delle quali arrivarono a stento a rifugiarsi coloro che non erano giunti a salvarsi sugli argini. Cinquemila persone, nel territorio circostante San Donà di Piave sono state colpite dal disastro; trenta chilometri quadrati di superficie sono stati allagati: e l’irruenza delle acque ha travolto nelle ruine, insieme con molte masserizie di miseri contadini, quattro vittime umane, due fanciulli e due poveri ottantenni. Nell’opera di salvataggio si sono segnalati, come sempre, per zelo, per umanità, i carabinieri e i nostri soldati.».
Il Comizio del 17 gennaio 1904
Nelle ultime righe del suo libro il Plateo dedicò parole accorate proprio alle alluvioni che lo videro per tanti anni in prima linea come Segretario municipale di San Donà di Piave. « Noi auguriamo che le grandi alluvioni, segnate dalla storia a tinte nere, non si ripetano più. Non possiamo però dimenticare l’altezza delle scaturigini del Piave, la sfrenatezza del suo corso, le angustie del suo alveo, il deviamento dello sbocco dalla laguna al mare e lo sboscamento progressivo dei monti, come tante cause di maggior impeto delle acque in tempo di piena. Dobbiamo poi constatare che queste cause costituiscono una potenza ignota ai tecnici e ai profani sin che dura l’attuale sistema di difesa, affatto insufficiente, prova ne sia che gli uni e gli altri rimasero fin qui ingannati dalle più studiate ipotesi. » Il Plateo ricorda poi un Comizio molto partecipato che si tenne il 17 gennaio 1904 a San Donà di Piave presso il Teatro Sociale, dove un Comitato composto tra gli altri dal Sindaco di San Donà Callegher, dal comm. Sicher e a cui diedero adesione molti sindaci del Basso Piave e del trevigiano, alla presenza di tanti senatori e deputati, rimarcarono molte richieste affinchè il Piave potesse essere messo in sicurezza. Di quell’ultima alluvione fecero anche un resoconto: 300 ettari l’estensione del territorio allagato con 757 famiglie e 5438 persone, le vittime furono 4, le case distrutte 8, le pericolanti sono 36, le danneggiate 120. I danni denunciati da piccoli proprietari, mezzadri, chiusuranti e braccianti, sommano a lire 383.343,25, esclusi quelli incalcolabili dei grandi proprietari.
Le alluvioni del Piave del 1882 nelle illustrazioni delle riviste
I giornali dell’epoca dedicarono molte illustrazioni agli eventi tragici delle alluvioni che colpirono il Veneto in quella fine-inizio secolo. Disegni e incisioni che raccontavano di episodi realmente accaduti e che davano il senso, il più delle volte tragico, degli avvenimenti. Anche in periodi successivi dove l’immagine fotografica divenne protagonista, questo tipo di rappresentazioni grafiche continuarono a mantenere una loro importanza. Riguardo agli avvenimenti accaduti nelle nostre zone “L’Illustrazione Italiana” dedicò al Veneto una incisione composita nella doppia pagina centrale in uno dei numeri di ottobre. Così la lunga descrizione data dal giornale: « Il grande disegno, che occupa due pagine di questo numero si riferisce a diversi punti del Veneto desolati dalle inondazioni. L’ovale, che ne occupa il centro ed il disegno posto a destra, nella parte inferiore, rappresentano i lavori di palificazione e di arginatura, intrapresi ora, per chiudere la grande rotta di Legnago. Questi lavori sono importanti non solo per ragioni economiche, ma anche per ragioni idrauliche; trattandosi della rotta d’Adige più ampia e più profonda che si abbia avuta finora. Lo scandaglio scese in qualche punto ad una profondità di 37 metri…..Gli altri disegni che girano attorno a buona parte dell’ovale si riferiscono all’inondazione del Piave. Due volte: alla metà di settembre e alla fine d’ottobre, le acque di questo fiume uscirono dal loro letto, rompendo gli argini, facendo rovinare case e ponti, e fugando all’improvviso migliaia di poveretti che confusi, spauriti, cercavano rifugio nei punti più elevati. All’urto della prima piena caddero infranti il gran ponte di San Donà e il prossimo molino a vapore del cav. Finzi, ampio ed elegante opificio che dava lavoro e pane a moltissime povere famiglie. Il ritrattino, che spicca nella parte inferiore del nostro disegno, è del fanciullo Dazzi, quello che presso la rotta dell’Adige a Masi restò più di trenta ore, aggrappato al tronco d’un albero. Il poveretto è orfano; i suoi genitori rimasero vittime di quel fiume, al cui fiotto impetuoso egli poté sfuggire in modo tanto sorprendente. »
Nelle copertine delle riviste le tragedie del 1903
Due incisioni in prima pagina furono invece dedicate alla rotta dell’Intestadura del 1903. “Il Secolo Illustrato” raccontò con un’incisione in prima pagina la tragedia all’Intestadura accompagnandola anche con il triste racconto all’interno: « …il Piave purtroppo volle le sue vittime. La casa di Pietro Pavanetto fu spazzata via. In una stanzetta dormiva una vecchia madre ottantenne assieme a due figliolette che miseramente perirono. Il contadino Luigi Mandruzzato si trovò con una bambina di quattro anni e la madre ottantenne sul tetto di una cascina, ove la piena li raggiunse e la vecchia infelice venne strappata dalle braccia del figlio e miseramente affogò….». Lo stesso fece “La Domenica del Corriere” che raccontò un altro episodio accaduto: «…Mentre carabinieri e cittadini, dentro una grossa barca, sfidavano la furia dell’acqua limacciosa e terribile, raccogliendo uomini e dovve che stavano per annegare, un toro rimasto isolato sopra un lembo dell’argine caduto si lanciò nell’acqua inseguendo minacciosamente la barca stessa. Tra i naufraghi lo spavento fu grande : scampati da un pericolo, un altro li minacciava! Un carabiniere impugnata la daga, tenne a bada l’animale inferocito finchè un provvidenziale filare d’alberi permise alla barca di approdare trattenendo il toro. »
Per ulteriori approfondimenti: 1. “Il ponte della vittoria diventa storia: 1922-2022 – passi barca, ponti e vie d’acqua a Musile e dintorni” di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto (Tipolitografia Biennegrafica, Musile di Piave – 2022); 2. “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Mons. Costante Chimenton (Tipografia Editrice Trevigiana, 1928); 3. “La bonifica nel basso piave” di Luigi Fassetta (Tipoffset, Venezia, 1977); 4. “San Donà di Piave” di Dino Cagnazzi, Giorgio Baldo, Tiziano Rizzo (Casa Editrice Legal, Padova, 1979); 5. “C’era una volta Musile” di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto (Biennegrafica, Musile di Piave, 2007); 6. “Torre di Mosto” di Dino Cagnazzi (Istituto Tipografico Editoriale, Dolo, 1979); 7.”Il disegno della città tra utopia e realizzazione” di Dino Casagrande e Giacomo Carletto (Tipolitografia Colorama, San Donà di Piave, 2002); 8. “Venezie sepolte nella terra del Piave” di Wladimiro Dorigo (Viella, Roma, 1994); 9. “Il territorio di S. Donà nell’agro d’Eraclea” di Teodegisillo Plateo (1907, Ristampa Editrice Trevigiana, 1969); 10. “Fossalta, dal 130 a.c. alla battaglia del Piave” di Alba Bozzo (Officine Grafiche Boschiero, Jesolo, 1983); 11. “Una terra ricca di memorie Noventa di Piave” di Dino Cagnazzi, Gianpietro Nardo, Luigi Bonetto (Istituto tipografico Editoriale, Dolo, 1980); 12. Archivio “Illustrazione Italiana” (consultabile on line)
« Verso la mezzanotte del 27 luglio, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 4 giugno 1945, essi venivano bruscamente svegliati nelle loro celle, invitati a vestirsi e a partire. Partirono per non più ritornare. Alla soglia del carcere, gli assassini li attendevano, quaranta uomini armati di tutto punto contro tredici uomini inermi e legati mani e piedi.
Per giustificare l’eccidio, un simulacro di processo venne tenuto, clandestinamente, in qualche luogo. La sentenza, già preparata in anticipo, venne letta ai morituri nei pressi del luogo dell’esecuzione. E quando l’alba stava per spuntare, ripetute scariche di mitra falciavano i loro poveri corpi, dai quali, come ultima manifestazione di una vita spesa per il bene della Patria, uscì un sol grido: « Viva l’Italia ».
Da quel mattino in cui i Caduti cessarono di essere degli esseri viventi, essi diventarono un simbolo di dedizione al dovere, della volontà di lotta, delle sofferenze e del martirio di tutto un popolo e presero un nome comune: i Tredici Martiri di Cà Giustinian ».
La commemorazione solenne in occasione del ventesimo anniversario
Il libretto che contiene il testo dell’incip è stato editato dal Comune di San Donà di Piave in occasione di una commemorazione solenne che si tenne il 6 settembre 1964 in occasione del ventesimo anniversario. Ai Tredici Martiri e a quel libretto abbiamo già dedicato un post « San Donà di Piave, il sacrificio dei Tredici Martiri », con la possibilità di scaricare il libretto stesso a questo link: « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° anniversario della Resistenza ». A seguire invece l’invito spedito alle autorità per la manifestazione del 6 settembre 1964:
L’attentato di Cà Giustinian
L’attentato che poi portò alla rappresaglia e all’uccisione dei Tredici Martiri avvenne il 26 luglio 1944. L’obiettivo a Venezia era la sede del Comando provinciale della Guardia nazionale repubblicana (Gnr). In quel palazzo aveva sede anche la polizia segreta del Partito fascista (Upi), oltre che un ufficio di propaganda tedesco, che risulterà l’anello debole che permise il successo dell’azione. Un obiettivo altamente simbolico che vide il crollo dei cinque piani del palazzo con numerose vittime, tra cui due militari tedeschi. Racconta Morena Biason nel suo libro (1): « …fu acquistato il baule che doveva servire allo scopo, predisposto il congegno di accensione, preparata la bomba dentro la cassa e, la mattina del 26, Varisco si recò presso l’abitazione in cui la cassa era custodita, lo studio dello scultore Velluti, e mise in funzione il congegno, dopodichè Velluti scrisse l’indirizzo tedesco sul coperchio della cassa che venne caricata sulla barca che la doveva portare a destinazione: la portarono “Kim” e un altro. I due si erano presentati al corpo di guardia del Comando provinciale della Gnr di Venezia preceduti da tre soldati tedeschi insieme ai quali, dopo aver dichiarato di dover consegnare il baule all’ufficio propaganda tedesco, avevano esibito i loro documenti personali ed erano stati fatti entrare nello stabile. Dato che l’ufficio non era ancora aperto, la cassa era stata lasciata in custodia al corpo di guardia e i due portatori se ne erano andati dicendo che sarebbero tornati poco dopo. Lo scoppio della bomba aveva provocato il crollo completo dei cinque piani dell’edificio, come voleva Varisco, solo nella parte posteriore. In seguito erano stati individuati i tre soldati tedeschi che avevano accompagnato Kim e il suo compagno all’interno del palazzo ed era stato appurato che erano stati sorpresi nella loro buona fede….»
L’alba del 28 luglio 1944
Il giorno ventisette venne decisa la rappresaglia, tredici furono i prigionieri politici del carcere di Santa Maria Maggiore che vennero giustiziati, quasi tutti erano sandonatesi. Racconta Morena Biason nel suo libro (1): « La sera del 27 un gruppo di militi della Gnr si era portato presso la sede dei carabinieri di San Zaccaria, da dove aveva ordinato il trasferimento presso di loro, dalle carceri di Santa Maria Maggiore, dei tredici prigionieri scelti per la rappresaglia. I tredici, che credevano di andare incontro ad un processo, furono subito inviati a San Zaccaria, dove trascorsero solo una parte della notte, perchè prestissimo in sette, legati con una fune, vennero portati con un motoscafo sulle macerie di Cà Giustinian e, alle 5 del mattino, uccisi a colpi di mitra e di pistola. Le altre sei vittime, anch’esse legate, erano state fatte giungere sul posto a piedi, dalla parte di San Moisè. Solo alle 9 del giorno successivo le salme furono rimosse e trasportate con una peata al cimitero, senza che fosse possibile rivolger loro qualsiasi tipo di onoranza funebre. Avevano lasciato Santa Maria Maggiore intorno alla mezzanotte e, verso le 6, racconta Giuseppe Gaddi, in carcere all’epoca con i Tredici, la guardia addetta al magazzino già si recava a ritirare gli oggetti che avevano lasciato in cella. Il plotone di esecuzione era comandato dal capitano della Gnr Waifro Zani che aveva fatto di tutto per trattenere i tredici in carcere e non farli partire per la Germania, nonostante fossero già ingaggiati con regolare contratto per recarvisi a lavorare. Il capitano dopo che il plotone di esecuzione aveva già eseguito l’ordine impartitogli, avrebbe sparato un colpo di rivoltella contro ciascuno dei primi sette martiri… »
Gli altri martiri presenti nel cimitero sandonatese
Accanto ai Tredici Martiri sandonatesi, nel cimitero cittadino vi è una seconda tomba che accoglie altre vittime sandonatesi di quel cruento periodo che vide gli uni contro gli altri, talvolta con divisioni profonde nelle proprie stesse famiglie. Un periodo nel quale morire era un attimo e anche quando si pensava di essere nel giusto, il destino decideva altrimenti. E’ il caso di Verino Zanutto al quale il solo perorare la causa di alcuni conoscenti catturati da un gruppo di partigiani trevigiani costò la vita seguendo così lo stesso destino di coloro che avrebbe voluto salvare in quanto egli stesso partigiano. Con Zanutto morì impiccato anche Primo Biancotto che lo accompagnava, fratello del Francesco che fu fucilato qualche mese dopo a Cà Giustinian. Flavio Stefani, Zanin Casimiro e Giodo Bortolazzi, tutti di Calvecchia, nel fiore dei loro anni morirono nei pressi di Pramaggiore. Caddero prigionieri dei nazisti comandanti dal tenente Bloch durante un rastrellamento a Blessaglia a seguito di alcuni sabotaggi alla linea ferroviaria. Dopo essere stati torturati furono fatti passare in rassegna alla popolazione locale per segnalare qualche loro fiancheggiatore, rimasti in silenzio furono impiccati agli alberi che costeggiavano la via Postumia il 27 novembre 1944. Al Zanin cedette la corda, lo stesso Bloch lo giustiziò a colpi di pistola dopo che una prima pistola si inceppò. Per tre giorni vennero lasciati lì a monito della popolazione locale. Padre e figlia sono invece Carozzani Luigi e Carozzani Cesira. Il padre trasferitosi in Friuli riforniva di viveri le formazioni partigiane entrando nelle mire dei tedeschi, anche i figli ben presto seguirono la stessa sorte tanto che le figlie Elvira e Cesira vennero catturate e inviate in Germania. Quando riuscirono a rientrare a San Donà il padre era già caduto in un conflitto a fuoco con i tedeschi in Friuli mentre Cesira non sopravvisse alla tubercolosi. Carlo Vizzotto fu uno di quei ragazzi che vennero arruolati forzosamente nelle fila dell’esercito di Salò. Inviato in Germania, al suo ritorno disertò e si aggregò ai gruppi partigiani liguri dove si distinse particolarmente prima di cadere in combattimento. Guerrato Luigi mori invece durante un attacco al presidio tedesco di Noventa il 28 aprile 1945.
I martiri della stazione
All’ultimo dei sandonatesi presenti nella tomba dei Martiri della Libertà, Bruno Balliana, è legato uno degli episodi che sono rimasti nella triste storia di San Donà di quegli anni. «… La sera del 10 dicembre la squadra del Curasì, il comandante del presidio delle Brigate Nere di San Donà di Piave, prelevò dalle carceri mandamentali di San Donà Bonfante Angelo, Bonfante Bruno, Scardellato Giuseppe e Balliana Bruno, che vi erano stati in precedenza ristretti per renitenza alla leva o attività antifascista, e li condusse alla sede delle SS Germaniche, dove si trovava detenuto il conte Gustavo Badini, anch’egli arrestato per attività partigiana. A notte i cinque detenuti furono fatti uscire da Villa Amelia, sede delle SS e instradati per Noventa di Piave. La scorta era costituita da un reparto, forse di 60 uomini, al comando del tenente Haupt, e da un plotone comandato da Curasì. Questi diede in seguito ordine di mutare la formazione, e cioè fece disporre i detenuti in linea di fronte, l’uno affianco all’altro: seguiva immediatamente, a una decina di passi, il plotone anzidetto. Era stato percorso circa mezzo chilometro fuori dell’abitato, quando il Curasì, dato l’alt, diede ordine ai detenuti di voltarsi e intimò ai suoi uomini: fuoco! Seguì una violenta raffica da parte del plotone, che cagionò la morte immediata del Baldini, del Scardellato, del Balliana, e di Bonfante Angelo: il fratello di quest’ultimo, Bonfante Bruno, rimase invece miracolosamente ferito alle natiche ed ebbe il consapevole ardimento di buttarsi subito fuori della strada e darsi alla fuga, riuscendo, benchè inseguito, a sottrarsi all’eccidio e alla detenzione. Processato a fine guerra, Curasì venne condannato alla fucilazione alla schiena, il suo secondo Fenzo all’ergastolo, a trent’anni i sei componenti del plotone. »
Per approfondimenti sui Tredici Martiri e la resistenza sandonatese: (1) « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007)
San Donà di Piave, medaglia d’argento al Valor Militare per la guerra di Liberazione: «Fiera Città di prima linea già duramente provata dalla guerra, subito dopo l’armistizio sosteneva con decisione la lotta di liberazione, dando centinaia di valorosi combattenti alle formazioni partigiane e pagando sanguinoso tributo di vittime alla repressione tedesca. Duramente colpita anche da bombardamenti aerei non piegava la decisa volontà di resistenza. Insorgeva in presenza di ben seimila soldati tedeschi, liberava il suo territorio tre giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate, dopo aver catturati tremilacinquecento prigionieri. San Donà di Piave, 1943–1945» — 12 dicembre 1952
Racconta Domenico Savio Teker nel suo libro “Storia cristiana di un popolo”: « Il 9 agosto il conteggio dei morti aumenta. Due partigiani vengono uccisi dai tedeschi dietro il Municipio, vengono fucilati senza dar loro il conforto di un prete. Lo stesso giorno il paese è attraversato da un camioncino che scarica davanti alla sede del fascio il corpo di un “disertore” di Musile. Il giorno dopo alle cinque di mattina i tre vengono sepolti “senza corteo e senza pompe”. Il sacerdote insieme a loro benedice anche la salma di un partigiano di Chioggia che era stato ferito a morte in uno dei rastrellamenti della settimana. ».
I due partigiani fucilati all’alba
Nei pressi del Municipio alle prime luci dell’alba furono fucilati Agostino Visentin, di Musile di Piave e Matteo Corridore, di San Giovanni Rotondo. Preziosi dettagli si desumono dal libro di Morena Biason “Un soffio di libertà”. In una relazione della brigata “Piave” viene segnalata la perdita di un elemento del gruppo, Agostino Visentin (tra parentesi le correzioni dell’autrice al documento dell’epoca) « In data 5 [ma forse 7] agosto 1944 in uno scontro sostenuto da alcuni compagni in località San Michele del 4°, contro due camion di SS e g.n.r. si lamenta la cattura in seguito a ferimento del compagno Visentin Augusto [ma Agostino] successivamente seviziato in ripetuti interrogatori e conseguentemente fucilato all’alba del giorno 11/8/1944 [ma 9/8/1944] dalle SS nel cortile delle scuole di S. Donà di Piave. [pare che il 9 luglio 1944] avendo trovato armi nascoste elementi del btg. San Marco – X Mas [abbiano] incendiato la baracca dei Visentin, adibita ad uso abitazione e magazzino, bruciando effetti di vestiario, letti grano vino botti e materiale agricolo. Asportarono inoltre n. 16 coperte, L. 25000 in contanti e banchettarono per una settimana nella casa di abitazione del Visentin fino ad esaurimento delle provviste del maiale.»
L’azione che portò alla cattura
Un altro partigiano che si trovava con loro, Pino Rossi, riuscì a salvarsi dal plotone di esecuzione. Pino Rossi, Agostino Visentin e Matteo Corridore erano stati catturati nella stessa circostanza, nel corso di un’azione, a cui aveva partecipato tra gli altri anche Luigi Amedeo Biason, svoltasi nei primi giorni di agosto, con tutta probabilità il 7.
Nella versione dei fatti fornita da Biason e Rossi si specifica anche il motivo dell’attacco ai partigiani, dicendo che l’azione in seguito alla quale era avvenuta la loro cattura si era verificata dopo circa un’ora dal disarmo di un piccolo gruppo di militari del battaglione San Marco, effettuato dai partigiani in località Musile di Piave. Entrambe le testimonianze riportano la notizia della morte di due partigiani durante lo scontro, ma nessuna delle due ne specifica i nomi.
Matteo Corridore da San Giovanni Rotondo
Il soldato Matteo Corridore, che dopo l’armistizio non aderì alla Repubblica di Salò passando tra le fila partigiane, venne dunque fucilato nell’agosto 1944 a San Donà di Piave. Di lui vennero chieste informazioni dal suo paese natale sin dal 14 agosto 1945. Esiste documentazione, citata nelle note del libro di Morena Biason, di una richiesta di informazioni del sindaco del paese pugliese a quello omologo di San Donà con relativa risposta controfirmata anche dall’Ufficiale sanitario. Le vicende del soldato Corridore sono salite agli onori della cronaca in questi giorni quando finalmente si è risaliti al luogo dove erano sepolti i suoi poveri resti. Con una cerimonia ufficiale al Comune di San Donà di Piave gli stessi sono stati raccolti in un urna e consegnati al sindaco di San Giovanni Rotondo e ai famigliari del Corridore, così da riportarli in Puglia per festeggiare nel migliore dei modi il 25 aprile anche nel ricordo del sacrificio di questo loro compaesano.
In un triste manifesto del 1944 la fucilazione dei due partigiani
Di quell’episodio esiste anche la documentazione del manifesto che le forze di occupazione erano solite affiggere nelle varie città a monito della sorte che riservavano a coloro che a loro si opponevano. Il testo in italiano e in tedesco così recitava:
COMANDO PIAZZA
S. Donà di P. – Noventa di P. – Musile di P.
AVVISO
Il 7 agosto 1944 – XXII, nel pomeriggio sulla strada Mestre – San Donà di Piave auto dell’Esercito Tedesco e Italiane, furono assalite e prese a fucilate da terroristi.
I prigionieri presi sono di nazionalità italiana:
1. – Visentin Agostino da Musile di Piave
2. – Corridore Matteo da S. Giovanni Rotondo (Foggia)
E sono stati fucilati stamane all’alba.
Il popolo viene ancora avvisato che chi darà aiuti od ospitalità ai terroristi – consegna di generi alimentari, denaro, armi e alloggio – verrà punito severamente.
Le case nelle quali i terroristi saranno trovati e avranno ricevuti aiuti verranno bruciate. Gli abitanti verranno portati in campi di concentramento di lavoro in Germania.
IL COMANDANTE LA PIAZZA
ORTSKOMMANDANTUR S. Donà, 9-8
S. Donà – Noventa di Piave
Am 7-8-44 nachmittags wurden auf der Strasse Mestre – S. Donà Fahrzeuge der deutschen und italienischen Wehrmacht durch Terroristen beschossen.
Die gefangen genommenen italienischem Staatsangehoringen
1. – Visentin, Augustino aus Musile di Piave
2. – Corridore, Matteo aus S. Giovanni Rotondo (Foggia)
Wurden heute in fruhen Morgenstunden erschossen.
Die Bevolkerung wird nochmals darauf hingewiesen, der Terroristen, Lieferung von Lebensmittel, Geld und Waffen sowie Unterbringung aufs scharfste bestraft warden.
Gehofte, in denen Terroristen aufgenommen und Unterstutzung finden, warden niedergebrannt. Die Bewohner in Zwrangsarbeifslager abtransportiert.
DER ORTSKOMMANDANT
Per ulteriori approfondimenti: 1. “Un soffio di libertà” di Morena Biason (Nuova Dimensione, Portogruaro, 2007); 2. “Storia cristiana di un popolo – San Donà di Piave” di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. “San Donà di Piave” di Dino Cagnazzi (Centro Stampa, Oderzo, 1995).
Come racconta il ten. Ing. Leonardo Trevisiol, della 20^ Comp. Minatori, nelle sue memorie: « Campanile di San Donà, demolito il 7 novembre, ore 23, dal cap. Borghi; camino dell’Jutificio e campanile di Noventa, demoliti l’8 novembre, dal ten. Trevisiol; ponte della ferrovia, fatto brillare il 9 novembre, ore 4 antimeridiane, e ponte carrozzabile, lo stesso giorno, ore 11, dal cap. Borghi e ten. Trevisiol della 20^ Comp. Minatori.» La guerra arrivò a San Donà in quel novembre 1917 e le vie di comunicazione per oltre un anno cessarono di collegare il territorio cittadino con l’altra sponda del Piave dove si attestarono le truppe italiane. Fin quando, dopo dodici cruenti mesi, le truppe italiane poterono riconquistare i tanti territori perduti sconfiggendo l’esercito austroungarico.
La lenta ricostruzione iniziò dai ponti
La rinascita di San Donà iniziò con la ricostruzione dei ponti. Quello pedonale inizialmente era costituito da un ponte di barche per poi lasciare il passo ad uno di legno. Quindi molti mesi dopo, il 12 novembre 1922 venne inaugurato il nuovo ponte sul Piave. Diversa la situazione di quello ferroviario la cui urgenza era di gran lunga maggiore per la sua utilità nel trasporto merci. Dal 1885 la ferrovia collegava San Donà a Venezia, cui seguì l’anno dopo il collegamento con Portogruaro. Linea che proseguì sino all’estremo limite del confine italiano dell’epoca rappresentato da San Giorgio di Nogaro per poi congiungersi con la ferrovia austriaca in direzione Trieste. Una linea ferroviaria che divenne interamente italiana dopo il primo conflitto mondiale, da qui l’esigenza di ripristinare sia i binari che i molti ponti per garantite lo spostamento veloce di persone e merci.
Il ponte della ferrovia
Tante le risorse profuse per il ripristino dei molti ponti ferroviari da ricostruire, con l’impiego di molte maestranze militari e civili e con materiali che arrivarono da tutta Italia. Il ponte sul Piave riuscì a sfruttare in parte la struttura danneggiata e già nei primi mesi del 1919 potè essere utilizzato per il passaggio dei primi treni. In attesa del ponte definitivo quello costruito dal Genio Militare aveva la provvisorietà dell’unico binario che lo attraversava. Se i lavori sulla linea procedettero poi con celerità, il ponte ferroviario definitivo solo nel febbraio 1927 divenne operativo con i suoi doppi binari. Nel mezzo una tragedia le cui dimensioni fortunatamente furono ridotte, ma le conseguenze in quel dicembre 1921 avrebbero potuto essere ben più gravi.
21 dicembre 1921, il grave incidente ferroviario
L’incidente ferroviario nei pressi del Ponte di San Donà di Piave riempì le pagine dei giornali dell’epoca, ad essere coinvolti furono un direttissimo che da Trieste doveva arrivare a Roma e il Simplon Orient-Express, un treno lusso che aveva affiancato il famoso Orient-Express che da decenni attraversava l’Europa collegando Londra ad Istanbul. Dopo la costruzione del Passo del Sempione il Simplon seguiva un diverso percorso, il treno lusso scendeva verso l’Italia e, dopo le prestigiose fermate di Milano, Venezia e Trieste, riprendeva il percorso tradizionale dell’Orient Express a Belgrado. Sulla Gazzetta di Venezia apparve un lungo articolo che raccontava con dovizia di particolari le ore successive all’incidente, i primi soccorsi giunti dall’ospedale di San Donà di Piave e la rapida inchiesta per individuare i responsabili. Questo ci dà anche un quadro di quali fossero le procedure non semplici che il singolo binario di attraversamento del ponte comportava, specie in orari serali e con una visibilità non ottimale.
« Il direttissimo 49 Trieste-Roma era arrivato a S. Donà di Piave l’altra sera alle 21.29 e dopo essersi fermato circa un minuto in quella stazione aveva ripreso la sua corsa verso Venezia con una andatura non troppo veloce, circa 40 km all’ora; giunto vicino al Ponte sul Piave, il direttissimo, trovata sgombra la via, si era avviato per l’unico binario che in quel punto si trova, e aveva di poco oltrepassato il ponte e stava per lasciare il binario unico, che dopo il ponte torna a biforcarsi, quando venne investito di traverso dal treno lusso Simplon Orient Express che proveniva da Venezia. L’urto fu violentissimo; tre carrozzoni del treno investito furono sfondati, mentre la macchina e il tender del treno investitore si rovesciavano lungo la scarpata. Urla di dolore e di spavento seguirono al cozzo tremendo. Tutti i viaggiatori pazzi dal terrore si slanciarono fuori dagli scompartimenti mentre dalle macerie delle tre vetture sventrate si alzavano gemiti e lamenti strazianti. Il nebbione che forse fu la causa dello scontro si era nel quel mentre un po’ diradato e uno squallido raggio di luna venne ad illuminare il terribile spettacolo. I passeggieri rimasti incolumi e riavutosi dalla terribile paura cercarono di portare aiuto ai disgraziati che si trovavano sotto le macerie. In fondo, una guardia regia era incastrata tra il terreno e il tetto di un carrozzone e si lamentava debolmente chiamando aiuto, più in là una signora francese chiamava con voce straziante il figlioletto che non trovava più. Giungevano intanto i primi soccorsi; alcuni manovali col capo stazione di San Donà, Dall’Acqua Cristoforo, e poco dopo alcuni infermieri dell’ospedale Umberto I con barelle che provvidero al trasporto dei feriti più gravi e alla medicazione dei più leggeri.
La stazione ferroviaria prima della grande guerra
I morti e i feriti E cominciò la ricerca delle vittime: venne estratto il cadavere di un giovane signore da un cumulo di sedili che lo seppellivano completamente; poco dopo più avanti un colonnello del 48. Fanteria ferito piuttosto gravemente alle gambe, nel vagone letto fu trovata una signora pur essa ferita alle gambe: tutti furono adagiati su delle barelle e condotti allo spedale di S. Donà dove furono ricevuti e curati amorevolmente dal direttore Alessandro Girardi. Per fortuna il numero delle vittime, che data la violenza dell’urto e l’affollamento del direttissimo, lasciava a prevedere fosse molto ingente, non si riduceva che a due morti e ad una quarantina di feriti dei quali 15 soli furono ricoverati allo spedale di San Donà, mentre gli altri appena medicati, sono subito ripartiti. Intanto la metà del treno 49 proseguiva col resto dei passeggieri per Mestre. I soccorsi e le autorità Verso la mezzanotte giungeva sul posto del disastro un treno di soccorso che portava le autorità: il sotto prefetto commendatore Sorge, il questore Tarantola, il Ten. Colonnello dei carabinieri Profili, il maggiore delle guardie regie Fulgenzi, il comm. Campello capo divisione movimento F.S., l’ing. Olper, comm. Sottili capo dei lavori, il comm. Vittori capo trazione, l’ing. De Simiane, e numerose guardie regie che pintonarono il luogo del disastro. Venne scaricato abbondante materiale per lo sgombero della linea. Subito dopo ne giungeva un altro che portava il cav. Chiancone sostituto procuratore del Re, cav. Lo Mosco della Compartimentale, una quarantina di guardie regie al comando dei tenenti Fondelli e Del Vecchio, il cav. Arrighi ispettore capo sanitario delle F.S., il dr. Groviglio pure delle F.S.; 14 marinai con barelle al comando del maggiore medico Cantamessa, una quindicina di pompieri con l’ing. Gajanni, l’ispettore Fringuelli, ecc. Anche noi siamo sul posto e il disastro ci appare in tutta la sua gravità. La visione del disastro I tre vagoni del treno investito sono tutti rovesciati sulle rotaie; il vagone letto ha la parete destra completamente squarciata; è un ammasso di ferro contorto, di cuscini, di materassi, di lenzuola. Valigie sventrate; seguono due carrozzoni del Roma-Trieste con scompartimenti di I e II classe anche questi sventrati e sconquassati: sembra che sia stata tagliata via con un gigantesco coltello una parete, tanto è netto il taglio. Una veilleuse ancora accesa, Dio sa come, fra tanto disordine, spande una debole luce bleu; più in là l’ultimo carrozzone ha ancora le sue lampadine accese. La scena è fantastica. Torce al vento e falò di legna rischiarano sinistramente la scena; sul cielo nebbioso si disegnano lugubri i contorni fantomatici dei carrozzoni squassati. La locomotiva del treno di lusso è distesa lungo la scarpata con i carrelli in aria, simile ad un enorme pachiderma rovesciato. Quando giungiamo i feriti ed i due morti sono già trasportati allo spedale e sono già iniziati i lavori di sgombero: vengono installati due potenti riflettori ad acetilene per poter continuare il lavoro per la riattivazione della linea. L’inchiesta delle Autorità
La stazione ferroviaria di San Donà nel 1921
Ci rechiamo alla stazione di San Donà dove troviamo già il cav. Chiancone coadiuvato dal cav. Lo Mosco che ha già iniziato l’interrogatorio dei testimoni. Possiamo parlare coll’ing. Giovanni Breda, consigliere delle F.S. il quale era uno dei viaggiatori del treno investito e ci dà molto cortesemente delle spiegazioni tecniche sul sistema di segnalazione all’imbocco del ponte. Subito dopo la stazione di San Donà egli ci spiega, ad un centinaio di metri dal ponte, il doppio binario si riunisce dovendo passare per esso e torna poi a biforcarsi ad un altro centinaio di metri più in là. A sorveglianza di questo importante scambio c’è la cabina A che è in comunicazione colla stazione di San Donà, e che ha l’ufficio di far funzionare i segnali di arresto per i treni provenienti da Venezia, qualora la via sia ingombra da un treno proveniente da San Donà. Il sistema di segnalazione è costituito da un segnale di avviso a luce gialla distante un 500 metri dallo scambio e da un segnale di prima categoria a luce rossa posto vicino lo scambio. Inoltre, in tempo di nebbia, come ieri sera, lungo la linea vengono posti tre petardi che hanno l’ufficio di avvisare il capotreno qualora questo per la nebbia non scorgesse il fanale giallo indicante che la via è impedita. Ora con ciò, conclude il nostro interlocutore, non possiamo ammettere che una causa del disastro: la nebbia che ha impedito al capotreno del S.O.E. di scorgere il segnale di avviso e udire a tempo lo scoppio dei petardi, per cui si è trovato sotto il fanale rosso improvvisamente e quando ormai era troppo tardi per frenare il treno. Le impressioni di un viaggiatore
Il Simplon Orient-Express nei pressi del Passo del Sempione in una immagine degli inizi del ‘900
Preghiamo ancora, incoraggiati dalla sua gentilezza, l’ing. Breda di riferirci la sua impressione al momento del disastro ed egli di buon grado ci dice: “Mi trovavo nel treno 49 che era partito da San Donà di Piave alle 21.30 diretto a Venezia, e avevamo appena oltrepassato il ponte sul Piave verso Fossalta, quando improvvisamente avvertii prima un urto lieve seguito subito da uno fortissimo che rovesciò la vettura nella quale mi trovavo; un signore che era in mia compagnia fu sbalzato di colpo fuori dallo sportello che si era sfasciato e pure una signora che si trovava anch’essa nel mio scompartimento avrebbe seguita la stessa sorte se non fossi riuscito a tempo ad afferrarla. Riavutomi subito dal colpo uscii dal treno e constatai che la vettura che si trovava davanti alla mia era anch’essa rovesciata su di un fianco e che anche la vettura letto si era inclinata e aveva una parete completamente asportata, mentre la locomotiva del treno investitore che poi capii essere il S.O. giaceva rovesciata col tender lungo la scarpata. Le altre vetture invece del mio treno si erano staccate senza riportarne danni. Allora feci immediatamente ricerca del macchinista e del fuochista del treno lusso senza poterli trovare, poiché essi s’erano allontanati tosto portandosi alla stazione di San Donà. Invece il capo treno del S.O. continua l’ing. Breda, mi ha detto che il segnale di avviso era chiuso e che aveva inteso pure i tre petardi di segnale. Dopo una mezz’ora, spesa per soccorrere i feriti, mi recai alla cabina A che dista una quarantina di metri dal bivio e constatai che le leve per il segnale di protezione o di avviso erano disposte per l’arresto del treno S.O. e che lo scambio per il direttissimo 49 era invece aperto, quindi a piedi raggiunsi la stazione. Ringraziammo l’ing. Breda per la sua cortesia e grazie a quella del cav. Chianconi possiamo legger le dichiarazioni che hanno fatto il cantoniere della cabina A, il macchinista del treno S.O., del capotreno pure del S.O. e infine del frenatore di coda.
Le dichiarazioni del personale Il cantoniere della cabina A certo Frasson Gaetano dichiara che comandato dal dirigente della stazione di San Donà di aprire la via al treno 49 eseguì la manovra e che non potè scorgere, data la nebbia fitta, l’avanzarsi del lusso che entrò nel binario a semaforo chiuso andando ad investire il 49. Egli aggiunge inoltre che dato il rumore che faceva il 49 passando sul ponte, non gli fu possibile udire lo sparo dei petardi. Il capotreno del lusso certo Veronese Equiziano dice che mentre egli era intento a riportare in 2. copia l’unico collo ch’egli avesse in consegna nel bagagliaio udì lo scoppio dei tre petardi: egli corse subito a guardare e stante la nebbia e il fumo che la macchina faceva non gli riuscì di scorgere il segnale di avviso e che invece poco dopo scorse il segnale rosso a via impedita. Egli diede subito mano al freno Westinghouse, ma troppo tardi poiché subito dopo egli ricevette un colpo sì violento da farlo cadere a terra mezzo intontito. Il macchinista Morini fa anche lui una dichiarazione consimile a quella del Veronese, disse che anch’egli non riuscì a frenare in tempo. Analoga dichiarazione ha fatto il frenatore di coda certo Pin Vittorio. Il Veronese, il Morini e il Pin subito dopo il disastro sono corsi in stazione dove hanno fatto le loro dichiarazioni e poi si sono allontanati e non hanno più fatto ritorno. Le responsabilità Non sappiamo ancora quali siano state le conclusioni dell’inchiesta aperta dal cav. Chiancone, ma dalle deposizioni dei testimoni e del cantoniere Frasson, risulta ben chiaro che la colpa del disastro deve attribuirsi al personale del treno lusso che non doveva essere troppo attento alle segnalazioni, che appunto perché rese meno visibili dalla nebbia, dovevano con maggior cautela esser avvistate. In ogni modo se il capotreno Veronese potè scorgere il segnale rosso, quando ormai non c’era più tempo, o perché non poteva scorgere anche il segnale di preavviso giallo? E perché il capotreno e il macchinista non appena percepirono il primo petardo non chiusero immediatamente i freni? Noi non vogliamo con questo accusare il personale del treno lusso di incuria, ma d’altra parte siamo convinti che, sia il capotreno, sia il macchinista, sia il frenatore avessero posta più attenzione il disastro che è costato la vita a due persone di sarebbe potuto evitare. I lavori di sgombero
Immagine pubblicitaria del Simplon Orient-Express
I lavori di sgombero della linea sono già stati iniziati sin dalle 2 di ieri notte sotto la direzione del comm. Campello e dell’ing. Veslarini. Diamo i nomi dei due morti e dei quindici feriti ricoverati all’ospedale Umberto I di San Donà: I morti Dott. Dorini Giuseppe di Pasquale di Pasquale, d’anni 36, ex questore di Fiume. Dott. Scarlini Spiro fu Carlo, d’anni 50, da Panerai (Firenze), ispettore capo reparto ferrovie. La morte deve esser stata istantanea per il colpo violentissimo. I feriti I feriti, feriti quasi tutti alle gambe e alle braccia, sono tutti fuori di pericolo: Fissarella Ginevra fu Marcantonio, da Roma. Barone Niccolò Serena di Lapigio, da Roma. Dott. Mayer Aldo, figlio del sen. Mayer, e redattore del “Piccolo” di Trieste. Dalle pagine de Il Piccolo si legge che con la moglie e la figlia di stava recando a Roma. Erano tutti nel wagon lit colpito dal treno lusso. Al momento del terribile urto il Mayer perse conoscenza. Quando rinvenne vide attorno al suo letto ospedaliero la moglie e la figlia, le quali avevano dovuto indossare gli abiti offerti dalla pietà delle suore del pio luogo perché al momento dello scontro erano coricate e le loro vesti, nel tumulto, si erano smarrite. Egli ha diverse abrasioni al volto e il braccio fratturato, anche una delle tibie è gravemente offesa. Cotromano Giuseppe di Felice, da Bologna. Bertini Luigi, da Roma, consigliere di emigrazione. Mencucci Giovanni di Francesco, da Porto Salve (Calabria), tenente dei carabinieri in servizio a Fiume, sulle pagine del Piccolo era tra i feriti più gravi. Mencucci Sante di Francesco, da Porto Salve (Calabria). De Zito Alfonso di Pasquale, primo capitano della R. Marina, di Salerno Focacci Ruggero di Pietro, da Santofiore (Grosseto). Lenise Geriola, da Algeri, anche nel suo caso si legge dalle pagine del Piccolo che si trattava di uno dei feriti più gravi a causa di una grave commozione celebrale. Maillar Luigi, da Algeri. Testolina Gennaro, guardia regia, da Trieste. Cecchin Mario, macchinista Deposito di Fiume, da Firenze. Mariottini Ottavio, agente agrario del conte Revedin, Gorgo al Monticano (Oderzo). Cav. Elia Luigi, colonello comandante del 48. Fanteria di stanza ad Abbazia, anche lui tra i feriti più gravi. Sono stati ricoverati poi all’Ospedale di Mestre due feriti fortunatamente leggeri. Lucio Mariucci, commerciante di Trieste per contusione al piede, d’anni 29. Agnoluzzo Raffaello, istriano, d’anni 30, ferito leggermente alla testa. L’Agnoluzzo è uscito dall’Ospedale nella giornata di ieri. Sono stati ricevuti poi al nostro Ospitale Civile certo Abbolito Luigi applicato alle ferrovie di Triste. Pamol Antonio d’anni 16 da Pisino, domestico Scazzafava Glesia, maritata De Carolis, di Reni, d’anni 25. Ciampi Adele, d’anni 35, nata a Milano proveniente da Trieste. Tutti e quattro sono feriti alla testa e alle gambe, e se la caveranno in circa una ventina di giorni. L’arresto del macchinista del treno investitore L’inchiesta ordinata dal sostituto procuratore del Re cav. Chiancone ed eseguita dal giudice istruttore Cattaneo è finita nella mattinata di ieri. Dalle varie deposizioni dei testimoni è apparsa chiaramente la responsabilità del macchinista del treno di lusso Morini Carlo, che, per ordine del Commissario Compartimentale venne tratto in arresto nelle prime ore pomeridiane di ieri. Nella giornata seguente il ripristino della linea e la morte di un terzo passeggero Per tutta la giornata di ieri sono continuati i lavori di sgombero della linea: si è potuto fare un raccordo e fu possibile far inoltrare i treni per questa linea provvisoria. Il colonello Elia del 48 Fanteria che era tra i feriti più gravi è morto in seguito a commozione celebrale sopraggiuntagli in causa al terribile colpo ricevuto alla testa. La Gazzetta di Venezia si mantenne sul vago sulle reali cause della morte del colonnello Luigi Elia del 48° Fanteria di stanza ad Abbazia, più cruda la spiegazione che apparve sulle pagine del Popolo d’Italia: “Egli sopportò stoicamente prima l’amputazione di un arto superiore poi di un arto inferiore, ma dopo due operazioni cessò di vivere.”.
Il nuovo ponte ferroviario venne inaugurato nel 1927
Il tragico incidente della settimana precedente il Natale del 1921 accelerò l’iter per il raddoppio del binario di attraversamento del ponte ferroviario di San Donà di Piave. Le periodiche piene del Piave che avevano accompagnato anche la costruzione del ponte provvisorio, non mancarono nel rallentare i lavori, ma alla fine nel febbraio 1927 il ponte ferroviario definitivo poté finalmente essere inaugurato. Quello stesso ponte divenne poi suo malgrado protagonista anche nel secondo conflitto mondiale quando fu colpito durante i bombardamenti alleati del 1944.
Per ulteriori approfondimenti: 1. “Il ponte della vittoria diventa storia: 1922-2022 – passi barca, ponti e vie d’acqua a Musile e dintorni (di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto – Tipolitografia Biennegrafica – Musile di Piave – 2022); 2. “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Mons. Costante Chimenton, Tipografia Editrice Trevigiana, 1928); 3. Archivio storico “Gazzetta di Venezia”, venerdì 23 dicembre 1921; 4. Archivio storico “Il Piccolo” di Trieste, venerdì 23 dicembre 1921; 5. « Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti », il periodo dei bombardamenti aerei alleati trattati nel Blog in tre post successivi.
In un articolo del periodico “Il Piave”, edito dall’amministrazione comunale di San Donà di Piave, nel gennaio 1973 si poteva leggere qualche cenno storico dell’associazione “Amici Moto Ombra”
Una cartolina degli “Amici Moto Ombra” con la loro classica moto stilizzata
Uno dei motti dell’associazione “Amici Moto Ombra” recitava così « Empi il Bicchier che vuoto – vuota il bicchier che pieno – non lo lasciar mai vuoto – non lo lasciar mai pieno ». Nata nel 1938 per iniziativa di quindici amici fondatori in un periodo di grandi ristrettezze e con un Paese oramai prossimo alla guerra e alle distruzioni che questa portò, ebbe il merito di continuare la sua opera per un periodo lunghissimo tanto che l’articolo apparso su “Il Piave” festeggiava il suo trentacinquesimo anniversario.
I Soci fondatori degli « Amici Moto Ombra »
Da Sinistra in alto: Zorzi Vittorio, Tronco Giovanni, Brollo Libero, Pasini Nino (primo presidente), Bello Oreste, Pasini Luigi; in mezzo: Bincoletto Luigi, Momesso Giuseppe, Giacobbi Giuseppe, Caramel Alfredo, Boccato Luigi; in basso: Frara Luigi, Bergamo Mario, Murer Bruno, Carlesso Giulio.
Da “Il Piave” – Ricorre quest’anno il 35° anniversario della «Amici Moto Ombra – G. Tronco »
Ricorre quest’anno il 35° anniversario della fondazione del decano dei sodalizi cittadini la « AMICI MOTO OMBRA – Giovanni Tronco ». Da queste colonne ci proponiamo di far conoscere che cosa è la AMICI MOTO OMBRA, il perché della sua fondazione e le finalità che l’hanno fatta nascere e sin qui progredire per assumere adesioni innumerevoli.
Una foto di gruppo con sullo sfondo la moto modello « Amici Moto Ombra », la vista è su via Trecidi Martiri dove si nota anche l’Oratorio Don Bosco
Nel lontano 1938, nel mese di febbraio, un gruppo di quindici operai spinti da profondi sentimenti di amicizia dettero vita alla AMICI MOTO OMBRA come fini ricreativi ma soprattutto spinti da un più nobile ideale che si identificava nel motto « uno per tutti e tutti per uno – Agire nell’ombra » e cioè intervenire con l’aiuto morale e finanziario per quegli amici che si venivano a trovare in ristrettezze e difficoltà economiche. Sta di fatto che le quote che settimanalmente ogni amico versa, a fondo perduto, vanno ad aumentare il fondo cassa creando la potenzialità degli interventi nei confronti di chi può averne bisogno. Dunque lo scopo primo è aiutare gli amici e dopo il divertimento.
Tra la folla un carro allegorico degli « Amici Moto Ombra » trainato dai buoi
La « Amici Moto Ombra », però, non soltanto si ricorda degli amici iscritti, ma in occasione delle festività più care a tutti interviene verso chi soffre, distribuendo pacchi dono ai vari Enti morali del paese, Fra le manifestazioni sociali, trattandosi di operai, una delle più sentite è la consumazione di un pranzetto spuntino in occasione della festa del Lavoro. Nei primi anni di vita del sodalizio durante tale manifestazione veniva assegnato un diploma alla più bella sbornia tra i partecipanti allo spuntino; questo non per incitamento al vizio del bere ma soltanto perché il ritrovarsi uniti per lo spuntino creava l’occasione di un pomeriggio pieno di allegria per tutti e colmo di libagioni fra amici cari.
Un classico “spuntino” degli « Amici Moto Ombra »
Ferma e basata su questi principi la AMICI MOTO OMBRA è fiorita aumentando sempre più il numero degli iscritti. Dai 15 amici fondatori attualmente contra n. 107 soci amici. Attualmente a far parte del sodalizio sono rimasti soltanto due dei fondatori; gli amici BERGAMO MARIO e CARAMEL ALFREDO. Il sodalizio nell’immediato dopoguerra è stato intitolato alla memoria di Giovanni Tronco, socio fondatore, fucilato dai nazisti nell’eccidio di Cà Giustiniani con altri 12 Martiri della resistenza. Tradizionalmente, durante il carnevale, il sodalizio organizza una veglia danzante che quest’anno avrà luogo il 10 febbraio p.v. all’Hotel Vienna. La serata sarà allietata da un noto complesso musicale.
Torpedoni in colonna in una gita degli anni Cinquanta
Giovanni Tronco, tra i fondatori degli «Amici Moto Ombra» fu uno dei Tredici Martiri
Come ricorda anche l’articolo de “Il Piave” tra i soci fondatori degli « Amici Moto Ombra » vi era anche Giovanni Tronco che il 28 aprile 1944 venne fucilato per rappresaglia dai nazifascisti assieme ad altri dodici compagni di cella nei pressi di Cà Giustinian a Venezia, in quello che ancor oggi viene ricordato come il sacrificio dei Tredici Martiri. Abbiamo trattato quell’episodio a questo link http://bluestenyeyes.altervista.org/san-dona-di-piave-il-sacrificio-dei-13-martiri/, dove tra l’altro è anche possibile scaricare il libretto che l’amministrazione comunale di San Donà di Piave (Medaglia d’argento al Valor Militare per la Guerra di Liberazione) ha pubblicato nel 1964 in occasione del ventennale. Per ricordarlo gli Amici vollero associare il suo nome a quello degli « Amici Moto Ombra ».
L’addio autografo alla famiglia di Giovanni Tronco, tratto dal libretto edito dal Comune di San Donà di Piave (1964)
Gli Ottanta anni degli « Amici Moto Ombra »
Nel 2018 l’associazione ha festeggiato gli Ottanta anni dalla fondazione. Evento che è stato ricordato in un articolo de La Nuova Venezia a firma Giovanni Monforte: «… Il sodalizio è formato da un gruppo di amici che si ritrovano ancora oggi settimanalmente per promuovere iniziative benefiche agendo soprattutto nell’ombra, intervenendo con l’aiuto morale e finanziario non solo verso i soci in caso di difficoltà, ma anche verso enti morali. «Rispetto al 1938 i tempi sono cambiati, meno difficili però con maggiori esigenze, ma gli obiettivi e lo spirito di carattere sociale e benefico sono sempre quelli che hanno animato i soci fin dall’inizio», spiegano. Il gruppo trae il nome dal simbolo: una moto con due ruote di bicchieri, motore e serbatoio raffigurati da una damigiana e una botticella. »
Per approfondimenti: 1. « Il Piave » del 5 febbraio 1973 periodico amministrazione comunale San Donà di Piave; 2. articolo « La Nuova Venezia » del 17 febbraio 2018.
Nel giugno 1929, in contemporanea con l’uscita del libro di Monsignor Dottor Costante Chimenton “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella”, sulla rivista edita del Touring Club Italia “Le vie d’Italia e dell’America Latina” uscì un lungo articolo a firma Giorgio Paoli che da quel libro trasse ispirazione. A corredo dell’articolo furono inserite molte fotografie di Alfredo Batacchi, molte delle quali divenute nel frattempo cartoline di San Donà di Piave.
Rivista mensile del Touring Club Italiano, Anno XXXV – giugno 1929
di Giorgio Paoli
Fra i tanti paesi italiani che, per essersi trovati sulla ardente fronte della grande guerra, ebbero a condividerne le alterne vicende, a partirne le dure violenze, a supportarne i terribili sacrifici, a viverne la crudele angoscia e la vermiglia gloria, San Donà di Piave fu dei più martoriati e dei più eroici. Non solo una folta schiera dei suoi giovani figli – quattrocentoventi – immolarono la balda esistenza combattendo per la Patria, ma il paese stesso fu tutto travolto e sconquassato dalla tremenda bufera e, dopo il rovescio di Caporetto, invaso dal tracotante nemico, soffrì per un anno l’amarezza del selvaggio e nella lotta per la liberazione fu bersaglio di spietati colpi e vittima di innumeri ferite. Ridotto a uno spaventoso cumulo di macerie, sembrava, nel vittorioso termine del conflitto, ch’esso non potesse più risollevarsi dalla triste polvere in cui giaceva. Invece – miracolo d’energia e di fede – chi lo vede oggi lo trova risorto, lo saluta più bello di prima, risanato e forte, in piena maturazione di sviluppo, in una consolante ripresa di attività, in un sicuro ritmo di lavoro: esempio anch’esso, con mille altri, dell’inestinguibile gagliardia di nostra stirpe e, in particolare, del virile e fattivo ardore della gente veneta.
Un figlio di questa terra, Monsignor Dottor Costante Chimenton, professore del seminario di Treviso, ha amorosamente tracciato la storia di San Donà di Piave in un’interessante volume di 900 pagine, copiosamente documentato ed illustrato; ed è sulla sua scorta che vogliamo qui richiamare gli eventi connessi con la guerra e compendiare l’opera di restaurazione che, per virtù di Governo e di popolo, ha doppiamente redento il gentil paese.
Il Santo Patrono
Son dodici i santi che portano il nome di Donato, per cui si può comprendere come sia stata lunga la controversia storica, non peranco risolta, per decidere quali di essi fosse l’autentico patrono di San Donà. La chiesa, a tagliar corto stabilì che l’onore spettasse a San Donato Vescovo martire, ma il curioso è che nel paese il tempio principale fu invece sempre dedicato alla Madonna delle Grazie, alla quale si aggiunse San Donato soltanto quando, nella prima metà del secolo scorso, il tempio in questione, ormai cadente e ad ogni modo inadeguato per la cresciuta popolazione venne ricostruito tra un devoto entusiasmo popolare in un nuovo edificio arcipretale che ricevette poi, a grado a grado, gli abbellimenti che lo resero particolarmente pregevole e venerato.
Era esso, come naturale, il fulcro del paese, per antica tradizione religiosissimo, e, intorno, l’abitato schierava la guardia delle sue case, nella cui massa, dalle apparenze modeste, spiccavano parecchi edifici ragguardevoli e sobriamente eleganti, quali il Municipio, le sedi di alcune banche e aziende diverse e varie palazzine e ville private, così che San Donà aveva aspetto e sostanza di vera cittadina, e il suo territorio – sanato dalle ardite bonifiche che avevano regolato il corso delle acque – si dispiegava ubertoso florido, presso il margine del lido adriatico.
L’arrivo della guerra
Foto originale austriaca, non presente nell’articolo
La guerra turbò la questa quieta armonia delle opere, ma trovò il popolo di San Donà pronto a qualunque sacrificio, come ben si vide allorché il nembo tragico avvolse il paese. Dopo Caporetto, San Donà di Piave divenne uno dei punti strategici contro cui si sferrò l’azione dei belligeranti. Quasi tutti i giorni, nei suoi bollettini ufficiali, il Comando Supremo ebbe a registrare il nome di San Donà o delle sue frazioni; le vittime immolate sul suo suolo furono innumerevoli; le sue campagne furono allagate di sangue. Le prime avvisaglie della lotta vi si sparsero il 29 ottobre del 1917, allorché il paese fu invaso dal nostro esercito in ritirata. Seguirono gli esodi degli abitanti, le depredazioni e i saccheggi, le vessazioni e le brutalità dell’orta nemica, i bombardamenti senza tregua, i combattimenti sulle rive del Piave, ove i nostri si erano arrestati ed aggrappati, e quindi la rovina dello sciagurato borgo, flagellato da ogni parte. I profughi dovettero sparpagliarsi in tutte le regioni d’Italia, persino in Sicilia, mentre l’autorità municipale, capeggiata dal sindaco, Giuseppe Bortolotto, trovava asilo in Firenze, ove organizzava l’opera di tutela e di esistenza morale riannodando con pazienti ricerche le disperse fila della comunità. Il paese rimane, fin dove poté, l’arciprete monsignor Saretta, che si adoperò a favore degli infelici parrocchiani con uno zelo così caldo e coraggioso che gli austriaci, sospettosi e urtati, finirono per trasferirlo a Portogruaro.
Nel settore di San Donà-Caposile la lotta non ebbe mai respiro. In quegli acquitrini si mantennero tenacemente abbarbicati di avversari, e con pari tenacia i nostri sforzarono di snidarli, sfidando i covi di mitragliatrici di cui era cosparso tutto il margine del Piave, mentre altre stavano appiattite tra i ruderi delle case, di guisa che tutto il territorio era un feroce agguato di distruzione e di morte e dovunque s’accumulavano le rovine e giacevano al sole e alle intemperie le salme insepolte.
Foto originale austriaca, non presente nell’articolo
Specialmente furiosa si scatenò la battaglia, nell’estate del 1918, all’allorchè da una parte e dall’altra si giocò la carta decisiva, e il nemico ributtato dal fiume, comprese che la sua ora disperata, la sua perdita definitiva, stavano per arrivare. Invano s’irrigidì, invano si esasperò nella spietata violenza, invano eresse le forche sui pioppi e sugli ippocastani, per impiccarvi legionari cecoslovacchi ch’erano passati a combattere con noi; il monito crudele non valse a rianimare l’esercito prostrato e tantomeno propiziargli il sognato trionfo. L’autunno successivo, a un anno dall’invasione, quella sciagura era vendicata, il paese redento, il nemico ricacciato e rotto, la guerra vinta dal valore delle nostre armi, dall’ardimento dei nostri magnifici soldati; e dall’avversario null’altro rimase, tristo conforto, se non lo sfogo codardo delle ultime prepotenze sugli inermi, delle ultime brutalità sui vecchi, sulle donne, sui fanciulli, degli ultimi vandalismi sulle cose, delle ultime razzie nella desolata contrada ch’era costretto ad abbandonare.
I sandonatesi avevano però già ricevuto il premio del loro sacrificio nella liberazione, alla quale tanti dei loro avevano valorosamente contribuito, così che il nucleo di questi combattenti seppe meritarsi otto medaglie di bronzo, dieci d’argento e una medaglia d’oro, quella che frigiò il petto di Giannino Ancillotto, l’aquila eroica, il prodigioso bombardatore aereo che non esitò a distruggere anche la propria villa, pur di colpire il nemico che la profanava, nella sua diletta San Donà.
Dopo la guerra, solo distruzione
Il primo cittadino che entrò in quella terra redenta fu l’antico sindaco, divenuto Commissario Prefettizio, il commendatore Giuseppe Bortolotto, che vi giunse il primo novembre 1918 con un autocarro militare, attraversò il Piave con le sue truppe, visse quel giorno e il successivo in mezzo ai soldati e passò la notte tra i carriaggi dell’esercito, nutrendosi del rancio comune. Subito egli si accinse all’opera della ricostruzione, ma la situazione, nel paese deserto, era spaventosa.
Foto originale austriaca, non presente nell’articolo
Il centro dell’abitato era completamente distrutto. Il nucleo principale, nella zona immediatamente vicina al Piave e nei dintorni della chiesa, era ridotto a un mucchio di rovine. Del pari gli stabili, sulle principali vie d’accesso al paese e al fiume, erano quasi tutti a terra e soltanto qualche casa colonica era rimasta in piedi. In pochi giorni la popolazione giunse a cinquemila anime e via via s’accrebbe col ritorno dei profughi privi di tutto, in un luogo in cui c’era più nulla e ogni cosa era da improvvisare, da rifare di sana pianta.
Un compito immane fu affrontato, tra comprensibili malumori, in un disordine caotico, aggravato dagli intralci burocratici e dall’incomprensione delle autorità superiori e dello stesso Governo di quel tempo, mentre le tristi condizioni divenivano minacciose per il dilagare delle acque dalle rovinate bonifiche e per il diffondersi delle malattie. La stessa Croce Rossa americana, sollecitata a porgere il suo aiuto giudicava che San Donà fosse ormai un paese morto e che non mettesse conto di spender tempo e fatiche per farlo risorgere.
Eppure, per l’ammirevole tenacia del Commissario, che seppe moltiplicarsi riverberando il proprio entusiasmo in chi lo attorniava, piano piano San Donà risorse. Nel duro lavoro molto giovò anche l’ausilio del clero, con la alla testa il bravo arciprete, monsignor Saretta, che indefessamente ed efficacemente si prodigò per lenire tante miserie e far tornare negli spiriti la calma e la fede, a cominciare dalla fede religiosa, per la quale egli provvide subito a riattivare le pratiche del culto, officiando tra le macerie del tempio, dapprima, poi in una baracca provvisoria, mentre si dava mano alla demolizione del Duomo pericolante per ricostruirlo.
La ricostruzione del Duomo e dei luoghi di culto
Si ricostruirono infatti il Duomo e il suo campanile, su progetto del professor Giuseppe Torres di Venezia. La chiesa, ad unica navata, con cinque porte, è fronteggiata da una maestoso pronao, adorno di sei colonne di pietra artificiale e di un timpano a finte bugne. Il campanile, che le sorge a fianco, è alto 76 metri, quadrangolare, massiccio, sormontato da una cuspide sulla quale si libra un angelo rivestito di rame. La spesa s’aggirò sui tre milioni e l’edificio sacro fu aperto al culto nel marzo del 1923.
Si ricostruirono pure le chiese di Passarella e di Chiesanuova e le case canoniche di quelle frazioni del Comune, oltre quella di San Donà; come pure vennero ricostruite altre chiese ed oratori ed edifici di carattere religioso, per cui la cattolicissima plaga potè a poco a poco vedere rimosso ha rimesso a sesto e notevolmente migliorato il proprio patrimonio di pratica cristiana.
Il nuovo ponte
E a poco a poco anche l’opera della ricostruzione civile ebbe il suo coraggioso e mirabile sviluppo. Una di quelle che trovarono per prime le solerti cure dell’amministrazione provinciale e comunale fu l’opera del ponte sul Piave, per ristabilire le normali comunicazioni tra San Donà e la frazione di Musile, essendo stato distrutto dalla guerra il robusto ponte di legno che da trent’anni allacciava le due località (ndr in realtà il ponte di legno venne distrutto molti anni prima da una piena del Piave, quello distrutto nel 1917 era in muratura e ferro). Il nuovo ponte fu costruito in poco più di un anno, tra il maggio del 1921 e il luglio del 1922. Composto di quattro travate di di ferro e lungo 210 metri, esso venne inaugurato dal Duca d’Aosta e, in omaggio all’augusto Condottiero ebbe il nome di Emanuele Filiberto di Savoia. Anche sulla linea ferroviaria, transitante sul Piave, si dovettero ristabilire le comunicazioni, e ciò fu fatto dapprima con un ponte in ferro ad unico binario, che venne poi sistemato a binario doppio.
L’aquedotto
Il paese ritrovava così i suoi sbocchi, mentre si lavorava riorganizzare il nucleo urbano in base a un piano regolatore che, tra l’altro, contemplava l’apertura di cinque grandi strade e la formazione d’una piazza davanti alla chiesa, là dove in passato si aggruppavano vecchie e modeste abitazioni. Si diede pur mano a ripristinare l’acquedotto, unico mezzo per il rifornimento dell’acqua potabile, e quindi opera vitalissima per il Comune. L’impianto preesistente, posto presso il fiume da cui prendeva l’acqua per passarla alle vasche di decantazione e di filtraggio e alla cabina di organizzazione, era a un mucchio di rovine; per ciò si dovete ricostruirlo di sana pianta e si dispose poi l’ampliamento della vecchia rete portando a sette chilometri la lunghezza complessiva delle condutture stradali.
La sistemazione è tuttavia provvisoria, essendo già in corso di studio l’opera grandiosa dell’acquedotto del Basso Piave, che dovrà risolvere in modo assai più degno il problema dell’alimentazione idrica per tutta quella plaga, costretta ancora ad accontentarsi di un’acqua non sempre esente da salsedine e da altri sgradevoli sapori.
Il Municipio
Anche il Municipio di San Donà era divenuto alla fine della guerra un incomposto ammasso di macerie, per cui si imponeva la completa ricostruzione. E la nuova opera riuscì tale da non far rimpiangere l’antica. Si eresse, infatti, un edificio dignitosissimo, ricco di fasto plastico in cemento, di sfarzo decorativo di colonne abbinate, balaustre e trabeazioni, arioso ed elegante per la presenza di un portico che ne snellisce la massa architettonica e in pari tempo l’adorna efficacemente.
La superba sede municipale vanta un ampio scalone a tenaglia, con gli scalini di marmo e la ringhiera in ferro battuto, ritorta a volute capricciose, illuminata da una trifora che forma un grandioso elemento ornamentale della facciata posteriore. Pregevolissima è la decorazione in affreschi e stucchi nel salone del Consiglio, ove attira lo sguardo una gran carta geografica – sistemata in ricca cornice – riproducente il campo di battaglia del Basso Piave dal 1917 al 1918: ricordo e monito ai presenti e ai venturi. Mobili e lampadari artistici compongono un adeguato corredo per questa e le altre sale del palazzo, nonché per gli edifici, i quali appaiono tutti quanto mai confortevoli nella loro sobria eleganza.
Si provvide pure a riparare, riattare e ricostruire gli edifici scolastici del Comune che, a vero dire, non avevano neanche prima della guerra alcuna impronta artistica, così che nel campo intellettuale di San Donà è tuttora desto il desiderio di un edificio più contemporaneo alle aspirazioni dell’ambiente.
L’Ospedale
Per la sua stessa ubicazione poco discosta dal centro del Paese, l’ospedale Umberto I di San Donà, ch’era stato eretto nel 1913, fu esposto al tiro diretto delle artiglierie, di guisa che il vasto fabbricato principale, come pur quello del locale d’isolamento, fu interamente distrutto e si dovette, all’immediato dopoguerra, provvedere alla sua radicale ricostruzione. I fabbricati vennero pertanto ricostruiti secondo tutte le esigenze moderne, riforniti di ottimo materiale medico e chirurgico e dotati d’una cappella sacra.
Il Cimitero
Foto originale italiana, non presente nell’articolo
Il cimitero comunale di San Donà di Piave fu pur devastato e sconvolto dalla guerra: lo si riparò nel miglior modo possibile, ma, risultando esso oramai insufficiente, se ne preparò poi un altro, più grande, a qualche distanza dall’abitato. Anche un nuovo macello è venuto a sostituire quello insufficiente dell’anteguerra che fu tra i pochi edifici della città e risparmiati dal furore delle artiglierie: il complesso dei nuovi fabbricati, semplice decoroso e con un perfetto impianto di macchinari, assicura la praticità e rapidità dell’importante servizio.
L’Orfanotrofio
Un’altra opera, di carattere sociale, s’imponeva a lenire lo strazio che la guerra aveva portato nella popolazione distruggendo tante famiglie. V’erano più di cinquecento orfani di tutti due i genitori e trecento orfani di padre o di madre, e queste cifre, già impressionanti, risultarono poi inferiori alla realtà. Occorreva dunque un Orfanotrofio e si provvide anche a questo. Nel 1921 esso iniziò il suo funzionamento; ampliato poi con le officine, esso rappresenta oggi il primo nobilissimo monumento eretto alla memoria dei prodi che sacrificarono la vita per il loro paese, mentre è in via di attuazione un degno monumento ai Caduti in guerra che riceverà la sua espressione patriottica ed artistica nell’edificio della Casa di Ricovero, ove troveranno posto, sulla severa facciata, le lapidi coi nomi degli Eroi.
Poiché per l’Orfanotrofio si dovette utilizzare un fabbricato incompiuto ch’era destinato ad Asilo, si provvide poi a costruire un Asilo nuovo nel centro del paese, Esso fu costruito nel 1921 e più tardi lo si ingrandì aggiungendovi due ali per le suore, per le scuole, i laboratori e le verande. Fornito di ampi locali, di un cortile per la ricreazione, di un teatrino, in una di una cappellina, esso formicola ora di bambini e di bambine. Nel medesimo ambiente sono sistemati un istituto per l’educazione religiosa delle fanciulle, la scuola di lavoro per le orfanelle, con laboratori di maglieria, di calze, di camicie e di ricamo; la scuola di lavoro per le fanciulle esterne, la cucina economica per i poveri, l’unione missionaria parrocchiale con il suo laboratorio speciale, le scuole elementari private, la biblioteca circolante, il ricreatorio festivo per le ragazze, la scuola di piano e varie altre istituzioni cattoliche femminili, mentre per quelle maschili è sorto un apposito fabbricato al posto della vecchia chiesa provvisoria. E intanto si prepara, su linee grandiose, la l’attuazione in San Donà della benemerita Opera Don Bosco che troverà sede in una serie di edifici ora in corso di costruzione.
Il Consorzio delle Bonifiche
Sulla piazza principale di San Donà – la Piazza Indipendenza – è sorto il Palazzo del Consorzio delle Bonifiche del Piave. Con tale nome i Consorzi Idraulici Uniti, che si propongono la bonifica di 400 chilometri quadrati di terreno, hanno fuse le direttive e le forze costituendo un ente dal quale la complessa opera redentrice dello storico agro di Jesolo ed Eraclea verrà studiata e disciplinata da tecnici di profonda competenza idraulica e da provetti agricoltori.
E’ un’impresa gigantesca, che prosegue nel tempo e nello spazio quella degli avi per riscattare la terra regalando il corso delle acque, e che, iniziata, nella sua nuova impresa, al principio del secolo, aveva già compiuto grandi passi e raggiunto risultati superbi, quando la guerra non solo l’arrestò, ma tutto distrusse, così che ci dovette poi ricostruire, rifare e riparare, per ricomporre il patrimonio dei vetisette stabilimenti idrovori, dei canali e delle strade, delle conche e dei pozzi, dei motori e delle pompe: fatica imponente che onora il paese e la stirpe.
Il palazzo, in cui ha stanza dello Stato maggiore di quella che può considerarsi come una incruenta ma ardua guerra, per redimere le basse valli e le paludi, si presenta nell’autorità di linee d’un tardo Rinascimento italiano, con poche sovrastrutture decorative nel corpo centrale, in tre piani, con sovrastante frontone triangolare, fra larghe pilastrate, e con due ali laterali a semplice finestre architravate. Per tutta la lunghezza dell’edificio si rincorrono quindici archi, in modo da seguire la teoria armonica dei porticati che adornano gli altri edifici sulla piazza, il vasto rettangolo della quale sarà completato con la costruzione del Palazzo del Littorio.
Le banche e gli stabilimenti industriali
Un altro porticato si profila di là per strada maggiore per che pur delimita la piazza medesima: quello che fornisce elegante base al nuovo palazzo della Banca Mutua Popolare Cooperativa, l’istituto che in mezzo secolo di laboriosa attività, ha tanto contribuito alla prosperità del paese. Ad esso si sono aggiunte nel dopoguerra, in decorose sedi, le succursali della Cassa di Risparmio di Venezia, del Credito Veneto, di Padova, e della Banca Cattolica di Treviso. Si sono pur riattivati gli stabilimenti industriali, a cominciare da quello della Juta, che esisteva da un decennio, dava lavoro a 650 persone ed era guarnito di un poderoso macchinario di cui durante l’invasione una parte andò rovinata ed il resto depredato, per guisa che non fu facile compito la restaurazione. Analoga sorte toccò la Distilleria, i fabbricati e gli impianti della quale andarono distrutti: ricostruita e riattivata, questa industria ha poi saputo espandersi con l’aggiunta di un liquorificio e di un oleificio. Anche la Segheria fu distrutta dalle fondamenta, ma non tardò a rinascere, come tante altre attività dell’operosa cittadina che ora s’accinge ad accogliere nuove imprese industriali, come quella d’uno zuccherificio.
Il Teatro Verdi
Con la reintegrazione delle fonti e degli strumenti del quotidiano lavoro, San Donà si è pur rifornita dei rifugi per l’onesto svago. I sandonatesi furono sempre appassionati per il teatro e, possedendo un piccolo ma grazioso Teatro Sociale, lo resero capace di sostenere la rappresentazione di commedie e di operette, e anche d’opere con la partecipazione di insigni artisti. Distrutto dalla guerra in modo totale, si è preferito lasciarlo nella polvere delle care memorie per dargli un successore del tutto nuovo, che ha preso il nome augurale di Giuseppe Verdi. L’edificio, di stile rinascimento, contiene una sala capace di ospitare mille spettatori. Esso iniziò nel 1921 la sua missione consolatrice, nella quale pur si adoperò, manco a dirlo, il cinematografo, croce e delizia del nostro vertiginoso tempo.
San Donà lavora e ha quindi il pieno diritto di distrarsi un poco, di divertirsi, di ridere, finalmente, dopo aver pianto tanto. Essa deve e vuole obliare nella serenità attuale le sciagure di cui fu vittima e delle quali ogni traccia esteriore è ormai scomparsa nel suo volto, rifatto più fresco e più bello. Chi passa oggi per le lunghe larghe strade luminose, fiancheggiate da gentili case nuove, da palazzi pomposi, da leggiadre ville, da negozi e magazzini colmi d’ogni ben di Dio, più non pensa all’ieri che sembra ormai lontano lontano, ma, nella gaiezza del luogo e del ritmo gagliardo delle sue opere, indovina le più liete promesse del domani.
Nel mondo dello sport e con esso in quello del calcio vi sono carriere che non si fermano al termine dell’attività agonistica. Chi ha giocato ad ottimi livelli poi trova in quello sport anche uno sviluppo successivo alla propria carriera come allenatore o dirigente, pari se non superiore a quella precedente. E’ per questo che questa nostra storia è lunghissima e inizia in una San Donà da sempre vera fucina di talenti sportivi, qui negli anni Sessanta muoveva i primi passi Enzo Ferrari. Chissà come è vivere con un nome e un cognome che ti lega per sempre ad un mito assoluto dell’automobilismo, di certo quel giovane sandonatese ha cominciato tardi a giocare a calcio. Inizialmente aveva seguito la passione del padre Gino ed inforcata una bici la sua aspirazione massima era divenire un ciclista professionista. Ma di questo lasceremo spazio direttamente alle sue parole grazie ad una intervista che agli inizi degli anni Ottanta concesse a Gianni Mura e che è parte integrante del nostro racconto.
Gli inizi al San Donà
SAN DONA’ 1960-61: In piedi: Salvadoretti, Vizzotto, Cornaviera, Bonazza, FERRARI, Dal Ben Accosciati: Susin, Beffagna, Tommasella. Salvori, Giovanni Perissinotto
Enzo Ferrari (classe 1942, la stessa di Dino Zoff) dopo quell’iniziale esperienza nel ciclismo abbandonata da allievo, entrò a far parte del settore giovanile del San Donà. Era un gran fermento di talenti il sandonatese in quei primi anni Sessanta. Francesco Canella e Bruno Visentin avevano da qualche anno preso la via del Venezia, tra gli oratoriani muoveva i primi passi Gianfranco Bedin, mentre con il San Donà oltre a Ferrari si stavano mettendo in luce anche Elvio Salvori e Angelo Cereser. Tutti giocatori che poi approdarono in serie A divenendo simbolo di questa terra ed esempio per i tanti ragazzi che avevano la capacità di sognare nel loro giocare a pallone. Nel San Donà appena promosso in serie D Ferrari giocò in attacco ed in panchina come allenatore aveva un Giovanni Perissinotto che di gioco d’attacco se ne intendeva avendo giocato in serie A con Roma e Udinese. Il giovane Enzo debuttò il 5 marzo 1961 contro la Pro Gorizia (1-0) allo stadio Zanutto, con la maglia numero 10 giocò nove gare segnando la sua prima e unica rete di quella annata il 16 aprile all’Argentana (4-1). Ferrari rimase in biancoceleste anche nelle successive due stagioni, l’ultima delle quali si concluse con uno sfortunato spareggio (con Faenza, 0-4) che valse la retrocessione poi sanata dal ripescaggio. Complessivamente in biancoceleste ha segnato 6 reti in 49 presenze (compresa quella dello spareggio non sempre calcolata nei totali delle stagioni), non esistendo ancora le sostituzioni per un giovane giocatore era un buon traguardo.
SAN DONA’ 1962-63: In piedi: Dal Ben, Matassa, Muffato, Mariotto, Miglioranza, Hartz. Accosciati: Manzini, Socrate Brollo, Chinellato, Cadamuro, FERRARI
Dalla Serie C alla serie B
Ferrari con la maglia dell’Arezzo
Nell’estate del 1963 passò in serie C al Forlì dove si mise in ottima evidenza arrivando ad un passo dalla promozione in serie B. Trovò poi la sua consacrazione all’Arezzo con cui giocò per tre stagioni da protagonista sfiorando la promozione in serie B la prima stagione, centrandola la seconda e giocando nella serie cadetta nella terza, conclusa con la retrocessione. Ferrari aveva esordito in serie B l’11 settembre 1966 in Genoa-Arezzo (1-0), quasi un destino visto che l’anno dopo venne ceduto proprio al Genoa. Fu una stagione sofferta per i rossoblu quella della serie B 1967-68, nella quale Ferrari segnò ben 13 reti. Al termine di un campionato molto equilibrato, furono cinque le squadre costrette agli spareggi salvezza. Spareggi interminabili dato che furono necessari dopo le iniziali quattro gare altri spareggi per determinare una seconda retrocessa. Il Genoa alla fine si salvò mantenendo la categoria dopo sette gare che videro gli sportivi genovesi assieparsi nelle piazze per ascoltare gli aggiornamenti che arrivavano attraverso la radio, e nelle quali Ferrari mise a segno altre due reti.
I fotogrammi pubblicati sui giornali del salvataggio di Ginulfi
Nell’estate del 1968 Enzo Ferrari spiccò il volo per la serie A approdando al Palermo. Fu un capitolo importante della sua carriera. Due furono i campionati di serie A disputati, al termine del secondo retrocesse in serie B ma nel quarto in rosanero riconquistò la serie A. Ferrari esordì in serie A il 29 settembre 1969 in Cagliari-Palermo 3-0, in quella annata lo scudetto venne vinto dalla squadra sarda. Nella seconda annata in serie A fu protagonista di un episodio che fece molto scalpore, ovvero una rete segnata allo stadio Olimpico contro la Roma da ben 70 metri. Così la raccontò Ferrari in una intervista alla Gazzetta dello Sport del 2008: « La partita era iniziata male per il Palermo. Bercellino si era stirato dopo cinque minuti e non aveva il coraggio di dirlo a Di Bella (ndr verrà sostituito con Causio). Verso la fine del primo tempo Ferretti, il portiere, mi passa la palla, vedo Troja tutto solo nella metà campo della Roma e lancio per Tano, poi ha fatto tutto il vento, il pallone rimbalza nell’area di porta e supera il portiere Ginulfi ». Dopo la rete di Ferrari ci fu il pareggio di Capello, con la gara che finì in parità. In realtà quella rete di Ferrari fu molto controversa dato che nel cercare di evitare la rete Ginulfi riuscì a smanacciare in corner il pallone, il guardialinee però segnalò il gol e l’arbitro Picasso di Chiavari concesse la rete, tra infinite polemiche durante e dopo la gara sia in televisione alla Domenica Sportiva che sui giornali, nella perfetta tradizione italiana di vivere il calcio. Presente tra gli undici della Roma anche il sandonatese Elvio Salvori. A Palermo Ferrari giocò qualche gara anche nella stagione del ritorno in serie A per poi venir ceduto nel mercato autunnale al Monza. Complessivamente in serie A ha giocato 55 volte segnando 8 reti, cinque complessivamente le stagioni con presenze in rosanero.
SERIE A 1969-70: INTER – PALERMO 2 – 0
Dalla B al Monza al ritorno in Veneto
Il ritorno in serie B al Monza lo porta nuovamente a lottare per la salvezza come a Genova, l’epilogo non sarà però favorevole dato che la differenza reti introdotta per evitare gli spareggi penalizzò il Monza: appaiato ad altre quattro squadre fu tra le due squadre retrocesse. Ferrari giocò poi in serie C al Livorno, per due annate all’Udinese, quindi nel campionato 1975-76 giocò all’Union CS rimediando una retrocessione in quella che era la prima stagione dopo l’abbandono della presidenza di Teofilo Sanson. Proprio l’imprenditore veronese aveva acquistato l’Udinese e affiancato dal Ds Franco Dal Cin gestiva anche il Conegliano nella cui squadra Ferrari concluse la carriera da giocatore.
Dal Conegliano alla carriera da allenatore
CONEGLIANO 1977-78: in piedi sa sinistra: FERRARI (allenatore-giocatore), Borin, Franzolin, Villanova, Malesani, Lovison, Segat, Fongaro, Busatti, Pradella, Pizzato, Da Re, Pagura, Lisotto, Nori, Soldan (allenatore). Accosciati: Meneghin, Silotto, Marcati, Rigato, Barbui, Strappa, Da Ros, Casagrande, Turchetto, Viola, massaggiatore Nardo. (foto tratta da “100 di calcio a Conegliano” Fontanelli)
Al Conegliano nel campionato di serie D 1977-78 Ferrari assunse il doppio ruolo di allenatore-giocatore affiancando Narciso Soldan. Una stagione che vide il Conegliano ottenere la promozione in serie C2 e che fu per Ferrari anche l’occasione per giocare allo Stadio Zanutto per un’ultima volta da protagonista. In quel 2 aprile 1978 il Conegliano vinse sul campo del San Donà per 3-0 e Enzo Ferrari segnò la prima delle tre reti gialloblu. Nel 1978-79 guidò come allenatore il Conegliano anche in serie C2 con una formazione molto giovane e sono proprio i giovani che caratterizzarono l’inizio carriera del Ferrari allenatore. Molti di questi passarono con lo stesso Ferrari all’Udinese quando assunse il ruolo di allenatore della Primavera bianconera nella stagione 1979-80 arrivando ai vertici della propria categoria.
Il debutto all’Udinese come allenatore di Serie A
UDINESE PRIMAVERA CAMPIONE D’ITALIA 1980-81: In piedi da sinistra: Miano, Cinello, Maritozzi, Macuglia, Cossaro, Borin, Trombetta, Gerolin, Papais, Koetting, Dominissini. (foto tratta da “Almanacco Udinese Calcio” Schiavinello-Fontanelli)
La stagione 1980-81 segnò la svolta nella nuova carriera di Ferrari. Dopo appena tre giornate venne esonerato l’allenatore Marino Perani con Ferrari che sedette sulla panchina bianconera nella gara del 5 ottobre contro la Fiorentina (0-0). Fu poi Gustavo Giagnoni ad essere designato alla guida della prima squadra. Ferrari tornò ad occuparsi di quella squadra Primavera che di lì a pochi mesi ebbe modo di conquistare lo scudetto di categoria. Ma prima vi fu l’esonero anche di Giagnoni. Con l’Udinese al penultimo posto Ferrari venne richiamato in prima squadra debuttando nuovamente nella gara contro la Pistoiese del 15 febbraio (1-0). L’allenatore sandonatese non lasciò più la panchina della prima squadra riuscendo a portare alla salvezza i bianconeri con un finale da brividi. In quel 24 maggio l’Udinese riuscì a sconfiggere in casa il Napoli per 2-1 grazie ad una rete all’87’ di uno dei suoi “ragazzi” lanciati dalla Primavera in prima squadra, lo jesolano Manuel Gerolin. Quella vittoria permise ai bianconeri di affiancare altre quattro squadre al terzultimo posto, con Pistoiese e Perugia venne retrocesso il Brescia per la peggior differenza reti.
Enzo Ferrari ritrova il suo compagno Franco Causio
Nell’estate Teofilo Sanson cedette l’Udinese a Lamberto Mazza, patron della Zanussi, e questi confermò Ferrari sulla panchina bianconera. L’Udinese venne rinforzata con Muraro dall’Inter, Orlando dal Vasco da Gama, Orazi dal Catanzaro e con Franco Causio, ex compagno di squadra di Ferrari al Palermo, che all’epoca faticava a trovare spazio nella Juventus di Trapattoni. Causio in quel di Udine trovò una seconda giovinezza tanto da riconquistare una convocazione in nazionale che lo porterà sino a quegli epici Mondiali di Spagna che seppur non da protagonista lo videro conquistare il titolo mondiale. Con non poca fatica Enzo Ferrari riuscì a centrare anche in questa stagione la salvezza per la sua Udinese. Si colloca all’inizio dell’annata 1982-83 l’intervista che Gianni Mura fece ad Enzo Ferrari per l’Intrepido, parte integrante di questa nostra storia e che dà i contorni della carriera di allenatore che Ferrari stava iniziando ad intraprendere:
L’allenatore dell’Udinese si chiama come il mago di Maranello
Enzo Ferrari famoso prima di esserlo
di Gianni Mura
Non è uno che dice tante cose, è uno che ha tante cose da dire. Questa era stata la mia prima impressione su Enzo Ferrari, arrivato circa un anno fa alla panchina dell’Udinese. Nome e cognome erano già famosi per via del grande Vecchio di Maranello. Ma il Ferrari del calcio era da scoprire. Sembra uno zingaro, ha fatto lo zingaro da calciatore girando l’Italia per quanto è lunga. Anche adesso, è l’unico allenatore di A che fa il pendolare: 150 km al giorno fra San Donà di Piave dove è nato e abita e Udine. « Vado a nafta costa meno. » precisa. E’ anche l’unico a dipingere, quando può. Qualche suo amico pittore di Udine, come Celiberti e Borta, insiste perché si decida ad allestire una “personale”, ma Ferrari fa il sordo. Ho visto i suoi quadri, non c’è da inginocchiarsi per l’ammirazione ma, per un dilettante, davvero niente male. Gli influssi più evidenti sono di De Pisis, poi Ferrari dichiara i suoi amori: « il Guardì, tutti gli impressionisti classici, Carrà, Sironi, Rossi ». Non li vende, semmai li regala.
ENZO FERRARI (figurina Guerin Sportivo)
Strana casa quella di Ferrari. Regolare nella famiglia, tutta simpatica: la moglie Anna, i figli Marco e Laura (15 e 13 anni); irregolare, sorprendente per la totale assenza di fotografie, maglie, medaglie, targhe, cimeli, nulla sui mobili e sui muri indica che ci abita uno che ha giocato vent’anni al calcio. Come se non esistesse il passato.
« Esiste dentro di me, – dice lui – e non vedevo il bisogno di trasformare un appartamento in un museo.Tra l’altro ho cambiato tante maglie che questo spazio non basterebbe ».
Vediamole in rassegna, queste maglie, insieme agli allenatori che Ferrari ha avuto. Calcaterra, Perissinotto, Ballacci e Tognon (San Donà), Zattoni (Forlì), Mucci e Lerici (Arezzo), Fongaro e Campatelli (Genoa), Di Bella, De Grandi e Pinardi (Palermo), Viviani (Monza), Gb. Fabbri e Zecchini (Livorno), Manente, Galeone, Comuzzi. Rosa (Udinese), Flaborea e Beraldo (Clodiasottomarina), Soldan (Coneglianese). Due di questi tecnici sono tra i “maestri” di Ferrari: Lerici per la tattica, GB Fabbri per le idee sul calcio, tutti avanti tutti indietro, come piace a Ferrari. « Se GB fosse alla Juve vincerebbe lo scudetto 8 anni di fila. Non importa se a Cesena l’hanno silurato, non cambio idea: con lui Boldini era meglio di Cabrini ». Si commuove parlando di paròn Rocco, manca a lui come a tutti quelli che l’hanno conosciuto: « Il paròn è stato tra i primi a capire l’importanza della psicologia. Non si può essere solo tecnici. “Chi no xe omo, resti sul pullman”, diceva ogni domenica Nereo, sdrammatizzando l’ambiente. Ecco noi lottiamo ancora contro la paura. Troppi miei colleghi in settimana preparano le partite in un modo che se li vedono al Pentagono diventano rossi di vergogna. Okay, c’è anche la tattica, ma prima ci sono i ragazzi, i loro problemi aggravati dal fatto che in Italia non li si aiuta a crescere. All’estero, a 20 anni sono già adulti, qui magari giocano in nazionale e sono bambocci, manca solo che ti chiedano il permesso di andare al gabinetto… ».
Da sinistra: FERRARI, Edinho, Causio (foto tratta dall’Intrepido)
Sarà, ma da cosa dipende? « Dalla paura dell’ambiente, allenatore per primo che li contagia. Più facile che ai ragazzini si insegnino i trucchetti per perdere tempo, i finti infortuni, i palloni buttati in tribuna, che non ha giocare sul serio. Perché il ragionamento dell’allenatore è questo: prima o poi mi cacciano, dunque devo adeguarmi all’avversario. Io non lo accetto. lo rovescio questo ragionamento. Siccome nessun allenatore, che mi risulti, è mai morto di fame, io voglio che gli altri si adeguino alla mia squadra. Tanto, prima o poi mi cacciano, almeno provo a cambiare mentalità in senso positivo. Così non vedrete mai l’Udinese che fa la trincea ai limiti dell’area, semmai molto più avanti. A Torino con la Juventus abbiamo perso 0-1, costruendo sei palle gol. Dico questo: chiaro che preferisco vincere, ma ci sto anche a perdere, a patto che i ragazzi diano tutto. Io non mi scandalizzo se un giocatore prende 100 milioni l’anno, mi arrabbio se non si rende conto di cosa significa, di che doveri comporta. Mio padre m’ha insegnato che lo sport è gioia, ma anche sacrificio, anche responsabilità ».
Enzo Ferrari (foto tratta dall’Intrepido)
Il padre Gino torna spesso nei discorsi di Ferrari. « E’ il primo dei miei tifosi. Da giovane ha fatto corsa campestre, mezzofondo, le cose che costavano meno. Perché in casa lavorava solo lui, operaio in una fabbrica di secchi di juta, e poi per arrotondare faceva il tappezziere, noi eravamo sei fratelli. Io mi sono diplomato perito chimico, perché allora il futuro sembrava a Porto Marghera. Il mio sogno era di diventare ciclista professionista. Ero tesserato all’U.C. Turchetto Basso Piave, la società da cui è uscito Moreno Argentin. Ho vinto qualche corsa da allievo con avversari come il povero Schiavon (che fine, meschina: schiacciato dai trattore!) e Gregori, che adesso è il CT dei dilettanti azzurri. Ero mica male in salita e buono sul passo e in volata. Ho smesso perché la bici era un lusso, i tubolari costavano un occhio, mi sembrava immorale chiedere soldi in casa. Così son passato sui campi di calcio. Questa è zona buona: Bedin, Salvori, Maschietto, Cereser, Carlini, Gardiman… Sono rimasto appassionato di bici e tengo a Hinault. Nel calcio, vorrei essere come lui: attaccare prima di essere attaccato ».
Nel calcio partendo come ala, ha vestito tutte le maglie meno quella del portiere e del libero. Detiene il record del gol segnato da più lontano (col Palermo all’Olimpico da 70 m): « Volevo lanciare Troja, la tramontana ha preso il pallone e l’ha portato dietro Ginulfi ». Confessa di aver segnato anche da brillo: « Diciamo allegretto, non proprio ubriaco. C’era un’amichevole con l’Inter a Fontanafredda, io non la dovevo giocare e avevo bevuto qualche bicchiere di Picolit, la mia passione. Negli spogliatoi m’han detto di cambiarmi …Corner per noi al primo minuto: vedo che Bordon dormicchia e dalla bandierina gli taglio dentro la palla, gol. Poi ho chiesto la sostituzione… ».
La famiglia Ferrari (immagine tratta dal Guerin Sportivo, giugno 1984)
E’ molto esperto di vini, Ferrari. In un certo periodo ha fatto anche il rappresentante di spumanti e quando giocava a Palermo (e suo compagno di camera era un giovane leccese, un certo Causio) faceva il piazzista di pellicce. « Noi veneti siamo i giapponesi d’Italia » ama ripetere. E’ esperto anche di legnami avendo lavorato in una fabbrica di avvolgibili, insomma è uno con cui si può stare qualche ora senza parlare di calcio. (Credetemi, col mister non succede quasi mai). Ha vissuto il calcio della provincia, mai sugli altari e difende i grandi talenti incompresi: « Tutti dicono: il grande Cagliari di Riva. Grandissimo Gigi, d’accordo, ma chi faceva tornare i conti era Greatti… E gente come Vendrame, Inferrera, Fava, vogliamo dire che sono stati grandi campioni rovinati da allenatori che al posto del cervello e del cuore avevano un compasso? Il calcio italiano deve riscoprire la fantasia. Non tutti fantasisti, sennò è l’anarchia, ma qualcuno sì. Per questo io sono sempre stato milanista dai tempi di Gre-No-Li fino all’ultimo Rivera.
Si torna sui quadri: « Vorrei aver più tempo per fare ritratti ai vecchi delle mie parti, contadini, carrettieri, stradini, che hanno tutta la vita scritta in faccia, l’amarezza e la dignità del vivere. Ma se avessi più tempo vorrebbe dire che sono a spasso, allora non mi lamento. Ho passato un brutto momento all’inizio, solo un punto in quattro partite. Con una squadra molto rinnovata, qualche incidente di troppo, era inevitabile. Mi ha ha difeso il presidente Mazza, un manager che il calcio italiano farebbe bene a non perdere. “Si valuta alla fine del lavoro, non all’inizio” ha detto lui senza mai entrare nei dettagli tecnici. In effetti l’Udinese è l’unica squadra non sponsorizzata in serie A, perché fa parte della Zanussi. I bilanci a fine campionato. Dunque. Sono fiducioso fin qui abbiamo raccolto tanti elogi e pochi punti, ora è tempo di raccogliere tanti elogi e tanti punti. Con un Causio così non sarà difficile ».
L’Udinese si fa grande
Con l’arrivo di Edinho e Virdis l’Udinese nell’annata 1982-83 migliorò ancor di più la qualità del suo organico e nonostante i tanti pareggi, arrivò sesta a soli due punti dalla qualificazione per la Coppa Uefa. Il vero salto di qualità i bianconeri cercarono di farlo l’anno dopo quando approdò in Friuli Arthur Antunes Coimbra detto Zico e come d’incanto gli abbonamenti toccarono la soglia record delle ventiseimila tessere facendo dell’Udinese un vero fenomeno nazionale. Nonostante le 19 reti di Zico e le 10 di Virdis e un nono posto che sembrava peggiorare il piazzamento della stagione precedente, i bianconeri mancarono ancora di soli tre punti la qualificazione alla coppa Uefa dopo un campionato giocato per la gran parte in posizioni decisamente migliori. La delusione fu forte e non priva di polemiche, al termine della stagione Causio passò all’Inter, Virdis al Milan, mentre Zico rimase, non Enzo Ferrari che dopo 104 panchine in serie A si congedò da Udine. La squadra bianconera nel frattempo si era già accordata con l’allenatore Luis Vinicio.
UDINESE 1983-84: in piedi: Virdis, Pradella, Cattaneo, Brini, FERRARI (allenatore), Borin, Edinho, Miano, Mauro; seduti: Galparoli, Tesser, Marchetti, Pancheri, Causio, Gerolin, Urban, De Agostini, Dominissini, Zico.
L’esperienza all’estero
Enzo Ferrari al Real Saragozza
L’eco delle imprese di Udine e il suo esser stato l’allenatore di Zico, portò Ferrari ad intraprendere una stagione all’estero. Si trasferì al Saragozza nella Liga spagnola. « Volevano un tecnico reputatissimo, hanno contattato Eriksson e Michels e hanno pure contattato Castagner. E’ stato Pardo, l’agente di Surjak… Pardo mi conosceva e chiaramente mi apprezzava…ha fatto il nome mio e subito io e quelli del Saragozza ci siamo piaciuti. Vogliono fare una squadra da Uefa, vogliono un pò risalire la corrente». – così in due interviste al Guerin Sportivo il Ferrari prima e dopo l’esperienza spagnola – « Tecnicamente e anche fisicamente il livello si può definire pari al nostro, anche se ci sono meno fuoriclasse, a causa della crisi. D’altronde è un calcio che si porta dietro problemi organizzativi enormi ». Se l’Italia poteva godersi la vittoria mondiale e i suoi campioni stranieri, la Spagna poteva vantare un Real Madrid che vinse la coppa Uefa alla fine di quella stagione. Nonostante le complicazioni avute al Saragozza Ferrari riuscì a cogliere importanti soddisfazioni in terra iberica. Il Saragozza, privato dei giocatori Valdano e Salva, in campionato non migliorò i piazzamenti precedenti, ma Ferrari riuscì a portare la squadra spagnola alla semifinale di Coppa del Re, riuscendo a sconfiggere in campionato a Madrid sia l’Atletico che il Real. Ferrari fu il primo allenatore italiano a sconfiggere il Real al Santiago Bernabeu, nel 1962 in Coppa Campioni ci era riuscito Carlo Parola con la Juventus ma in realtà in quel caso i bianconeri avevano il ceco Korostelev come direttore tecnico. In quel 15 febbraio 1985 il Saragozza vinse con il Real Madrid in rimonta, nonostante i blanco vantassero campioni del calibro dell’ex Valdano, di Stilike, Camacho, Santillana e di un giovane Butragueno che, come detto, poi trionfarono in Coppa Uefa.
Ferrari e la Spagna
Così commentò la sua esperienza in Spagna Enzo Ferrari l’anno dopo sulle pagine del Guerin Sportivo: « Volli dimostrare, prima di tutto a me stesso, di essere in grado di allenare ad un certo livello. Credo di esserci pienamente riuscito. Volevo cominciare un ciclo, c’erano tutti i presupposti, poi molte cose non sono andate per il verso giusto. Abbiamo perso, per un cavillo federale, il libero della nazionale Salva, che è andato al Barcellona, abbiamo avuto problemi con Surjak, abbiamo perso due presidenti e i nuovi arrivati hanno ridimensionato tutto quanto. Ci siamo ritrovati anche in un momento difficile, a un certo punto del torneo: ebbene, lo abbiamo superato e a gioco lungo, quando finalmente sono riuscito a fare andare le cose come volevo io, ci siamo tolti non poche soddisfazioni ».
Il ritorno in Italia a Trieste
TRIESTINA 1985-86: In piedi: l’allenatore FERRARI, Baici, Braghin, Gandini, Bistazzoni, Attruia, Bagnato, Cerone, l’allenatore Burlando. In mezzo: Zanin, Scaglia, Orlando, Costantini, Cinello, Poletto, Salvadè. Seduti a terra: massaggiatore Evangelisti, Chiarenza, Dal Prà, Strappa, Di Giovanni, De Falco, Romano, massaggiatore Maffi.
Chiusa l’esperienza spagnola per Ferrari si aprì un nuovo importante capitolo a Trieste. Gli alabardati avevano appena perso per poco la promozione in serie A e Ferrari venne chiamato a sostituire Massimo Giacomini. In quella serie B 1985-86 la Triestina rimase a lottare nell’alta classifica sino alla fine quando il campionato venne segnato dall’ennesimo scandalo che procurò punti di penalizzazione importanti. Il Vicenza perse la promozione in serie A e quando sembrava che Empoli e Triestina fossero costrette ad uno spareggio per la promozione in serie A, ecco arrivare una penalizzazione anche per la Triestina. Una sanzione che privò gli alabardati di un possibile spareggio per la serie A e che portò ulteriori quattro punti di penalizzazione anche nella stagione successiva quando nonostante Franco Causio avesse raggiunto Ferrari a Trieste, gli alabardati non andarono oltre una meta classifica. Peggio andò nella terza stagione quando la coda delle inchieste portò ad una nuova penalizzazione per i rosso alabardati di cinque punti, risultata poi fatale alla Triestina che non andò oltre un diciannovesimo posto, con la salvezza a tre punti si concretizzò la retrocessione in serie C1.
Le infinite destinazioni del mestiere di allenatore
Enzo Ferrari (immagine Guerin Sportivo 1986)
Nel 1987 ad Avellino Ferrari subì il primo esonero, una pratica sempre più utilizzata dalle società tanto che lo stesso allenatore sandonatese successivamente subentrò più volte a campionato in corso come anche fu sostituito. L’allenatore esonerato mantiene il contratto in essere con la società ma al tempo stesso non può essere ingaggiato nella stagione in corso da un altra squadra e ai tempi di quell’esonero, come ricordò Ferrari in una intervista alla Gazzetta dello Sport del 2008, non si poteva nemmeno andare ad allenare all’estero. « È l’88-89, vengo esonerato dall’Avellino in C (ero al quarto posto!) e mi chiama il Siviglia. Per un’assurda regola cambiata l’anno dopo anche per la mia battaglia, non posso allenare all’estero perché ho iniziato la stagione in Italia. Al Siviglia arrivò Bilardo e aprì un ciclo ». L’anno dopo allenò per un periodo il Padova in serie B, quindi nel 1989-90 la stagione al Palermo in serie C dove sostituì dopo poche giornate Francesco Liguori riuscendo a riportare i rosanero in serie B grazie ad un ottimo secondo posto, oltre che a disputare la finale di Coppa Italia di serie C con il Monza, poi persa. Iniziò a Palermo anche la stagione successiva in serie B ma venne esonerato dopo poche giornate, gli subentrò Gianni Di Marzio. Vi fu poi il biennio alla Reggina in serie C1 dove nella seconda stagione dopo un ottimo secondo posto la Reggina venne eliminata nel doppio confronto dei play-off dalla Juve Stabia solo ai tempi supplementari.
L’ultima panchina in serie A alla Reggiana
FERRARI all’esordio sulla panchina della Reggiana il 6 novembre 1994, Reggiana-Lazio 0-0)
Nel 1994 Franco Dal Cin chiama Enzo Ferrari alla Reggiana allora in serie A, con il dirigente granata aveva già lavorato al Conegliano e all’Udinese. Subentrato a campionato in corso a Giuseppe Marchioro non riuscì a portare alla salvezza la Reggiana, a situazione oramai compromessa lasciò la panchina a tre gare dalla fine. Ripartì dalla serie C allenando per due stagioni l’Alessandria, per una la Juve Stabia, quindi nella stagione 1998-99 subentrò a Cacciatori sulla panchina dell’Ascoli. Con i bianconeri nella prima annata sfiorò i play-off, mentre nella seconda dopo esser giunto terzo sfidò nella finale l’Ancona che era arrivata seconda. Una gara interminabile che al termine del primo tempo supplementare vide l’Ascoli passare in vantaggio con Edy Baggio, poi la beffa più terribile per la squadra di Ferrari arrivò a due minuti dal centoventesimo minuto con la rete dell’anconetano Ventura a decretare la promozione dell’Ancona. Nella terza stagione ad Ascoli venne sostituito dopo poche giornate da Gianni Simonelli. Ferrari chiuse la carriera di allenatore all’Arezzo, subentrando a campionato in corso ma venendo poi sostituito dopo una quindicina di gare da Mario Colautti, che già in precedenza gli era subentrato ai tempi del Padova.
Fedele ai suoi dettami raccontati nell’intervista a Gianni Mura ha vissuto una carriera da allenatore senza sconti, vivendo pienamente le variabili del calcio sia a livello sportivo che in quello rappresentato dalle più diverse realtà dirigenziali.
Nel febbraio 1940 il San Donà stava disputando per la prima volta nella sua Storia il campionato di Serie C nazionale. Allo Stadio del Littorio era in programma la ventesima giornata, ospite dei biancocelesti l’imbattuta capolista Vicenza. La classifica era guidata dal Vicenza con otto punti di vantaggio sul Mestre, quattordici su Marzotto, Grion, San Donà e Ponziana. Un dominio vicentino in quel campionato, ma nella domenica del 25 febbraio 1940 il San Donà compì l’impresa infliggendo la prima sconfitta in campionato al Vicenza, in quella che sarà anche l’unica occasione in cui i biancorossi giocarono in campionato nello stadio sandonatese. I racconti della gara negli articoli del Gazzettino e della Gazzetta di Venezia.
SAN DONA’: In piedi da sinistra: Prendato, Babetto, Pavan, Franco, Magrini, Bergamini, Zambon, Gavagnin. Accosciati: Silvestri, Guerrino Striuli, Fantin
SAN DONA’ – VICENZA ……… 1 – 0 (0-0)
RETI – secondo tempo: Babetto (SD) 13′
RISULTATI E CLASSIFICA SERIE C GITONE A
SAN DONA’: Striuli; Silvestri, Fantin; Pavan, Zambon, Bergamini; Prendato, Babetto, Franco, Magrini, Gavagnin. All. Gastone Prendato
VICENZA: Comar; Greselin, De Boni; Chiodi, Bedendo, Campana; Suppi, Rossi, Salvadori, Zanollo, Chiesa. All. Eraldo Bedendo
ARBITRO: Ghetti Medardo di Modena
NOTE – Pubblico: 3000 persone – Incasso: 6000 lire.
di Walter Ravazzolo
S. Donà di Piave, 26 febbraio. Il nostro sarà forse un punto di vista discutibile, ma mi sembra che ieri il Vicenza si sia liberato di un grosso peso sullo stomaco. Il mito dell’imbattibilità (nel calcio l’invincibilità è soltanto un mito) era ormai diventato per i biancorossi un pauroso fantasma, una persecuzione ossessionante quasicche Il Vicenza si battesse solo per sfuggire a continui e diabolici trabocchetti seminati dal calendario sulla sua strada.
S’è levato un grosso peso. Oseremo dire che dopo la sconfitta di ieri il Vicenza ci appare sotto un aspetto più reale, un organismo fatto di sangue e di nervi che ha i suoi momenti di debolezza ma anche i suoi scatti e le sue reazioni.
GUERRINO STRIULI protagonista assoluto di quella stagione, l’anno dopo venne ceduto alla Triestina in serie A
Abbiamo visto altra volta il Vicenza sbandarsi e perdersi sotto la decisa offensiva avversaria, disunirsi in meno che non si dica, e faticare per non farsi travolgere. Questa bella squadra di giovani non ha potuto sempre nascondere i suoi punti deboli. Ma poi, sulla spinta improvvisa o fortuita di un’occasione favorevole, tutta la squadra aveva saputo ritrovare se stessa, riorganizzarsi, trasformarsi.
ieri invece non ha trovato la pedana da cui prendere la rincorsa e il campo sandonatese gli è riuscito fatale. A noi è parso tuttavia che l’undici berico sia sceso in campo troppo preoccupato della minaccia imminente, come sotto l’incubo di una congiura tramata un pò da tutte le squadre del girone e della quale il San Donà non era che il mandatario.
In effetti il San Donà aveva invece seriamente da pensare ai casi propri essendogli venuto a mancare all’ultimo momento il bravo Lombardi, considerato qui il deus ex machina dei movimenti solenni. Avvenne così che l’inizio dell’ostilità fu nei due fronti per diverse ragioni circospetto e tremebondo. Il Vicenza riuscì ugualmente ad imporre una chiara superiorità territoriale che obbligò difesa e mediana azzurre ad un lavoro continuo, tempestivo e sbrigativo. Ma della prima linea sandonatese neanche l’ombra. Prendato, soprattutto sul finire del primo tempo, tentò di raccogliere un pò le file del reparto, ma sia che Babetto e Magrini tenessero una posizione prudenzialmente arretrata, sia che Franco non fosse al centro che una crisalide, sia infine che Gavagnin, eternamente bizzoso e insolente, non riuscisse a convincersi che le cose peggiori le combinava proprio lui, Comar rimase del tutto inattivo.
Nell’altra porta l’ottimo Striuli si disimpegno con bravura e fortuna per quanto l’azione dei vicentini, tarpata nelle ali per la disarmante guardia di Pavan e Bergamini a Chiesa e Suppi, si riducesse ad un accademica dimostrazione di non sappiamo quanti schemi d’attacco tutti chiaramente impostati e svolti e tutti pessimamente conclusi. Nel primo tempo vanno sottolineati due interventi in extremis di Striuli su Chiesa (3’) e sul Salvadori (33’).
Al riposo parve ai più che il Vicenza fosse rimasto sino allora alla finestra, tant’è vero che in tribuna i tifosi locali si dimostravano poco o niente tranquilli sull’esito della ripresa.
Invece la ripresa doveva riservare ben diverse emozioni. Gli ospiti partirono di scatto, letteralmente rovesciandosi in area sandonatese. Questo non è lo stile del Vicenza e lo capirono subito coloro che lo conoscono e lo apprezzano. Il Vicenza, che rifugge dalla confusione si gettò a capofitto nella mischia, quasi che la resistenza avversaria lo indispettisse. Nel caravanserraglio in area di rigore molte squadre talora pescano con fortuna; e difatti poco è mancato che anche il Vicenza, improvvisamente trascinato fuori di strada, potesse trovare nel sentiero traverso il suo ferro di cavallo. Fu al 5’: Chiesa, fuggito finalmente a Pavan e spiccando dalla stretta di Bergamini e Silvestri da 3 metri dal portiere sparò a mezz’altezza verso l’angolo destro. In questi frangenti conosci i cronisti dicono: beh vediamo a che minuto dobbiamo segnare questo gol; e manco più guardano come va a finire.
Ma Striuli sfonderò a questa critica svolta la migliore parata che ci sia stato dato di ammirare quest’anno in partite di Divisione Nazionale. Il tiro fu neutralizzato, e il San Donà di lì a poco colse la vittoria. Questi colpi a retrocarica dominano il destino delle partite.
Su una incursione bene impostata da Zambon, Greselin commise un fallo a circa 3 metri dal limite dell’area di rigore (13’). Gavagnin battè la palla che, picchiando sul fianco di un offensore schierato a protezione della rete, pervenne burro e formaggio a Babetto. Due passi, tiro secco e preciso, addio verginità vicentina !
IL SAN DONA’ A FINE GARA: In piedi: Magrini, dirigente X, Babetto, il segretario Fiorentino, Pavan, Alessandro Alfier, Silvestri, Nino Bincoletto, Zambon, Gavagnin, X, Prendato, X. Accosciati: X, Guerrino Striuli, presidente Pietropoli, X, militare Farnia. Distesi a terra: Fantin, Caramel, Franco, Bergamini
Subito il Vicenza non credette all’irrimediabile, ma quando Chiesa (22’) colse lo spigolo interno del montante e il pallone traversò indisturbato, malgrado il mischione, tutta la luce della porta, capi che le cose potevano mettersi veramente te male.
L’undici vincente store è apparso semplicemente superbo nel sestetto difensivo: tanti gladiatori ad oltranza per la vittoria a tutti i costi. La prima linea ha fatto invece molto meno.
Il pubblico, in delirio per l’impresa dei beniamini, è stato il terzo protagonista dell’incontro. Giustamente, quindi, alcuni sostenitori hanno voluto entrare di prepotenza nel gruppo fotografico seguito da fine. Abbiamo visto qualcuno, giunto mentre scattava l’obiettivo, slanciarsi a pezzi nel mezzo, certo per l’orgoglio di dire un giorno: quella volta c’ero anch’io.
Quando si dice le date storiche !
GAZZETTA DI VENEZIAdi lunedì 26 febbraio 1940
S.DONA’ DI PIAVE, 26. – Il Vicenza è caduto. Viva il Vicenza. la straordinaria squadra biancorossa ha perduto la sua aureola di imbattibilità sul campo di San Donà, dopo che era riuscita a mantenerla intatta su altri campi non meno difficili. Maggior valore acquista perciò la vittoria dei sandonatesi che possono così vantarsi di essere stati i primi a fermare l’irresistibile marcia dei vicentini. Vittoria meritata senza dubbio quella dei locali, della quale il merito maggiore spetta ai reparti di retroguardia, mediana e difesa, che ieri hanno disputato la loro più bella partita ed hanno saputo imbrigliare e neutralizzare il famoso attacco biancorosso non solo, ma il sestetto sandonatese ha superato in bravura quello vicentino e Striuli ha il merito di aver evitato con la sua prodezza, il pareggio parando un pallone che tutti ormai ritenevano finisse in fondo alla rete. La linea d’attacco invece non è stata all’altezza del compito che ieri le si richiedeva e a nulla valsero gli stimoli del sempre ottimo Prendato per dare mordente e continuità al gioco del quintetto. Più che l’essere il Vicenza incappato in una giornata nera si deve ritenere che la squadra berica abbia giocato con eccessiva preoccupazione di non perdere. Gli ospiti, infatti, apparivano restii a scoprirsi alle spalle e di conseguenza le loro azioni d’attacco non erano validamente sostenute come invece avrebbe necessitato ieri contro la vigilissima guardia sandonatese.
La Rosa del San Donà nella stagione 1939-40 tratta dall’Agendina del calcio Barlassina
Un pubblicone ieri al campo sportivo: 3000 persone e, naturalmente, incasso da primato. Una cornice quindi eccezionale di folla, tra la quale moltissimi erano i vicentini. Il San Donà schiera Franco al centro della prima linea in sostituzione di Lombardi indisposto; il Vicenza sostituisce il terzino squalificato, Foscarini, con De Boni. Il gioco è subito vivace; con la sua migliore abilità di manovra il Vicenza prevale, ma senza rendersi eccessivamente pericoloso per la salda tenuta della mediana e difesa sandonatese a cui però non corrisponde l’azione dell’attacco che, spesso impostata, muore troppo presto, appena si affaccia nell’area degli ospiti. E così nell’alternativa di azioni da un’area all’altra, come si è detto con prevalenza vicentina, trascorre il primo tempo e si giunge al riposo a reti inviolate.
Più decisi appaiono i biancorossi nella ripresa giacche al 5’ Chiesa tira verso la porta un pallone destinato ad insaccarsi, ma Striuli con una parata spettacolosa evita il sicuro punto. Come risposta dello scampato pericolo il San Donà realizza la sua più bella vittoria perché il punto che Babetto segna al 13’ rimane l’unico della giornata: il San Donà ottiene una punizione quasi dal limite dell’area vicentina; tira Gavagnin ed il pallone rimbalza sul « muro » dei giocatori giungendo a Babetto, il quale non esita a metterlo dentro. C’è naturalmente la vivace reazione degli ospiti è dal 22’ Chiesa manda il pallone sullo spigolo del montante. Qualche minuto dopo, forse per cercare di sfondare l’ermetica difesa locale, Salvadori e Suppì si scambiano i posti ma l’esito è ugualmente negativo. Era destino che il Vicenza dovesse perdere la sua imbattibilità a San Donà.
Il campo sportivo di San Donà di Piave in una immagine panoramica del secondo dopoguerra, quando venne intitolato a Verino Zanutto, giocatore del San Donà nella stagione 1939-40.
Per ulteriori approfondimenti: 1. “A.C. San Donà: 90 anni di Calcio Biancoceleste di Giovanni Monforte e Stefano Pasqualato (Geo Edizioni – Empoli, 2012); 2. “Enciclopedia Almanacco Illustrato del calcio italiano 1940” di Leone Boccali (Ed, del “Calcio Illustrato” – Milano, 1939); 3. “Agendina del Calcio – 1939-1940” di Rinaldo Barlassina (Tip. “La Gazzetta dello Sport”, Milano, 1939); 4. Archivio storico “Gazzetta di Venezia”, 26 febbraio 1940
Il 12 novembre 1922 venne inaugurato il nuovo ponte sul fiume Piave tra San Donà e Musile. Un evento di grande rilevanza e nel dettaglio raccontato dalle pagine de “La Gazzetta di Venezia” di martedì 14 novembre 1922. Lo stesso è stato riportato per intero anche dal libro di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto « Il ponte della vittoria diventa storia 1922-2022 » edito in occasione del centenario dall’inaugurazione e parte di una minuziosa ricerca storica dei collegamenti fluviali in questo tratto del fiume nel corso dei secoli.
Il nuovo ponte di S. Donà di Piave
San Donà di Piave s’è svegliata domenica mattina per tempo, per fare una grande toilette di festa. Non sono frequenti le feste in questa ricca e vigorosa città di agricoltori gagliardi. Non son frequenti le feste, quantunque, da quattro anni in qua, questo cospicuo centro di bonifiche e di lavoro sia la meta venerata non di poetici pellegrinaggi commemorativi, ma di convegni e adunate fecondi, per l’economia nazionale di ricostruttori, di agricoltori, di bonificatori.
Ma era pur necessario che un giorno fosse conclamata e celebrata con particolare solennità la gloria di questa piccola città distrutta completamente dalla guerra, avvilita dall’invasione, e risorta più grande, più bella, più nobile che mai, per la silenziosa e tenace operosità dei suoi cittadini più atti all’azione che alle chiacchere, più alla ricostruzione effettiva sollecita e miracolosa della loro città che allo studio dei sistemi, per arrivarvi…
Il Vecchio ponte in una immagine dei primi del Novecento
Nella città imbandierata in ogni casa e ad ogni finestra, arrivano per prime le squadre nazionaliste e fasciste parte col primo treno del mattino, parte con un convoglio di automobili. Le squadre, nelle loro caratteristiche divise nere ed azzurre, che occupano gran parte, insieme ai loro numerosissimi gagliardetti. E poi arrivano i soldati, i fanti grigio-verdi del 71° fanteria, una compagnia, al comando del capitano Corner, con la musica del reggimento. Vi sono poi alcuni plotoni di guardie regie, e i carabinieri, magnifici come sempre, nell’imponenza della loro uniforme 1830.
Ma San Donà che ha visto sfilare nelle sue strade tutti i più autorevoli rappresentanti della metropoli lagunare, deve aver compreso che alla cerimonia di inaugurazione del nuovo ponte, cui essi venivano a presenziare, Venezia tutta aveva voluto dare un significato specialissimo: la riconoscenza della antica Dominante che a San Donà e sul suo fiume era stata salvata dall’onta di una terza invasione straniera, l’omaggio alla città operosa e fedele che, con il sacrificio rovinoso, di tutta sé stessa, aveva preservata l’antica madre dalla rovina e forse dalla distruzione.
L’arrivo del Duca d’Aosta
Il ponte distrutto durante la guerra
Il Duca d’Aosta, ricevuto dal presidente del Consiglio provinciale comm. Picchini, dal presidente della Deputazione comm. Saccardo, da S.E. il sottosegretario ai Lavri pubblici on. Sardi, e da S.E. il generale Sani comandante il corpo d’armata di Bologna, che rappresentava anche il Ministero della Guerra, era giunto a Mestre verso le 8, ed aveva poi subito in automobile proseguito per San Donà. Quando vi giunse, al saluto della popolazione si aggiunse quello delle squadre fasciste.
Il Principe di recò subito al Teatro Moderno, dove gli venne offerto un vermouth d’onore, S.A.R. si compiacque di tener quivi circolo. Gli furono presentate successivamente tutte le autorità sandonatesi con a capo il sindaco cav. Guarinoni, e quelle veneziane. Poi sfilata dei gloriosi mutilati dei combattenti della grande guerra, dei gregari della III Armata, dei devorati al valore. Per tutti il Principe ha una parola di lode, di compiacimento, di simpatia.
La cerimonia inaugurale
Poco prima delle 10, annunciato dalle agili note della fanfara reale e dai tre attenti di rigore, il Principe della Terza Armata esce dal Teatro Moderno.
Il console della Legione di San Marco, avv. Iginio Magrini, presenta al Duca le squadre fasciste. Ed esse sfilano in perfetto ordine, mentre la musica del 71° fanteria suona l’Inno del Piave.
Il palco delle autorità (da “San Donà di Piave” di C. Polita, 2016)
Nel silenzio profondo della folla, che si accalca numerosissima e reverente, sotto il sole chiaro e freddo, le note nostalgiche risuonano altissime, con effetto indimenticabile e di commozione.
Le squadre nazionaliste e fasciste, ad un comando, si mettono in marcia. Esse, sventolando al vento i loro gagliardetti neri, azzurri e tricolori, formano la testa del corteo, che si avvia al Ponte nuovo. Poi, a piedi attorniato e seguito dalle autorità e dagli ufficiali della sua Casa, preceduto da un drappello di RR. Carabinieri, di Regie guardie e di valletti della Provincia di Venezia in tenuta di gala, si avvia il Duca d’Aosta. Sul suo passaggio crepitano gli applausi della popolazione, mentre dalle finestre mani gentili gettano fiori sul passi del Duce invitto della III Armata.
Sulla riva del Piave l’imponente architettura ferrea del nuovo ponte appare inghirlandata di lauri, di ori e di nastri dai colori nazionali e della Provincia di Venezia. L’accesso al ponte è chiuso dal simbolico nastro tricolore.
Alla destra del ponte è eretta un’ampia ed elegante tribuna. L’Eminentissimo Pietro La Fontaine, Cardinale Patriarca di Venezia, vi attende il Duca. Fra il Principe del sangue e il Principe della Chiesa l’incontro è cordialissimo. Il Duca rimane in piedi nel mezzo della tribuna, mentre intorno gli si affollato le autorità. Davanti alla tribuna sono schierati i fanti del 71°, i fascisti ed i nazionalisti coi loro gagliardetti.
La benedizione
La copertina della Domenica del Corriere dedicata alla cerimonia di inaugurazione del Ponte (26 novembre 1922)
Il Cardinale Patriarca tra il religioso silenzio dell’imponente adunata incomincia a parlare. Dice che al pensiero di dover benedire il ponte rinnovellato si riaccese in lui in memoria del celebre sogno di Mardocheo il quale in un giorno di pericolo per la sua nazione vide torbido e minaccioso il cielo, e intese scuotersi la terra, mentre due dragoni venivano a combattimento. Allora varie altre nazioni congiuravano alla rovina di una nazione innocua, tanto che per quella nazione sorse un giorno di tribolazione e di pericolo e di timore, ma levando questa nazione le grida al Signore fu esaudita e un picciol fonte crebbe in forma regale e un picciol lume addivenne sole e l’umile nazione insidiata fu esaltata e i forti che volevano sterminarla furono umiliati.
Il Patriarca continua dicendo che quando l’Austria mosse guerra alla Serbia il cielo d’Europa fu turbato e la terra fu veramente scossa non sapendo dove di sarebbe andati a parare. Nei due dragoni vede la Germania e la Francia che vengono a combattimento e sente le voci delle due parti che ciascuna vuol trarre a sé le due parti che ciascuna vuol trarre a sé l’Italia minacciandole chissà quale triste condizione, qualora rifiutandosi all’una o all’altra parte, questa riuscisse vincitrice.
Gli uomini che governavano allora giudicarono che l’Italia entrasse in guerra, come è noto. Allora varie nazioni si strinsero insieme dicendo di voler infliggere grave sconfitta a questa Italia e venne inopinatamente il momento di quella dolorosa sciagura a cagione della quale l’antico ponte sul Piave fu fatto saltare.
Il cardinale La Fontaine durante il suo lungo discorso in una immagine apparsa sulla copertina de “L’illustrazione Italiana” (19 novembre 1922)
L’oratore soggiunge che quello fu veramente giorno di tribolazione, di affanno e di pericolo. Che da tutte le parti si levarono le grida al Signore e che a Venezia autorità e popolo davanti alla Nicopeia in San Marco chiedevano coraggio e salvezza. Le preci furono esaudite e il piccolo Piave addivenne fiume regale che gareggiò col Po, dove tanti volevano la linea di difesa non per la massa delle acque, ma per l’opportunità che dette al coraggio dei soldati della difesa.
E un piccolo lume, cioè il nucleo dei torti che ripresero ardire, crebbe in grande mole, quando aggiungendosi ad esso innumerevoli valorosi, sotto la guida del Sovrano, del generale in capo e degli altri Duci, si oppose al nemico con tale resistenza che culminò nel fatto di Vittorio Veneto: e gli umili furono esaltati e quelli che si reputavano potenti furono debellati. Il ponte rinnovellato che oggi s’inaugura colla benedizione di Dio, dice quanto sia grande questa esaltazione.
Qui il Patriarca si volge a S.A. il Duca d’Aosta, dicendo:
« Permettete Altezza, che io qui pubblicamente vi esprima la mia ammirazione e la mia gratitudine perché voi, l’intelletto d’amore più che comandante foste padre dei vostri soldati; con l’affetto per voi, sapeste avvivare l’amor della patria e il coraggio per cui i soldati vi seguivano lieti al cimento, come ad opera meritoria. Vi ringrazio non in nome dell’Italia, chè qui io non rappresento l’Italia, ma in nome del martoriato Veneto nostro del quale fui costituito primo pastore. Che Dio vi rimeriti e benedica, come benedica i cari che lasciarono la vita su queste sponde per la salvezza e la grandezza della patria ».
Il felice e commosso accento dell’Eminente Pastore è salutato da una calorosa irrefrenabile acclamazione. Il Patriarca indossa quindi i sacri paramenti e, con mitria e pastorale, si avvia a compiere il rito della benedizione del ponte, assistito dal Vescovo della Diocesi mons. Longhin, di Treviso. Mentre il rito si compie, un coro di fanciulli canta soavemente la Canzone del Piave.
I discorsi
Il Duca d’Aosta Emanuele Filiberto, con dietro il cardinale La Fontaine, sulla destra la signora Corinna Ancillotto (da “San Donà di Piave” di C. Polita, 2016)
Il comm.Saccardo presidente della Deputazione provinciale, dà inizio alla serie dei discordi. Dopo aver reso omaggio alla Maestà del Re, presente in ispirito, e qui fulgidamente rappresentato dalla Altezza Reale del Duca d’Aosta, e aver ricordato che fu la concordia dei cuori che, sulle sponde di questo sacro fume eresse un muro infrangibile di petti umani, l’oratore scioglie un inno al valore dei nostri eroi, che resistettero sul Piave.
Del nuovo ponte il comm. Saccardo fa quindi una breve storia: ricorda i nomi dell’on. Giovanni Chiggiato, che l’iniziò, del Gr. Uff. Carlo Allegri che lo proseguì, dell’’ing. Ippolito Radaelli che tracciò il programma e ne diresse l’esecuzione, coadiuvato dall’ing. Rossi, dal segretario generale cav. uff. Settimio Magrini e dal rag. Giorgiutti che espletarono le pratiche amministrative, l’ing. Raimondo Ravà, che vi concorse colla sua duplice qualità di presidente del Magistrato alle Acque e di presidente della Commissione per le riparazioni dei danni di guerra ecc.
E l’oratore così conclude:
« Sia nell’invocazione dei nostri morti l’auspicio di ogni nostra impresa. E su questo ponte che nuovamente cavalca le acque del fiume sacro, ponte benedetto in nome di Dio, dalla mano veneranda del Cardinale Patriarca di Venezia, non un semplice corteo di autorità ufficiali, non soltanto un’onda di popolo entusiasta, ma qualche cosa di ben più alto s’avanzi. Voi Donna Corinna Ancilotto, madre di una medaglia d’oro, esempio di fulgente eroismo, vogliate voi infrangere sulle spalle del ponte la tradizionale bottiglia, augurio festoso di lunga resistenza.
E Voi, Altezza Reale, rappresentante del Re e mirabile soldato d’Italia, Voi, generale della III Armata che fra l’immensa gratitudine delle anime nostre, avete voluto accogliere il nostro invito e partecipare a questa festa, di cui siete il genio tutelare, degnatevi gradire la mia preghiera e incedere primo sulla nuova via così intimamente legata al culto delle memorie patrie. Sentiranno i nostri cuori che nella Vostra persona, è veramente l’Italia che passa! ».
L’oratore è vivamente applaudito.
Prende poi la parola il sindaco di San Donà cav. Guarinoni, che pronuncia un breve, commosso ed efficacissimo discorso. S.E. l’on. Sardi, poi, con voce squillante porta il saluto del nuovo governo di Vittorio Veneto, che intende valorizzare veramente la vittoria strappata al nemico sulle rive di questo fiume sacro al quale, come a tutte le terre venete, guarda l’Italia tutta con sentimento di viva riconoscenza e di profondo affetto. Da ultimo parla brevemente il sindaco di Cavazuccherina.
Il battesimo
Le autorità attraversano il ponte durante la cerimonia di inaugurazione (da “San Donà di Piave” di C. Polita, 2016)
I discorsi sono finiti. Il Duca s’avvia alla testata del ponte, dove, sopra un tavolo, è spiegata la pergamena che costituisce l’atto di nascita del ponte. L’atto è così concepito:
« Da Sua Altezza Reale il Principe Emanuele di Savoia Duca d’Aosta, in rappresentanza di S.M. il Re d’Italia, viene oggi 12 novembre 1922 inaugurato il nuovo ponte sul Piave tra Musile e San Donà, benedetto da S.E. il Patriarca di Venezia Cardinale Pietro La Fontaine, costruito in sostituzione di quello distrutto per fatto bellico il 10 novembre 1917.
« Nel fervore delle opere che tendono al risollevamento delle terre, teatro della grande guerra redentrice, concordemente, tenacemente nel peripiglio e nella gloria cooperanti con fede entusiastica alla riaffermazione dei sacri diritti nazionali ed alla reintegrazione dei confini naturali nostri nell’ora in cui mirabili energie con slancio mirabile preparano prosperosi giorni alla patria, le autorità civili, militari, ecclesiastiche convengono tutte alla cerimonia inaugurale dell’opera che si dedica all’Augusto Principe Emanuele Filiberto e che sorge ora più grande a testimoniare l’operosità e la tenacia di propositi del popolo italiano, un quinquennio appena dopo la sua demolizione ».
Il Duca, il Patriarca e le altre autorità appongono la loro firma. Quindi il Segretario generale della Provincia avv. Settimio Magrini offre S.A.R. una copia, riccamente rilegata, di un opuscolo compilato dallo stesso Magrini, nel quale è narrata diffusamente la storia del Ponte di San Donà e illustrato con belle fotografie. Il Principe gradisce molto il dono, e mostra di ricordare perfettamente le circostanze della demolizione del ponte e della sua provvisoria ricostruzione, dopo la vittoria, da parte dei pontieri della III Armata.
Intanto la signora Corinna Ancillotto, madre dell’eroico aviatore medaglia d’oro s’appresta a battezzare il ponte con la rituale bottiglia di sciampagna. La bottiglia, legata ad un nastro azzurro e oro, i colori della Provincia di Venezia, si rompe felicemente sopra uno dei grandi pilastri di ferro. Allora, mentre la musica intona la Marcia Reale e le truppe presentano le armi, il Duca scioglie il nastro tricolore che gli sbarra l’accesso del ponte, e passa per primo. La bella cerimonia è compiuta. Il Duca arriva all’altra sponda, salutanto da entusiastica evviva, e dagli alalà dei fascisti che si schierano sulla passarella laterale del ponte.
Il banchetto
Il Duca, in automobile si reca quindi all’Orfanotrofio, dove verrà più tardi servito il banchetto offerto dalla Provincia. Intanto il generale Sani, nella Piazza del Municipio, passa in rivista i fascisti e i nazionalisti che gli vengono presentati dall’avv. Iginio Magrini.
La pergamena che ricorda la visita del Duca d’Aosta Emanuele Filiberto di Savoia all’Orfanotrofio in occasione dell’inaugurazione del Ponte (da “Cent’anni di carità di M. Franzoi, 2021)
Il Duca d’Aosta, dopo aver visitato minutamente l’Orfanotrofio ed essersi molto interessato alla bella e benefica istituzione, scese nel salone, dove le mense erano imbandite alle 12.45. Il Principe, che portava tutte le decorazioni, sedette al centro della tavola d’onore, tra la signora Imma d’Adamo, consorte del Prefetto di Venezia, a destra, e la signora Corinna Ancillotto, a sinistra. Sedevano poi ancora alla tavola d’onore; alla destra del Principe il comm. Saccardo, il generale Sani, il comm. Picchini, il senatore Diena e il Sindaco di Venezia prof. Giordano; alla sinistra il sottosegretario di Stato on. Sardi, il Prefetto d’Adamo, il cav. di Gr. Cr. Raimondo Ravà, presidente del Magistrato delle Acque, l’ammiraglio Mortola, il comm. Mandruzzato che rappresentava il Primo presidente della Corte d’Appello, l’on. Chiggiato, il comm. Plinio Donatelli vice presidente del Consiglio provinciale. V’erano poi, alle varie tavole, tutte le altre autorità, notabilità e rappresentanze.
Alle ore 2 la colazione ebbe termine, e il Duca, che aveva voluto che gli fossero presentate le due graziose figliuole del Segretario generale della Provincia, lasciò la sala, salutato da un caldo applauso. Egli si recò subito a visitare il magnifico ospitale civile di San Donà, risorto per la tenacia del comm. Trentin. Fu ricevuto dallo stesso comm. Trentin che gli fu da guida nella visita minuziosa che egli fece al bellissimo stabilimento, che mostrò di apprezzare altamente. La popolazione, saputo che il Principe si trovava all’ospedale, gli improvvisò una calda manifestazione.
Il Principe volle quindi recarsi a Zenson, a visitare quel cimitero e quella terra sulla quale rifulse – nella famosa ansa – il valore della III Armata.
Ripartì alle ore 16 con la ferrovia, diretto a Torino, fatto segno ad una entusiastica dimostrazione da parte di tutto popolo di San Donà, che si accalcava presso il vagone-salone per salutare ancora una volta il Principe della III Armata. Il generale Sani e il sottosegretario on. Sardi sono partiti a loro volta, con lo stesso treno, diretti a Venezia.
Per ulteriori approfondimenti: 1. “Il ponte della vittoria diventa storia: 1922-2022 – passi barca, ponti e vie d’acqua a Musile e dintorni (di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto – Tipolitografia Biennegrafica – Musile di Piave – 2022); 2. “San Donà di Piave – Piccola guida di una città senza storia?” di Chiara Polita – Digipress, San Donà di Piave, 2016); 3. “Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave” (Digipress, San Donà di Piave, 2021); 4. “S. Donà di PIave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Mons. Costante Chimenton, Tipografia Editrice Trevigiana, 1928); 5. Archivio storico “Gazzetta di Venezia”, 14 novembre 1922