Nel lontano 1938 nacque l’associazione “Amici Moto Ombra”

Nel lontano 1938 nacque l’associazione “Amici Moto Ombra”

In un articolo del periodico “Il Piave”, edito dall’amministrazione comunale di San Donà di Piave, nel gennaio 1973 si poteva leggere qualche cenno storico dell’associazione “Amici Moto Ombra”

Una cartolina degli “Amici Moto Ombra” con la loro classica moto stilizzata

Uno dei motti dell’associazione “Amici Moto Ombra” recitava così « Empi il Bicchier che vuoto – vuota il bicchier che pieno – non lo lasciar mai vuoto – non lo lasciar mai pieno ». Nata nel 1938 per iniziativa di quindici amici fondatori in un periodo di grandi ristrettezze e con un Paese oramai prossimo alla guerra e alle distruzioni che questa portò, ebbe il merito di continuare la sua opera per un periodo lunghissimo tanto che l’articolo apparso su “Il Piave” festeggiava il suo trentacinquesimo anniversario.

I Soci fondatori degli « Amici Moto Ombra »

Da Sinistra in alto: Zorzi Vittorio, Tronco Giovanni, Brollo Libero, Pasini Nino (primo presidente), Bello Oreste, Pasini Luigi; in mezzo: Bincoletto Luigi, Momesso Giuseppe, Giacobbi Giuseppe, Caramel Alfredo, Boccato Luigi; in basso: Frara Luigi, Bergamo Mario, Murer Bruno, Carlesso Giulio.

Da “Il Piave” – Ricorre quest’anno il 35° anniversario della «Amici Moto Ombra – G. Tronco »

Ricorre quest’anno il 35° anniversario della fondazione del decano dei sodalizi cittadini la « AMICI MOTO OMBRA – Giovanni Tronco ».
Da queste colonne ci proponiamo di far conoscere che cosa è la AMICI MOTO OMBRA, il perché della sua fondazione e le finalità che l’hanno fatta nascere e sin qui progredire per assumere adesioni innumerevoli.

Una foto di gruppo con sullo sfondo la moto modello « Amici Moto Ombra », la vista è su via Trecidi Martiri dove si nota anche l’Oratorio Don Bosco

Nel lontano 1938, nel mese di febbraio, un gruppo di quindici operai spinti da profondi sentimenti di amicizia dettero vita alla AMICI MOTO OMBRA come fini ricreativi ma soprattutto spinti da un più nobile ideale che si identificava nel motto « uno per tutti e tutti per uno – Agire nell’ombra » e cioè intervenire con l’aiuto morale e finanziario per quegli amici che si venivano a trovare in ristrettezze e difficoltà economiche. Sta di fatto che le quote che settimanalmente ogni amico versa, a fondo perduto, vanno ad aumentare il fondo cassa creando la potenzialità degli interventi nei confronti di chi può averne bisogno. Dunque lo scopo primo è aiutare gli amici e dopo il divertimento.

Tra la folla un carro allegorico degli « Amici Moto Ombra » trainato dai buoi


La « Amici Moto Ombra », però, non soltanto si ricorda degli amici iscritti, ma in occasione delle festività più care a tutti interviene verso chi soffre, distribuendo pacchi dono ai vari Enti morali del paese,
Fra le manifestazioni sociali, trattandosi di operai, una delle più sentite è la consumazione di un pranzetto spuntino in occasione della festa del Lavoro. Nei primi anni di vita del sodalizio durante tale manifestazione veniva assegnato un diploma alla più bella sbornia tra i partecipanti allo spuntino; questo non per incitamento al vizio del bere ma soltanto perché il ritrovarsi uniti per lo spuntino creava l’occasione di un pomeriggio pieno di allegria per tutti e colmo di libagioni fra amici cari.

Un classico “spuntino” degli « Amici Moto Ombra »


Ferma e basata su questi principi la AMICI MOTO OMBRA è fiorita aumentando sempre più il numero degli iscritti. Dai 15 amici fondatori attualmente contra n. 107 soci amici.
Attualmente a far parte del sodalizio sono rimasti soltanto due dei fondatori; gli amici BERGAMO MARIO e CARAMEL ALFREDO.
Il sodalizio nell’immediato dopoguerra è stato intitolato alla memoria di Giovanni Tronco, socio fondatore, fucilato dai nazisti nell’eccidio di Cà Giustiniani con altri 12 Martiri della resistenza.
Tradizionalmente, durante il carnevale, il sodalizio organizza una veglia danzante che quest’anno avrà luogo il 10 febbraio p.v. all’Hotel Vienna. La serata sarà allietata da un noto complesso musicale.

Torpedoni in colonna in una gita degli anni Cinquanta

Giovanni Tronco, tra i fondatori degli «Amici Moto Ombra» fu uno dei Tredici Martiri

Come ricorda anche l’articolo de “Il Piave” tra i soci fondatori degli « Amici Moto Ombra » vi era anche Giovanni Tronco che il 28 aprile 1944 venne fucilato per rappresaglia dai nazifascisti assieme ad altri dodici compagni di cella nei pressi di Cà Giustinian a Venezia, in quello che ancor oggi viene ricordato come il sacrificio dei Tredici Martiri. Abbiamo trattato quell’episodio a questo link http://bluestenyeyes.altervista.org/san-dona-di-piave-il-sacrificio-dei-13-martiri/, dove tra l’altro è anche possibile scaricare il libretto che l’amministrazione comunale di San Donà di Piave (Medaglia d’argento al Valor Militare per la Guerra di Liberazione) ha pubblicato nel 1964 in occasione del ventennale. Per ricordarlo gli Amici vollero associare il suo nome a quello degli « Amici Moto Ombra ».

L’addio autografo alla famiglia di Giovanni Tronco, tratto dal libretto edito dal Comune di San Donà di Piave (1964)

Gli Ottanta anni degli « Amici Moto Ombra »

Nel 2018 l’associazione ha festeggiato gli Ottanta anni dalla fondazione. Evento che è stato ricordato in un articolo de La Nuova Venezia a firma Giovanni Monforte: «… Il sodalizio è formato da un gruppo di amici che si ritrovano ancora oggi settimanalmente per promuovere iniziative benefiche agendo soprattutto nell’ombra, intervenendo con l’aiuto morale e finanziario non solo verso i soci in caso di difficoltà, ma anche verso enti morali. «Rispetto al 1938 i tempi sono cambiati, meno difficili però con maggiori esigenze, ma gli obiettivi e lo spirito di carattere sociale e benefico sono sempre quelli che hanno animato i soci fin dall’inizio», spiegano. Il gruppo trae il nome dal simbolo: una moto con due ruote di bicchieri, motore e serbatoio raffigurati da una damigiana e una botticella. »

Per approfondimenti: 1. « Il Piave » del 5 febbraio 1973 periodico amministrazione comunale San Donà di Piave; 2. articolo « La Nuova Venezia » del 17 febbraio 2018.

Il Martirio e la Resurrezione di San Donà di Piave

Nel giugno 1929, in contemporanea con l’uscita del libro di Monsignor Dottor Costante Chimenton “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella”, sulla rivista edita del Touring Club Italia “Le vie d’Italia e dell’America Latina” uscì un lungo articolo a firma Giorgio Paoli che da quel libro trasse ispirazione. A corredo dell’articolo furono inserite molte fotografie di Alfredo Batacchi, molte delle quali divenute nel frattempo cartoline di San Donà di Piave.

Rivista mensile del Touring Club Italiano, Anno XXXV – giugno 1929

di Giorgio Paoli

Fra i tanti paesi italiani che, per essersi trovati sulla ardente fronte della grande guerra, ebbero a condividerne le alterne vicende, a partirne le dure violenze, a supportarne i terribili sacrifici, a viverne la crudele angoscia e la vermiglia gloria, San Donà di Piave fu dei più martoriati e dei più eroici. Non solo una folta schiera dei suoi giovani figli – quattrocentoventi – immolarono la balda esistenza combattendo per la Patria, ma il paese stesso fu tutto travolto e sconquassato dalla tremenda bufera e, dopo il rovescio di Caporetto, invaso dal tracotante nemico, soffrì per un anno l’amarezza del selvaggio e nella lotta per la liberazione fu bersaglio di spietati colpi e vittima di innumeri ferite. Ridotto a uno spaventoso cumulo di macerie, sembrava, nel vittorioso termine del conflitto, ch’esso non potesse più risollevarsi dalla triste polvere in cui giaceva. Invece – miracolo d’energia e di fede – chi lo vede oggi lo trova risorto, lo saluta più bello di prima, risanato e forte, in piena maturazione di sviluppo, in una consolante ripresa di attività, in un sicuro ritmo di lavoro: esempio anch’esso, con mille altri, dell’inestinguibile gagliardia di nostra stirpe e, in particolare, del virile e fattivo ardore della gente veneta.

Un figlio di questa terra, Monsignor Dottor Costante Chimenton, professore del seminario di Treviso, ha amorosamente tracciato la storia di San Donà di Piave in un’interessante volume di 900 pagine, copiosamente documentato ed illustrato; ed è sulla sua scorta che vogliamo qui richiamare gli eventi connessi con la guerra e compendiare l’opera di restaurazione che, per virtù di Governo e di popolo, ha doppiamente redento il gentil paese.

Il Santo Patrono

Son dodici i santi che portano il nome di Donato, per cui si può comprendere come sia stata lunga la controversia storica, non peranco risolta, per decidere quali di essi fosse l’autentico patrono di San Donà. La chiesa, a tagliar corto stabilì che l’onore spettasse a San Donato Vescovo martire, ma il curioso è che nel paese il tempio principale fu invece sempre dedicato alla Madonna delle Grazie, alla quale si aggiunse San Donato soltanto quando, nella prima metà del secolo scorso, il tempio in questione, ormai cadente e ad ogni modo inadeguato per la cresciuta popolazione venne ricostruito tra un devoto entusiasmo popolare in un nuovo edificio arcipretale che ricevette poi, a grado a grado, gli abbellimenti che lo resero particolarmente pregevole e venerato.

Era esso, come naturale, il fulcro del paese, per antica tradizione religiosissimo, e, intorno, l’abitato schierava la guardia delle sue case, nella cui massa, dalle apparenze modeste, spiccavano parecchi edifici ragguardevoli e sobriamente eleganti, quali il Municipio, le sedi di alcune banche e aziende diverse e varie palazzine e ville private, così che San Donà aveva aspetto e sostanza di vera cittadina, e il suo territorio – sanato dalle ardite bonifiche che avevano regolato il corso delle acque – si dispiegava ubertoso florido, presso il margine del lido adriatico.

L’arrivo della guerra
Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

La guerra turbò la questa quieta armonia delle opere, ma trovò il popolo di San Donà pronto a qualunque sacrificio, come ben si vide allorché il nembo tragico avvolse il paese. Dopo Caporetto, San Donà di Piave divenne uno dei punti strategici contro cui si sferrò l’azione dei belligeranti. Quasi tutti i giorni, nei suoi bollettini ufficiali, il Comando Supremo ebbe a registrare il nome di San Donà o delle sue frazioni; le vittime immolate sul suo suolo furono innumerevoli; le sue campagne furono allagate di sangue. Le prime avvisaglie della lotta vi si sparsero il 29 ottobre del 1917, allorché il paese fu invaso dal nostro esercito in ritirata. Seguirono gli esodi degli abitanti, le depredazioni e i saccheggi, le vessazioni e le brutalità dell’orta nemica, i bombardamenti senza tregua, i combattimenti sulle rive del Piave, ove i nostri si erano arrestati ed aggrappati, e quindi la rovina dello sciagurato borgo, flagellato da ogni parte. I profughi dovettero sparpagliarsi in tutte le regioni d’Italia, persino in Sicilia, mentre l’autorità municipale, capeggiata dal sindaco, Giuseppe Bortolotto, trovava asilo in Firenze, ove organizzava l’opera di tutela e di esistenza morale riannodando con pazienti ricerche le disperse fila della comunità. Il paese rimane, fin dove poté, l’arciprete monsignor Saretta, che si adoperò a favore degli infelici parrocchiani con uno zelo così caldo e coraggioso che gli austriaci, sospettosi e urtati, finirono per trasferirlo a Portogruaro.

Nel settore di San Donà-Caposile la lotta non ebbe mai respiro. In quegli acquitrini si mantennero tenacemente abbarbicati di avversari, e con pari tenacia i nostri sforzarono di snidarli, sfidando i covi di mitragliatrici di cui era cosparso tutto il margine del Piave, mentre altre stavano appiattite tra i ruderi delle case, di guisa che tutto il territorio era un feroce agguato di distruzione e di morte e dovunque s’accumulavano le rovine e giacevano al sole e alle intemperie le salme insepolte.

Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

Specialmente furiosa si scatenò la battaglia, nell’estate del 1918, all’allorchè da una parte e dall’altra si giocò la carta decisiva, e il nemico ributtato dal fiume, comprese che la sua ora disperata, la sua perdita definitiva,  stavano per arrivare. Invano s’irrigidì, invano si esasperò nella spietata violenza, invano eresse le forche sui pioppi e sugli ippocastani, per impiccarvi legionari cecoslovacchi ch’erano passati a combattere con noi; il monito crudele non valse a rianimare l’esercito prostrato e tantomeno propiziargli il sognato trionfo. L’autunno successivo, a un anno dall’invasione, quella sciagura era vendicata, il paese redento, il nemico ricacciato e rotto, la guerra vinta dal valore delle nostre armi, dall’ardimento dei nostri magnifici soldati; e dall’avversario null’altro rimase, tristo conforto, se non lo sfogo codardo delle ultime prepotenze sugli inermi, delle ultime brutalità sui vecchi, sulle donne, sui fanciulli, degli ultimi vandalismi sulle cose, delle ultime razzie nella desolata contrada ch’era costretto ad abbandonare.

I sandonatesi avevano però già ricevuto il premio del loro sacrificio nella liberazione, alla quale tanti dei loro avevano valorosamente contribuito, così che il nucleo di questi combattenti seppe meritarsi otto medaglie di bronzo, dieci d’argento e una medaglia d’oro, quella che frigiò il petto di Giannino Ancillotto, l’aquila eroica, il prodigioso bombardatore aereo che non esitò a distruggere anche la propria villa, pur di colpire il nemico che la profanava, nella sua diletta San Donà.

Dopo la guerra, solo distruzione

Il primo cittadino che entrò in quella terra redenta fu l’antico sindaco, divenuto Commissario Prefettizio, il commendatore Giuseppe Bortolotto, che vi giunse il primo novembre 1918 con un autocarro militare, attraversò il Piave con le sue truppe, visse quel giorno e il successivo in mezzo ai soldati e passò la notte tra i carriaggi dell’esercito, nutrendosi del rancio comune. Subito egli si accinse all’opera della ricostruzione, ma la situazione, nel paese deserto, era spaventosa.

Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

Il centro dell’abitato era completamente distrutto. Il nucleo principale, nella zona immediatamente vicina al Piave e nei dintorni della chiesa, era ridotto a un mucchio di rovine. Del pari gli stabili, sulle principali vie d’accesso al paese e al fiume, erano quasi tutti a terra e soltanto qualche casa colonica era rimasta in piedi. In pochi giorni la popolazione giunse a cinquemila anime e via via s’accrebbe col ritorno dei profughi privi di tutto, in un luogo in cui c’era più nulla e ogni cosa era da improvvisare, da rifare di sana pianta.

Un compito immane fu affrontato, tra comprensibili malumori, in un disordine caotico, aggravato dagli intralci burocratici e dall’incomprensione delle autorità superiori e dello stesso Governo di quel tempo, mentre le tristi condizioni divenivano minacciose per il dilagare delle acque dalle rovinate bonifiche e per il diffondersi delle malattie. La stessa Croce Rossa americana, sollecitata a porgere il suo aiuto giudicava che San Donà fosse ormai un paese morto e che non mettesse conto di spender tempo e fatiche per farlo risorgere.

Eppure, per l’ammirevole tenacia del Commissario, che seppe moltiplicarsi riverberando il proprio entusiasmo in chi lo attorniava, piano piano San Donà risorse. Nel duro lavoro molto giovò anche l’ausilio del clero, con la alla testa il bravo arciprete, monsignor Saretta, che indefessamente ed efficacemente si prodigò per lenire tante miserie e far tornare negli spiriti la calma e la fede, a cominciare dalla fede religiosa, per la quale egli provvide subito a riattivare le pratiche del culto, officiando tra le macerie del tempio, dapprima, poi in una baracca provvisoria, mentre si dava mano alla demolizione del Duomo pericolante per ricostruirlo.

La ricostruzione del Duomo e dei luoghi di culto

Si ricostruirono infatti il Duomo e il suo campanile, su progetto del professor Giuseppe Torres di Venezia. La chiesa, ad unica navata, con cinque porte, è fronteggiata da una maestoso pronao, adorno di sei colonne di pietra artificiale e di un timpano a finte bugne. Il campanile, che le sorge a fianco, è alto 76 metri, quadrangolare, massiccio, sormontato da una cuspide sulla quale si libra un angelo rivestito di rame. La spesa s’aggirò sui tre milioni e l’edificio sacro fu aperto al culto nel marzo del 1923.

Si ricostruirono pure le chiese di Passarella e di Chiesanuova e le case canoniche di quelle frazioni del Comune, oltre quella di San Donà; come pure vennero ricostruite altre chiese ed oratori ed edifici di carattere religioso, per cui la cattolicissima plaga potè a poco a poco vedere rimosso ha rimesso a sesto e notevolmente migliorato il proprio patrimonio di pratica cristiana.

Il nuovo ponte

E a poco a poco anche l’opera della ricostruzione civile ebbe il suo coraggioso e mirabile sviluppo. Una di quelle che trovarono per prime le solerti cure dell’amministrazione provinciale e comunale fu l’opera del ponte sul Piave, per ristabilire le normali comunicazioni tra San Donà e la frazione di Musile, essendo stato distrutto dalla guerra il robusto ponte di legno che da trent’anni allacciava le due località (ndr in realtà il ponte di legno venne distrutto molti anni prima da una piena del Piave, quello distrutto nel 1917 era in muratura e ferro). Il nuovo ponte fu costruito in poco più di un anno, tra il maggio del 1921 e il luglio del 1922. Composto di quattro travate di di ferro e lungo 210 metri, esso venne inaugurato dal Duca d’Aosta e, in omaggio all’augusto Condottiero ebbe il nome di Emanuele Filiberto di Savoia. Anche sulla linea ferroviaria, transitante sul Piave, si dovettero ristabilire le comunicazioni, e ciò fu fatto dapprima con un ponte in ferro ad unico binario, che venne poi sistemato a binario doppio.

L’aquedotto

Il paese ritrovava così i suoi sbocchi, mentre si lavorava riorganizzare il nucleo urbano in base a un piano regolatore che, tra l’altro, contemplava l’apertura di cinque grandi strade e la formazione d’una piazza davanti alla chiesa, là dove in passato si aggruppavano vecchie e modeste abitazioni. Si diede pur mano a ripristinare l’acquedotto, unico mezzo per il rifornimento dell’acqua potabile, e quindi opera vitalissima per il Comune. L’impianto preesistente, posto presso il fiume da cui prendeva l’acqua per passarla alle vasche di decantazione e di filtraggio e alla cabina di organizzazione, era a un mucchio di rovine; per ciò si dovete ricostruirlo di sana pianta e si dispose poi l’ampliamento della vecchia rete portando a sette chilometri la lunghezza complessiva delle condutture stradali.

La sistemazione è tuttavia provvisoria, essendo già in corso di studio l’opera grandiosa dell’acquedotto del Basso Piave, che dovrà risolvere in modo assai più degno il problema dell’alimentazione idrica per tutta quella plaga, costretta ancora ad accontentarsi di un’acqua non sempre esente da salsedine e da altri sgradevoli sapori.

Il Municipio

Anche il Municipio di San Donà era divenuto alla fine della guerra un incomposto ammasso di macerie, per cui si imponeva la completa ricostruzione. E la nuova opera riuscì tale da non far rimpiangere l’antica. Si eresse, infatti, un edificio dignitosissimo, ricco di fasto plastico in cemento, di sfarzo decorativo di colonne abbinate, balaustre e trabeazioni, arioso ed elegante per la presenza di un portico che ne snellisce la massa architettonica e in pari tempo l’adorna efficacemente.

La superba sede municipale vanta un ampio scalone a tenaglia, con gli scalini di marmo e la ringhiera in ferro battuto, ritorta a volute capricciose, illuminata da una trifora che forma un grandioso elemento ornamentale della facciata posteriore. Pregevolissima è la decorazione in affreschi e stucchi nel salone del Consiglio, ove attira lo sguardo una gran carta geografica – sistemata in ricca cornice – riproducente il campo di battaglia del Basso Piave dal 1917 al 1918: ricordo e monito ai presenti e ai venturi. Mobili e lampadari artistici compongono un adeguato corredo per questa e le altre sale del palazzo, nonché per gli edifici, i quali appaiono tutti quanto mai confortevoli nella loro sobria eleganza.

Si provvide pure a riparare, riattare e ricostruire gli edifici scolastici del Comune che, a vero dire, non avevano neanche prima della guerra alcuna impronta artistica, così che nel campo intellettuale di San Donà è tuttora desto il desiderio di un edificio più contemporaneo alle aspirazioni dell’ambiente.

L’Ospedale

Per la sua stessa ubicazione poco discosta dal centro del Paese, l’ospedale Umberto I di San Donà, ch’era stato eretto nel 1913, fu esposto al tiro diretto delle artiglierie, di guisa che il vasto fabbricato principale, come pur quello del locale d’isolamento, fu interamente distrutto e si dovette, all’immediato dopoguerra, provvedere alla sua radicale ricostruzione. I fabbricati vennero pertanto ricostruiti secondo tutte le esigenze moderne, riforniti di ottimo materiale medico e chirurgico e dotati d’una cappella sacra.

Il Cimitero
Foto originale italiana, non presente nell’articolo

Il cimitero comunale di San Donà di Piave fu pur devastato e sconvolto dalla guerra: lo si riparò nel miglior modo possibile, ma, risultando esso oramai insufficiente, se ne preparò poi un altro, più grande, a qualche distanza dall’abitato. Anche un nuovo macello è venuto a sostituire quello insufficiente dell’anteguerra che fu tra i pochi edifici della città e risparmiati dal furore delle artiglierie: il complesso dei nuovi fabbricati, semplice decoroso e con un perfetto impianto di macchinari, assicura la praticità e rapidità dell’importante servizio.

L’Orfanotrofio

Un’altra opera, di carattere sociale, s’imponeva a lenire lo strazio che la guerra aveva portato nella popolazione distruggendo tante famiglie. V’erano più di cinquecento orfani di tutti due i genitori e trecento  orfani di padre o di madre, e queste cifre, già impressionanti, risultarono poi inferiori alla realtà. Occorreva dunque un Orfanotrofio e si provvide anche a questo. Nel 1921 esso iniziò il suo funzionamento; ampliato poi con le officine, esso rappresenta oggi il primo nobilissimo monumento eretto alla memoria dei prodi che sacrificarono la vita per il loro paese, mentre è in via di attuazione un degno monumento ai Caduti in guerra che riceverà la sua espressione patriottica ed artistica nell’edificio della Casa di Ricovero, ove troveranno posto, sulla severa facciata, le lapidi coi nomi degli Eroi.

Poiché per l’Orfanotrofio si dovette utilizzare un fabbricato incompiuto ch’era destinato ad Asilo, si provvide poi a costruire un Asilo nuovo nel centro del paese, Esso fu costruito nel 1921 e più tardi lo si ingrandì aggiungendovi due ali per le suore, per le scuole, i laboratori e le verande. Fornito di ampi locali, di un cortile per la ricreazione, di un teatrino, in una di una cappellina, esso formicola ora di bambini e di bambine. Nel medesimo ambiente sono sistemati un istituto per l’educazione religiosa delle fanciulle, la scuola di lavoro per le orfanelle, con laboratori di maglieria, di calze, di camicie e di ricamo; la scuola di lavoro per le fanciulle esterne, la cucina economica per i poveri, l’unione missionaria parrocchiale con il suo laboratorio speciale, le scuole elementari private, la biblioteca circolante, il ricreatorio festivo per le ragazze, la scuola di piano e varie altre istituzioni cattoliche femminili, mentre per quelle maschili è sorto un apposito fabbricato al posto della vecchia chiesa provvisoria. E intanto si prepara, su linee grandiose, la l’attuazione in San Donà della benemerita Opera Don Bosco che troverà sede in una serie di edifici ora in corso di costruzione.

Il Consorzio delle Bonifiche

Sulla piazza principale di San Donà – la Piazza Indipendenza – è sorto il Palazzo del Consorzio delle Bonifiche del Piave. Con tale nome i Consorzi Idraulici Uniti, che si propongono la bonifica di 400 chilometri quadrati di terreno, hanno fuse le direttive e le forze costituendo un ente dal quale la complessa opera redentrice dello storico agro di Jesolo ed Eraclea verrà studiata e disciplinata da tecnici di profonda competenza idraulica e da provetti agricoltori.

E’ un’impresa gigantesca, che prosegue nel tempo e nello spazio quella degli avi per riscattare la terra regalando il corso delle acque, e che, iniziata, nella sua nuova impresa, al principio del secolo, aveva già compiuto grandi passi e raggiunto risultati superbi, quando la guerra non solo l’arrestò, ma tutto distrusse, così che ci dovette poi ricostruire, rifare e riparare, per ricomporre il patrimonio dei vetisette stabilimenti idrovori, dei canali e delle strade, delle conche e dei pozzi, dei motori e delle pompe: fatica imponente che onora il paese e la stirpe.

Il palazzo, in cui ha stanza dello Stato maggiore di quella che può considerarsi come una incruenta ma ardua guerra, per redimere le basse valli e le paludi, si presenta nell’autorità di linee d’un tardo Rinascimento italiano, con poche sovrastrutture decorative nel corpo centrale, in tre piani, con sovrastante frontone triangolare, fra larghe pilastrate, e con due ali laterali a semplice finestre architravate. Per tutta la lunghezza dell’edificio si rincorrono quindici archi, in modo da seguire la teoria armonica dei porticati che adornano gli altri edifici sulla piazza, il vasto rettangolo della quale sarà completato con la costruzione del Palazzo del Littorio.

Le banche e gli stabilimenti industriali

Un altro porticato si profila di là per strada maggiore per che pur delimita la piazza medesima:  quello che fornisce elegante base al nuovo palazzo della Banca Mutua Popolare Cooperativa, l’istituto che in mezzo secolo di laboriosa attività, ha tanto contribuito alla prosperità del paese. Ad esso si sono aggiunte nel dopoguerra, in decorose sedi, le succursali della Cassa di Risparmio di Venezia, del Credito Veneto, di Padova, e della Banca Cattolica di Treviso. Si sono pur riattivati gli stabilimenti industriali, a cominciare da quello della Juta, che esisteva da un decennio, dava lavoro a 650 persone ed era guarnito di un poderoso macchinario di cui durante l’invasione una parte andò rovinata ed il resto depredato, per guisa che non fu facile compito la restaurazione. Analoga sorte toccò la Distilleria, i fabbricati e gli impianti della quale andarono distrutti: ricostruita e riattivata, questa industria ha poi saputo espandersi con l’aggiunta di un liquorificio e di un oleificio. Anche la Segheria fu distrutta dalle fondamenta, ma non tardò a rinascere, come tante altre attività dell’operosa cittadina che ora s’accinge ad accogliere nuove imprese industriali, come quella d’uno zuccherificio.

Il Teatro Verdi

Con la reintegrazione delle fonti e degli strumenti del quotidiano lavoro, San Donà si è pur rifornita dei rifugi per l’onesto svago. I sandonatesi furono sempre appassionati per il teatro e, possedendo un piccolo ma grazioso Teatro Sociale, lo resero capace di sostenere la rappresentazione di commedie e di operette, e anche d’opere con la partecipazione di insigni artisti. Distrutto dalla guerra in modo totale, si è preferito lasciarlo nella polvere delle care memorie per dargli un successore del tutto nuovo, che ha preso il nome augurale di Giuseppe Verdi. L’edificio, di stile rinascimento, contiene una sala capace di ospitare mille spettatori. Esso iniziò nel 1921 la sua missione consolatrice, nella quale pur si adoperò, manco a dirlo, il cinematografo, croce e delizia del nostro vertiginoso tempo.

San Donà lavora e ha quindi il pieno diritto di distrarsi un poco, di divertirsi, di ridere, finalmente, dopo aver pianto tanto. Essa deve e vuole obliare nella serenità attuale le sciagure di cui fu vittima e delle quali ogni traccia esteriore è ormai scomparsa nel suo volto, rifatto più fresco e più bello. Chi passa oggi per le lunghe larghe strade luminose, fiancheggiate da gentili case nuove, da palazzi pomposi, da leggiadre ville, da negozi e magazzini colmi d’ogni ben di Dio, più non pensa all’ieri che sembra ormai lontano lontano, ma, nella gaiezza del luogo e del ritmo gagliardo delle sue opere, indovina le più liete promesse del domani.

Enzo Ferrari, quel sandonatese famoso prima di esserlo

RAPPRESENTATIVA REGIONALE: In piedi: dirigente Arnaldo Silvestri, avvocato Davanzo, Cereser, Brollo, Storto, FERRARI, Salvori. Accosciati: Ronchi, Muffato, Bedin, Isoni, Lazzarini, Armellin

Nel mondo dello sport e con esso in quello del calcio vi sono carriere che non si fermano al termine dell’attività agonistica. Chi ha giocato ad ottimi livelli poi trova in quello sport anche uno sviluppo successivo alla propria carriera come allenatore o dirigente, pari se non superiore a quella precedente. E’ per questo che questa nostra storia è lunghissima e inizia in una San Donà da sempre vera fucina di talenti sportivi, qui negli anni Sessanta muoveva i primi passi Enzo Ferrari. Chissà come è vivere con un nome e un cognome che ti lega per sempre ad un mito assoluto dell’automobilismo, di certo quel giovane sandonatese ha cominciato tardi a giocare a calcio. Inizialmente aveva seguito la passione del padre Gino ed inforcata una bici la sua aspirazione massima era divenire un ciclista professionista. Ma di questo lasceremo spazio direttamente alle sue parole grazie ad una intervista che agli inizi degli anni Ottanta concesse a Gianni Mura e che è parte integrante del nostro racconto.

Gli inizi al San Donà
SAN DONA’ 1960-61: In piedi: Salvadoretti, Vizzotto, Cornaviera, Bonazza, FERRARI, Dal Ben Accosciati: Susin, Beffagna, Tommasella. Salvori, Giovanni Perissinotto

Enzo Ferrari (classe 1942, la stessa di Dino Zoff) dopo quell’iniziale esperienza nel ciclismo abbandonata da allievo, entrò a far parte del settore giovanile del San Donà. Era un gran fermento di talenti il sandonatese in quei primi anni Sessanta. Francesco Canella e Bruno Visentin avevano da qualche anno preso la via del Venezia, tra gli oratoriani muoveva i primi passi Gianfranco Bedin, mentre con il San Donà oltre a Ferrari si stavano mettendo in luce anche Elvio Salvori e Angelo Cereser. Tutti giocatori che poi approdarono in serie A divenendo simbolo di questa terra ed esempio per i tanti ragazzi che avevano la capacità di sognare nel loro giocare a pallone. Nel San Donà appena promosso in serie D Ferrari giocò in attacco ed in panchina come allenatore aveva un Giovanni Perissinotto che di gioco d’attacco se ne intendeva avendo giocato in serie A con Roma e Udinese. Il giovane Enzo debuttò il 5 marzo 1961 contro la Pro Gorizia (1-0) allo stadio Zanutto, con la maglia numero 10 giocò nove gare segnando la sua prima e unica rete di quella annata il 16 aprile all’Argentana (4-1). Ferrari rimase in biancoceleste anche nelle successive due stagioni, l’ultima delle quali si concluse con uno sfortunato spareggio (con Faenza, 0-4) che valse la retrocessione poi sanata dal ripescaggio. Complessivamente in biancoceleste ha segnato 6 reti in 49 presenze (compresa quella dello spareggio non sempre calcolata nei totali delle stagioni), non esistendo ancora le sostituzioni per un giovane giocatore era un buon traguardo.

SAN DONA’ 1962-63: In piedi: Dal Ben, Matassa, Muffato, Mariotto, Miglioranza, Hartz. Accosciati: Manzini, Socrate Brollo, Chinellato, Cadamuro, FERRARI
Dalla Serie C alla serie B
Ferrari con la maglia dell’Arezzo

Nell’estate del 1963 passò in serie C al Forlì dove si mise in ottima evidenza arrivando ad un passo dalla promozione in serie B. Trovò poi la sua consacrazione all’Arezzo con cui giocò per tre stagioni da protagonista sfiorando la promozione in serie B la prima stagione, centrandola la seconda e giocando nella serie cadetta nella terza, conclusa con la retrocessione. Ferrari aveva esordito in serie B l’11 settembre 1966 in Genoa-Arezzo (1-0), quasi un destino visto che l’anno dopo venne ceduto proprio al Genoa. Fu una stagione sofferta per i rossoblu quella della serie B 1967-68, nella quale Ferrari segnò ben 13 reti. Al termine di un campionato molto equilibrato, furono cinque le squadre costrette agli spareggi salvezza. Spareggi interminabili dato che furono necessari dopo le iniziali quattro gare altri spareggi per determinare una seconda retrocessa. Il Genoa alla fine si salvò mantenendo la categoria dopo sette gare che videro gli sportivi genovesi assieparsi nelle piazze per ascoltare gli aggiornamenti che arrivavano attraverso la radio, e nelle quali Ferrari mise a segno altre due reti.

GENOA 1967-68: In piedi: Colombo, Rivara, Grosso, Petrini, Drigo. Accosciati: FERRARI, Derlin, Campora, Gallina, Massucco, Locatelli
In serie A a Palermo un gol che ancor tutti ricordano
PALERMO 1969-70: in piedi: Troja, Landri, FERRARI, Ferretti, Giubertoni, Lancini; accosciati: Causio, Pasetti, Bertuolo, Pellizzaro, Alario.
I fotogrammi pubblicati sui giornali del salvataggio di Ginulfi

Nell’estate del 1968 Enzo Ferrari spiccò il volo per la serie A approdando al Palermo. Fu un capitolo importante della sua carriera. Due furono i campionati di serie A disputati, al termine del secondo retrocesse in serie B ma nel quarto in rosanero riconquistò la serie A. Ferrari esordì in serie A il 29 settembre 1969 in Cagliari-Palermo 3-0, in quella annata lo scudetto venne vinto dalla squadra sarda. Nella seconda annata in serie A fu protagonista di un episodio che fece molto scalpore, ovvero una rete segnata allo stadio Olimpico contro la Roma da ben 70 metri. Così la raccontò Ferrari in una intervista alla Gazzetta dello Sport del 2008: « La partita era iniziata male per il Palermo. Bercellino si era stirato dopo cinque minuti e non aveva il coraggio di dirlo a Di Bella (ndr verrà sostituito con Causio). Verso la fine del primo tempo Ferretti, il portiere, mi passa la palla, vedo Troja tutto solo nella metà campo della Roma e lancio per Tano, poi ha fatto tutto il vento, il pallone rimbalza nell’area di porta e supera il portiere Ginulfi ». Dopo la rete di Ferrari ci fu il pareggio di Capello, con la gara che finì in parità. In realtà quella rete di Ferrari fu molto controversa dato che nel cercare di evitare la rete Ginulfi riuscì a smanacciare in corner il pallone, il guardialinee però segnalò il gol e l’arbitro Picasso di Chiavari concesse la rete, tra infinite polemiche durante e dopo la gara sia in televisione alla Domenica Sportiva che sui giornali, nella perfetta tradizione italiana di vivere il calcio. Presente tra gli undici della Roma anche il sandonatese Elvio Salvori. A Palermo Ferrari giocò qualche gara anche nella stagione del ritorno in serie A per poi venir ceduto nel mercato autunnale al Monza. Complessivamente in serie A ha giocato 55 volte segnando 8 reti, cinque complessivamente le stagioni con presenze in rosanero.

SERIE A 1969-70: INTER – PALERMO 2 – 0
Dalla B al Monza al ritorno in Veneto

Il ritorno in serie B al Monza lo porta nuovamente a lottare per la salvezza come a Genova, l’epilogo non sarà però favorevole dato che la differenza reti introdotta per evitare gli spareggi penalizzò il Monza:  appaiato ad altre quattro squadre fu tra le due squadre retrocesse. Ferrari giocò poi in serie C al Livorno, per due annate all’Udinese, quindi nel campionato 1975-76 giocò all’Union CS rimediando una retrocessione in quella che era la prima stagione dopo l’abbandono della presidenza di Teofilo Sanson. Proprio l’imprenditore veronese aveva acquistato l’Udinese e affiancato dal Ds Franco Dal Cin gestiva anche il Conegliano nella cui squadra Ferrari concluse la carriera da giocatore.

Dal Conegliano alla carriera da allenatore
CONEGLIANO 1977-78: in piedi sa sinistra: FERRARI (allenatore-giocatore), Borin, Franzolin, Villanova, Malesani, Lovison, Segat, Fongaro, Busatti, Pradella, Pizzato, Da Re, Pagura, Lisotto, Nori, Soldan (allenatore). Accosciati: Meneghin, Silotto, Marcati, Rigato, Barbui, Strappa, Da Ros, Casagrande, Turchetto, Viola, massaggiatore Nardo. (foto tratta da “100 di calcio a Conegliano” Fontanelli)

Al Conegliano nel campionato di serie D 1977-78 Ferrari assunse il doppio ruolo di allenatore-giocatore affiancando Narciso Soldan. Una stagione che vide il Conegliano ottenere la promozione in serie C2 e che fu per Ferrari anche l’occasione per giocare allo Stadio Zanutto per un’ultima volta da protagonista. In quel 2 aprile 1978 il Conegliano vinse sul campo del San Donà per 3-0 e Enzo Ferrari segnò la prima delle tre reti gialloblu. Nel 1978-79 guidò come allenatore il Conegliano anche in serie C2 con una formazione molto giovane e sono proprio i giovani che caratterizzarono l’inizio carriera del Ferrari allenatore. Molti di questi passarono con lo stesso Ferrari all’Udinese quando assunse il ruolo di allenatore della Primavera bianconera nella stagione 1979-80 arrivando ai vertici della propria categoria.

Il debutto all’Udinese come allenatore di Serie A
UDINESE PRIMAVERA CAMPIONE D’ITALIA 1980-81: In piedi da sinistra: Miano, Cinello, Maritozzi, Macuglia, Cossaro, Borin, Trombetta, Gerolin, Papais, Koetting, Dominissini. (foto tratta da “Almanacco Udinese Calcio” Schiavinello-Fontanelli)

La stagione 1980-81 segnò la svolta nella nuova carriera di Ferrari.  Dopo appena tre giornate venne esonerato l’allenatore Marino Perani con Ferrari che sedette sulla panchina bianconera nella gara del 5 ottobre contro la Fiorentina (0-0). Fu poi Gustavo Giagnoni ad essere designato alla guida della prima squadra. Ferrari tornò ad occuparsi di quella squadra Primavera che di lì a pochi mesi ebbe modo di conquistare lo scudetto di categoria. Ma prima vi fu l’esonero anche di Giagnoni. Con l’Udinese al penultimo posto Ferrari venne richiamato in prima squadra debuttando nuovamente nella gara contro la Pistoiese del 15 febbraio (1-0). L’allenatore sandonatese non lasciò più la panchina della prima squadra riuscendo a portare alla salvezza i bianconeri con un finale da brividi. In quel 24 maggio l’Udinese riuscì a sconfiggere in casa il Napoli per 2-1 grazie ad una rete all’87’ di uno dei suoi “ragazzi” lanciati dalla Primavera in prima squadra, lo jesolano Manuel Gerolin. Quella vittoria permise ai bianconeri di affiancare altre quattro squadre al terzultimo posto, con Pistoiese e Perugia venne retrocesso il Brescia per la peggior differenza reti.

Enzo Ferrari ritrova il suo compagno Franco Causio

Nell’estate Teofilo Sanson cedette l’Udinese a Lamberto Mazza, patron della Zanussi, e questi confermò Ferrari sulla panchina bianconera. L’Udinese venne rinforzata con Muraro dall’Inter, Orlando dal Vasco da Gama, Orazi dal Catanzaro e con Franco Causio, ex compagno di squadra di Ferrari al Palermo, che all’epoca faticava a trovare spazio nella Juventus di Trapattoni. Causio in quel di Udine trovò una seconda giovinezza tanto da riconquistare una convocazione in nazionale che lo porterà sino a quegli epici Mondiali di Spagna che seppur non da protagonista lo videro conquistare il titolo mondiale. Con non poca fatica Enzo Ferrari riuscì a centrare anche in questa stagione la salvezza per la sua Udinese. Si colloca all’inizio dell’annata 1982-83 l’intervista che Gianni Mura fece ad Enzo Ferrari per l’Intrepido, parte integrante di questa nostra storia e che dà i contorni della carriera di allenatore che Ferrari stava iniziando ad intraprendere:

L’allenatore dell’Udinese si chiama come il mago di Maranello

Enzo Ferrari famoso prima di esserlo

di Gianni Mura

Non è uno che dice tante cose, è uno che ha tante cose da dire. Questa era stata la mia prima impressione su Enzo Ferrari, arrivato circa un anno fa alla panchina dell’Udinese. Nome e cognome erano già famosi per via del grande Vecchio di Maranello. Ma il Ferrari del calcio era da scoprire. Sembra uno zingaro, ha fatto lo zingaro da calciatore girando l’Italia per quanto è lunga. Anche adesso, è l’unico allenatore di A che fa il pendolare: 150 km al giorno fra San Donà di Piave dove è nato e abita e Udine. « Vado a nafta costa meno. » precisa. E’ anche l’unico a dipingere, quando può. Qualche suo amico pittore di Udine, come Celiberti e Borta, insiste perché si decida ad allestire una “personale”, ma Ferrari fa il sordo. Ho visto i suoi quadri, non c’è da inginocchiarsi per l’ammirazione ma, per un dilettante, davvero niente male. Gli influssi più evidenti sono di De Pisis, poi Ferrari dichiara i suoi amori: « il Guardì, tutti gli impressionisti classici, Carrà, Sironi, Rossi ». Non li vende, semmai li regala.

ENZO FERRARI (figurina Guerin Sportivo)

Strana casa quella di Ferrari. Regolare nella famiglia, tutta simpatica: la moglie Anna, i figli Marco e Laura (15 e 13 anni); irregolare, sorprendente per la totale assenza di fotografie, maglie, medaglie, targhe, cimeli, nulla sui mobili e sui muri indica che ci abita uno che ha giocato vent’anni al calcio. Come se non esistesse il passato.

« Esiste dentro di me, – dice lui – e non vedevo il bisogno di trasformare un appartamento in un museo.Tra l’altro ho cambiato tante maglie che questo spazio non basterebbe ».

Vediamole in rassegna, queste maglie, insieme agli allenatori che Ferrari ha avuto. Calcaterra, Perissinotto, Ballacci e Tognon (San Donà), Zattoni (Forlì), Mucci e Lerici (Arezzo), Fongaro e Campatelli (Genoa), Di Bella, De Grandi e Pinardi (Palermo), Viviani (Monza), Gb. Fabbri e Zecchini (Livorno), Manente, Galeone, Comuzzi. Rosa (Udinese), Flaborea e Beraldo (Clodiasottomarina), Soldan (Coneglianese). Due di questi tecnici sono tra i “maestri” di Ferrari: Lerici per la tattica, GB Fabbri per le idee sul calcio, tutti avanti tutti indietro, come piace a Ferrari. « Se GB fosse alla Juve vincerebbe lo scudetto 8 anni di fila. Non importa se a Cesena l’hanno silurato, non cambio idea: con lui Boldini era meglio di Cabrini ». Si commuove parlando di paròn Rocco, manca a lui come a tutti quelli che l’hanno conosciuto: « Il paròn è stato tra i primi a capire l’importanza della psicologia. Non si può essere solo tecnici. “Chi no xe omo, resti sul pullman”, diceva ogni domenica Nereo, sdrammatizzando l’ambiente. Ecco noi lottiamo ancora contro la paura. Troppi miei colleghi in settimana preparano le partite in un modo che se li vedono al Pentagono diventano rossi di vergogna. Okay, c’è anche la tattica, ma prima ci sono i ragazzi, i loro problemi aggravati dal fatto che in Italia non li si aiuta a crescere. All’estero, a 20 anni sono già adulti, qui magari giocano in nazionale e sono bambocci, manca solo che ti chiedano il permesso di andare al gabinetto… ».

Da sinistra: FERRARI, Edinho, Causio (foto tratta dall’Intrepido)

Sarà, ma da cosa dipende?  « Dalla paura dell’ambiente, allenatore per primo che li contagia. Più facile che ai ragazzini si insegnino i trucchetti per perdere tempo, i finti infortuni, i palloni buttati in tribuna, che non ha giocare sul serio. Perché il ragionamento dell’allenatore è questo: prima o poi mi cacciano, dunque devo adeguarmi all’avversario. Io non lo accetto. lo rovescio questo ragionamento. Siccome nessun allenatore, che mi risulti, è mai morto di fame, io voglio che gli altri si adeguino alla mia squadra. Tanto, prima o poi mi cacciano, almeno provo a cambiare mentalità in senso positivo. Così non vedrete mai l’Udinese che fa la trincea ai limiti dell’area, semmai molto più avanti. A Torino con la Juventus abbiamo perso 0-1, costruendo sei palle gol. Dico questo: chiaro che preferisco vincere, ma ci sto anche a perdere, a patto che i ragazzi diano tutto. Io non mi scandalizzo se un giocatore prende 100 milioni l’anno, mi arrabbio se non si rende conto di cosa significa, di che doveri comporta. Mio padre m’ha insegnato che lo sport è gioia, ma anche sacrificio, anche responsabilità ».

Enzo Ferrari (foto tratta dall’Intrepido)

Il padre Gino torna spesso nei discorsi di Ferrari. « E’ il primo dei miei tifosi. Da giovane ha fatto corsa campestre, mezzofondo, le cose che costavano meno. Perché in casa lavorava solo lui, operaio in una fabbrica di secchi di juta, e poi per arrotondare faceva il tappezziere, noi eravamo sei fratelli. Io mi sono diplomato perito chimico, perché allora il futuro sembrava a Porto Marghera. Il mio sogno era di diventare ciclista professionista. Ero tesserato all’U.C. Turchetto Basso Piave, la società da cui è uscito Moreno Argentin. Ho vinto qualche corsa da allievo con avversari come il povero Schiavon (che fine, meschina: schiacciato dai trattore!) e Gregori, che adesso è il CT dei dilettanti azzurri. Ero mica male in salita e buono sul passo e in volata. Ho smesso perché la bici era un lusso, i tubolari costavano un occhio, mi sembrava immorale chiedere soldi in casa. Così son passato sui campi di calcio. Questa è zona buona: Bedin, Salvori, Maschietto, Cereser, Carlini, Gardiman… Sono rimasto appassionato di bici e tengo a Hinault. Nel calcio, vorrei essere come lui: attaccare prima di essere attaccato ».

Nel calcio partendo come ala, ha vestito tutte le maglie meno quella del portiere e del libero. Detiene il record del gol segnato da più lontano (col Palermo all’Olimpico da 70 m): « Volevo lanciare Troja, la tramontana ha preso il pallone e l’ha portato dietro Ginulfi ».  Confessa di aver segnato anche da brillo: « Diciamo allegretto, non proprio ubriaco. C’era un’amichevole con l’Inter a Fontanafredda, io non la dovevo giocare e avevo bevuto qualche bicchiere di Picolit, la mia passione. Negli spogliatoi m’han detto di cambiarmi …Corner per noi al primo minuto: vedo che Bordon dormicchia e dalla bandierina gli taglio dentro la palla, gol. Poi ho chiesto la sostituzione… ».

La famiglia Ferrari (immagine tratta dal Guerin Sportivo, giugno 1984)

E’ molto esperto di vini, Ferrari. In un certo periodo ha fatto anche il rappresentante di spumanti e quando giocava a Palermo (e suo compagno di camera era un giovane leccese, un certo Causio) faceva il piazzista di pellicce. « Noi veneti siamo i giapponesi d’Italia » ama ripetere. E’ esperto anche di legnami avendo lavorato in una fabbrica di avvolgibili, insomma è uno con cui si può stare qualche ora senza parlare di calcio. (Credetemi, col mister non succede quasi mai). Ha vissuto il calcio della provincia, mai sugli altari e difende i grandi talenti incompresi:  « Tutti dicono: il grande Cagliari di Riva. Grandissimo Gigi, d’accordo, ma chi faceva tornare i conti era Greatti… E gente come Vendrame, Inferrera, Fava, vogliamo dire che sono stati grandi campioni rovinati da allenatori che al posto del cervello e del cuore avevano un compasso? Il calcio italiano deve riscoprire la fantasia. Non tutti fantasisti, sennò è l’anarchia, ma qualcuno sì. Per questo io sono sempre stato milanista dai tempi di Gre-No-Li fino all’ultimo Rivera.

Si torna sui quadri: « Vorrei aver più tempo per fare ritratti ai vecchi delle mie parti, contadini, carrettieri, stradini, che hanno tutta la vita scritta in faccia, l’amarezza e la dignità del vivere. Ma se avessi più tempo vorrebbe dire che sono a spasso, allora non mi lamento. Ho passato un brutto momento all’inizio, solo un punto in quattro partite. Con una squadra molto rinnovata, qualche incidente di troppo, era inevitabile. Mi ha ha difeso il presidente Mazza, un manager che il calcio italiano farebbe bene a non perdere. “Si valuta alla fine del lavoro, non all’inizio” ha detto lui senza mai entrare nei dettagli tecnici. In effetti l’Udinese è l’unica squadra non sponsorizzata in serie A, perché fa parte della Zanussi. I bilanci a fine campionato. Dunque. Sono fiducioso fin qui abbiamo raccolto tanti elogi e pochi punti, ora è tempo di raccogliere tanti elogi e tanti punti. Con un Causio così non sarà difficile ».

L’Udinese si fa grande

Con l’arrivo di Edinho e Virdis l’Udinese nell’annata 1982-83 migliorò ancor di più la qualità del suo organico e nonostante i tanti pareggi, arrivò sesta a soli due punti dalla qualificazione per la Coppa Uefa. Il vero salto di qualità i bianconeri cercarono di farlo l’anno dopo quando approdò in Friuli Arthur Antunes Coimbra detto Zico e come d’incanto gli abbonamenti toccarono la soglia record delle ventiseimila tessere facendo dell’Udinese un vero fenomeno nazionale. Nonostante le 19 reti di Zico e le 10 di Virdis e un nono posto che sembrava peggiorare il piazzamento della stagione precedente, i bianconeri mancarono ancora di soli tre punti la qualificazione alla coppa Uefa dopo un campionato giocato per la gran parte in posizioni decisamente migliori. La delusione fu forte e non priva di polemiche, al termine della stagione Causio passò all’Inter, Virdis al Milan, mentre Zico rimase, non Enzo Ferrari che dopo 104 panchine in serie A si congedò da Udine. La squadra bianconera nel frattempo si era già accordata con l’allenatore Luis Vinicio.

UDINESE 1983-84: in piedi: Virdis, Pradella, Cattaneo, Brini, FERRARI (allenatore), Borin, Edinho, Miano, Mauro; seduti: Galparoli, Tesser, Marchetti, Pancheri, Causio, Gerolin, Urban, De Agostini, Dominissini, Zico.
L’esperienza all’estero
Enzo Ferrari al Real Saragozza

L’eco delle imprese di Udine e il suo esser stato l’allenatore di Zico, portò Ferrari ad intraprendere una stagione all’estero. Si trasferì al Saragozza nella Liga spagnola. « Volevano un tecnico reputatissimo, hanno contattato Eriksson e Michels e hanno pure contattato Castagner. E’ stato Pardo, l’agente di Surjak… Pardo mi conosceva e chiaramente mi apprezzava…ha fatto il nome mio e subito io e quelli del Saragozza ci siamo piaciuti. Vogliono fare una squadra da Uefa, vogliono un pò risalire la corrente». – così in due interviste al Guerin Sportivo il Ferrari prima e dopo l’esperienza spagnola – « Tecnicamente e anche fisicamente il livello si può definire pari al nostro, anche se ci sono meno fuoriclasse, a causa della crisi. D’altronde è un calcio che si porta dietro problemi organizzativi enormi ». Se l’Italia poteva godersi la vittoria mondiale e i suoi campioni stranieri, la Spagna poteva vantare un Real Madrid che vinse la coppa Uefa alla fine di quella stagione. Nonostante le complicazioni avute al Saragozza Ferrari riuscì a cogliere importanti soddisfazioni in terra iberica. Il Saragozza, privato dei giocatori Valdano e Salva, in campionato non migliorò i piazzamenti precedenti, ma Ferrari riuscì a portare la squadra spagnola alla semifinale di Coppa del Re, riuscendo a sconfiggere in campionato a Madrid sia l’Atletico che il Real. Ferrari fu il primo allenatore italiano a sconfiggere il Real al Santiago Bernabeu, nel 1962 in Coppa Campioni ci era riuscito Carlo Parola con la Juventus ma in realtà in quel caso i bianconeri avevano il ceco Korostelev come direttore tecnico. In quel 15 febbraio 1985 il Saragozza vinse con il Real Madrid in rimonta, nonostante i blanco vantassero campioni del calibro dell’ex Valdano, di Stilike, Camacho, Santillana e di un giovane Butragueno che, come detto, poi trionfarono in Coppa Uefa.

Ferrari e la Spagna

Così commentò la sua esperienza in Spagna Enzo Ferrari l’anno dopo sulle pagine del Guerin Sportivo: « Volli dimostrare, prima di tutto a me stesso, di essere in grado di allenare ad un certo livello. Credo di esserci pienamente riuscito. Volevo cominciare un ciclo, c’erano tutti i presupposti, poi molte cose non sono andate per il verso giusto. Abbiamo perso, per un cavillo federale, il libero della nazionale Salva, che è andato al Barcellona, abbiamo avuto problemi con Surjak, abbiamo perso due presidenti e i nuovi arrivati hanno ridimensionato tutto quanto. Ci siamo ritrovati anche in un momento difficile, a un certo punto del torneo: ebbene, lo abbiamo superato e a gioco lungo, quando finalmente sono riuscito a fare andare le cose come volevo io, ci siamo tolti non poche soddisfazioni ».

Il ritorno in Italia a Trieste
TRIESTINA 1985-86: In piedi: l’allenatore FERRARI, Baici, Braghin, Gandini, Bistazzoni, Attruia, Bagnato, Cerone, l’allenatore Burlando. In mezzo: Zanin, Scaglia, Orlando, Costantini, Cinello, Poletto, Salvadè. Seduti a terra: massaggiatore Evangelisti, Chiarenza, Dal Prà, Strappa, Di Giovanni, De Falco, Romano, massaggiatore Maffi.

Chiusa l’esperienza spagnola per Ferrari si aprì un nuovo importante capitolo a Trieste. Gli alabardati avevano appena perso per poco la promozione in serie A e Ferrari venne chiamato a sostituire Massimo Giacomini. In quella serie B 1985-86 la Triestina rimase a lottare nell’alta classifica sino alla fine quando il campionato venne segnato dall’ennesimo scandalo che procurò punti di penalizzazione importanti. Il Vicenza perse la promozione in serie A e quando sembrava che Empoli e Triestina fossero costrette ad uno spareggio per la promozione in serie A, ecco arrivare una penalizzazione anche per la Triestina. Una sanzione che privò gli alabardati di un possibile spareggio per la serie A e che portò ulteriori quattro punti di penalizzazione anche nella stagione successiva quando nonostante Franco Causio avesse raggiunto Ferrari a Trieste, gli alabardati non andarono oltre una meta classifica. Peggio andò nella terza stagione quando la coda delle inchieste portò ad una nuova penalizzazione per i rosso alabardati di cinque punti, risultata poi fatale alla Triestina che non andò oltre un diciannovesimo posto, con la salvezza a tre punti si concretizzò la retrocessione in serie C1.

Le infinite destinazioni del mestiere di allenatore
Enzo Ferrari (immagine Guerin Sportivo 1986)

Nel 1987 ad Avellino Ferrari subì il primo esonero, una pratica sempre più utilizzata dalle società tanto che lo stesso allenatore sandonatese successivamente subentrò più volte a campionato in corso come anche fu sostituito. L’allenatore esonerato mantiene il contratto in essere con la società ma al tempo stesso non può essere ingaggiato nella stagione in corso da un altra squadra e ai tempi di quell’esonero, come ricordò Ferrari in una intervista alla Gazzetta dello Sport del 2008, non si poteva nemmeno andare ad allenare all’estero. « È l’88-89, vengo esonerato dall’Avellino in C (ero al quarto posto!) e mi chiama il Siviglia. Per un’assurda regola cambiata l’anno dopo anche per la mia battaglia, non posso allenare all’estero perché ho iniziato la stagione in Italia. Al Siviglia arrivò Bilardo e aprì un ciclo ». L’anno dopo allenò per un periodo il Padova in serie B, quindi nel 1989-90 la stagione al Palermo in serie C dove sostituì dopo poche giornate Francesco Liguori riuscendo a riportare i rosanero in serie B grazie ad un ottimo secondo posto, oltre che a disputare la finale di Coppa Italia di serie C con il Monza, poi persa. Iniziò a Palermo anche la stagione successiva in serie B ma venne esonerato dopo poche giornate, gli subentrò Gianni Di Marzio. Vi fu poi il biennio alla Reggina in serie C1 dove nella seconda stagione dopo un ottimo secondo posto la Reggina venne eliminata nel doppio confronto dei play-off dalla Juve Stabia solo ai tempi supplementari.

L’ultima panchina in serie A alla Reggiana
FERRARI all’esordio sulla panchina della Reggiana il 6 novembre 1994, Reggiana-Lazio 0-0)

Nel 1994 Franco Dal Cin chiama Enzo Ferrari alla Reggiana allora in serie A, con il dirigente granata aveva già lavorato al Conegliano e all’Udinese. Subentrato a campionato in corso a Giuseppe Marchioro non riuscì a portare alla salvezza la Reggiana, a situazione oramai compromessa lasciò la panchina a tre gare dalla fine. Ripartì dalla serie C allenando per due stagioni l’Alessandria, per una la Juve Stabia, quindi nella stagione 1998-99 subentrò a Cacciatori sulla panchina dell’Ascoli. Con i bianconeri nella prima annata sfiorò i play-off, mentre nella seconda dopo esser giunto terzo sfidò nella finale l’Ancona che era arrivata seconda. Una gara interminabile che al termine del primo tempo supplementare vide l’Ascoli passare in vantaggio con Edy Baggio, poi la beffa più terribile per la squadra di Ferrari arrivò a due minuti dal centoventesimo minuto con la rete dell’anconetano Ventura a decretare la promozione dell’Ancona. Nella terza stagione ad Ascoli venne sostituito dopo poche giornate da Gianni Simonelli. Ferrari chiuse la carriera di allenatore all’Arezzo, subentrando a campionato in corso ma venendo poi sostituito dopo una quindicina di gare da Mario Colautti, che già in precedenza gli era subentrato ai tempi del Padova.

Fedele ai suoi dettami raccontati nell’intervista a Gianni Mura ha vissuto una carriera da allenatore senza sconti, vivendo pienamente le variabili del calcio sia a livello sportivo che in quello rappresentato dalle più diverse realtà dirigenziali.

prom.: promosso; retr.: retrocesso; p.offp: play-off persi
Enzo Ferrari nelle figurine Panini, nella stagione 1970-71 non era stato incluso nelle 12 figurine dedicate al Palermo

I Protagonisti del calcio sandonatese: 1. Francesco Canella “Dall’Oratorio al tetto del mondo”; 2. Arturo Silvestri con lo scudetto sul petto nella stagione 1951-52; 3. Guerin Sportivo | Adriano Meacci: «Scusate il ritardo »; 4. Glerean: « Nessun segreto, grande San Donà »; 5. Guerrino Striuli « Il gatto nero »; 6. Elvio Salvori, un sandonatese a Roma; 7. « Bomba » Cornaviera, una vita per il San Donà; 8. Silvano Tommasella, il miglior terzino biancoceleste; 9. « Nanni » Perissinotto, il bomber che stregò la Capitale; 10. Antonio Guerrato, quell’ala destra che non sbagliava una punizione; 11. Orfeo Granzotto: « Così è nato il Sandonà dei sogni »; 12. Bruno Visentin, il « Colombo » che volò in serie A; 13. Angelo Cereser, i suoi inizi sandonatesi visti da Torino; 14. Enzo Ferrari, quel sandonatese famoso prima di esserlo

Quella storica vittoria del San Donà contro il Vicenza

Quella storica vittoria del San Donà contro il Vicenza

Nel febbraio 1940 il San Donà stava disputando per la prima volta nella sua Storia il campionato di Serie C nazionale. Allo Stadio del Littorio era in programma la ventesima giornata, ospite dei biancocelesti l’imbattuta capolista Vicenza. La classifica era guidata dal Vicenza con otto punti di vantaggio sul Mestre, quattordici su Marzotto, Grion, San Donà e Ponziana. Un dominio vicentino in quel campionato, ma nella domenica del 25 febbraio 1940 il San Donà compì l’impresa infliggendo la prima sconfitta in campionato al Vicenza, in quella che sarà anche l’unica occasione in cui i biancorossi giocarono in campionato nello stadio sandonatese. I racconti della gara negli articoli del Gazzettino e della Gazzetta di Venezia.

SAN DONA’: In piedi da sinistra: Prendato, Babetto, Pavan, Franco, Magrini, Bergamini, Zambon, Gavagnin. Accosciati: Silvestri, Guerrino Striuli, Fantin

SAN DONA’ – VICENZA ……… 1 – 0 (0-0)

RETI – secondo tempo: Babetto (SD) 13′

RISULTATI E CLASSIFICA SERIE C GITONE A

SAN DONA’: Striuli; Silvestri, Fantin; Pavan, Zambon, Bergamini; Prendato, Babetto, Franco, Magrini, Gavagnin. All. Gastone Prendato

VICENZA: Comar; Greselin, De Boni; Chiodi, Bedendo, Campana; Suppi, Rossi, Salvadori, Zanollo, Chiesa. All. Eraldo Bedendo

ARBITRO: Ghetti Medardo di Modena

NOTE – Pubblico: 3000 persone – Incasso: 6000 lire.

di Walter Ravazzolo

S. Donà di Piave, 26 febbraio. Il nostro sarà forse un punto di vista discutibile, ma mi sembra che ieri il Vicenza si sia liberato di un grosso peso sullo stomaco. Il mito dell’imbattibilità (nel calcio l’invincibilità è soltanto un mito) era ormai diventato per i biancorossi un pauroso fantasma, una persecuzione ossessionante quasicche Il Vicenza si battesse solo per sfuggire a continui e diabolici trabocchetti seminati dal calendario sulla sua strada.

S’è levato un grosso peso. Oseremo dire che dopo la sconfitta di ieri il Vicenza ci appare sotto un aspetto più reale, un organismo fatto di sangue e di nervi che ha i suoi momenti di debolezza ma anche i suoi scatti e le sue reazioni.

GUERRINO STRIULI protagonista assoluto di quella stagione, l’anno dopo venne ceduto alla Triestina in serie A

Abbiamo visto altra volta il Vicenza sbandarsi e perdersi sotto la decisa offensiva avversaria, disunirsi in meno che non si dica, e faticare per non farsi travolgere. Questa bella squadra di giovani non ha potuto sempre nascondere i suoi punti deboli. Ma poi, sulla spinta improvvisa o fortuita di un’occasione favorevole, tutta la squadra aveva saputo ritrovare se stessa, riorganizzarsi, trasformarsi.

ieri invece non ha trovato la pedana da cui prendere la rincorsa e il campo sandonatese gli è riuscito fatale. A noi è parso tuttavia che l’undici berico sia sceso in campo troppo preoccupato della minaccia imminente, come sotto l’incubo di una congiura tramata un pò da tutte le squadre del girone e della quale il San Donà non era che il mandatario.

In effetti il San Donà aveva invece seriamente da pensare ai casi propri essendogli venuto a mancare all’ultimo momento il bravo Lombardi, considerato qui il deus ex machina dei movimenti solenni. Avvenne così che l’inizio dell’ostilità fu nei due fronti per diverse ragioni circospetto e tremebondo. Il Vicenza riuscì ugualmente ad imporre una chiara superiorità territoriale che obbligò difesa e mediana azzurre ad un lavoro continuo, tempestivo e sbrigativo. Ma della prima linea sandonatese neanche l’ombra. Prendato, soprattutto sul finire del primo tempo, tentò di raccogliere un pò le file del reparto, ma sia che Babetto e Magrini tenessero una posizione prudenzialmente arretrata, sia che Franco non fosse al centro che una crisalide, sia infine che Gavagnin, eternamente bizzoso e insolente, non riuscisse a convincersi che le cose peggiori le combinava proprio lui, Comar rimase del tutto inattivo.

Nell’altra porta l’ottimo Striuli si disimpegno con bravura e fortuna per quanto l’azione dei vicentini, tarpata nelle ali per la disarmante guardia di Pavan e Bergamini a Chiesa e Suppi, si riducesse ad un accademica dimostrazione di non sappiamo quanti schemi d’attacco tutti chiaramente impostati e svolti e tutti pessimamente conclusi. Nel primo tempo vanno sottolineati due interventi in extremis di Striuli su Chiesa (3’) e sul Salvadori (33’).

Al riposo parve ai più che il Vicenza fosse rimasto sino allora alla finestra, tant’è vero che in tribuna i tifosi locali si dimostravano poco o niente tranquilli sull’esito della ripresa.

Invece la ripresa doveva riservare ben diverse emozioni. Gli ospiti partirono di scatto, letteralmente rovesciandosi in area sandonatese. Questo non è lo stile del Vicenza e lo capirono subito coloro che lo conoscono e lo apprezzano. Il Vicenza, che rifugge dalla confusione si gettò a capofitto nella mischia, quasi che la resistenza avversaria lo indispettisse. Nel caravanserraglio in area di rigore molte squadre talora pescano con fortuna; e difatti poco è mancato che anche il Vicenza, improvvisamente trascinato fuori di strada, potesse trovare nel sentiero traverso il suo ferro di cavallo. Fu al 5’: Chiesa, fuggito finalmente a Pavan e spiccando dalla stretta di Bergamini e Silvestri da 3 metri dal portiere sparò a mezz’altezza verso l’angolo destro. In questi frangenti conosci i cronisti dicono: beh vediamo a che minuto dobbiamo segnare questo gol; e manco più guardano come va a finire.

Ma Striuli sfonderò a questa critica svolta la migliore parata che ci sia stato dato di ammirare quest’anno in partite di Divisione Nazionale. Il tiro fu neutralizzato, e il San Donà di lì a poco colse la vittoria. Questi colpi a retrocarica dominano il destino delle partite.

Su una incursione bene impostata da Zambon, Greselin commise un fallo a circa 3 metri dal limite dell’area di rigore (13’). Gavagnin battè la palla che, picchiando sul fianco di un offensore schierato a protezione della rete, pervenne burro e formaggio a Babetto. Due passi, tiro secco e preciso, addio verginità vicentina !

IL SAN DONA’ A FINE GARA: In piedi: Magrini, dirigente X, Babetto, il segretario Fiorentino, Pavan, Alessandro Alfier, Silvestri, Nino Bincoletto, Zambon, Gavagnin, X, Prendato, X. Accosciati: X, Guerrino Striuli, presidente Pietropoli, X, militare Farnia. Distesi a terra: Fantin, Caramel, Franco, Bergamini

Subito il Vicenza non credette all’irrimediabile, ma quando Chiesa (22’) colse lo spigolo interno del montante e il pallone traversò indisturbato, malgrado il mischione, tutta la luce della porta, capi che le cose potevano mettersi veramente te male.

L’undici vincente store è apparso semplicemente superbo nel sestetto difensivo: tanti gladiatori ad oltranza per la vittoria a tutti i costi. La prima linea ha fatto invece molto meno.

Il pubblico, in delirio per l’impresa dei beniamini, è stato il terzo protagonista dell’incontro. Giustamente, quindi, alcuni sostenitori hanno voluto entrare di prepotenza nel gruppo fotografico seguito da fine. Abbiamo visto qualcuno, giunto mentre scattava l’obiettivo, slanciarsi a pezzi nel mezzo, certo per l’orgoglio di dire un giorno: quella volta c’ero anch’io.

Quando si dice le date storiche !

GAZZETTA DI VENEZIA di lunedì 26 febbraio 1940

S.DONA’ DI PIAVE, 26. – Il Vicenza è caduto. Viva il Vicenza. la straordinaria squadra biancorossa ha perduto la sua aureola di imbattibilità sul campo di San Donà, dopo che era riuscita a mantenerla intatta su altri campi non meno difficili. Maggior valore acquista perciò la vittoria dei sandonatesi che possono così vantarsi di essere stati i primi a fermare l’irresistibile marcia dei vicentini. Vittoria meritata senza dubbio quella dei locali, della quale il merito maggiore spetta ai reparti di retroguardia, mediana e difesa, che ieri hanno disputato la loro più bella partita ed hanno saputo imbrigliare e neutralizzare il famoso attacco biancorosso non solo, ma il sestetto sandonatese ha superato in bravura quello vicentino e Striuli ha il merito di aver evitato con la sua prodezza, il pareggio parando un pallone che tutti ormai ritenevano finisse in fondo alla rete. La linea d’attacco invece non è stata all’altezza del compito che ieri le si richiedeva e a nulla valsero gli stimoli del sempre ottimo Prendato per dare mordente e continuità al gioco del quintetto. Più che l’essere il Vicenza incappato in una giornata nera si deve ritenere che la squadra berica abbia giocato con eccessiva preoccupazione di non perdere. Gli ospiti, infatti, apparivano restii a scoprirsi alle spalle e di conseguenza le loro azioni d’attacco non erano validamente sostenute come invece avrebbe necessitato ieri contro la vigilissima guardia sandonatese.

La Rosa del San Donà nella stagione 1939-40 tratta dall’Agendina del calcio Barlassina

Un pubblicone ieri al campo sportivo: 3000 persone e, naturalmente, incasso da primato. Una cornice quindi eccezionale di folla, tra la quale moltissimi erano i vicentini. Il San Donà schiera Franco al centro della prima linea in sostituzione di Lombardi indisposto; il Vicenza sostituisce il terzino squalificato, Foscarini, con De Boni. Il gioco è subito vivace; con la sua migliore abilità di manovra il Vicenza prevale, ma senza rendersi eccessivamente pericoloso per la salda tenuta della mediana e difesa sandonatese a cui però non corrisponde l’azione dell’attacco che, spesso impostata, muore troppo presto, appena si affaccia nell’area degli ospiti. E così nell’alternativa di azioni da un’area all’altra, come si è detto con prevalenza vicentina, trascorre il primo tempo e si giunge al riposo a reti inviolate.

Più decisi appaiono i biancorossi nella ripresa giacche al 5’ Chiesa tira verso la porta un pallone destinato ad insaccarsi, ma Striuli con una parata spettacolosa evita il sicuro punto. Come risposta dello scampato pericolo il San Donà realizza la sua più bella vittoria perché il punto che Babetto segna al 13’ rimane l’unico della giornata: il San Donà ottiene una punizione quasi dal limite dell’area vicentina; tira Gavagnin ed il pallone rimbalza sul « muro » dei giocatori giungendo a Babetto, il quale non esita a metterlo dentro. C’è naturalmente la vivace reazione degli ospiti è dal 22’ Chiesa manda il pallone sullo spigolo del montante. Qualche minuto dopo, forse per cercare di sfondare l’ermetica difesa locale, Salvadori e Suppì si scambiano i posti ma l’esito è ugualmente negativo. Era destino che il Vicenza dovesse perdere la sua imbattibilità a San Donà.

Il campo sportivo di San Donà di Piave in una immagine panoramica del secondo dopoguerra, quando venne intitolato a Verino Zanutto, giocatore del San Donà nella stagione 1939-40.

Per ulteriori approfondimenti: 1. “A.C. San Donà: 90 anni di Calcio Biancoceleste di Giovanni Monforte e Stefano Pasqualato (Geo Edizioni – Empoli, 2012); 2. “Enciclopedia Almanacco Illustrato del calcio italiano 1940” di Leone Boccali (Ed, del “Calcio Illustrato” – Milano, 1939); 3. “Agendina del Calcio – 1939-1940” di Rinaldo Barlassina (Tip. “La Gazzetta dello Sport”, Milano, 1939); 4. Archivio storico “Gazzetta di Venezia”, 26 febbraio 1940

Il nuovo ponte sul fiume Piave, in quel 12 novembre di cento anni fa

Il nuovo ponte sul fiume Piave, in quel 12 novembre di cento anni fa

Il 12 novembre 1922 venne inaugurato il nuovo ponte sul fiume Piave tra San Donà e Musile. Un evento di grande rilevanza e nel dettaglio raccontato dalle pagine de “La Gazzetta di Venezia” di martedì 14 novembre 1922. Lo stesso è stato riportato per intero anche dal libro di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto « Il ponte della vittoria diventa storia 1922-2022 » edito in occasione del centenario dall’inaugurazione e parte di una minuziosa ricerca storica dei collegamenti fluviali in questo tratto del fiume nel corso dei secoli.

Il nuovo ponte di S. Donà di Piave

San Donà di Piave s’è svegliata domenica mattina per tempo, per fare una grande toilette di festa. Non sono frequenti le feste in questa ricca e vigorosa città di agricoltori gagliardi. Non son frequenti le feste, quantunque, da quattro anni in qua, questo cospicuo centro di bonifiche e di lavoro sia la meta venerata non di poetici pellegrinaggi commemorativi, ma di convegni e adunate fecondi, per l’economia nazionale di ricostruttori, di agricoltori, di bonificatori.

Ma era pur necessario che un giorno fosse conclamata e celebrata con particolare solennità la gloria di questa piccola città distrutta completamente dalla guerra, avvilita dall’invasione, e risorta più grande, più bella, più nobile che mai, per la silenziosa e tenace operosità dei suoi cittadini più atti all’azione che alle chiacchere, più alla ricostruzione effettiva sollecita e miracolosa della loro città che allo studio dei sistemi, per arrivarvi…

Il Vecchio ponte in una immagine dei primi del Novecento

Nella città imbandierata in ogni casa e ad ogni finestra, arrivano per prime le squadre nazionaliste e fasciste parte col primo treno del mattino, parte con un convoglio di automobili. Le squadre, nelle loro caratteristiche divise nere ed azzurre, che occupano gran parte, insieme ai loro numerosissimi gagliardetti. E poi arrivano i soldati, i fanti grigio-verdi del 71° fanteria, una compagnia, al comando del capitano Corner, con la musica del reggimento. Vi sono poi alcuni plotoni di guardie regie, e i carabinieri, magnifici come sempre, nell’imponenza della loro uniforme 1830.

Ma San Donà che ha visto sfilare nelle sue strade tutti i più autorevoli rappresentanti della metropoli lagunare, deve aver compreso che alla cerimonia di inaugurazione del nuovo ponte, cui essi venivano a presenziare, Venezia tutta aveva voluto dare un significato specialissimo: la riconoscenza della antica Dominante che a San Donà e sul suo fiume era stata salvata dall’onta di una terza invasione straniera, l’omaggio alla città operosa e fedele che, con il sacrificio rovinoso, di tutta sé stessa, aveva preservata l’antica madre dalla rovina e forse dalla distruzione.

L’arrivo del Duca d’Aosta
Il ponte distrutto durante la guerra

Il Duca d’Aosta, ricevuto dal presidente del Consiglio provinciale comm. Picchini, dal presidente della Deputazione comm. Saccardo, da S.E. il sottosegretario ai Lavri pubblici on. Sardi, e da S.E. il generale Sani comandante il corpo d’armata di Bologna, che rappresentava anche il Ministero della Guerra, era giunto a Mestre verso le 8, ed aveva poi subito in automobile proseguito per San Donà. Quando vi giunse, al saluto della popolazione si aggiunse quello delle squadre fasciste.

Il Principe di recò subito al Teatro Moderno, dove gli venne offerto un vermouth d’onore, S.A.R. si compiacque di tener quivi circolo. Gli furono presentate successivamente tutte le autorità sandonatesi con a capo il sindaco cav. Guarinoni, e quelle veneziane. Poi sfilata dei gloriosi mutilati dei combattenti della grande guerra, dei gregari della III Armata, dei devorati al valore. Per tutti il Principe ha una parola di lode, di compiacimento, di simpatia.

La cerimonia inaugurale

Poco prima delle 10, annunciato dalle agili note della fanfara reale e dai tre attenti di rigore, il Principe della Terza Armata esce dal Teatro Moderno.

Il console della Legione di San Marco, avv. Iginio Magrini, presenta al Duca le squadre fasciste. Ed esse sfilano in perfetto ordine, mentre la musica del 71° fanteria suona l’Inno del Piave.

Il palco delle autorità (da “San Donà di Piave” di C. Polita, 2016)

Nel silenzio profondo della folla, che si accalca numerosissima e reverente, sotto il sole chiaro e freddo, le note nostalgiche risuonano altissime, con effetto indimenticabile e di commozione.

Le squadre nazionaliste e fasciste, ad un comando, si mettono in marcia. Esse, sventolando al vento i loro gagliardetti neri, azzurri e tricolori, formano la testa del corteo, che si avvia al Ponte nuovo. Poi, a piedi attorniato e seguito dalle autorità e dagli ufficiali della sua Casa, preceduto da un drappello di RR. Carabinieri, di Regie guardie e di valletti della Provincia di Venezia in tenuta di gala, si avvia il Duca d’Aosta. Sul suo passaggio crepitano gli applausi della popolazione, mentre dalle finestre mani gentili gettano fiori sul passi del Duce invitto della III Armata.

Sulla riva del Piave l’imponente architettura ferrea del nuovo ponte appare inghirlandata di lauri, di ori e di nastri dai colori nazionali e della Provincia di Venezia. L’accesso al ponte è chiuso dal simbolico nastro tricolore.

Alla destra del ponte è eretta un’ampia ed elegante tribuna. L’Eminentissimo Pietro La Fontaine, Cardinale Patriarca di Venezia, vi attende il Duca. Fra il Principe del sangue e il Principe della Chiesa l’incontro è cordialissimo. Il Duca rimane in piedi nel mezzo della tribuna, mentre intorno gli si affollato le autorità. Davanti alla tribuna sono schierati i fanti del 71°, i fascisti ed i nazionalisti coi loro gagliardetti.

La benedizione
La copertina della Domenica del Corriere dedicata alla cerimonia di inaugurazione del Ponte (26 novembre 1922)

Il Cardinale Patriarca tra il religioso silenzio dell’imponente adunata incomincia a parlare. Dice che al pensiero di dover benedire il ponte rinnovellato si riaccese in lui in memoria del celebre sogno di Mardocheo il quale in un giorno di pericolo per la sua nazione vide torbido e minaccioso il cielo, e intese scuotersi la terra, mentre due dragoni venivano a combattimento. Allora varie altre nazioni congiuravano alla rovina di una nazione innocua, tanto che per quella nazione sorse un giorno di tribolazione e di pericolo e di timore, ma levando questa nazione le grida al Signore fu esaudita e un picciol fonte crebbe in forma regale e un picciol lume addivenne sole e l’umile nazione insidiata fu esaltata e i forti che volevano sterminarla furono umiliati.

Il Patriarca continua dicendo che quando l’Austria mosse guerra alla Serbia il cielo d’Europa fu turbato e la terra fu veramente scossa non sapendo dove di sarebbe andati a parare. Nei due dragoni vede la Germania e la Francia che vengono a combattimento e sente le voci delle due parti che ciascuna vuol trarre a sé le due parti che ciascuna vuol trarre a sé l’Italia minacciandole chissà quale triste condizione, qualora rifiutandosi all’una o all’altra parte, questa riuscisse vincitrice.

Gli uomini che governavano allora giudicarono che l’Italia entrasse in guerra, come è noto. Allora varie nazioni si strinsero insieme dicendo di voler infliggere grave sconfitta a questa Italia e venne inopinatamente il momento di quella dolorosa sciagura a cagione della quale l’antico ponte sul Piave fu fatto saltare.

Il cardinale La Fontaine durante il suo lungo discorso in una immagine apparsa sulla copertina de “L’illustrazione Italiana” (19 novembre 1922)

L’oratore soggiunge che quello fu veramente giorno di tribolazione, di affanno e di pericolo. Che da tutte le parti si levarono le grida al Signore e che a Venezia autorità e popolo davanti alla Nicopeia in San Marco chiedevano coraggio e salvezza. Le preci furono esaudite e il piccolo Piave addivenne fiume regale che gareggiò col Po, dove tanti volevano la linea di difesa non per la massa delle acque, ma per l’opportunità che dette al coraggio dei soldati della difesa.

E un piccolo lume, cioè il nucleo dei torti che ripresero ardire, crebbe in grande mole, quando aggiungendosi ad esso innumerevoli valorosi, sotto la guida del Sovrano, del generale in capo e degli altri Duci, si oppose al nemico con tale resistenza che culminò nel fatto di Vittorio Veneto: e gli umili furono esaltati e quelli che si reputavano potenti furono debellati. Il ponte rinnovellato che oggi s’inaugura colla benedizione di Dio, dice quanto sia grande questa esaltazione.

Qui il Patriarca si volge a S.A. il Duca d’Aosta, dicendo:

« Permettete Altezza, che io qui pubblicamente vi esprima la mia ammirazione e la mia gratitudine perché voi, l’intelletto d’amore più che comandante foste padre dei vostri soldati; con l’affetto per voi, sapeste avvivare l’amor della patria e il coraggio per cui i soldati vi seguivano lieti al cimento, come ad opera meritoria. Vi ringrazio non in nome dell’Italia, chè qui io non rappresento l’Italia, ma in nome del martoriato Veneto nostro del quale fui costituito primo pastore. Che Dio vi rimeriti e benedica, come benedica i cari che lasciarono la vita su queste sponde per la salvezza e la grandezza della patria ».

Il felice e commosso accento dell’Eminente Pastore è salutato da una calorosa irrefrenabile acclamazione. Il Patriarca indossa quindi i sacri paramenti e, con mitria e pastorale, si avvia a compiere il rito della benedizione del ponte, assistito dal Vescovo della Diocesi mons. Longhin, di Treviso. Mentre il rito si compie, un coro di fanciulli canta soavemente la Canzone del Piave.

I discorsi
Il Duca d’Aosta Emanuele Filiberto, con dietro il cardinale La Fontaine, sulla destra la signora Corinna Ancillotto (da “San Donà di Piave” di C. Polita, 2016)

Il comm.Saccardo presidente della Deputazione provinciale, dà inizio alla serie dei discordi. Dopo aver reso omaggio alla Maestà del Re, presente in ispirito, e qui fulgidamente rappresentato dalla Altezza Reale del Duca d’Aosta, e aver ricordato che fu la concordia dei cuori che, sulle sponde di questo sacro fume eresse un muro infrangibile di petti umani, l’oratore scioglie un inno al valore dei nostri eroi, che resistettero sul Piave.

Del nuovo ponte il comm. Saccardo fa quindi una breve storia: ricorda i nomi dell’on. Giovanni Chiggiato, che l’iniziò, del Gr. Uff. Carlo Allegri che lo proseguì, dell’’ing. Ippolito Radaelli che tracciò il programma e ne diresse l’esecuzione, coadiuvato dall’ing. Rossi, dal segretario generale cav. uff. Settimio Magrini e dal rag. Giorgiutti che espletarono le pratiche amministrative, l’ing. Raimondo Ravà, che vi concorse colla sua duplice qualità di presidente del Magistrato alle Acque e di presidente della Commissione per le riparazioni dei danni di guerra ecc.

E l’oratore così conclude:

« Sia nell’invocazione dei nostri morti l’auspicio di ogni nostra impresa. E su questo ponte che nuovamente cavalca le acque del fiume sacro, ponte benedetto in nome di Dio, dalla mano veneranda del Cardinale Patriarca di Venezia, non un semplice corteo di autorità ufficiali, non soltanto un’onda di popolo entusiasta, ma qualche cosa di ben più alto s’avanzi. Voi Donna Corinna Ancilotto, madre di una medaglia d’oro, esempio di fulgente eroismo, vogliate voi infrangere sulle spalle del ponte la tradizionale bottiglia, augurio festoso di lunga resistenza.

E Voi, Altezza Reale, rappresentante del Re e mirabile soldato d’Italia, Voi, generale della III Armata che fra l’immensa gratitudine delle anime nostre, avete voluto accogliere il nostro invito e partecipare a questa festa, di cui siete il genio tutelare, degnatevi gradire la mia preghiera e incedere primo sulla nuova via così intimamente legata al culto delle memorie patrie. Sentiranno i nostri cuori che nella Vostra persona, è veramente l’Italia che passa! ».

L’oratore è vivamente applaudito.

Prende poi la parola il sindaco di San Donà cav. Guarinoni, che pronuncia un breve, commosso ed efficacissimo discorso. S.E. l’on. Sardi, poi, con voce squillante porta il saluto del nuovo governo di Vittorio Veneto, che intende valorizzare veramente la vittoria strappata al nemico sulle rive di questo fiume sacro al quale, come a tutte le terre venete, guarda l’Italia tutta con sentimento di viva riconoscenza e di profondo affetto. Da ultimo parla brevemente il sindaco di Cavazuccherina.

Il battesimo
Le autorità attraversano il ponte durante la cerimonia di inaugurazione (da “San Donà di Piave” di C. Polita, 2016)

I discorsi sono finiti. Il Duca s’avvia alla testata del ponte, dove, sopra un tavolo, è spiegata la pergamena che costituisce l’atto di nascita del ponte. L’atto è così concepito:

« Da Sua Altezza Reale il Principe Emanuele di Savoia Duca d’Aosta, in rappresentanza di S.M. il Re d’Italia, viene oggi 12 novembre 1922 inaugurato il nuovo ponte sul Piave tra Musile e San Donà, benedetto da S.E. il Patriarca di Venezia Cardinale Pietro La Fontaine, costruito in sostituzione di quello distrutto per fatto bellico il 10 novembre 1917.

« Nel fervore delle opere che tendono al risollevamento delle terre, teatro della grande guerra redentrice, concordemente, tenacemente nel peripiglio e nella gloria cooperanti con fede entusiastica alla riaffermazione dei sacri diritti nazionali ed alla reintegrazione dei confini naturali nostri nell’ora in cui mirabili energie con slancio mirabile preparano prosperosi giorni alla patria, le autorità civili, militari, ecclesiastiche convengono tutte alla cerimonia inaugurale dell’opera che si dedica all’Augusto Principe Emanuele Filiberto e che sorge ora più grande a testimoniare l’operosità e la tenacia di propositi del popolo italiano, un quinquennio appena dopo la sua demolizione ».

Il Duca, il Patriarca e le altre autorità appongono la loro firma. Quindi il Segretario generale della Provincia avv. Settimio Magrini offre S.A.R. una copia, riccamente rilegata, di un opuscolo compilato dallo stesso Magrini, nel quale è narrata diffusamente la storia del Ponte di San Donà e illustrato con belle fotografie. Il Principe gradisce molto il dono, e mostra di ricordare perfettamente le circostanze della demolizione del ponte e della sua provvisoria ricostruzione, dopo la vittoria, da parte dei pontieri della III Armata.

Intanto la signora Corinna Ancillotto, madre dell’eroico aviatore medaglia d’oro s’appresta a battezzare il ponte con la rituale bottiglia di sciampagna. La bottiglia, legata ad un nastro azzurro e oro, i colori della Provincia di Venezia, si rompe felicemente sopra uno dei grandi pilastri di ferro. Allora, mentre la musica intona la Marcia Reale e le truppe presentano le armi, il Duca scioglie il nastro tricolore che gli sbarra l’accesso del ponte, e passa per primo. La bella cerimonia è compiuta. Il Duca arriva all’altra sponda, salutanto da entusiastica evviva, e dagli alalà dei fascisti che si schierano sulla passarella laterale del ponte.

Il banchetto

Il Duca, in automobile si reca quindi all’Orfanotrofio, dove verrà più tardi servito il banchetto offerto dalla Provincia. Intanto il generale Sani, nella Piazza del Municipio, passa in rivista i fascisti e i nazionalisti che gli vengono presentati dall’avv. Iginio Magrini.

La pergamena che ricorda la visita del Duca d’Aosta Emanuele Filiberto di Savoia all’Orfanotrofio in occasione dell’inaugurazione del Ponte (da “Cent’anni di carità di M. Franzoi, 2021)

Il Duca d’Aosta, dopo aver visitato minutamente l’Orfanotrofio ed essersi molto interessato alla bella e benefica istituzione, scese nel salone, dove le mense erano imbandite alle 12.45. Il Principe, che portava tutte le decorazioni, sedette al centro della tavola d’onore, tra la signora Imma d’Adamo, consorte del Prefetto di Venezia, a destra, e la signora Corinna Ancillotto, a sinistra. Sedevano poi ancora alla tavola d’onore; alla destra del Principe il comm. Saccardo, il generale Sani, il comm. Picchini, il senatore Diena e il Sindaco di Venezia prof. Giordano; alla sinistra il sottosegretario di Stato on. Sardi, il Prefetto d’Adamo, il cav. di Gr. Cr. Raimondo Ravà, presidente del Magistrato delle Acque, l’ammiraglio Mortola, il comm. Mandruzzato che rappresentava il Primo presidente della Corte d’Appello, l’on. Chiggiato, il comm. Plinio Donatelli vice presidente del Consiglio provinciale. V’erano poi, alle varie tavole, tutte le altre autorità, notabilità e rappresentanze.

Alle ore 2 la colazione ebbe termine, e il Duca, che aveva voluto che gli fossero presentate le due graziose figliuole del Segretario generale della Provincia, lasciò la sala, salutato da un caldo applauso. Egli si recò subito a visitare il magnifico ospitale civile di San Donà, risorto per la tenacia del comm. Trentin. Fu ricevuto dallo stesso comm. Trentin che gli fu da guida nella visita minuziosa che egli fece al bellissimo stabilimento, che mostrò di apprezzare altamente. La popolazione, saputo che il Principe si trovava all’ospedale, gli improvvisò una calda manifestazione.

Il Principe volle quindi recarsi a Zenson, a visitare quel cimitero e quella terra sulla quale rifulse – nella famosa ansa – il valore della III Armata.

Ripartì alle ore 16 con la ferrovia, diretto a Torino, fatto segno ad una entusiastica dimostrazione da parte di tutto popolo di San Donà, che si accalcava presso il vagone-salone per salutare ancora una volta il Principe della III Armata. Il generale Sani e il sottosegretario on. Sardi sono partiti a loro volta, con lo stesso treno, diretti a Venezia.

Per ulteriori approfondimenti: 1. “Il ponte della vittoria diventa storia: 1922-2022 – passi barca, ponti e vie d’acqua a Musile e dintorni (di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto – Tipolitografia Biennegrafica – Musile di Piave – 2022); 2. “San Donà di Piave – Piccola guida di una città senza storia?” di Chiara Polita – Digipress, San Donà di Piave, 2016); 3. “Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave” (Digipress, San Donà di Piave, 2021); 4. “S. Donà di PIave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Mons. Costante Chimenton, Tipografia Editrice Trevigiana, 1928); 5. Archivio storico “Gazzetta di Venezia”, 14 novembre 1922

Guido Guarinoni, Sindaco di San Donà di Piave

Ing. Guido Guarinoni (fotografia Giacomelli, Venezia)

La guerra che tutto travolse ridusse San Donà in un cumulo di macerie, non vi era edificio che si fosse salvato. Se non erano state le bombe a combinar sconquassi, ci pensò l’uomo nel depredare quanto all’abbisogna. Gli abitanti che non avevano potuto o non avevano voluto abbandonare il territorio per lo più avevano trovato riparo nelle campagne sfidando i soprusi degli occupanti e la fame di chi ogni giorno si trovava a dover fare i conti con gli eserciti in lotta. Chi non aveva resistito si era allontanato verso i paesi del portogruarese sperando in un futuro ritorno. Dopo un anno di guerra rimase nell’aria solo l’odore acre della polvere di quegli edifici diroccati, di quel centro cittadino disseminato di tante voragini causate dalle bombe che copiose erano cadute in cerca di un nemico e che ora doveva trovare nei superstiti la forza per far risorgere il paese.

In una veduta aerea del 1918 il centro cittadino distrutto, in alto il Duomo, sulla sinistra il Palazzo Comunale (fotografia originale)
Le difficoltà del lento ritorno
La San Donà del dopoguerra tra le macerie si cucinava per sfamare la popolazione. Probabile che il borghese possa essere Guido Guarinoni (fotografia originale)

In ogni dove a San Donà sorsero baracche per offrire riparo a quanti erano rimasti e a quelli che un po’ alla volta avevano deciso di tornare. Quel che gli occhi trovavano dava un peso enorme al cuore, mai avrebbero pensato di ritrovarsi in una simile situazione di disperazione. Come non bastasse la guerra era finita da poco quando nei primi giorni di gennaio del 1919 la Piave tornò a far pesare la propria incombente presenza. Gli argini ancora danneggiati dai bombardamenti e dai trinceramenti degli eserciti in lotta non erano stati ancora riparati. Facile fu per le ribelli acque del grande fiume trovare un varco ed allagare le campagne riducendole in acquitrini paludosi. Se durante la guerra questo aveva fatto gioco per bloccare l’offensiva austroungarica, ora metteva in pericolo la ricostruzione. In ambito governativo si arrivò persino ad ordinare l’evacuazione, provvedimento poi ritirato per la ferma protesta del sindaco Giuseppe Bortolotto e della popolazione stessa. Proprio il Sindaco era tornato da poco da quella Firenze che aveva offerto rifugio alla macchina amministrativa sandonatese e che ora a fatica cercava di coordinare il ritorno della popolazione e di dare un ordine alla ricostruzione. Lo stesso Sindaco più volte era entrato in contrasto con le autorità governative tanto da dare le dimissioni, ma dopo un periodo di commissariamento venne richiamato per poi rimanere in carica sino alle elezioni dell’autunno del 1920.

Piazza Indipendenza nell’immediato dopo guerra in una cartolina dell’epoca (fotografia Italvando Battistella)
L’Italia che ritorna al voto
Una giovane (Teresina Guarinoni?) nel giardino Bressanin anno 1919 (foto originale)

Le elezioni sia a livello nazionale che a livello locale durante la guerra erano rimaste congelate. La situazione generale era in rapido mutamento e le cicatrici dei lunghi anni di conflitto ebbero presto un loro peso. A questo si aggiunsero gli effetti della rivoluzione russa, con le idee del socialismo che stavano rapidamente varcando i confini. L’Italia ne venne attraversata e questo ebbe subito un riverbero nelle elezioni amministrative del 1920 tanto che in molte zone questo cementò un’alleanza tra il nascente partito fascista e molte componenti centriste, dando vita al Blocco Nazionale in contrapposizione proprio ai socialisti. In talune zone a frapporsi tra i due schieramenti si inserì il Partito Popolare, e proprio a San Donà di Piave a sorpresa le elezioni amministrative videro prevalere proprio quest’ultimo.

Racconta la Gazzetta di Venezia del 6 novembre 1920:  « Ieri, 5., fu convocato per la prima volta il nuovo consiglio comunale. Il Commissario prefettizio cav. Bortolotto riferì a lungo sull’amministrazione straordinaria del passato difficile periodo e fece gli auguri che la nuova Amministrazione possa bene affrontare i gravi problemi che s’impongono per la resurrezione del disgraziato paese.

Passato alle nomine riuscì eletto Sindaco l’ingegnere Guarinoni ed assessori i signori Bastianetto, Battistella, Roma, Zorzetto. Il pubblico numeroso che assisteva alla seduta accolse con segni di disapprovazione l’esito della votazione. I nomi dei nuovi amministratori scelti fra la maggioranza eletta dal Partito popolare danno poco affidamento poiché il momento critico che attraversa il nostro Comune richiedeva persone colte e pratiche della vita amministrativa. ».  Il malcelato critico commento del giornale era frutto della spinta che lo stesso aveva dato affinchè si formasse un blocco unico con il partito fascista mentre San Donà aveva deciso altrimenti.

Guido Guarinoni, Sindaco di San Donà
Ritratto di famiglia presso il giardino Bressanin nel 1919, anche in questo caso il signore più anziano potrebbe essere Guido Guarinoni (foto originale)

Guido Guarinoni, il protagonista della nostra storia, divenne Sindaco di San Donà nel novembre 1920. Durante la guerra aveva trovato riparo a Venezia, città nella quale ancora risiedeva come si desume dall’atto di matrimonio della figlia che lì si sposò nel 1922 con l’industriale originario di Firenze Gino Baldi. Nonostante i timori alla sua elezione l’opera dell’amministrazione Guarinoni fu fondamentale nella ricostruzione di San Donà. Lo stesso Monsignor Chimenton dà merito all’amministrazione Guarinoni per quanto fatto negli anni del suo mandato. Essendo il libro di Monsignor Chimenton del 1928, questo non era affatto scontato anche se rimarcava come l’amministrazione di quel periodo agì in modo profittevole grazie alla collaborazione dell’opposizione. Nello specifico si riferiva a quel partito fascista che poi gli succedette, ruolo in seguito divenuto non più contendibile dopo la creazione del Podestà con cariche non più elettive. Il fatto che il Sindaco risiedesse a Venezia non costituì un impedimento dato che sin da subito gli si affiancò Marco Bastianetto quale consigliere anziano, con cui Guarinoni era stato consigliere comunale prima della guerra e, cosa non secondaria, era tra i fondatori del Partito Popolare sandonatese assieme ad Alberto Battistella, Giuseppe Boem, Pietro Perin, Enrico Picchetti e Giuseppe Zucotto.

L’amministrazione Guarinoni

Ad affiancare il Sindaco Guido Guarinoni ci furono, oltre a Marco Bastianetto, i Sig.ri Umberto Roma, Giuseppe Zorzetto, Giuseppe Boem e Alberto Battistella. L’amministrazione Guarinoni nei tre anni che rimase in carica diede attuazione al piano regolatore approvato nei mesi precedenti alle elezioni, iniziò e completò la ricostruzione del Municipio; su progetto dell’architetto Giuseppe Torres fu ultimato il campanile nel 1922 con le campane che ritornarono a risuonare il venerdì Santo dell’anno seguente e fu quasi completato il duomo poi consacrato nel 1925; si allacciò all’acquedotto la gran parte del centro cittadino; e come ricorda Monsignor Chimenton:  « …si eseguì la pavimentazione interna del paese ; si iniziò e quasi si ultimò il nuovo cimitero ; si deliberò l’alberazione di alcune strade ; si provvide per ottenere la concessione del terreno , richiesto per la sistemazione delle baracche; si proseguì e si ripristinò la viabilità pubblica ; si sistemarono gli edifici scolastici, e si iniziarono le pratiche per averne di nuovi ; si provvide in parte all’illuminazione pubblica ; si approvò l’istruzione religiosa nelle scuole. ».

Il Nuovo Ospedale
L’Inaugurazione dell’Ospedale “Umberto I” (foto Battistella)

Furono tanti gli importanti eventi e le inaugurazioni che si susseguirono negli anni dell’amministrazione Guarinoni. L’11 dicembre 1921 alla presenza del Ministro Raineri e del Vescovo di Treviso Monsignor Andrea Giacinto Longhin venne inaugurato il nuovo ospedale “Umberto I”, ricostruito in viale Regina Margherita dopo le grandi distruzioni della guerra. Grande fu l’impegno del Presidente comm. Antonio Trentin e del vicepresidente cav. dott. Vincenzo Janna per riuscire a dare al direttore dell’ospedale Alessandro Girardi e al suo assistente dott. Carlo Cristani una struttura adeguata alle esigenze di un comprensorio sandonatese destinato ad un grande sviluppo. Per reperire i fondi utili alla costruzione dell’ospedale era stata indetta anche una lotteria nazionale con l’estrazione del primo premio nel marzo 1920.

Cerimonia di inaugurazione dell’ospedale, da destra: comm. Chiggiato, comm. ing, Umberto Fantucci, comm. Antonio Trentin, S.E. il ministro Raineri, il sindaco ing. Guido Guarinoni, mons. Luigi Saretta, S.E. Monsignor Andrea Giacinto Longhin, prefetto di Venezia comm. D’Adamo (foto Giacomelli, Venezia)
Il Congresso delle Bonifiche

Dal 23 al 25 marzo 1922 si tenne a San Donà di Piave il Congresso Nazionale delle Bonifiche che diede grande lustro alla città richiamando molti esponenti della politica nazionale a cominciare da quelli governativi, per non tralasciare don Luigi Sturzo e il parlamentare sandonatese Silvio Trentin, oltre a tanti tecnici che stavano portando avanti una grande opera di bonifica in tante zone d’Italia. Nei nostri territori attraversati dalla guerra molte di quelle opere vennero ancor più implementate per riparare alle molte distruzioni causate dagli eserciti in lotta. Fu grande il risalto dato all’evento nella stampa nazionale e locale, in particolare La Gazzetta di Venezia dedicò ampie paginate ai temi in discussione e ai tanti interventi dei partecipanti alla tre giorni congressuale.

Questo l’intervento di saluto del Sindaco Guido Guarinoni come riportato da La Gazzetta di Venezia di quei giorni: « Egli ricorda che quando, sul novembre 1918, orgogliosi della grande vittoria, i cittadini di San Donà tornarono dall’esilio, e videro lo squallore di queste terre di messi opime e d’invidiata prosperità, pareva un sogno la speranza che in breve tempo sarebbero risorte, per incamminarsi a più promettente avvenire. Pure, per la fermezza di propositi e l’intensità del lavoro della popolazione, la vita riprende il suo corso normale.

Il nome di San Donà, orgogliosa di essere stata scelta a sede di questo Congresso è grato all’Istituto Federale di Credito per il risorgimento delle Venezie ed alla Federazione dei Consorzi, e con essi agli illustri Presidenti comm. Ravà e comm. Mazzotto, l’oratore dà il saluto, in nome del Comune, al ministro Bertini, ai sottosegretari Beneduce, Martini e Merlin, alle Autorità e ai Congressisti.

Augura che il Congresso sia buon augurio per l’avvenire di S. Donà che un secolo fa non era che un villaggio di poche case, specie in una zona palustre di oltre 40 mila ettari, e che oggi, mercè la fiorente attività dei Consorzi di bonifica è un importantissimo centro di vasti territori, la cui prosperità economica va sempre crescendo, e si avvia a tempi radiosi di prosperità, di benessere e di progresso. (applausi vivissimi) »

L’inaugurazione del Nuovo Ponte
L’inaugurazione del Ponte, il palco delle autorità. Sulla sinistra Monsignor Longhin con Mons, Saretta; al centro il patriarca di Venezia il Cardinale La Fontaine, alle sue spalle il Duca d’Aosta e alla sua sinistra il sottosegretario Sardi; sulla destra Corinna Ancillotto con a fianco il sindaco Guido Guarinoni (Illustrazione Italiana, nov 1922)

Il 12 novembre 1922 ebbe luogo anche l’inaugurazione del nuovo ponte sul Piave. Distrutto dall’esercito italiano nel novembre 1917 per fermare l’avanzata austroungarica, subito dopo la guerra ne venne costruito uno provvisorio in legno. Poi fu la volta di quello definitivo con caratteristiche molto simili a quello che tuttora percorriamo e che successivamente fu parzialmente ricostruito anche dopo la seconda guerra mondiale. In quel novembre 1922 il ponte venne inaugurato al cospetto delle massime autorità con la presenza di Sua Altezza il Duca Emanuele Filiberto d’Aosta, del Patriarca di Venezia il Cardinale Pietro La Fontaine, del Vescovo di Treviso Monsignor Andrea Giacinto Longhin, del sottosegretario ai Lavori Pubblici Alessandro Sardi e di tutte le massime autorità cittadine a cominciare dal Sindaco Guido Guarinoni. Grande fu la festa con una San Donà gremitissima che acclamò gli oratori che si succedettero sul palco. Dopo la benedizione del Patriarca di Venezia vi fu la firma ufficiale del Duca d’Aosta sulla pergamena che sancì il battesimo del ponte, quindi la classica rottura della bottiglia da parte della contessa Corinna Ancillotto, madre dell’aviatore sandonatese Giannino Ancillotto, medaglia d’oro al valor militare. Vi è poi una curiosità attinente alla famiglia Guarinoni ed inerente al ponte: tra gli ingegneri che seguirono la costruzione del ponte ci fu anche Ippolito Radaelli, cognato del Sindaco Guido Guarinoni. Sposato inizialmente con la sorella Alda Maria, rimase vedovo ed in seconde nozze sposò Crico Clorinda a sua volta imparentata con Guido Guarinoni avendone sposato il fratello Amedeo, anche lei rimasta prematuramente vedova.

L’inaugurazione del Municipio
Il Presidente del Consiglio Benito Mussolini 1l 3 giugno 1923 sul terrazzo del Municipio di San Donà di Piave (fotografia Ferruzzi)

Ma un evento ancor più solenne avvenne il 3 giugno 1923 quando venne inaugurato il Municipio di San Donà di Piave progettato dall’architetto Camillo Pugliesi Allegra, lo stesso che poi progetterà il Palazzo dei Consorzi della Bonifica che completerà i grandi palazzi che contornano ancor oggi Piazza Indipendenza. A tenere a battesimo il Palazzo istituzionale della città fu addirittura il presidente del consiglio Benito Mussolini. In carica dall’ottobre 1922 e impegnato in un grande giro istituzionale in Veneto Mussolini fece tappa anche a San Donà di Piave. Imponente la cornice di folla che accolse il presidente del Consiglio per un evento che ancor oggi è ricordato con una targa all’interno del Municipio nella quale è citata una frase detta da Mussolini in quella occasione: “ Qui una volta giunse il nemico, gli italiani giurano che non succederà mai più “. Un’enfasi che non venne poi troppo confermata dai fatti , ma eravamo solo all’alba del ventennio che segnerà l’Italia negli anni successivi.

La targa posta all’interno del Municipio con la citazione di Mussolini in una cartolina dell’epoca (foto A. Batacchi)
Le elezioni amministrative dell’agosto 1923

Dopo tre anni di amministrazione Guarinoni a metà agosto del 1923 si tennero le ultime elezioni amministrative prima che il regime fascista istituisse la figura del Podestà di nomina governativa. Differentemente dalle precedenti questa volta il partito fascista prevalse. Sabato 18 agosto 1923 si insediò il nuovo consiglio che nominò Costante Bortolotto Sindaco di San Donà di Piave. Tra gli eletti figurava anche l’ex Sindaco Guido Guarinoni.

Questo l’articolo della Gazzetta di Venezia che racconta quella giornata:  « Il Commissario prefettizio ha oggi insediato il nuovo Consiglio comunale. Dopo la lettura della relazione che fu applauditissima, venne nominato sindaco il sig. cav. Dott. Costante Bortolotto. Furono nominati assessori effettivi i sigg. Janna cav. Dott. Vincenzo, De Faveri dott. Cav. Giuseppe, Bastianetto Marco e Guarinoni ing. Guido. Assessori supplenti i sigg. Velluti ing. Francesco e Davanzo Giuseppe. Furono spediti i seguenti telegrammi:  “ S. E. Benito Mussolini, Roma – Nuova amministrazione San Donà di Piave risorta dalla guerra prima volta riunita oggi sede municipale da Vostra Eccellenza inaugurata manda reverente saluto e ossequio Capo Governo auspicando che programma restaurazione nazionale abbia completo sicuro svolgimento. “.  ” Generale Cittadini, Primo Aiutante Campo Sua Maestà Re d’Italia, Roma. Nuova amministrazione comunale San Donà di Piave riunitasi prima volta rivolge ossequiente pensiero a Sua Maestà il Re di Italia milite in guerra probo cittadino in pace primo fra tutti nelle nobili proficue e sane iniziative nazionali. “.  Oggi (19) continuazione della Pesca, musica in Piazza, rappresentazione straordinaria del Circo Caveagna e un attraente spettacolo pirotecnico. Si prevede gran numero di gente. La tradizionale fiera di S. Rocco è stata superiore ad ogni aspettativa ». 

Costante Bortolotto, Sindaco nel 1923 e Podestà nel 1927
Comm. Costante Bortolotto, primo Podestà di San Donà di Piave (Fotografia Batacchi)

L’amministrazione Bortolotto si mosse in continuità con quella precedente in un quadro che vedeva oramai il partito fascista sempre più dominante nella politica cittadina. Mentre a livello nazionale la tensione crebbe con la legge Acerbo che condizionò le elezioni politiche dell’aprile 1924 cui seguì il delitto Matteotti, anticamera all’instaurazione della dittatura.  Costante Bortolotto rimase in carica due anni, poi il 9 marzo 1925 con la sua nomina a fiduciario del P.N.F di tutto il Basso Piave passò il testimone al dott. Giuseppe De Faveri in continuazione con lo stesso Consiglio Comunale in precedenza eletto. Il Consiglio rimase in carica ancora per poco più di un anno per poi venire sciolto il 18 luglio 1926. Dopo un periodo di commissariamento prefettizio del cav. rag. Arturo Sears, il 9 aprile 1927 venne nominato il primo Podestà di San Donà di Piave che vide il ritorno di Costante Bortolotto alla prima carica cittadina. Quanto a Guido Guarinoni con lo scioglimento del Consiglio finì la sua avventura politica sandonatese, ma è indubbio che ancor oggi a cento anni di distanza molto di quanto ricostruito durante la sua amministrazione dopo quel terribile conflitto mondiale è ancor oggi visibile in città. Guido Guarinoni e la sua famiglia mantennero la residenza a Venezia dove tra l’altro sia lui che la moglie Maria Velluti entrarono a far parte dell’Ordine Equestre del Sacro Sepolcro di Gerusalemme. Entrambi sono stati tumulati nel cimitero di San Donà di Piave presso la tomba di famiglia che accoglie anche gli antenati dei Guarinoni oltre alla figlia Teresina morta nel 1973 e il marito Gino Baldi morto venti anni dopo.

A destra la tomba della famiglia Guarinoni, a sinistra quella della famiglia Bastianetto. Sia Guido Guarinoni che Marco Bastianetto sono stati protagonisti della ricostruzione di San Donà di Piave dopo la grande guerra. Nel secondo dopoguerra lo sarà anche Celeste Bastianetto, figlio di Marco, primo sindaco eletto dopo la Liberazione anch’egli lì tumulato nella tomba di famiglia

Racconto diviso in due parti: 1. Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo – 2. Guido Guarinoni Sindaco di San Donà di Piave

Per approfondimenti: 1. « S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella » di Mons. Costante Chimenton (Tipografia Editrice Trevigiana, Treviso – 1928); 2. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Centro Stampa, Oderzo – 1995); 3. « L’esercito per la rinascita delle Terre Liberate, il ripristino delle arginature dei fiumi del Veneto dalla Piave al Tagliamento » di Comando Supremo del Regio Esercito (Stab. Tipolitografico Militare, Bologna – 1919); 4. « L’ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Dino Casagrande, Franco Ambrosi, Federico Teker, Rita Finotto, Nicoletta Lo Monaco, Silvia Cagnatel, Angelino Battistella (Tipolitografia Adriatica, Musile di Piave – 2000); 5. « San Donà di Piave, piccola guida di una città senza storia? » di Chiara Polita (Tipografia Digipress, San Donà di Piave – 2016); 6. « Il Ponte della Vittoria diventa storia 1922-2022 » di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto (Bienne Grafica, Musile di Piave – 2022); 7. Archivio “La Gazzetta di Venezia” anni 1920-1923, quotidiano di Venezia; 8. Archivio “Gazzettino” anno 1923, quotidiano di Venezia

Louis Robert de Beauchamp, l’aviatore francese a cui San Donà diede una medaglia

Louis Marie Maurice Georges Robert de Beauchamp

Dagli oggetti talvolta scaturisce una storia che nel suo prender forma quasi incanta. La nostra è una storia che dal luccichio dell’argento riemerge lenta e subito si dipana grazie ad una data che lega un episodio della prima guerra mondiale alla nostra San Donà di Piave. Non è il fronte verso cui andavano i nostri soldati il palcoscenico dell’episodio accaduto il 17 novembre 1916, la nostra storia cala dal cielo e ha un accento spiccatamente francese. La sorpresa di chi avrà visto sbucare tra le nuvole l’aereo di questo sconosciuto capitano sarà stata come minimo pari a quella che abbiamo provato noi a veder prima e toccar con mano poi la medaglia dalla quale ci siamo incamminati per ricostruire la storia del nostro protagonista.

Il capitano Louis Robert de Beauchamp
Louis Robert de Beauchamp (da sinistra), con i fratelli Marie Michel e Hubert assieme alla madre Valérie Marie Antoinette Turquet

Il protagonista dell’episodio che andremo a raccontare è un capitano dell’aviazione francese dagli infiniti nomi: Louis Marie Maurice Georges Robert de Beauchamp. Nato a Senlis nell’alta Francia nel 1887, era figlio del visconte Marie Louis Michel Maurice Robert de Beauchamp, capitano del 9° Reggimento Corazzieri, e di Valérie Marie Antoinette Turquet. La madre morì il 4 maggio 1897, fu una delle vittime del furioso incendio che colpì “Le Bazar de la Charité” a Parigi, un’istituzione benefica dove morirono 120 persone, un evento che scosse fortemente tutta la Francia. Il giovane Louis e i suoi due fratelli rimasero così orfani di madre sin dalla tenera età. Louis seguì le orme del padre e entrò presto nell’accademia militare di St. Cyr nella regione della Loira. Quel giovane votato alla cavalleria ben presto trovò nell’aviazione la sua aspirazione più grande, arruolatosi nel 1908 nell’ottobre 1912 virò deciso verso l’aviazione ottenendo il brevetto di pilota civile e l’anno seguente quello di pilota militare.

La guerra è alle porte

Il Nieuport 16, uno degli aerei della squadriglia MS 23 (immagine dal sito dedicato alla squadriglia)

Allo scoppio della guerra il capitano Beauchamp si ritrova subito in prima linea. Il fronte franco-tedesco è stato tra i più cruenti di tutta la guerra mondiale. Le fanterie nelle trincee e il fuoco continuo delle artiglierie divennero sin da subito il cruento spartito di una guerra di posizione nella quale l’aviazione si ritagliò un ruolo importante. Dal cielo gli aerei esploravano il terreno circostante, attaccavano con mitragliatrici e bombe le difese avversarie e soprattutto contrastavano i palloni di osservazione chiamati Drachen che davano sempre informazioni importanti alle artiglierie per colpire le linee avversarie. Il capitano Beauchamp si mise in mostra in una operazione di bombardamento già nel novembre 1914, mentre per l’abbattimento di un Aviatik C avvenuto il 4 febbraio 1915 si meritò una menzione speciale: « Il 4 febbraio 1915 con l’abilità e la precisione delle sue manovre eseguite sotto il fuoco rotolante dell’artiglieria nemica, permise all’ufficiale osservatore da lui guidato, di causare con il suo fuoco (moschettone), la caduta di un biplano nemico dopo una breve lotta ».Il 10 ottobre accadde un episodio che dà il senso del coraggio del capitano Beauchamp. Uscito in missione, combattè contro quattro aerei tedeschi consumando interamente la sua dotazione di munizioni delle mitragliatrici (450 colpi), sulla via del ritorno venne affrontato da un aereo tedesco armato di due mitragliatrici. Il capitano Beauchamp pur senza munizioni virò puntando diritto verso l’aereo tedesco, colto di sorpresa dalla manovra il pilota tedesco ignorando che Beauchamp fosse in realtà disarmato si ritirò.

La nomina a comandate di squadriglia

7 dicembre 1916 Il capitano Beauchamp (il secondo in piedi da destra), alla sua sinistra il tenente Daucourt (tratta rivista “L’Aérophile” 1-15 dicembre 1916)

L’8 dicembre 1915 divenne il comandante della squadriglia MS 23 e prese parte alla lunga battaglia di Verdun dove per mesi i francesi resistettero a caro prezzo all’offensiva tedesca. La battaglia di Verdun è ricordata come uno dei più cruenti eventi bellici della storia, negli opposti fronti furono 700mila i caduti in battaglia in quei lunghi mesi. Tante le operazioni nelle quali il capitano Beauchamp fu protagonista. Nel maggio comandò una missione a cui parteciparono anche dei piloti di altre squadriglie per andare a colpire un gran numero di drachen di osservazione. Gli otto piloti partirono in missione su dei Nieuport 16 portando a termine con successo l’operazione. Vennero abbattuti sei drachen, pur lamentando la perdita di un Nieuport dopo un combattimento aereo. Sono numerose le menzioni che il comandante Beauchamp ottenne per le sue missioni, citazioni che comparivano nei comunicati del comando francese e che valevano quasi un’onorificenza tanto era il prestigio che creavano attorno al protagonista.

L’impresa di Essen, una missione con un volo di oltre 700 chilometri

Il capitano Beauchamp in una rara fotografia a colori con il Sorwith 1B1 prima della missione verso Essen (Getty Image)

Tra i pionieri dei voli di esplorazione con rilevamenti fotografici e dei voli notturni, nel settembre 1916 il capitano Beauchamp compì la prima delle operazioni a lungo raggio che lo caratterizzò. Assieme al tenente Daucourt a bordo di due Sopwith 1B1 armati delle sole bombe, il capitano Beauchamp partì per una missione che aveva come obiettivo le fabbriche di armamenti Krupp ad Essen. Un’operazione azzardata data la distanza e il viaggiar attraverso dei territori nemici ma dall’alto valore simbolico e che vide i due piloti coronare questa loro missione con successo. Saranno dodici le bombe sganciate su Essen dopo un viaggio lunghissimo ad alta quota che per i mezzi dell’epoca era un’assoluta novità. Un’impresa che fu celebrata con grande risalto dalla stampa dell’epoca.

17 novembre 1916, De Beauchamp in missione a Monaco di Baviera

La seconda missione impossibile è relativa proprio alla nostra storia. Questa volta il capitano Beauchamp partì in solitaria verso Monaco di Baviera e grande fu il risalto sui giornali dell’epoca. Proponiamo per l’intero l’articolo a firma Gino Piva pubblicato sia su “La Stampa” di Torino che sul “Resto del Carlino” di Bologna:

Il Sopwith 1B1 “Ariel” del capitano de Beauchamp prima della missione verso Monaco di Baviera

I particolari del formidabile viaggio aereo del capitano De Beauchamp

 « Ieri sera ci giungeva notizia che ai borghi del paese di San Donà di Piave, nell’antico agro altinate, ad una trentina di chilometri a nord di Venezia, era atterrato in buone condizioni un aereoplano Nieuport (ndr Sopwith) che aveva a bordo un unico aviatore, il capitano francese De Beauchamp. Tosto si ebbero i ragguagli intorno all’atterramento ed al volo compiuto dall’arditissimo aviatore, ragguagli sui quali si potrebbe costruire il tessuto di uno dei più romanzeschi episodi dell’aviazione. Il capitano Beauchamp, giovane e brillante ufficiale, che proviene dai cacciatori, si era offerto volontariamente di eseguire un bombardamento di rappresaglia su Monaco di Baviera, quale risposta al bombardamento aereo compiuto sulla città aperta di Amiens dagli aviatori tedeschi ».

Dai campi della Marna

« Lo straordinario volo era stato a lungo preordinato. Il capitano Beauchamp, compiuta la sua missione su Monaco, avrebbe dovuto dirigersi verso le alpi ed entrare in Italia per prendere terra a Venezia. Erano stati avvertiti di questo volo tutti i nostri posti antiaerei ed i campi di aviazione onde lo svelto apparecchio francese non fosse scambiato per un apparecchio nemico. Prese tutte le opportune predisposizioni, in condizioni metereologiche tutt’altro che rassicuranti, il capitano Beauchamp lasciava terra alle sette e mezza di ieri, 17 corrente, da un campo di aviazione dell’alta Marna. La partenza si effettuava nel più perfetto orario. Sembrava che nessuno dubitasse che l’aviatore avrebbe fatto tutto quanto si fosse proposto. I saluti dei camerati furono brevi ed augurali. L’apparecchio nelle brume del primo mattino spiccò il volo dai campi della Marna e si sottrasse tosto, dirigendosi verso nord-est, agli sguardi dei rimasti che ne seguivano il volo con intensa emozione ».

La prima pagina dell’Excelsior del 19 novembre 1916 che venne dedicata alle imprese di Essen e Monaco

Il volo ed il bombardamento

« Dall’alta Marna, per Colmar, la Foresta Nera, il Wurtemberg raggiungendo quote dai 1000 ai 3000 metri, il capitano Beauchamp, si diresse sopra Monaco, eludendo la vigilanza delle guardie antiaeree. Egli filava diritto e sicuro verso il cielo tedesco, tenendo sempre una grande altezza. La temperatura era bassissima ed oltremodo gelide erano le correnti che l’aviatore andava incontrando. L’impresa in qualche momento sembrava diventare disperata; ed in quei momenti critici il capitano Beauchamp faceva più che mai appello alla eccezionalità delle sue forze fisiche e morali. Grande era l’impegno che egli si era assunto e sempre più grande sembrava diventare quanto più diventava avverso lo spazio in cui la macchina aerea si librava. Verso mezzogiorno Beauchamp era in vista di Monaco. Il solitario e temerario sparviero veniva salutato da numerosi colpi di cannone. Ma nulla ormai poteva più trattenerlo. A bordo dell’aeroplano erano agganciate sei bombe ad alto esplosivo; e quando l’apparecchio, dopo essersi abbassato, si trovò sopra la principale stazione ferroviaria della città, le sei bombe furono lasciate cadere. L’aviatore riferisce che gli effetti furono visibilissimi. L’operazione fu rapidamente compiuta, quindi – nonostante l’allarme – l’apparecchio prese quota dirigendosi verso sud-est ».

L’aereo Sopwith 1B1 “Ariel” del capitano Beauchamp dopo l’atterraggio a San Donà di Piave (tratta da La Guerre aérienne illustrée)

L’atterramento a San Donà

« Gettatosi lungo l’Inn per la valle volò su Innsbruck da dove per la valle dell’Eisach, passato il Brennero, sospeso sul territorio alpino, candido di nevi, filò verso il mare. Questa era la meta. I profili terrestri poco si distinguevano nella foschia della giornata piovosa e nevosa; ma il luccicore delle paludi e la striscia bianca del mare si rilevavano facilmente. Il capitano Beauchamp oramai vedeva l’Italia; vedeva tutta la laguna nostra. Gli parve di essere già sopra a Venezia. Il Basso agro del Piave infatti, visto dall’alto, dà facilmente questa illusione. Il volo dunque era compiuto. Non c’era che da atterrare. Ed il capitano Beauchamp con l’animo pieno di legittimo orgoglio fu accolto entusiasticamente dai nostri ufficiali che avvertirono del glorioso arrivo il comandante la piazza di Venezia. Il capitano Beauchamp nella serata si recava a Venezia per riferire i particolari del suo meraviglioso viaggio aereo al comandante De Challange della squadriglia di aviazione francese ».

L’aereo Sopwith 1B1 “Ariel” del capitano Beauchamp dopo l’atterraggio a San Donà di Piave (tratta da La Guerre aérienne illustrée)

La versione del Gazzettino

Sulle pagine del Gazzettino di Venezia il viaggio in direzione Italia lo diedero frutto di necessità piuttosto che di programmazione: «….Compiuta la sua missione, inseguito da numerosi apparecchi nemici e sorpreso da un violento temporale, il valoroso aviatore s’elevò fino ad una altezza di quattromila metri. Stimando per le condizioni atmosferiche quasi impossibile il ritorno alla sua sede decise di portarsi in Italia e dirigendosi verso sud, attraversò le Alpi inseguito fino al Brennero dai numerosi velivoli tedeschi. Dopo un’ora e tre quarti di volo, da Monaco, vide il cielo alquanto rischiararsi, le nubi diradandosi gli lasciarono intravedere il mare. Allora decise di scendere. Come è noto, il capitano De Beauchamp prese terra a poca distanza da San Donà di Piave ».

La permanenza a Venezia
Il capitano Beauchamp a sinistra, alla sua destra il tenente Daucourt (cartolina originale)

Dopo essere atterrato nei pressi di San Donà di Piave il capitano Beauchamp si trasferì a Venezia dove era già di stanza una squadriglia di aerei francesi in supporto a quelli italiani. Nella domenica successiva all’impresa la Gazzetta di Venezia segnalò la sua presenza assieme a quella dei diplomatici francesi e alla pari di quella delle più importanti rappresentanze diplomatiche alleate, in occasione della grande cerimonia tenuta in piazza San Marco per la consegna di numerose onorificenze ai militari italiani che si erano distinti in combattimento, molte di queste alla memoria. Probabilmente lo stesso Beauchamp in quella occasione venne insignito di una medaglia da parte dei comandi italiani, essendo la stessa genericamente citata nel suo palmares. Il capitano ripartì alla volta di Milano mercoledì 22 novembre assieme alla moglie che nel frattempo lo aveva raggiunto, così ne dà notizia la Gazzetta di Venezia: « … A quell’ora alla stazione il pubblico era assai numeroso ed il capitano, che era entrato nel buffet, venne subito riconosciuto e fatto segno ad una calorosa manifestazione. Circondato dalla folla plaudente attraversò l’atrio e quando il treno per Milano si mosse applausi vivissimi lo salutarono. Egli ringraziò sorridendo e salutando modestamente ».

Una medaglia d’argento, la sorpresa della nostra storia
La medaglia d’argento coniata dal Comune di San Donà di Piave in ricordo dell’impresa del capitano Beauchamp

La pietra d’inciampo di quella impresa che ha dato lo spunto per ritrovarne la storia è una stata una medaglia d’argento che la Città di San Donà di Piave coniò per ricordare l’evento e chissà, consegnarla al protagonista. Il come, il dove o il quando è rimasto tra le pieghe della storia ma vi è la concretezza di questa medaglia oggi recuperata e tornata a San Donà. Nel lato principale lo stemma di San Donà di Piave, la data e il ringraziamento a Louis De Beauchamp, la citazione dell’aereoporto di partenza Belfort, l’oggetto della missione Monaco di Baviera e l’imprevista destinazione finale San Donà di Piave. Sul retro stilizzato l’uomo che vola armato con una bomba come un’aquila oltre le Alpi … fino a quel luogo vicino alle sponde del Piave, tra mare e laguna chiamato San Donà e che per quell’impresa ebbe un risalto internazionale.

Il retro della medaglia d’argento coniata dal Comune di San Donà di Piave in ricordo dell’impresa del capitano Beauchamp
Per il capitano Beauchamp l’onorificenza francese più prestigiosa
Il generale Robert Georges Nivelle

Louis Robert de Beauchamp tornato in Francia si ritrovò nuovamente immerso nell’infinita battaglia di Verdun, giunta ormai ad una svolta. Il giorno 12 dicembre 1916 per le sue imprese di Essen e Monaco di Baviera gli venne consegnata la coccarda della Legione d’Onore dal generale Robert Georges Nivelle, comandante dell’intero settore di Verdun e che il giorno dopo sarebbe stato egli stesso nominato comandante in capo dell’esercito francese. Questa la motivazione della Legion d’Onore: « Ufficiale del più grande coraggio. Posto alla testa di uno squadrone dell’esercito, ha mostrato durante la battaglia di Verdun, eccezionali qualità di ritmo, iniziativa e spirito. Nelle missioni di ricognizione così come nelle missioni di caccia, ha costantemente dato ai suoi piloti i migliori esempi di coraggio riflessivo e senso del dovere. Riuscì per primo ad organizzare ed eseguire bombardamenti a lungo raggio, dimostrando, nel compimento di queste missioni, energia, tenacia e audacia senza pari. ».

Il destino di un eroe semplice
I resti dell’aereo del capitano de Beauchamp precipitato nei pressi di Verdun (fotografia originale)

Poche sono le vicende di guerra che sono legate ad un lieto fine. Ad un mese da quella missione che lo aveva portato sino a San Donà di Piave, il 17 dicembre 1916 il capitano Beauchamp s’alzo in volo con il suo Sapd 7 alle ore 15.00. Dopo aver inseguito un aereo nemico venne attaccato da altri tre aerei tedeschi e, come sempre, Beauchamp non negò loro battaglia. Colpito ripetutamente virò verso le linee francesi cercando di atterrare vicino il bosco di Vaux-Chapitre nei pressi di Vaux-devant-Damloup a pochi chilometri da Verdun. Impervio il terreno scelto, il capitano venne sbalzato fuori dall’aereo, subito soccorso, le ferite inferte dalle pallottole delle mitragliatrici tedesche non gli lasciarono scampo. Colpito alla testa e con l’arteria del braccio recisa, l’esser riuscito a portarsi nei pressi delle linee francesi era stato il suo ultimo atto glorioso. Attoniti i suoi compagni d’arme che vanamente ne avevano atteso il ritorno alla base. Presso l’aeroporto della squadriglia venne allestita la camera ardente. Il funerale venne celebrato solennemente il 20 dicembre 1916 – come scrisse una rivista dell’epoca – « …in mezzo ad un pubblico di valorosi che piansero tutti il grande condottiero, l’eroe immortale che avevano appena perso e che non può essere vendicato in quanto era il più glorioso tra tutti ».

I fratelli Beauchamp caduti per la Francia
La lapide dedicata ai caduti al cimitero di Lignac che ricorda tra gli altri anche i tre fratelli de Beauchamp

Le spoglie di Louis Marie Maurice Georges Robert de Beauchamp riposano ancor oggi presso la tomba di famiglia a Saint-Julien l’Ars, un piccolo paese a pochi chilometri da Poitiers nel dipartimento di Vienne nella regione odierna della Nuova Aquitania (con capoluogo Bordeaux). Lì sono ricordati anche i suoi fratelli Hubert Marie Henry (sottotenente di fanteria morto nel 1915 sulle trincee di Ypres in Belgio) e Marie Michel Pierre Jean (sottotenente di aviazione morto in combattimento nel 1918 a  Oulchy-le-Château), un’intera famiglia caduta per la Francia. Nel 2016 è stato celebrato il centenario dalla sua scomparsa, a cui oggi aggiungiamo anche il nostro ricordo.

La fotografia pubblicata da La Nouvelle Republique in occasione del centenario dalla morte di Louis Robert de Beauchamp, nell’immagine la tomba di famiglia a St. Julien l’Ars
Il Capitano De Beauchamp in una immagine apparsa su « La Guerre aérienne illustrée » del 7 dicembre 1916, autografata

Per approfondimenti: 1. « L’illustration » rivista del 23-30 dicembre 1916; 2. « Excelsior , Journal Illustré Quotidien » Dimanche 19 novembre 1916; 3. Escadrille MS-23, sito dedicato alla squadriglia MS23; 4. « La Nouvelle republique », articolo dedicato alla commemorazione del centenario dalla morte; 5. « Huffpost », articolo dedicato alla tragedia del Le Bazar de la Charité; 6. « Gallica », articolo dedicato a Louis Robert de Beauchamp. 7. «Archivio storico La Stampa », l’articolo del 20 novembre 1916.

Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo

Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo

Incrociare delle vecchie foto di un album è una pratica semplice, accade o potrebbe accadere ad ogni ora del giorno in una qualsiasi famiglia. Non sempre si riesce a riconoscere le persone ritratte ma sai che in qualche maniera hanno fatto parte della tua storia. A volte può accadere di incrociare foto di un album qualsiasi, di una famiglia qualsiasi e scoprire che comunque fanno parte della tua storia, o più propriamente della storia della tua città. E fu così che attratto da un cognome eccoci a tracciare una storia che ci porta a più di cento anni fa.

La San Donà a cavallo del secolo
Il ponte sul fiume Piave ad inizio secolo

La San Donà della fine Ottocento divenne un punto di riferimento per tutto il mandamento. Le grandi bonifiche avevano ampliato il territorio destinato all’agricoltura e anche le vie di comunicazione avevano avuto un grande sviluppo grazie al collegamento ferroviario con Venezia inaugurato nel 1885 e il successivo prolungamento verso Portogruaro inaugurato l’anno dopo. Anche il nuovo ponte pedonale in ferro che aveva sostituito quello in legno distrutto da una piena del Piave aveva portato grandi benefici alle cittadine poste sulle due sponde. Non fosse per gli argini ancora incompleti che costringeva tutti a fare i conti con le regolari bizze autunnali del fiume, San Donà si era comunque avviata ad uno sviluppo importante. Il nuovo ospedale inaugurato nel 1913 fu il giusto completamento alle tante opere pubbliche cittadine che stavano arricchendo il tessuto urbano sandonatese. Uno sviluppo che ben presto si trovò a fronteggiare le ombre di una guerra che oscurò il futuro e a cui il buio di un anno di occupazione austroungarica in prima linea regalò un’immane distruzione.

I Guarinoni
A inzio secolo un’immagine del Rialto Jesolo

Nella crescita della San Donà a cavallo del Novecento s’inseriscono i protagonisti della nostra storia, la famiglia Guarinoni. Lo spunto è venuto da alcune foto ritrovate facenti parte di uno stesso album. Una in particolare raffigurava la casa dei Guarinoni e, con sorpresa, era in realtà una cartolina viaggiata del 1915 con tante utili informazioni da approfondire.

I Guarinoni erano esponenti dell’alta borghesia sandonatese la stessa che al tempo veniva identificata come quella dei possidenti. Per lo più proprietari terrieri, i possidenti erano appartenenti a quella ristretta cerchia a cui veniva riconosciuto il diritto di voto e con esso la partecipazione alla politica attiva della città. I Guarinoni sin dall’Ottocento li troviamo citati nella storia sandonatese, in particolare il loro nome viene ricordato in due episodi dal Plateo nel suo libro, ripresi poi anche da Monsignor Chimenton. Entrambi i loro libri sono dei testi fondamentali da cui attingere importanti notizie in merito alla storia cittadina. Se il racconto di Plateo si ferma ai primi del novecento quello di Monsignor Chimenton ci permette di arrivare con la sua narrazione ai cinque lustri successivi e grazie al quale possiamo arricchire la parte riguardante i Guarinoni anche del periodo successivo alla grande guerra nel quale Guido Guarinoni ebbe un ruolo fondamentale nella ricostruzione della città.

La fucilazione del Cimetta
Rialto Jesolo (o Spalto Jesolo) visto da via Maggiore

Ambedue gli episodi riportati dal Plateo si riferiscono a quel periodo che vide San Donà inglobata nel Regno Lombardo-Veneto durante l’occupazione austriaca, ovvero dalla caduta di Napoleone sino alla fine della terza guerra di indipendenza (1815-1866). « Molti episodi, che provano il patriottismo della popolazione, si narravano fino a ieri e si ricordano ancora oggi dai vecchi, fra cui l’eroica fine di quell’Antonio Cimetta da Portogruaro, qui residente, trovato in possesso di un vecchio archibugio e sospettato d’italianità, condannato alla fucilazione, dal consiglio di guerra presieduto dal Colonnello Radetzky, figlio del famoso maresciallo. L’esecuzione capitale ebbe luogo qui il 14 gennaio 1849, presso l’argine del Piave, di fronte all’abitazione Guarinoni.

Il Cimetta, circondato da’ suoi carnefici, che lo accompagnavano all’estremo supplizio incitandolo a rivelare i nomi dei cospiratori che si servivano di lui per corrispondere col governo provvisorio di Venezia, approfittò dell’ultimo istante di vita per gettare in aria il berretto e gridare: Viva l’Italia! imitando così Antonio Sciesa, il popolano milanese celebre nella storia per la tipica frase: « tiremm innanz » con la quale rispose alle promesse di aver salva la vita se rivelava i nomi dei compagni di fede.

Una colonna spezzata nel nostro cimitero, collocata sulla fossa che racchiude le ossa del Cimetta, porta la seguente epigrafe:

ANTONIO CIMETTA

MARINAIO DI PORTOGRUARO AGENTE CORAGGIOSO DI QUELLA COSPIRAZIONE CHE HA REDENTA LA PATRIA

A MORTE DA TRIBUNALE AUSTRIACO CONDANNATO SUBIVA INTREPIDO LA FUCILAZIONE IN QUESTO COMUNE

14 GENNAIO 1849

SPIRANDO COL GRIDO  VIVA L’ITALIA

I CITTADINI DI S. DONA’ NEL XXXII ANNIVERSARIO.

Dunque una prima traccia della casa dei Guarinoni la possiamo trovare lungo l’argine, un indizio che in effetti possiamo anche intravedere nella cartolina la cui inquadratura dall’alto ci fa pensare effettivamente potesse essere ai piedi dell’argine.

“Il tricolore sulla residenza municipale “
Il Municipio in una cartolina del 1916

Il secondo episodio è posteriore, siamo già a Regno d’Italia costituito, con l’Austria che aveva perso la Lombardia e aveva trasferito la capitale dei suoi possedimenti a Venezia.

« La notte del 24 giugno 1863, quarto anniversario delle battaglie di S. Martino e Solferino, fu inalberata sul culmine del tetto della residenza municipale, ora uffizi dei consorzi, una bandiera tricolore di seta, regalata dalla signora Giovanna Guarinoni, nota per i suoi sentimenti patriottici. All’alba del dì seguente il vessillo sventolò superbo fin tanto che la polizia, scompigliata da tanta baldanza, non riuscì ad impadronirsi del corpo del reato, sul quale s’imbastì analogo processo politico.

Questa dimostrazione ardita, ispirata da alcuni signori del paese, ebbe per intrepidi e avveduti esecutori Giuseppe Mucelli, Giuseppe Baradel e Leopoldo Zaramella, tre distinti operai, tre buoni cittadini, tre ottimi patrioti, i due primi già appartenenti ai volontari del patrio riscatto, e il terzo arruolatosi nel 1866.

Il vessillo incriminato venne dal Pretore custodito nel luogo più sicuro dell’ufficio, ossia nel cassetto della propria scrivania. Nell’ottobre dello stesso anno il Mucelli e lo Zaramella, ai quali si associò Antonio Battistella, tre falegnami decisi di riavere la bandiera, resa sacra dalla persecuzione austriaca, approfittando di una notte in cui imperversava il temporale, con un vento infuriato e con abbondanti scariche di tuoni, penetrarono nell’ufficio pretoriale, ora caserma delle Guardie di Finanza, e scassinate porte e cassetti poterono prendere la bandiera tanto desiderata e uscire inavvertiti.

L’ardua impresa destò in paese grande rumore per il fatto che non furono toccati i denari dei depositi e gli oggetti di valore che si trovavano accanto alla bandiera, e gli autori della sottrazione di questa non lasciarono tracce del loro passaggio. Tuttavia le perquisizioni domiciliari si estesero a molte persone sospette di sentimenti patriottici, ma senza esito, perché la bandiera, bene piegata, poté dal Mucelli venir nascosta nel vuoto invisibile praticato ingegnosamente, in un tagliere di legno, che rimase appeso in cucina insieme a vari altri, e sfuggire così all’occhio vigile della polizia. »

Dopo questa seconda citazione che testimonia dei sentimenti italiani dei Guarinoni di quel tempo torniamo alle vicende famigliari che da quella cartolina abbiamo iniziato a dipanare. Non abbiamo trovato traccia della signora Giovanna citata dal Plateo, sarebbero state necessarie ulteriori ricerche, di certo era collegata allo stesso ramo famigliare da cui siamo partiti per andare indietro nel tempo. Perché il reale protagonista dei Guarinoni a cui quella cartolina si lega è Guido Guarinoni, sindaco di San Donà di Piave dal 1920 al 1923.

I contorni della storia albergano tra i rami dei legami famigliari
L’estratto dell’atto di matrimonio tra Guido Guarinoni e Maria Velluti (1896)

I Guarinoni in quel secolo Ottocento erano una famiglia di possidenti ben in vista a San Donà. Tra l’altro in alcuni loro locali in disuso in via Jesolo mossero i primi passi gli appassionati di teatro sandonatesi con tanto di rappresentazioni. Il nonno di Guido era Giovanni Battista mentre la nonna era Bressanin Maddalena. Anche quest’ultima appartenente ad una famiglia il cui cognome non era sconosciuto tra i possidenti di San Donà. Del resto, anche nelle successive generazioni non mutò l’appartenenza. Il padre di Guido era coetaneo di Giovanna Guarinoni citata da Plateo, Luigi Guarinoni sposò giovanissimo Bortoluzzi Teresa, una possidente di Noventa. Tra i registri di San Donà si riescono a rintracciare diversi fratelli e sorelle di Guido. Il padre morì nel 1881, i figli erano ancora giovani e poco dopo morì anche il primogenito Ugo Antonio. La sorella Alda Maria si sposò con l’ing, Radaelli di Venezia, un legame con la città lagunare che sarà importante per la famiglia i cui interessi anche professionali s’intrecciarono particolarmente con Venezia. Anche Guido divenne ingegnere e conobbe il collega Francesco Velluti di Dolo, di lì a poco ne sposò nel 1896 la sorella diciottenne Maria Velluti. I componenti della famiglia Velluti erano dei possidenti di Dolo i cui genitori erano morti pochi anni prima.  I due novelli sposi andarono a vivere nella casa di famiglia a San Donà di Piave in Rialto Jesolo, 141.  In quella stessa casa viveva anche il fratello Amedeo Guarinoni che nel 1898 aveva sposato Clorinda Crico, figlia del medico di Musile, il dottor Giacomo Crico. Sia Guido che Amedeo ebbero una figlia, nel 1897 Maria Velludi diede alla luce Teresina, mentre Clorinda Crico ebbe nel 1899 Teresa. Entrambi i nomi prendevano spunto come era d’uso un tempo da una nonna, in questo caso quella paterna.

Una immagine di Villa Guarinoni del 1915 (foto di A. Cadamuro)
La cartolina della storia
Un dettaglio dell’immagine di villa Guarinoni, in posa la famiglia del futuro sindaco di San Donà di Piave

E qui la nostra storia torna ad agganciarsi a quella famosa cartolina, quella casa vista dall’alto potrebbe proprio essere stata in Rialto Jesolo, il fotografo Antonio Cadamuro potrebbe averla ripresa dall’argine e cosa ancor più ammirevole in quel giardino posto sul retro della casa si nota l’ing. Guido Guarinoni, all’epoca già consigliere comunale, con parte della famiglia allargata che in quella abitazione viveva. Alla figlia di Guido Guarinoni Teresina veniva inviata la cartolina nel 1915, era firmata da una non meglio identificata Rita e la destinazione era Dolo dove la ragazza si trovava assieme alla madre in quel dicembre. L’Italia era già in guerra, San Donà era percorsa dalle truppe che si muovevano verso il fronte e si iniziava a cercare un posto meno esposto, e di sicuro i possedimenti di famiglia a Dolo lo erano. Qualche anno prima la zia Clorinda Crico rimasta vedova nel 1902, si era sposata con il cognato Radaelli Onofrio, rimasto anch’egli vedovo prematuramente di Alda Maria, sorella del marito di Clorinda. L’ombra lunga della guerra arrivò su San Donà nel 1917, la famiglia Guarinoni nel frattempo aveva trovato riparo a Venezia. La casa di famiglia subì dure conseguenze dal conflitto mondiale trovandosi sulla linea del fronte lungo l’argine del Piave. In una seconda fotografia presente nell’album la si ritrova ridotta in macerie, in quel Rialto Jesolo colpito ripetutamente dall’artiglieria italiana nella San Donà dove le truppe austriache vennero fermate dalla resistenza italiana attestata oltre il Piave. La famiglia Guarinoni mantenne la residenza a Venezia anche successivamente, tanto che nonostante Guido Guarinoni nel 1920 fosse divenuto sindaco di San Donà di Piave i successivi matrimoni in quei primi anni venti di Teresa e Teresina celebrati a Venezia negli atti i genitori risultano ancora residenti a Venezia.


Villa ridotta in macerie dopo la prima guerra mondiale

Racconto diviso in due parti: 1. Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo – 2. Guido Guarinoni Sindaco di San Donà di Piave

Per approfondimenti: 1. « Il territorio di S. Donà nell’agro d’Eraclea » (1905) di Teodegisillo Plateo; 2. « S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella » (1928) di Mons. Costante Chimenton.

Ricomincia il racconto

Quando iniziano ad ingiallire le foglie si tornano a scrivere le storie. Ce ne sono di sospese e di nuove, perchè il tempo le posa piano e quando le si scopre togliere la polvere è un arte complessa che comporta ricerca. I Guarinoni son lì da un pò con quell’immagine della loro villa datata 1915 a cui ora si è aggiunta una sconosciuta medaglia d’argento datata 1916 che racconta un’altra storia sandonatese calata dal cielo. E’ tempo di andare, di scrivere e raccontare prima che il ricordo venga meno e la memoria divenga perduta.

Angelo Cereser, i suoi inizi sandonatesi visti da Torino

La copertina del libro “Angelo Cereser, una vita in Trincea”

Negli anni Sessanta a San Donà di Piave e nel suo circondario ci fu un proliferare di giovani promesse che poi videro la loro carriera concretizzarsi nelle maggiori squadre di serie A. Era già accaduto nel decennio precedente, come d’incanto si apre una via e uno alla volta questi giovani giocatori hanno la bravura e spesso la fortuna di approdare in società che poi ne decretano il successo. Uno di questi è stato Angelo Cereser e di lui parla un bel libro di Paolo Ferrero uscito nel 2019 che ha il grande pregio di avere una ricca dotazione fotografica del suo periodo granata. Del Cereser che muove i primi passi nella San Donà a cavallo degli anni Sessanta vi è un capitolo che inseriamo nella sua interezza, ovviamente l’oratorio salesiano di cui si parla non può essere che l’Oratorio Don Bosco cittadino.

Tratto dal libro « Angelo Cereser, una vita in “Trincea” » (di Paolo Ferrero in collaborazione con Toro Club Valcerrina granata “Angelo Cereser”, Bradipo Libri, 2019)

” Ciao San Donà “
Giovanile del San Donà – In piedi:  dirigente Zanutto, Bona, CERESER, Moretto, Gerotto, Paro, Cola, Salvori, avvocato Davanzo
Accosciati: Montagner, Iseppi, Pacifici, Pegorer, Socrate Brollo, Battistella

« La mia non è stata un’infanzia facile. Sono nato a Eraclea, un comune della città metropolitana di Venezia, affacciato sul golfo veneto. Per l’esattezza sono di Cittanova, una piccola frazione del paese. Ho perso il papà quando avevo solo due anni. La mamma, allora, per tirare a campare aveva aperto un negozietto di maglieria a San Donà di Piave e lì eravamo andati ad abitare. Studiavo all’istituto chimico, di pomeriggio ripassavo le lezioni e poi andavo in bicicletta in centro a comperare per la mamma. Ironia della sorte, il mio professore di chimica era Paolo Casarin, il futuro arbitro internazionale, che tante volte ho incontrato sul campo. Di questo, sia io che lui, abbiamo sempre taciuto, per non creare facili illazioni. »  

Terra veneta, terra di uomini tosti, di infaticabili lavoratori, ostinatamente rivolti a combattere contro le zone paludose della laguna. Una vita semplice nel quale il pallone riempie ad Angelo i pochi spazi lasciati per il divertimento. Nel mondo, se non fossero esistiti gli oratori, il calcio avrebbe avuto molti meno campioni. Tra preghiere, messe, canti e feste, il pallone ha sempre trovato lo spazio su quei campetti di periferia straboccanti di entusiasmo e di speranze, stretti tra palazzoni di edilizia popolare, tutti uguali tra di loro. Il ragazzo gioca e sogna e a volte ce la fa. Sarà il più bravo, anche se spesso la bravura non basta; ci vuole disciplina, determinazione, costanza. Angelo ha quattordici anni e gioca come portiere nella squadretta dell’oratorio salesiano di Cittanova. La sua casa è lì a due passi, si salta un muretto ed è fatta. A correre in campo spesso senza scarpette per non consumarle, c’è anche Gianfranco Bedin, futuro mediano dell’Inter del mago Herrera, un anno di età in meno e, come lui, razza Piave doc. Angelo ha il fisico adatto e anche una sana dose di incoscienza per quel ruolo. Il parroco don Giacomo stravede per quel ragazzo, educato, riservato, rispettoso, sempre premuroso con tutti. E poi non manca mai alla santa messa. Capita un giorno che in una uscita a terra molto coraggiosa su un attaccante lanciato a rete riporti un trauma cranico e quattro punti di sutura in fronte. E’ quello il suo “sliding doors” della vita: « In quel momento – racconta Cereser su Alè Toro – il pensiero dominante in me, più del dolore della ferita, era rivolto alla mia mamma, che già altre volte mi aveva bonariamente rimproverato affinchè smettessi di giocare. Non sapendo come giustificarmi pensai di chiedere protezione a don Giacomo, che tra l’altro giocava al pallore ed era un grintoso centravanti e che mi era stato vicino mentre mi medicavano. Con il suo aiuto riuscii a convincere la mamma che era stato un incidente di percorso, ma quando si trattò di decidere se continuare a giocare o smettere, dovetti accettare un compromesso: non avrei più giocato quale portiere, ma in un altro ruolo meno pericoloso; scelsi comunque, per non allontanarmi troppo dalla porta, quello di difensore, terzino e centromediano »

Rappresentativa giovanile – In piedi: dirigente Arnaldo Silvestri, avvocato Davanzo, CERESER, Brollo, Storto, Ferrari, Salvori
Accosciati: Ronchi, Muffato, Bedin, Isoni, Lazzarini, Armellin

E anche in quel ruolo i risultati si vedono subito, tanto da far attirare l’attenzione, dopo un paio di partite ad alto livello, ai dirigenti della gloriosa società veneta del San Donà di Piave. Il passaggio è presto stabilito: per poche migliaia di lire che vanno a finire nelle povere casse dell’oratorio, Angelo va a giocare in biancoceleste. Sono quelli gli anni della rinascita sportiva del calcio sandonatese che veleggia fra alterne fortune tra Promozione e serie D. Si sta costruendo una buona squadra, dando molta importanza al vivaio: Cereser è uno dei tanti giovani sfornati da quella società sotto l’attenta guida di Giovanni “Nani” Perissinotto, bandiera storica, con un passato glorioso di attaccante del secondo dopoguerra nelle fila di Roma e Udinese, dove era stato anche il primo goleador della squadra in serie A. Era una punta velocissima, imprevedibile, molto versatile. Al San Donà, nel doppio ruolo di allenatore e giocatore, Perissinotto vinse per due anni consecutivi il campionato, riuscendo ad approdare il serie D per poi chiudere la carriera a 38 anni. Ma il vero artefice della crescita calcistica di Angelo è Omero Tognon, veneto anche lui, antico centromediano del Milan di Schiaffino che, terminato di giocare, è diventato allenatore del San Donà, E’ una fortuna per un ragazzo di 16 anni avere come maestro un campione che ha giocato nello stesso ruolo con il quale si cimenta; consigli e incoraggiamenti sono profusi in gran quantità, basta solo carpirli e farne buon uso. Nel San Donà, Angelo gioca una dozzina di partite, due nella stagione 1960-61 e dieci nella stagione 1961-62 per l’esattezza. Assieme ad Angelo prendono la via del calcio che conta anche Elvio Salvori, mediano di grande corsa con futuro anche in lui in giallorosso ed Enzo Ferrari, potente ala sinistra che giocherà in molte squadre di serie A prima di intraprendere una brillante carriera di allenatore.

San Donà 1960-61 – In piedi: Salvadoretti, Socrate Brollo, Bonazza, Ferrari, Beffagna, Muffato, Zanutto, – Gianni Brollo, CERESER, Dal Ben, Maschietto. Accosciati: Susin, Tommasella, Guerrato, Trevisan, Salvori, Tonon, Giovanni Perissinotto

Si è agli inizi degli anni Sessanta. L’Italia sta vivendo il boom economico. E’ un bel periodo quello: i Giochi olimpici disputati a Roma hanno fatto vedere al mondo che l’Italia ci sa fare. La gente ha voglia di divertirsi e di trasgredire. Si balla il rock’n’roll, si impazzisce per Elvis Presley e si rimane estasiati di fronte alla bellezza e alla eleganza di Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany”. E intanto incomincia la conquista dello spazio: Yuri Gagarin diventa il primo uomo a volare negli spazi siderali portando con successo a termine la sua missione. Il Torino, intanto, è in giro per l’Italia in cerca di talenti. E non solo per l’Italia: da lì a poco sarebbe arrivata dall’Inghilterra la giovane coppia di attaccanti Denis Law e Joe Baker, tanto talentuosi (il primo) e potenti (il secondo) sul campo, quanto incostanti e trasgressivi nella vita. Sotto la Mole sarebbero rimasti solo un anno, per poi ritornare in patria a conquistare allori e gloria, ma in quell’anno, anche se solo a tratti, si vide un gran bel calcio al Comunale. Per ben quattro volte la società granata manda Cesare Nay a visionare il ragazzo. Nay ha giocato per cinque stagioni nel Toro del post Superga come sentromediano terminando poi la carriera sulla sponda opposta della Juve. E’ cresciuto nel vivaio granata e conosce alla perfezione chi sono i giocatori adatti per giocare al Filadelfia. « Mi avevano avvertito – racconta ancora Cereser – che ogni tanto veniva sin da Torino un tecnico per controllarmi, ma io non lo conoscevo. Ricordo una volta, nel bel mezzo di una partita importante, il pallone era nell’area di rigore avversaria; mi giro verso la tribuna e vedo il presidente della società parlottare con un distinto signore. Immagino subito che si tratti di quell’osservatore. Mi viene la tremarella, rimango fermo impalato a guardare i due che continuano a parlare, e non mi accorgo che la mia ala da marcare, ricevuto il pallone, mi sta scartando e se ne va in gol. Fortuna che il portiere ci mette una pezza, altrimenti non mi sarei mai perdonato tanta leggerezza in un momento così delicato ed importante. »

CERESER nella foto di copertina di un Alè Tori del 1973

E’ comunque fatta. Al termine dell’incontro Angelo viene chiamato in direzione dove gli viene presentato il signor Nay (era proprio lui) e comunicato l’avvenuto passaggio in maglia granata. « Ricordo che divenni rosso come un gambero, non sapevo cosa fare, se ringraziare, se sorridere, l’unica cosa che uscì di bocca, e adesso giudico un po’ banale, ma in quel momento non ne trovai altra, fu: viva il Toro! »  Fa tenerezza pensare ad Angelo Cereser di tanti anni fa, ragazzo timido ed impacciato e confrontarlo con l’uomo di adesso sempre sicuro di sé, ironico, mattatore di ogni serata al “suo” Toro club.

« Io sono arrivato qui nel 1962, non avevo ancora 18 anni. Ero figlio unico, senza genitori (la madre era rimasta a San Donà). Per me è stata una storia di vita, non solo di calcio » ci racconta Angelo. « Andavo a fare colazione con il custode alle 9 di mattina, perchè non avevo una famiglia. Noi ragazzi si veniva qua in pullman, in tram, a piedi, si faceva riferimento al Filadelfia e alle persone a esso collegate. Una seconda casa? Per me il Fila è stata la prima casa. » …. così inizia il capitolo successivo quello che vedrà Cereser crescere in tutti i sensi nella Torino granata.

Quei primi anni raccontati dallo stesso CERESER
I primi anni granata di CERESER nelle figurine Panini
I primi anni granata di CERESER nelle figurine non Panini

I Protagonisti del calcio sandonatese: 1. Francesco Canella “Dall’Oratorio al tetto del mondo”; 2. Arturo Silvestri con lo scudetto sul petto nella stagione 1951-52; 3. Guerin Sportivo | Adriano Meacci: «Scusate il ritardo »; 4. Glerean: « Nessun segreto, grande San Donà »; 5. Guerrino Striuli « Il gatto nero »; 6. Elvio Salvori, un sandonatese a Roma; 7. « Bomba » Cornaviera, una vita per il San Donà; 8. Silvano Tommasella, il miglior terzino biancoceleste; 9. « Nanni » Perissinotto, il bomber che stregò la Capitale; 10. Antonio Guerrato, quell’ala destra che non sbagliava una punizione; 11. Orfeo Granzotto: « Così è nato il Sandonà dei sogni »; 12. Bruno Visentin, il « Colombo » che volò in serie A; 13. Angelo Cereser, i suoi inizi sandonatesi visti da Torino; 14. Enzo Ferrari, quel sandonatese famoso prima di esserlo