Quel ricordo della Russia che ritorna e gli altri caduti sandonatesi

La terribile campagna di Russia la raccontammo qualche anno fa attraverso il viaggio di una cartolina partita da San Donà di Piave e mai arrivata a quel figlio poi caduto in quella terra lontana http://bluestenyeyes.altervista.org/quel-terribile-inverno-russo-del-42/. Altri giovani soldati nati a San Donà di Piave sono caduti in Russia, per la maggior parte appartenenti a degli stessi Reggimenti, i più sono stati dichiarati dispersi durante le offensive russe di fine gennaio 1943:

• Bragato Mario (1921), fante del 277° Reggimento Fanteria, morto il 10 marzo 1943 campo 188 (Tambov)

• Brollo Angelo (1914), mitragliere del 156° Battaglione Mitraglieri, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Conte Antonio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Dalla Francesca Elio (1921), fante del 278° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Giacomel Giuseppe (1922), fante del 278° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Masarin Vittorio (1922), fante 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Mattiel Attilio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Miozzo Angelo (1922), fante del 278° Reggimento Fanteria, caduto 30 gennaio 1943 (disperso)

• Ongaretto Ferruccio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, morto 28 marzo 1943 campo 56 (Uciostoie)

• Pavan Giannetto (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, morto il 10 novembre 1944 campo 56 (Uciostoie)

• Scomparin Gregorio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Sgnaolin Renato (1922), mitragliere del 156° Battaglione Mitraglieri, caduto 31 dicembre 1942 (disperso)

• Stefanello Alfredo (1922), caporale del 278° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Vallese Antonio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 23 gennaio 1943 (disperso)

• Zamuner Arturo (1914), mitragliere del 156° Battaglione Mitraglieri, caduto 31 dicembre 1942 (disperso)

• Zanutto Pacifico (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Zecchin Luigi (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, morto 11 marzo 1943 campo 62 (Nekrilovo)

Una Cerimonia Solenne il 15 settembre 2024

Per Ricordare e Onorare i Soldati del Csir e dell’ARMIR, i Reduci, i Caduti, i Dispersi e i Morti in Prigionia nell’ottantunesimo anniversario del Ripiegamento di Russia, domenica 15 settembre 2024 è stata indetta una Cerimonia Solenne dall’UNIRR presso il Tempio di Cargnacco a Pozzuolo del Friuli (Ud) con inizio alle ore 9.30.

Per approfondimenti: 1. Divisione Vicenza ; 2. Memoriale del Col. Giulio Cesare Salvi (comandante del 277° Reggimento Fanteria); 3. Posta Militare 156 – La Divisione “Fantasma”; 4. L’elenco dei caduti della Divisione “Vicenza” (Marini); 5. Campagna italiana in Russia (agosto 1941-20 gennaio 1943); 6. Prima battaglia sul Don (20 agosto-1° settembre 1942); 7. Seconda battaglia sul Don (11 dicembre 1942 -31 gennaio 1943); 8. Offensiva Ostrogožsk-Rossoš’ (12 gennaio-27 gennaio 1943); 9. U.N.I.R.R. (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia);

Il Piave mormorò e nel 1882 tirò dritto al passaggio

Il Piave mormorò e nel 1882 tirò dritto al passaggio

Un terribile settembre quello del 1882, ben rappresentato dal bollettino del ministero dell’agricoltura commercio: « Le piogge copiosissime, torrenziali che si verificarono in questa decade, ma specialmente dall’1 al 19, le quali furono cagione di così tremendi disastri nel Veneto, si devono alla persistenza di due depressioni atmosferiche, le quali persistettero per ben sette giorni l’una di qua e l’altra aldilà delle Alpi, mantenendo i loro centri in continua oscillazione. La depressione aldilà dei monti si mantenne quasi sempre a Nord Nord-Est; la posizione del centro di quella al di qua oscillò tra il Golfo di Genova ed il Veneto. In causa della reciproca posizione di questi due cicloni furono le Alpi del nord e del nord est quelle nelle quali si operò la massima condensazione del vapore acqueo. »

L’ alta Italia ne venne tutta travolta

Dalle pagine di Illustrazione Italiana le tremende cronache di quel settembre che segnarono solo l’inizio di un racconto che continuò anche nel mese successivo: «  Le piogge pressoché incessanti che da 15 giorni cadono sulla zona media del continente europeo, hanno straordinariamente gonfiato i torrenti alpini che precipitano dai gioghi dei nostri monti: essi hanno rovesciato la piena sui laghi e sui fiumi, i quali, comunicandosela via via per tutta la fitta rete idrografica dell’alta Italia, han convertito la Lombardia e più specialmente il Veneto, in un vasto campo di rovine. I giorni 15, 16 e 17 settembre segnano la data del funesto avvenimento. Ci sarebbe impossibile enumerare soltanto le rovine fatte dagli elementi anche perché un cielo implacabilmente rannuvolato continua a versare le acque del nuovo diluvio. […] Spaventevole è il disastro che ha colpito il Veneto, e più propriamente le sue più fiorenti città: Verona, Vicenza, Padova, ecc. L’inondazione di Verona resterà tristemente celebre nella storia contemporanea. L’Adige, turgido ed impetuoso, inondò la città il 15 e il 16, rompendo tutti i quattro ponti che l’accavalcano, rovesciando case, molini, piantagioni ecc.; poi, sotto Verona, ruppe gli argini in quattro punti e per le larghe brecce si rovesciò sulle campagne vicine. Tutti i fiumi e torrenti che dalle Alpi scendono nelle lagune, imitarono l’esempio del loro maggior fratello: il Piave, la Livenza, il Brenta, il Bacchiglione, il Cordevole. l’Astico, il Timonchio, ruppero ponti, squarciarono argini, devastando borgate e campagne; ed anche qui, pur troppo, si hanno a deplorare vittime umane. I ragguagli per ora sono incompleti, e le notizie disastrose si succedono senza posa: e, quello che è peggio, piove, piove dirottamente, facendo prevedere altri e maggiori guai. La grandezza della sciagura sembra scoraggiare qualunque opera di beneficienza. I raccolti del riso, dell’uva, della mellica e delle castagne sono irreparabilmente perduti: migliaia di famiglie son rimaste senza tetto, sprovviste di tutto, senza strumenti da lavoro, senza lagrime per piangere la morte de’ loro cari e la rovina della loro esistenza!»

L’Adige a Verona durante la piena del 1882 (tratta da “Illustrazione Italiana”)
L’indomito Piave s’aprì la via
In una cartina austriaca del 1841 l’ansa del Piave posta tra San Donà e Musile e travolta dalla piena del 1882. Nella cartina Mussetta par quasi arrivare nel centro di San Donà, tanto che il corso principale cittadino sembra segnarne il confine, anche se la toponomastica dice altro.

In quei giorni il livello del Piave toccò picchi sino ad allora mai raggiunti, mettendo in sofferenza tutti gli argini ed esondando in più punti, tanti anche i ponti danneggiati irrimediabilmente, tra cui il Ponte Vecchio di Belluno. In quel 16 settembre tutte le zone del basso corso del Piave pagarono un loro pesante tributo. La furia delle acque provocò molti danni esondando in più punti a Noventa dove il Piave ha un corso tortuoso. Le acque si aprirono un varco negli argini al Montiron, un altro più largo a Sabbionera, giorni dopo una terza breccia s’aprì a La Favorita. Furono 400 le famiglie che videro le proprie case allagate e la necessità di mettersi in salvo. L’impeto del Piave fu tale che nel tratto sandonatese l’ansa tra San Donà e Musile venne spazzata via, il Piave decise di andar dritto lasciando il proprio letto costeggiante l’argine San Marco; le poche case all’interno dell’ansa vennero travolte e a farne le spese fu anche il ponte di legno, all’epoca chiamato “della Pedona”, che dopo secoli aveva unito San Donà a Musile, ed ora irrimediabilmente danneggiato a soli sette anni dall’inaugurazione. Si narra che solo grazie al coraggio dell’impiegato del telegrafo Bressanin si riuscì a mantenere intatta la linea; il coraggioso si issò sulla pericolante struttura del ponte sganciando il prezioso filo del telegrafo prima che quella fondamentale linea di comunicazione s’interrompesse, seguendo il triste destino del ponte, isolando ancor di più l’intera zona.

Danni e allagamenti
Il ponte di legno sul Piave e il molino Finzi (tratta da “Illustrazione Italiana”)

Indicibili furono le sofferenze sopportate dalla popolazione prigioniera delle acque, infinite le esondazioni e le tracimazioni che inondarono le campagne, alto pure il numero degli sfollati messisi in salvo con difficoltà vista la portata degli allagamenti. Potente il grido di aiuto lanciato dal sindaco di San Donà Giorgio Trentin: «Siamo inondati attendiamo subito barche e truppe per salvare e soccorrere gli abitanti sorpresi nella notte e privi di tutto.». La violenza delle acque travolse la chiesa e il cimitero di Musile, posti allora nelle vicinanze del fiume, vennero poi ricostruiti in una zona più sicura. Non meglio andò sulla sponda sandonatese con importanti danni al Molino Finzi con il suo costoso macchinario a vapore e che creò alla popolazione un’immediata emergenza alimentare. Nella vicina Noventa furono ben 1500 i senza tetto obbligati a mettersi in salvo lontano da quel fiume che rappresentava un importante polo economico grazie al porto fluviale.

I difficoltosi soccorsi

I soccorsi furono rallentati dagli allagamenti e dalla rottura di quell’unico ponte che collegava le due sponde. Impreparata si trovò anche la Regia Marina con le sue imbarcazioni che si rilevarono inizialmente inadatte a quel tipo di operazione di soccorso nelle zone alluvionate. La situazione restò grave per giorni a causa della pioggia che non cessava e del livello delle acque che non sembrava deciso a calare, tanto che molte zone rimasero allagate per settimane, talune anche per mesi. Forte la solidarietà delle comunità vicine che inviarono viveri e aiuti alla popolazione in sofferenza.

Un’alluvione generalizzata

Il problema della piena, come detto, nel mandamento sandonatese non interessò solo il Piave, proprio l’ingrossamento generalizzato dei fiumi generò un effetto domino che vide esondare altri importanti corsi d’acqua. Già il giorno 16 settembre assieme al Piave ruppero gli argini sia il Meduna che il Monticano, il 23 settembre ci fu la rotta del Livenza a Torre di Mosto le cui acque si riversarono nelle campagne e si sommarono a quelle del Piave riportando indietro l’orologio della storia a prima delle bonifiche. Ben 37 mila ettari dei 44 mila che costituivano il dipartimento di San Donà vennero allagati. I raccolti ne furono intaccati con una popolazione costretta ad attendere i soccorsi, cercando al contempo di salvare i propri beni e i propri animali. Tutto il territorio ne pagò un prezzo anche per i lunghi mesi a venire, dove il semplice vivere dovette fare i conti con l’allarme sanitario in zone dove ancora la malaria mieteva le sue vittime. Furono anni difficili dove molti scelsero l’opzione di emigrare, tanti seguirono l’illusione del trasferimento oltre oceano in Sud America, come se lì la vita fosse meno dura.

Comitato di Soccorso del Basso Piave

Tra le tante richieste di aiuto, una vide l’unione di tutti i Comuni del comprensorio di San Donà uniti nel “Comitato di soccorso per gli inondati dal Piave” che inviarono una missiva ad ogni Comune del Regno per richiedere un aiuto in questo grave momento di difficoltà, così recitava l’appello:

« Onorevole Municipio, il tremendo disastro dell’inondazione di questo vasto territorio è oramai noto ovunque. Narrare i particolari strazianti per eccitare gli animi alla comprensione sarebbe quanto dubitare della potenza di quel sentimento spontaneo di fraterna solidarietà che fa della grande famiglia italiana una nazione civile rispettata e forte. Il comitato quindi, ricordando con raccapriccio il danno generale di oltre quattro milioni di lire e l’importanza a prestare i più urgenti soccorsi a più di 20 mila contadini vivi del necessario alla vita, e con una certa compiacenza di aver questo Distretto sempre risposto ai gridi di dolore delle popolazioni dei più remoti angoli della penisola colti da gravi jatture, si lusinga di trovare corrispondenza di sentimenti.

Qualunque sia la forma e la misura del sussidio che codesto Municipio e codesta cittadinanza crederanno di largire si avranno la gratitudine imperitura dei poveri disgraziati e dei loro rappresentanti.

San Donà di Piave 25 settembre 1882

Il comitato organizzatore: Trentin cav. Giorgio San Donà di Piave Sindaco di San Donà di Piave, Crico cav. Matteo Sindaco di Noventa di Piave, Vianello Alessandro Sindaco di Grisolera, Vian Lorenzo Sindaco di Torre di Mosto, Loro cav. Paolo Sindaco di Ceggia, D’Este Carlo Sindaco di San Michele del Quarto, Ferraresso Francesco Sindaco di Musile, Meneghini Giuseppe Assossre facente funzioni di Sindaco di Cavazuccherina, Varischio Antonio Sindaco di Fossalta di Piave, Placa Antonio Sindaco di Meolo.

Plateo Segretario.

I fondi per la ricostruzione
Una tombola organizzata a Roma per raccogliere fondi a favore dei danneggiati dall’inondazione del 1882

Imponente fu la raccolta di fondi per aiutare le zone colpite dalla grave calamità naturale. Alla elargizione che subito venne fatta dal Re, si aggiunse quella dello Stato, ed anche le varie amministrazioni comunali non si sottrassero nel dare un loro concreto contributo. Grandi erano i danni che tutta l’Italia settentrionale aveva subito, in Veneto i danni più gravi li aveva causati l’Adige destinatario dei maggiori aiuti, ma furono ben pochi i luoghi vicino a dei corsi d’acqua che non avevano avuto danni nel terribile settembre 1882. Tra le iniziative di raccolta fondi molte erano, come d’uso all’epoca, quelle legate a lotterie o tombole, tanti anni dopo San Donà fu beneficiaria di una iniziativa del genere quando dopo la grande guerra fu necessario ricostruire l’ospedale. Curiosamente i fondi destinati al distretto di San Donà ebbero un eccesso, che venne accantonato per destinarlo alla costruzione dell’ospedale. In questo caso i tempi si allungarono a dismisura e l’importante struttura dovette aspettare il nuovo secolo per trovare concretizzazione.

Ad ottobre, una nuova esondazione

All’alluvione del settembre 1882 ne seguì una ad ottobre che, fortunatamente, pur colpendo con una portata similare un territorio già in ginocchio per gli eventi del mese precedente, ebbe una durata inferiore. Dopo pochi giorni, le acque dell’irascibile fiume iniziarono a calare rientrando nell’alveo, ma furono molti i mesi nei quali le campagne continuarono a rimanere gonfie dell’acqua che le aveva attraversate, in un quasi ritorno alle origini, quando le bonifiche le avevano affrancate dalla realtà paludosa. Le stesse bonifiche che trovarono nuovo impulso anche negli anni a venire rivelandosi preziose nel salvare ancora una volta tutto il territorio.

La lenta ricostruzione
Un articolo della Gazzetta di Venezia dell’aprile 1886 dove si annunciava il completamento del nuovo ponte sul Piave

Furono imponenti le opere di risanamento che subirono i fiumi dopo un tale disastro. Per quanto riguarda il Piave si iniziò una lunga opera generalizzata di innalzamento degli argini quanto mai necessaria per riuscire a fronteggiare delle piene della portata di quella appena sostenuta. Nel sandonatese venne innanzitutto dato il via alla progettazione del nuovo ponte, opera la cui mancanza venne subito rimarcata rendendosi assolutamente necessario un suo veloce ripristino. Il nuovo corso del fiume ne impose una diversa collocazione, ma ovviamente venne subito accantonata la possibilità di rifarlo in legno. Solo sette anni era durato quello travolto dall’alluvione, venne scelta per cui una costruzione in ferro sorretta da piloni in muratura. Prima però venne inaugurato il ponte ferroviario che fu la grande novità di quegli anni, con la ferrovia che collegò prima San Donà e poi Portogruaro con Venezia. Inaugurato nel giugno 1885, il ponte ferroviario superò una prima piena del Piave nell’autunno, così come anche il costruendo ponte stradale resistette e dall’aprile 1886 San Donà e Musile tornarono ad essere collegate dal desiderato ponte.

I nuovi argini alla prova della piena del 1889
Degli sfollati accolti nella chiesa di San Donà (tratta da “Illustrazione Italiana”, 1882)

L’emergenza non terminò con l’innalzamento degli argini, le piene del Piave erano una costante e regolarmente si susseguivano anno dopo anno. Quella del 1889 ebbe una portata pari a quella record del 1882. Gli argini furono messi a dura prova, una prima breccia si aprì in quei nuovi argini innalzati tra il ponte stradale e quello ferroviario, la successiva pressione delle acque sull’argine San Marco fu tale che cedette in due punti, travolgendo sette case e causando ben dieci vittime in una stessa famiglia. Un’enorme massa d’acqua si riversò su Musile, tanto da allagare ben tre quarti del suo territorio, danni ingenti subirono anche Passarella e Chiesanuova. Ancora una volta passarono mesi prima che il territorio potesse liberarsi dalle acque ed iniziare la ricostruzione, con dei fondi per il ripristino e l’aiuto alle popolazioni che tardarono ad arrivare.

Nel 1903 la tragica alluvione ancor si ripete
In una cartolina dell’epoca la rotta all’Intestadura del 1903
Una cartolina commemorativa che ricorda l’intervento della Brigata Lagunari Venezia nelle innondazioni del 1903

A chiudere le grandi alluvioni di quel tempo ci fu quella del 1903. Ancora una volta delle eccezionali precipitazioni gonfiarono i fiumi, come vent’anni prima l’Adige allagò Verona, seppur in misura minore. Peggio ancor una volta quel che il Piave riservò alla popolazione del suo basso corso. Tremò la sponda sandonatese tenendo in apprensione tutti gli abitanti di Mussetta, poi nella notte tra il 30 e il 31 ottobre accadde la rotta: «…il fiume era minaccioso; una rotta degli argini si aspettava, nel posto detto Mussetta, dove vivevasi con ansia; invece, nel sito detto Intestadura la fiducia era unanime. D’un tratto, un rumore sordo avvertì quelli di Mussetta che il Piave aveva rotto lungi da loro: aveva rotto a Intestadura, villaggio di un migliaio di abitanti. Le acque, per uno squarcio largo oltre cento metri, irruppero spaventose, tutto travolgendo nella loro furia livellatrice: capanne, stalle, case, sui tetti delle quali arrivarono a stento a rifugiarsi coloro che non erano giunti a salvarsi sugli argini. Cinquemila persone, nel territorio circostante San Donà di Piave sono state colpite dal disastro; trenta chilometri quadrati di superficie sono stati allagati: e l’irruenza delle acque ha travolto nelle ruine, insieme con molte masserizie di miseri contadini, quattro vittime umane, due fanciulli e due poveri ottantenni. Nell’opera di salvataggio si sono segnalati, come sempre, per zelo, per umanità, i carabinieri e i nostri soldati.».

L’esondazione del 1903 (Archivio municipale di San Donà, tratta da “Il disegno della città tra utopia e realizzazione”)
Il Comizio del 17 gennaio 1904
In una immagine aerea durante la piena del 2018 la vecchia ansa del piave allagata con un piccolo lembo di terra a vista che all’epoca ne rappresentava l’estremità.

Nelle ultime righe del suo libro il Plateo dedicò parole accorate proprio alle alluvioni che lo videro per tanti anni in prima linea come Segretario municipale di San Donà di Piave. « Noi auguriamo che le grandi alluvioni, segnate dalla storia a tinte nere, non si ripetano più. Non possiamo però dimenticare l’altezza delle scaturigini del Piave, la sfrenatezza del suo corso, le angustie del suo alveo, il deviamento dello sbocco dalla laguna al mare e lo sboscamento progressivo dei monti, come tante cause di maggior impeto delle acque in tempo di piena. Dobbiamo poi constatare che queste cause costituiscono una potenza ignota ai tecnici e ai profani sin che dura l’attuale sistema di difesa, affatto insufficiente, prova ne sia che gli uni e gli altri rimasero fin qui ingannati dalle più studiate ipotesi. » Il Plateo ricorda poi un Comizio molto partecipato che si tenne il 17 gennaio 1904 a San Donà di Piave presso il Teatro Sociale, dove un Comitato composto tra gli altri dal Sindaco di San Donà Callegher, dal comm. Sicher e a cui diedero adesione molti sindaci del Basso Piave e del trevigiano, alla presenza di tanti senatori e deputati, rimarcarono molte richieste affinchè il Piave potesse essere messo in sicurezza. Di quell’ultima alluvione fecero anche un resoconto: 300 ettari l’estensione del territorio allagato con 757 famiglie e 5438 persone, le vittime furono 4, le case distrutte 8, le pericolanti sono 36, le danneggiate 120. I danni denunciati da piccoli proprietari, mezzadri, chiusuranti e braccianti, sommano a lire 383.343,25, esclusi quelli incalcolabili dei grandi proprietari.

Le alluvioni del Piave del 1882 nelle illustrazioni delle riviste
La pagina centrale dell'”Illustrazione Italiana” dell’ottobre 1882 con le due immagini dedicate a San Donà

I giornali dell’epoca dedicarono molte illustrazioni agli eventi tragici delle alluvioni che colpirono il Veneto in quella fine-inizio secolo. Disegni e incisioni che raccontavano di episodi realmente accaduti e che davano il senso, il più delle volte tragico, degli avvenimenti. Anche in periodi successivi dove l’immagine fotografica divenne protagonista, questo tipo di rappresentazioni grafiche continuarono a mantenere una loro importanza. Riguardo agli avvenimenti accaduti nelle nostre zone “L’Illustrazione Italiana” dedicò al Veneto una incisione composita nella doppia pagina centrale in uno dei numeri di ottobre. Così la lunga descrizione data dal giornale: « Il grande disegno, che occupa due pagine di questo numero si riferisce a diversi punti del Veneto desolati dalle inondazioni. L’ovale, che ne occupa il centro ed il disegno posto a destra, nella parte inferiore, rappresentano i lavori di palificazione e di arginatura, intrapresi ora, per chiudere la grande rotta di Legnago. Questi lavori sono importanti non solo per ragioni economiche, ma anche per ragioni idrauliche; trattandosi della rotta d’Adige più ampia e più profonda che si abbia avuta finora. Lo scandaglio scese in qualche punto ad una profondità di 37 metri…..Gli altri disegni che girano attorno a buona parte dell’ovale si riferiscono all’inondazione del Piave. Due volte: alla metà di settembre e alla fine d’ottobre, le acque di questo fiume uscirono dal loro letto, rompendo gli argini, facendo rovinare case e ponti, e fugando all’improvviso migliaia di poveretti che confusi, spauriti, cercavano rifugio nei punti più elevati. All’urto della prima piena caddero infranti il gran ponte di San Donà e il prossimo molino a vapore del cav. Finzi, ampio ed elegante opificio che dava lavoro e pane a moltissime povere famiglie. Il ritrattino, che spicca nella parte inferiore del nostro disegno, è del fanciullo Dazzi, quello che presso la rotta dell’Adige a Masi restò più di trenta ore, aggrappato al tronco d’un albero. Il poveretto è orfano; i suoi genitori rimasero vittime di quel fiume, al cui fiotto impetuoso egli poté sfuggire in modo tanto sorprendente. »

Nelle copertine delle riviste le tragedie del 1903
La copertina del “Secolo Illustrato” del novembre 1903

Due incisioni in prima pagina furono invece dedicate alla rotta dell’Intestadura del 1903. “Il Secolo Illustrato” raccontò con un’incisione in prima pagina la tragedia all’Intestadura accompagnandola anche con il triste racconto all’interno: « …il Piave purtroppo volle le sue vittime. La casa di Pietro Pavanetto fu spazzata via. In una stanzetta dormiva una vecchia madre ottantenne assieme a due figliolette che miseramente perirono. Il contadino Luigi Mandruzzato si trovò con una bambina di quattro anni e la madre ottantenne sul tetto di una cascina, ove la piena li raggiunse e la vecchia infelice venne strappata dalle braccia del figlio e miseramente affogò….». Lo stesso fece “La Domenica del Corriere” che raccontò un altro episodio accaduto: «…Mentre carabinieri e cittadini, dentro una grossa barca, sfidavano la furia dell’acqua limacciosa e terribile, raccogliendo uomini e dovve che stavano per annegare, un toro rimasto isolato sopra un lembo dell’argine caduto si lanciò nell’acqua inseguendo minacciosamente la barca stessa. Tra i naufraghi lo spavento fu grande : scampati da un pericolo, un altro li minacciava! Un carabiniere impugnata la daga, tenne a bada l’animale inferocito finchè un provvidenziale filare d’alberi permise alla barca di approdare trattenendo il toro. »

La copertina de “La Domenica del Corriere” del novembre 1903

Per ulteriori approfondimenti: 1. “Il ponte della vittoria diventa storia: 1922-2022 – passi barca, ponti e vie d’acqua a Musile e dintorni” di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto (Tipolitografia Biennegrafica, Musile di Piave – 2022); 2. “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Mons. Costante Chimenton (Tipografia Editrice Trevigiana, 1928); 3. “La bonifica nel basso piave” di Luigi Fassetta (Tipoffset, Venezia, 1977); 4. “San Donà di Piave” di Dino Cagnazzi, Giorgio Baldo, Tiziano Rizzo (Casa Editrice Legal, Padova, 1979); 5. “C’era una volta Musile” di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto (Biennegrafica, Musile di Piave, 2007); 6. “Torre di Mosto” di Dino Cagnazzi (Istituto Tipografico Editoriale, Dolo, 1979); 7.”Il disegno della città tra utopia e realizzazione” di Dino Casagrande e Giacomo Carletto (Tipolitografia Colorama, San Donà di Piave, 2002); 8. “Venezie sepolte nella terra del Piave” di Wladimiro Dorigo (Viella, Roma, 1994); 9. “Il territorio di S. Donà nell’agro d’Eraclea” di Teodegisillo Plateo (1907, Ristampa Editrice Trevigiana, 1969); 10. “Fossalta, dal 130 a.c. alla battaglia del Piave” di Alba Bozzo (Officine Grafiche Boschiero, Jesolo, 1983); 11. “Una terra ricca di memorie Noventa di Piave” di Dino Cagnazzi, Gianpietro Nardo, Luigi Bonetto (Istituto tipografico Editoriale, Dolo, 1980); 12. Archivio “Illustrazione Italiana” (consultabile on line)

28 luglio 1944, ottanta anni fa il sacrificio dei Tredici Martiri

Le tombe dei Martiri della Libertà presenti nel cimitero di San Donà di Piave

« Verso la mezzanotte del 27 luglio, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 4 giugno 1945, essi venivano bruscamente svegliati nelle loro celle, invitati a vestirsi e a partire. Partirono per non più ritornare. Alla soglia del carcere, gli assassini li attendevano, quaranta uomini armati di tutto punto contro tredici uomini inermi e legati mani e piedi.

Per giustificare l’eccidio, un simulacro di processo venne tenuto, clandestinamente, in qualche luogo. La sentenza, già preparata in anticipo, venne letta ai morituri nei pressi del luogo dell’esecuzione. E quando l’alba stava per spuntare, ripetute scariche di mitra falciavano i loro poveri corpi, dai quali, come ultima manifestazione di una vita spesa per il bene della Patria, uscì un sol grido: « Viva l’Italia ».

Da quel mattino in cui i Caduti cessarono di essere degli esseri viventi, essi diventarono un simbolo di dedizione al dovere, della volontà di lotta, delle sofferenze e del martirio di tutto un popolo e presero un nome comune: i Tredici Martiri di Cà Giustinian ».

La commemorazione solenne in occasione del ventesimo anniversario

Il libretto che contiene il testo dell’incip è stato editato dal Comune di San Donà di Piave in occasione di una commemorazione solenne che si tenne il 6 settembre 1964 in occasione del ventesimo anniversario. Ai Tredici Martiri e a quel libretto abbiamo già dedicato un post « San Donà di Piave, il sacrificio dei Tredici Martiri », con la possibilità di scaricare il libretto stesso a questo link: « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° anniversario della Resistenza ». A seguire invece l’invito spedito alle autorità per la manifestazione del 6 settembre 1964:

L’attentato di Cà Giustinian

La targa ricordo presente a Cà Giustinian

L’attentato che poi portò alla rappresaglia e all’uccisione dei Tredici Martiri avvenne il 26 luglio 1944. L’obiettivo a Venezia era la sede del Comando provinciale della Guardia nazionale repubblicana (Gnr). In quel palazzo aveva sede anche la polizia segreta del Partito fascista (Upi), oltre che un ufficio di propaganda tedesco, che risulterà l’anello debole che permise il successo dell’azione. Un obiettivo altamente simbolico che vide il crollo dei cinque piani del palazzo con numerose vittime, tra cui due militari tedeschi. Racconta Morena Biason nel suo libro (1): « …fu acquistato il baule che doveva servire allo scopo, predisposto il congegno di accensione, preparata la bomba dentro la cassa e, la mattina del 26, Varisco si recò presso l’abitazione in cui la cassa era custodita, lo studio dello scultore Velluti, e mise in funzione il congegno, dopodichè Velluti scrisse l’indirizzo tedesco sul coperchio della cassa che venne caricata sulla barca che la doveva portare a destinazione: la portarono “Kim” e un altro. I due si erano presentati al corpo di guardia del Comando provinciale della Gnr di Venezia preceduti da tre soldati tedeschi insieme ai quali, dopo aver dichiarato di dover consegnare il baule all’ufficio propaganda tedesco, avevano esibito i loro documenti personali ed erano stati fatti entrare nello stabile. Dato che l’ufficio non era ancora aperto, la cassa era stata lasciata in custodia al corpo di guardia e i due portatori se ne erano andati dicendo che sarebbero tornati poco dopo. Lo scoppio della bomba aveva provocato il crollo completo dei cinque piani dell’edificio, come voleva Varisco, solo nella parte posteriore. In seguito erano stati individuati i tre soldati tedeschi che avevano accompagnato Kim e il suo compagno all’interno del palazzo ed era stato appurato che erano stati sorpresi nella loro buona fede….»

L’alba del 28 luglio 1944

La tomba degli undici martiri sandonatesi di Cà Giustinian

Il giorno ventisette venne decisa la rappresaglia, tredici furono i prigionieri politici del carcere di Santa Maria Maggiore che vennero giustiziati, quasi tutti erano sandonatesi. Racconta Morena Biason nel suo libro (1): « La sera del 27 un gruppo di militi della Gnr si era portato presso la sede dei carabinieri di San Zaccaria, da dove aveva ordinato il trasferimento presso di loro, dalle carceri di Santa Maria Maggiore, dei tredici prigionieri scelti per la rappresaglia. I tredici, che credevano di andare incontro ad un processo, furono subito inviati a San Zaccaria, dove trascorsero solo una parte della notte, perchè prestissimo in sette, legati con una fune, vennero portati con un motoscafo sulle macerie di Cà Giustinian e, alle 5 del mattino, uccisi a colpi di mitra e di pistola. Le altre sei vittime, anch’esse legate, erano state fatte giungere sul posto a piedi, dalla parte di San Moisè. Solo alle 9 del giorno successivo le salme furono rimosse e trasportate con una peata al cimitero, senza che fosse possibile rivolger loro qualsiasi tipo di onoranza funebre. Avevano lasciato Santa Maria Maggiore intorno alla mezzanotte e, verso le 6, racconta Giuseppe Gaddi, in carcere all’epoca con i Tredici, la guardia addetta al magazzino già si recava a ritirare gli oggetti che avevano lasciato in cella. Il plotone di esecuzione era comandato dal capitano della Gnr Waifro Zani che aveva fatto di tutto per trattenere i tredici in carcere e non farli partire per la Germania, nonostante fossero già ingaggiati con regolare contratto per recarvisi a lavorare. Il capitano dopo che il plotone di esecuzione aveva già eseguito l’ordine impartitogli, avrebbe sparato un colpo di rivoltella contro ciascuno dei primi sette martiri… »

Gli altri martiri presenti nel cimitero sandonatese

La tomba dei Martiri della Libertà presente nel cimitero sandonatese

Accanto ai Tredici Martiri sandonatesi, nel cimitero cittadino vi è una seconda tomba che accoglie altre vittime sandonatesi di quel cruento periodo che vide gli uni contro gli altri, talvolta con divisioni profonde nelle proprie stesse famiglie. Un periodo nel quale morire era un attimo e anche quando si pensava di essere nel giusto, il destino decideva altrimenti. E’ il caso di Verino Zanutto al quale il solo perorare la causa di alcuni conoscenti catturati da un gruppo di partigiani trevigiani costò la vita seguendo così lo stesso destino di coloro che avrebbe voluto salvare in quanto egli stesso partigiano. Con Zanutto morì impiccato anche Primo Biancotto che lo accompagnava, fratello del Francesco che fu fucilato qualche mese dopo a Cà Giustinian. Flavio Stefani, Zanin Casimiro e Giodo Bortolazzi, tutti di Calvecchia, nel fiore dei loro anni morirono nei pressi di Pramaggiore. Caddero prigionieri dei nazisti comandanti dal tenente Bloch durante un rastrellamento a Blessaglia a seguito di alcuni sabotaggi alla linea ferroviaria. Dopo essere stati torturati furono fatti passare in rassegna alla popolazione locale per segnalare qualche loro fiancheggiatore, rimasti in silenzio furono impiccati agli alberi che costeggiavano la via Postumia il 27 novembre 1944. Al Zanin cedette la corda, lo stesso Bloch lo giustiziò a colpi di pistola dopo che una prima pistola si inceppò. Per tre giorni vennero lasciati lì a monito della popolazione locale. Padre e figlia sono invece Carozzani Luigi e Carozzani Cesira. Il padre trasferitosi in Friuli riforniva di viveri le formazioni partigiane entrando nelle mire dei tedeschi, anche i figli ben presto seguirono la stessa sorte tanto che le figlie Elvira e Cesira vennero catturate e inviate in Germania. Quando riuscirono a rientrare a San Donà il padre era già caduto in un conflitto a fuoco con i tedeschi in Friuli mentre Cesira non sopravvisse alla tubercolosi. Carlo Vizzotto fu uno di quei ragazzi che vennero arruolati forzosamente nelle fila dell’esercito di Salò. Inviato in Germania, al suo ritorno disertò e si aggregò ai gruppi partigiani liguri dove si distinse particolarmente prima di cadere in combattimento. Guerrato Luigi mori invece durante un attacco al presidio tedesco di Noventa il 28 aprile 1945.

I martiri della stazione

Villa Amelia, sede del comando delle SS durante l’occupazione nazista

All’ultimo dei sandonatesi presenti nella tomba dei Martiri della Libertà, Bruno Balliana, è legato uno degli episodi che sono rimasti nella triste storia di San Donà di quegli anni. «… La sera del 10 dicembre la squadra del Curasì, il comandante del presidio delle Brigate Nere di San Donà di Piave, prelevò dalle carceri mandamentali di San Donà Bonfante Angelo, Bonfante Bruno, Scardellato Giuseppe e Balliana Bruno, che vi erano stati in precedenza ristretti per renitenza alla leva o attività antifascista, e li condusse alla sede delle SS Germaniche, dove si trovava detenuto il conte Gustavo Badini, anch’egli arrestato per attività partigiana. A notte i cinque detenuti furono fatti uscire da Villa Amelia, sede delle SS e instradati per Noventa di Piave. La scorta era costituita da un reparto, forse di 60 uomini, al comando del tenente Haupt, e da un plotone comandato da Curasì. Questi diede in seguito ordine di mutare la formazione, e cioè fece disporre i detenuti in linea di fronte, l’uno affianco all’altro: seguiva immediatamente, a una decina di passi, il plotone anzidetto. Era stato percorso circa mezzo chilometro fuori dell’abitato, quando il Curasì, dato l’alt, diede ordine ai detenuti di voltarsi e intimò ai suoi uomini: fuoco! Seguì una violenta raffica da parte del plotone, che cagionò la morte immediata del Baldini, del Scardellato, del Balliana, e di Bonfante Angelo: il fratello di quest’ultimo, Bonfante Bruno, rimase invece miracolosamente ferito alle natiche ed ebbe il consapevole ardimento di buttarsi subito fuori della strada e darsi alla fuga, riuscendo, benchè inseguito, a sottrarsi all’eccidio e alla detenzione. Processato a fine guerra, Curasì venne condannato alla fucilazione alla schiena, il suo secondo Fenzo all’ergastolo, a trent’anni i sei componenti del plotone. »

La folla assiepata di fronte al duomo di San Donà in occasione dei funerali dei Tredici Martiri sandonatesi

Per approfondimenti sui Tredici Martiri e la resistenza sandonatese: (1) « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007)

25 aprile, Festa della Liberazione: un ricordo del 1944

25 aprile, Festa della Liberazione: un ricordo del 1944

San Donà di Piave, medaglia d’argento al Valor Militare per la guerra di Liberazione: «Fiera Città di prima linea già duramente provata dalla guerra, subito dopo l’armistizio sosteneva con decisione la lotta di liberazione, dando centinaia di valorosi combattenti alle formazioni partigiane e pagando sanguinoso tributo di vittime alla repressione tedesca. Duramente colpita anche da bombardamenti aerei non piegava la decisa volontà di resistenza. Insorgeva in presenza di ben seimila soldati tedeschi, liberava il suo territorio tre giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate, dopo aver catturati tremilacinquecento prigionieri. San Donà di Piave, 19431945»
— 12 dicembre 1952

Racconta Domenico Savio Teker nel suo libro “Storia cristiana di un popolo”: « Il 9 agosto il conteggio dei morti aumenta. Due partigiani vengono uccisi dai tedeschi dietro il Municipio, vengono fucilati senza dar loro il conforto di un prete. Lo stesso giorno il paese è attraversato da un camioncino che scarica davanti alla sede del fascio il corpo di un “disertore” di Musile. Il giorno dopo alle cinque di mattina i tre vengono sepolti “senza corteo e senza pompe”. Il sacerdote insieme a loro benedice anche la salma di un partigiano di Chioggia che era stato ferito a morte in uno dei rastrellamenti della settimana. ».

I due partigiani fucilati all’alba
Piazza Indipendenza su cui si affaccia il Municipio di San Donà di Piave (anni Quaranta)

Nei pressi del Municipio alle prime luci dell’alba furono fucilati Agostino Visentin, di Musile di Piave e Matteo Corridore, di San Giovanni Rotondo. Preziosi dettagli si desumono dal libro di Morena Biason “Un soffio di libertà”. In una relazione della brigata “Piave” viene segnalata la perdita di un elemento del gruppo, Agostino Visentin (tra parentesi le correzioni dell’autrice al documento dell’epoca) « In data 5 [ma forse 7] agosto 1944 in uno scontro sostenuto da alcuni compagni in località San Michele del 4°, contro due camion di SS e g.n.r. si lamenta la cattura in seguito a ferimento del compagno Visentin Augusto [ma Agostino] successivamente seviziato in ripetuti interrogatori e conseguentemente fucilato all’alba del giorno 11/8/1944 [ma 9/8/1944] dalle SS nel cortile delle scuole di S. Donà di Piave. [pare che il 9 luglio 1944] avendo trovato armi nascoste elementi del btg. San Marco – X Mas [abbiano] incendiato la baracca dei Visentin, adibita ad uso abitazione e magazzino, bruciando effetti di vestiario, letti grano vino botti e materiale agricolo. Asportarono inoltre n. 16 coperte, L. 25000 in contanti e banchettarono per una settimana nella casa di abitazione del Visentin fino ad esaurimento delle provviste del maiale.»

L’azione che portò alla cattura

Un altro partigiano che si trovava con loro, Pino Rossi, riuscì a salvarsi dal plotone di esecuzione. Pino Rossi, Agostino Visentin e Matteo Corridore erano stati catturati nella stessa circostanza, nel corso di un’azione, a cui aveva partecipato tra gli altri anche Luigi Amedeo Biason, svoltasi nei primi giorni di agosto, con tutta probabilità il 7.

Nella versione dei fatti fornita da Biason e Rossi si specifica anche il motivo dell’attacco ai partigiani, dicendo che l’azione in seguito alla quale era avvenuta la loro cattura si era verificata dopo circa un’ora dal disarmo di un piccolo gruppo di militari del battaglione San Marco, effettuato dai partigiani in località Musile di Piave. Entrambe le testimonianze riportano la notizia della morte di due partigiani durante lo scontro, ma nessuna delle due ne specifica i nomi.

Matteo Corridore da San Giovanni Rotondo
Matteo Corridore

Il soldato Matteo Corridore, che dopo l’armistizio non aderì alla Repubblica di Salò passando tra le fila partigiane, venne dunque fucilato nell’agosto 1944 a San Donà di Piave. Di lui vennero chieste informazioni dal suo paese natale sin dal 14 agosto 1945. Esiste documentazione, citata nelle note del libro di Morena Biason, di una richiesta di informazioni del sindaco del paese pugliese a quello omologo di San Donà con relativa risposta controfirmata anche dall’Ufficiale sanitario. Le vicende del soldato Corridore sono salite agli onori della cronaca in questi giorni quando finalmente si è risaliti al luogo dove erano sepolti i suoi poveri resti. Con una cerimonia ufficiale al Comune di San Donà di Piave gli stessi sono stati raccolti in un urna e consegnati al sindaco di San Giovanni Rotondo e ai famigliari del Corridore, così da riportarli in Puglia per festeggiare nel migliore dei modi il 25 aprile anche nel ricordo del sacrificio di questo loro compaesano.

La consegna dell’urna da parte del Sindaco di San Donà di Piave Alberto Teso al Sindaco di San Giovanni Rotondo Michele Crisetti. Presente anche l’ex sindaco pugliese Salvatore Mangiacotti che tanto si è adoperato per recuperare i resti di Matteo Corridore, per restiturli ai famigliari, pure presenti.
In un triste manifesto del 1944 la fucilazione dei due partigiani

Di quell’episodio esiste anche la documentazione del manifesto che le forze di occupazione erano solite affiggere nelle varie città a monito della sorte che riservavano a coloro che a loro si opponevano. Il testo in italiano e in tedesco così recitava:

COMANDO PIAZZA

S. Donà di P. – Noventa di P. – Musile di P.

AVVISO

Manifesto del comando tedesco di occupazione, tratto dal libro “San Donà di Piave” di Dino Cagnazzi (1995)

Il 7 agosto 1944 – XXII, nel pomeriggio sulla strada Mestre – San Donà di Piave auto dell’Esercito Tedesco e Italiane, furono assalite e prese a fucilate da terroristi.

I prigionieri presi sono di nazionalità italiana:

1. – Visentin Agostino da Musile di Piave

2. – Corridore Matteo da S. Giovanni Rotondo (Foggia)

E sono stati fucilati stamane all’alba.

Il popolo viene ancora avvisato che chi darà aiuti od ospitalità ai terroristi – consegna di generi alimentari, denaro, armi e alloggio – verrà punito severamente.

Le case nelle quali i terroristi saranno trovati e avranno ricevuti aiuti verranno bruciate. Gli abitanti verranno portati in campi di concentramento di lavoro in Germania.

IL COMANDANTE LA PIAZZA

Targa posta sul luogo della fucilazione

ORTSKOMMANDANTUR      S. Donà, 9-8

S. Donà – Noventa di Piave

Am 7-8-44 nachmittags wurden auf der Strasse Mestre – S. Donà Fahrzeuge der deutschen und italienischen Wehrmacht durch Terroristen beschossen.

Die gefangen genommenen italienischem Staatsangehoringen

1. – Visentin, Augustino aus Musile di Piave

2. – Corridore, Matteo aus S. Giovanni Rotondo (Foggia)

Wurden heute in fruhen Morgenstunden erschossen.

Die Bevolkerung wird nochmals darauf hingewiesen, der Terroristen, Lieferung von Lebensmittel, Geld und Waffen sowie Unterbringung aufs scharfste bestraft warden.

Gehofte, in denen Terroristen aufgenommen und Unterstutzung finden, warden niedergebrannt. Die Bewohner in Zwrangsarbeifslager abtransportiert.

DER ORTSKOMMANDANT

Per ulteriori approfondimenti: 1. “Un soffio di libertà” di Morena Biason (Nuova Dimensione, Portogruaro, 2007); 2. “Storia cristiana di un popolo – San Donà di Piave” di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. “San Donà di Piave” di Dino Cagnazzi (Centro Stampa, Oderzo, 1995).

L’incidente del Simplon Orient-Express a San Donà di Piave

L’incidente del Simplon Orient-Express a San Donà di Piave

Il ponte ferroviario distrutto dagli italiani il 9 novembre 1917

Come racconta il ten. Ing. Leonardo Trevisiol, della 20^ Comp. Minatori, nelle sue memorie: « Campanile di San Donà, demolito il 7 novembre, ore 23, dal cap. Borghi; camino dell’Jutificio e campanile di Noventa, demoliti l’8 novembre, dal ten. Trevisiol; ponte della ferrovia, fatto brillare il 9 novembre, ore 4 antimeridiane, e ponte carrozzabile, lo stesso giorno, ore 11, dal cap. Borghi e ten. Trevisiol della 20^ Comp. Minatori.» La guerra arrivò a San Donà in quel novembre 1917 e le vie di comunicazione per oltre un anno cessarono di collegare il territorio cittadino con l’altra sponda del Piave dove si attestarono le truppe italiane. Fin quando, dopo dodici cruenti mesi, le truppe italiane poterono riconquistare i tanti territori perduti sconfiggendo l’esercito austroungarico.

La lenta ricostruzione iniziò dai ponti
La linee ferroviarie italiane nella prima guerra mondiale

La rinascita di San Donà iniziò con la ricostruzione dei ponti. Quello pedonale inizialmente era costituito da un ponte di barche per poi lasciare il passo ad uno di legno. Quindi molti mesi dopo, il 12 novembre 1922 venne inaugurato il nuovo ponte sul Piave. Diversa la situazione di quello ferroviario la cui urgenza era di gran lunga maggiore per la sua utilità nel trasporto merci. Dal 1885 la ferrovia collegava San Donà a Venezia, cui seguì l’anno dopo il collegamento con Portogruaro. Linea che proseguì sino all’estremo limite del confine italiano dell’epoca rappresentato da San Giorgio di Nogaro per poi congiungersi con la ferrovia austriaca in direzione Trieste. Una linea ferroviaria che divenne interamente italiana dopo il primo conflitto mondiale, da qui l’esigenza di ripristinare sia i binari che i molti ponti per garantite lo spostamento veloce di persone e merci.

Il ponte della ferrovia in costruzione dopo la grande guerra (Immagine tratta da “Il Mondo”, 2 marzo 1919)
Il ponte della ferrovia
Il ponte provvisorio ricostruito nel febbraio 1919

Tante le risorse profuse per il ripristino dei molti ponti ferroviari da ricostruire, con l’impiego di molte maestranze militari e civili e con materiali che arrivarono da tutta Italia. Il ponte sul Piave riuscì a sfruttare in parte la struttura danneggiata e già nei primi mesi del 1919 potè essere utilizzato per il passaggio dei primi treni. In attesa del ponte definitivo quello costruito dal Genio Militare aveva la provvisorietà dell’unico binario che lo attraversava. Se i lavori sulla linea procedettero poi con celerità, il ponte ferroviario definitivo solo nel febbraio 1927 divenne operativo con i suoi doppi binari. Nel mezzo una tragedia le cui dimensioni fortunatamente furono ridotte, ma le conseguenze in quel dicembre 1921 avrebbero potuto essere ben più gravi.

21 dicembre 1921, il grave incidente ferroviario

La ferrovia nei pressi della stazione di San Donà dopo la guerra

L’incidente ferroviario nei pressi del Ponte di San Donà di Piave riempì le pagine dei giornali dell’epoca, ad essere coinvolti furono un direttissimo che da Trieste doveva arrivare a Roma e il Simplon Orient-Express, un treno lusso che aveva affiancato il famoso Orient-Express che da decenni attraversava l’Europa collegando Londra ad Istanbul. Dopo la costruzione del Passo del Sempione il Simplon seguiva un diverso percorso, il treno lusso scendeva verso l’Italia e, dopo le prestigiose fermate di Milano, Venezia e Trieste, riprendeva il percorso tradizionale dell’Orient Express a Belgrado.
Sulla Gazzetta di Venezia apparve un lungo articolo che raccontava con dovizia di particolari le ore successive all’incidente, i primi soccorsi giunti dall’ospedale di San Donà di Piave e la rapida inchiesta per individuare i responsabili. Questo ci dà anche un quadro di quali fossero le procedure non semplici che il singolo binario di attraversamento del ponte comportava, specie in orari serali e con una visibilità non ottimale.

« Il direttissimo 49 Trieste-Roma era arrivato a S. Donà di Piave l’altra sera alle 21.29 e dopo essersi fermato circa un minuto in quella stazione aveva ripreso la sua corsa verso Venezia con una andatura non troppo veloce, circa 40 km all’ora; giunto vicino al Ponte sul Piave, il direttissimo, trovata sgombra la via, si era avviato per l’unico binario che in quel punto si trova, e aveva di poco oltrepassato il ponte e stava per lasciare il binario unico, che dopo il ponte torna a biforcarsi, quando venne investito di traverso dal treno lusso Simplon Orient Express che proveniva da Venezia. L’urto fu violentissimo; tre carrozzoni del treno investito furono sfondati, mentre la macchina e il tender del treno investitore si rovesciavano lungo la scarpata.
Urla di dolore e di spavento seguirono al cozzo tremendo. Tutti i viaggiatori pazzi dal terrore si slanciarono fuori dagli scompartimenti mentre dalle macerie delle tre vetture sventrate si alzavano gemiti e lamenti strazianti. Il nebbione che forse fu la causa dello scontro si era nel quel mentre un po’ diradato e uno squallido raggio di luna venne ad illuminare il terribile spettacolo. I passeggieri rimasti incolumi e riavutosi dalla terribile paura cercarono di portare aiuto ai disgraziati che si trovavano sotto le macerie. In fondo, una guardia regia era incastrata tra il terreno e il tetto di un carrozzone e si lamentava debolmente chiamando aiuto, più in là una signora francese chiamava con voce straziante il figlioletto che non trovava più.
Giungevano intanto i primi soccorsi; alcuni manovali col capo stazione di San Donà, Dall’Acqua Cristoforo, e poco dopo alcuni infermieri dell’ospedale Umberto I con barelle che provvidero al trasporto dei feriti più gravi e alla medicazione dei più leggeri.

La stazione ferroviaria prima della grande guerra

I morti e i feriti
E cominciò la ricerca delle vittime: venne estratto il cadavere di un giovane signore da un cumulo di sedili che lo seppellivano completamente; poco dopo più avanti un colonnello del 48. Fanteria ferito piuttosto gravemente alle gambe, nel vagone letto fu trovata una signora pur essa ferita alle gambe: tutti furono adagiati su delle barelle e condotti allo spedale di S. Donà dove furono ricevuti e curati amorevolmente dal direttore Alessandro Girardi. Per fortuna il numero delle vittime, che data la violenza dell’urto e l’affollamento del direttissimo, lasciava a prevedere fosse molto ingente, non si riduceva che a due morti e ad una quarantina di feriti dei quali 15 soli furono ricoverati allo spedale di San Donà, mentre gli altri appena medicati, sono subito ripartiti.
Intanto la metà del treno 49 proseguiva col resto dei passeggieri per Mestre.
I soccorsi e le autorità
Verso la mezzanotte giungeva sul posto del disastro un treno di soccorso che portava le autorità: il sotto prefetto commendatore Sorge, il questore Tarantola, il Ten. Colonnello dei carabinieri Profili, il maggiore delle guardie regie Fulgenzi, il comm. Campello capo divisione movimento F.S., l’ing. Olper, comm. Sottili capo dei lavori, il comm. Vittori capo trazione, l’ing. De Simiane, e numerose guardie regie che pintonarono il luogo del disastro. Venne scaricato abbondante materiale per lo sgombero della linea.
Subito dopo ne giungeva un altro che portava il cav. Chiancone sostituto procuratore del Re, cav. Lo Mosco della Compartimentale, una quarantina di guardie regie al comando dei tenenti Fondelli e Del Vecchio, il cav. Arrighi ispettore capo sanitario delle F.S., il dr. Groviglio pure delle F.S.; 14 marinai con barelle al comando del maggiore medico Cantamessa, una quindicina di pompieri con l’ing. Gajanni, l’ispettore Fringuelli, ecc. Anche noi siamo sul posto e il disastro ci appare in tutta la sua gravità.
La visione del disastro
I tre vagoni del treno investito sono tutti rovesciati sulle rotaie; il vagone letto ha la parete destra completamente squarciata; è un ammasso di ferro contorto, di cuscini, di materassi, di lenzuola. Valigie sventrate; seguono due carrozzoni del Roma-Trieste con scompartimenti di I e II classe anche questi sventrati e sconquassati: sembra che sia stata tagliata via con un gigantesco coltello una parete, tanto è netto il taglio. Una veilleuse ancora accesa, Dio sa come, fra tanto disordine, spande una debole luce bleu; più in là l’ultimo carrozzone ha ancora le sue lampadine accese.
La scena è fantastica. Torce al vento e falò di legna rischiarano sinistramente la scena; sul cielo nebbioso si disegnano lugubri i contorni fantomatici dei carrozzoni squassati. La locomotiva del treno di lusso è distesa lungo la scarpata con i carrelli in aria, simile ad un enorme pachiderma rovesciato.
Quando giungiamo i feriti ed i due morti sono già trasportati allo spedale e sono già iniziati i lavori di sgombero: vengono installati due potenti riflettori ad acetilene per poter continuare il lavoro per la riattivazione della linea.
L’inchiesta delle Autorità

La stazione ferroviaria di San Donà nel 1921

Ci rechiamo alla stazione di San Donà dove troviamo già il cav. Chiancone coadiuvato dal cav. Lo Mosco che ha già iniziato l’interrogatorio dei testimoni. Possiamo parlare coll’ing. Giovanni Breda, consigliere delle F.S. il quale era uno dei viaggiatori del treno investito e ci dà molto cortesemente delle spiegazioni tecniche sul sistema di segnalazione all’imbocco del ponte.
Subito dopo la stazione di San Donà egli ci spiega, ad un centinaio di metri dal ponte, il doppio binario si riunisce dovendo passare per esso e torna poi a biforcarsi ad un altro centinaio di metri più in là. A sorveglianza di questo importante scambio c’è la cabina A che è in comunicazione colla stazione di San Donà, e che ha l’ufficio di far funzionare i segnali di arresto per i treni provenienti da Venezia, qualora la via sia ingombra da un treno proveniente da San Donà. Il sistema di segnalazione è costituito da un segnale di avviso a luce gialla distante un 500 metri dallo scambio e da un segnale di prima categoria a luce rossa posto vicino lo scambio. Inoltre, in tempo di nebbia, come ieri sera, lungo la linea vengono posti tre petardi che hanno l’ufficio di avvisare il capotreno qualora questo per la nebbia non scorgesse il fanale giallo indicante che la via è impedita. Ora con ciò, conclude il nostro interlocutore, non possiamo ammettere che una causa del disastro: la nebbia che ha impedito al capotreno del S.O.E. di scorgere il segnale di avviso e udire a tempo lo scoppio dei petardi, per cui si è trovato sotto il fanale rosso improvvisamente e quando ormai era troppo tardi per frenare il treno.
Le impressioni di un viaggiatore

Il Simplon Orient-Express nei pressi del Passo del Sempione in una immagine degli inizi del ‘900

Preghiamo ancora, incoraggiati dalla sua gentilezza, l’ing. Breda di riferirci la sua impressione al momento del disastro ed egli di buon grado ci dice: “Mi trovavo nel treno 49 che era partito da San Donà di Piave alle 21.30 diretto a Venezia, e avevamo appena oltrepassato il ponte sul Piave verso Fossalta, quando improvvisamente avvertii prima un urto lieve seguito subito da uno fortissimo che rovesciò la vettura nella quale mi trovavo; un signore che era in mia compagnia fu sbalzato di colpo fuori dallo sportello che si era sfasciato e pure una signora che si trovava anch’essa nel mio scompartimento avrebbe seguita la stessa sorte se non fossi riuscito a tempo ad afferrarla. Riavutomi subito dal colpo uscii dal treno e constatai che la vettura che si trovava davanti alla mia era anch’essa rovesciata su di un fianco e che anche la vettura letto si era inclinata e aveva una parete completamente asportata, mentre la locomotiva del treno investitore che poi capii essere il S.O. giaceva rovesciata col tender lungo la scarpata. Le altre vetture invece del mio treno si erano staccate senza riportarne danni. Allora feci immediatamente ricerca del macchinista e del fuochista del treno lusso senza poterli trovare, poiché essi s’erano allontanati tosto portandosi alla stazione di San Donà. Invece il capo treno del S.O. continua l’ing. Breda, mi ha detto che il segnale di avviso era chiuso e che aveva inteso pure i tre petardi di segnale.
Dopo una mezz’ora, spesa per soccorrere i feriti, mi recai alla cabina A che dista una quarantina di metri dal bivio e constatai che le leve per il segnale di protezione o di avviso erano disposte per l’arresto del treno S.O. e che lo scambio per il direttissimo 49 era invece aperto, quindi a piedi raggiunsi la stazione.
Ringraziammo l’ing. Breda per la sua cortesia e grazie a quella del cav. Chianconi possiamo legger le dichiarazioni che hanno fatto il cantoniere della cabina A, il macchinista del treno S.O., del capotreno pure del S.O. e infine del frenatore di coda.

Le dichiarazioni del personale
Il cantoniere della cabina A certo Frasson Gaetano dichiara che comandato dal dirigente della stazione di San Donà di aprire la via al treno 49 eseguì la manovra e che non potè scorgere, data la nebbia fitta, l’avanzarsi del lusso che entrò nel binario a semaforo chiuso andando ad investire il 49. Egli aggiunge inoltre che dato il rumore che faceva il 49 passando sul ponte, non gli fu possibile udire lo sparo dei petardi.
Il capotreno del lusso certo Veronese Equiziano dice che mentre egli era intento a riportare in 2. copia l’unico collo ch’egli avesse in consegna nel bagagliaio udì lo scoppio dei tre petardi: egli corse subito a guardare e stante la nebbia e il fumo che la macchina faceva non gli riuscì di scorgere il segnale di avviso e che invece poco dopo scorse il segnale rosso a via impedita. Egli diede subito mano al freno Westinghouse, ma troppo tardi poiché subito dopo egli ricevette un colpo sì violento da farlo cadere a terra mezzo intontito.
Il macchinista Morini fa anche lui una dichiarazione consimile a quella del Veronese, disse che anch’egli non riuscì a frenare in tempo.
Analoga dichiarazione ha fatto il frenatore di coda certo Pin Vittorio. Il Veronese, il Morini e il Pin subito dopo il disastro sono corsi in stazione dove hanno fatto le loro dichiarazioni e poi si sono allontanati e non hanno più fatto ritorno.
Le responsabilità
Non sappiamo ancora quali siano state le conclusioni dell’inchiesta aperta dal cav. Chiancone, ma dalle deposizioni dei testimoni e del cantoniere Frasson, risulta ben chiaro che la colpa del disastro deve attribuirsi al personale del treno lusso che non doveva essere troppo attento alle segnalazioni, che appunto perché rese meno visibili dalla nebbia, dovevano con maggior cautela esser avvistate. In ogni modo se il capotreno Veronese potè scorgere il segnale rosso, quando ormai non c’era più tempo, o perché non poteva scorgere anche il segnale di preavviso giallo? E perché il capotreno e il macchinista non appena percepirono il primo petardo non chiusero immediatamente i freni? Noi non vogliamo con questo accusare il personale del treno lusso di incuria, ma d’altra parte siamo convinti che, sia il capotreno, sia il macchinista, sia il frenatore avessero posta più attenzione il disastro che è costato la vita a due persone di sarebbe potuto evitare.
I lavori di sgombero

Immagine pubblicitaria del Simplon Orient-Express

I lavori di sgombero della linea sono già stati iniziati sin dalle 2 di ieri notte sotto la direzione del comm. Campello e dell’ing. Veslarini.
Diamo i nomi dei due morti e dei quindici feriti ricoverati all’ospedale Umberto I di San Donà:
I morti
Dott. Dorini Giuseppe di Pasquale di Pasquale, d’anni 36, ex questore di Fiume.
Dott. Scarlini Spiro fu Carlo, d’anni 50, da Panerai (Firenze), ispettore capo reparto ferrovie. La morte deve esser stata istantanea per il colpo violentissimo.
I feriti
I feriti, feriti quasi tutti alle gambe e alle braccia, sono tutti fuori di pericolo:
Fissarella Ginevra fu Marcantonio, da Roma.
Barone Niccolò Serena di Lapigio, da Roma.
Dott. Mayer Aldo, figlio del sen. Mayer, e redattore del “Piccolo” di Trieste. Dalle pagine de Il Piccolo si legge che con la moglie e la figlia di stava recando a Roma. Erano tutti nel wagon lit colpito dal treno lusso. Al momento del terribile urto il Mayer perse conoscenza. Quando rinvenne vide attorno al suo letto ospedaliero la moglie e la figlia, le quali avevano dovuto indossare gli abiti offerti dalla pietà delle suore del pio luogo perché al momento dello scontro erano coricate e le loro vesti, nel tumulto, si erano smarrite. Egli ha diverse abrasioni al volto e il braccio fratturato, anche una delle tibie è gravemente offesa.
Cotromano Giuseppe di Felice, da Bologna.
Bertini Luigi, da Roma, consigliere di emigrazione.
Mencucci Giovanni di Francesco, da Porto Salve (Calabria), tenente dei carabinieri in servizio a Fiume, sulle pagine del Piccolo era tra i feriti più gravi.
Mencucci Sante di Francesco, da Porto Salve (Calabria).
De Zito Alfonso di Pasquale, primo capitano della R. Marina, di Salerno
Focacci Ruggero di Pietro, da Santofiore (Grosseto).
Lenise Geriola, da Algeri, anche nel suo caso si legge dalle pagine del Piccolo che si trattava di uno dei feriti più gravi a causa di una grave commozione celebrale.
Maillar Luigi, da Algeri.
Testolina Gennaro, guardia regia, da Trieste.
Cecchin Mario, macchinista Deposito di Fiume, da Firenze.
Mariottini Ottavio, agente agrario del conte Revedin, Gorgo al Monticano (Oderzo).
Cav. Elia Luigi, colonello comandante del 48. Fanteria di stanza ad Abbazia, anche lui tra i feriti più gravi.
Sono stati ricoverati poi all’Ospedale di Mestre due feriti fortunatamente leggeri.
Lucio Mariucci, commerciante di Trieste per contusione al piede, d’anni 29.
Agnoluzzo Raffaello, istriano, d’anni 30, ferito leggermente alla testa. L’Agnoluzzo è uscito dall’Ospedale nella giornata di ieri.
Sono stati ricevuti poi al nostro Ospitale Civile certo Abbolito Luigi applicato alle ferrovie di Triste.
Pamol Antonio d’anni 16 da Pisino, domestico
Scazzafava Glesia, maritata De Carolis, di Reni, d’anni 25.
Ciampi Adele, d’anni 35, nata a Milano proveniente da Trieste.
Tutti e quattro sono feriti alla testa e alle gambe, e se la caveranno in circa una ventina di giorni.
L’arresto del macchinista del treno investitore
L’inchiesta ordinata dal sostituto procuratore del Re cav. Chiancone ed eseguita dal giudice istruttore Cattaneo è finita nella mattinata di ieri. Dalle varie deposizioni dei testimoni è apparsa chiaramente la responsabilità del macchinista del treno di lusso Morini Carlo, che, per ordine del Commissario Compartimentale venne tratto in arresto nelle prime ore pomeridiane di ieri.
Nella giornata seguente il ripristino della linea e la morte di un terzo passeggero
Per tutta la giornata di ieri sono continuati i lavori di sgombero della linea: si è potuto fare un raccordo e fu possibile far inoltrare i treni per questa linea provvisoria. Il colonello Elia del 48 Fanteria che era tra i feriti più gravi è morto in seguito a commozione celebrale sopraggiuntagli in causa al terribile colpo ricevuto alla testa.
La Gazzetta di Venezia si mantenne sul vago sulle reali cause della morte del colonnello Luigi Elia del 48° Fanteria di stanza ad Abbazia, più cruda la spiegazione che apparve sulle pagine del Popolo d’Italia: “Egli sopportò stoicamente prima l’amputazione di un arto superiore poi di un arto inferiore, ma dopo due operazioni cessò di vivere.”.

Il nuovo ponte ferroviario venne inaugurato nel 1927

Il tragico incidente della settimana precedente il Natale del 1921 accelerò l’iter per il raddoppio del binario di attraversamento del ponte ferroviario di San Donà di Piave. Le periodiche piene del Piave che avevano accompagnato anche la costruzione del ponte provvisorio, non mancarono nel rallentare i lavori, ma alla fine nel febbraio 1927 il ponte ferroviario definitivo poté finalmente essere inaugurato. Quello stesso ponte divenne poi suo malgrado protagonista anche nel secondo conflitto mondiale quando fu colpito durante i bombardamenti alleati del 1944.

Per ulteriori approfondimenti: 1. “Il ponte della vittoria diventa storia: 1922-2022 – passi barca, ponti e vie d’acqua a Musile e dintorni (di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto – Tipolitografia Biennegrafica – Musile di Piave – 2022); 2. “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Mons. Costante Chimenton, Tipografia Editrice Trevigiana, 1928); 3. Archivio storico “Gazzetta di Venezia”, venerdì 23 dicembre 1921; 4. Archivio storico “Il Piccolo” di Trieste, venerdì 23 dicembre 1921; 5. « Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti », il periodo dei bombardamenti aerei alleati trattati nel Blog in tre post successivi.

Nel lontano 1938 nacque l’associazione “Amici Moto Ombra”

Nel lontano 1938 nacque l’associazione “Amici Moto Ombra”

In un articolo del periodico “Il Piave”, edito dall’amministrazione comunale di San Donà di Piave, nel gennaio 1973 si poteva leggere qualche cenno storico dell’associazione “Amici Moto Ombra”

Una cartolina degli “Amici Moto Ombra” con la loro classica moto stilizzata

Uno dei motti dell’associazione “Amici Moto Ombra” recitava così « Empi il Bicchier che vuoto – vuota il bicchier che pieno – non lo lasciar mai vuoto – non lo lasciar mai pieno ». Nata nel 1938 per iniziativa di quindici amici fondatori in un periodo di grandi ristrettezze e con un Paese oramai prossimo alla guerra e alle distruzioni che questa portò, ebbe il merito di continuare la sua opera per un periodo lunghissimo tanto che l’articolo apparso su “Il Piave” festeggiava il suo trentacinquesimo anniversario.

I Soci fondatori degli « Amici Moto Ombra »

Da Sinistra in alto: Zorzi Vittorio, Tronco Giovanni, Brollo Libero, Pasini Nino (primo presidente), Bello Oreste, Pasini Luigi; in mezzo: Bincoletto Luigi, Momesso Giuseppe, Giacobbi Giuseppe, Caramel Alfredo, Boccato Luigi; in basso: Frara Luigi, Bergamo Mario, Murer Bruno, Carlesso Giulio.

Da “Il Piave” – Ricorre quest’anno il 35° anniversario della «Amici Moto Ombra – G. Tronco »

Ricorre quest’anno il 35° anniversario della fondazione del decano dei sodalizi cittadini la « AMICI MOTO OMBRA – Giovanni Tronco ».
Da queste colonne ci proponiamo di far conoscere che cosa è la AMICI MOTO OMBRA, il perché della sua fondazione e le finalità che l’hanno fatta nascere e sin qui progredire per assumere adesioni innumerevoli.

Una foto di gruppo con sullo sfondo la moto modello « Amici Moto Ombra », la vista è su via Trecidi Martiri dove si nota anche l’Oratorio Don Bosco

Nel lontano 1938, nel mese di febbraio, un gruppo di quindici operai spinti da profondi sentimenti di amicizia dettero vita alla AMICI MOTO OMBRA come fini ricreativi ma soprattutto spinti da un più nobile ideale che si identificava nel motto « uno per tutti e tutti per uno – Agire nell’ombra » e cioè intervenire con l’aiuto morale e finanziario per quegli amici che si venivano a trovare in ristrettezze e difficoltà economiche. Sta di fatto che le quote che settimanalmente ogni amico versa, a fondo perduto, vanno ad aumentare il fondo cassa creando la potenzialità degli interventi nei confronti di chi può averne bisogno. Dunque lo scopo primo è aiutare gli amici e dopo il divertimento.

Tra la folla un carro allegorico degli « Amici Moto Ombra » trainato dai buoi


La « Amici Moto Ombra », però, non soltanto si ricorda degli amici iscritti, ma in occasione delle festività più care a tutti interviene verso chi soffre, distribuendo pacchi dono ai vari Enti morali del paese,
Fra le manifestazioni sociali, trattandosi di operai, una delle più sentite è la consumazione di un pranzetto spuntino in occasione della festa del Lavoro. Nei primi anni di vita del sodalizio durante tale manifestazione veniva assegnato un diploma alla più bella sbornia tra i partecipanti allo spuntino; questo non per incitamento al vizio del bere ma soltanto perché il ritrovarsi uniti per lo spuntino creava l’occasione di un pomeriggio pieno di allegria per tutti e colmo di libagioni fra amici cari.

Un classico “spuntino” degli « Amici Moto Ombra »


Ferma e basata su questi principi la AMICI MOTO OMBRA è fiorita aumentando sempre più il numero degli iscritti. Dai 15 amici fondatori attualmente contra n. 107 soci amici.
Attualmente a far parte del sodalizio sono rimasti soltanto due dei fondatori; gli amici BERGAMO MARIO e CARAMEL ALFREDO.
Il sodalizio nell’immediato dopoguerra è stato intitolato alla memoria di Giovanni Tronco, socio fondatore, fucilato dai nazisti nell’eccidio di Cà Giustiniani con altri 12 Martiri della resistenza.
Tradizionalmente, durante il carnevale, il sodalizio organizza una veglia danzante che quest’anno avrà luogo il 10 febbraio p.v. all’Hotel Vienna. La serata sarà allietata da un noto complesso musicale.

Torpedoni in colonna in una gita degli anni Cinquanta

Giovanni Tronco, tra i fondatori degli «Amici Moto Ombra» fu uno dei Tredici Martiri

Come ricorda anche l’articolo de “Il Piave” tra i soci fondatori degli « Amici Moto Ombra » vi era anche Giovanni Tronco che il 28 aprile 1944 venne fucilato per rappresaglia dai nazifascisti assieme ad altri dodici compagni di cella nei pressi di Cà Giustinian a Venezia, in quello che ancor oggi viene ricordato come il sacrificio dei Tredici Martiri. Abbiamo trattato quell’episodio a questo link http://bluestenyeyes.altervista.org/san-dona-di-piave-il-sacrificio-dei-13-martiri/, dove tra l’altro è anche possibile scaricare il libretto che l’amministrazione comunale di San Donà di Piave (Medaglia d’argento al Valor Militare per la Guerra di Liberazione) ha pubblicato nel 1964 in occasione del ventennale. Per ricordarlo gli Amici vollero associare il suo nome a quello degli « Amici Moto Ombra ».

L’addio autografo alla famiglia di Giovanni Tronco, tratto dal libretto edito dal Comune di San Donà di Piave (1964)

Gli Ottanta anni degli « Amici Moto Ombra »

Nel 2018 l’associazione ha festeggiato gli Ottanta anni dalla fondazione. Evento che è stato ricordato in un articolo de La Nuova Venezia a firma Giovanni Monforte: «… Il sodalizio è formato da un gruppo di amici che si ritrovano ancora oggi settimanalmente per promuovere iniziative benefiche agendo soprattutto nell’ombra, intervenendo con l’aiuto morale e finanziario non solo verso i soci in caso di difficoltà, ma anche verso enti morali. «Rispetto al 1938 i tempi sono cambiati, meno difficili però con maggiori esigenze, ma gli obiettivi e lo spirito di carattere sociale e benefico sono sempre quelli che hanno animato i soci fin dall’inizio», spiegano. Il gruppo trae il nome dal simbolo: una moto con due ruote di bicchieri, motore e serbatoio raffigurati da una damigiana e una botticella. »

Per approfondimenti: 1. « Il Piave » del 5 febbraio 1973 periodico amministrazione comunale San Donà di Piave; 2. articolo « La Nuova Venezia » del 17 febbraio 2018.

Il Martirio e la Resurrezione di San Donà di Piave

Nel giugno 1929, in contemporanea con l’uscita del libro di Monsignor Dottor Costante Chimenton “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella”, sulla rivista edita del Touring Club Italia “Le vie d’Italia e dell’America Latina” uscì un lungo articolo a firma Giorgio Paoli che da quel libro trasse ispirazione. A corredo dell’articolo furono inserite molte fotografie di Alfredo Batacchi, molte delle quali divenute nel frattempo cartoline di San Donà di Piave.

Rivista mensile del Touring Club Italiano, Anno XXXV – giugno 1929

di Giorgio Paoli

Fra i tanti paesi italiani che, per essersi trovati sulla ardente fronte della grande guerra, ebbero a condividerne le alterne vicende, a partirne le dure violenze, a supportarne i terribili sacrifici, a viverne la crudele angoscia e la vermiglia gloria, San Donà di Piave fu dei più martoriati e dei più eroici. Non solo una folta schiera dei suoi giovani figli – quattrocentoventi – immolarono la balda esistenza combattendo per la Patria, ma il paese stesso fu tutto travolto e sconquassato dalla tremenda bufera e, dopo il rovescio di Caporetto, invaso dal tracotante nemico, soffrì per un anno l’amarezza del selvaggio e nella lotta per la liberazione fu bersaglio di spietati colpi e vittima di innumeri ferite. Ridotto a uno spaventoso cumulo di macerie, sembrava, nel vittorioso termine del conflitto, ch’esso non potesse più risollevarsi dalla triste polvere in cui giaceva. Invece – miracolo d’energia e di fede – chi lo vede oggi lo trova risorto, lo saluta più bello di prima, risanato e forte, in piena maturazione di sviluppo, in una consolante ripresa di attività, in un sicuro ritmo di lavoro: esempio anch’esso, con mille altri, dell’inestinguibile gagliardia di nostra stirpe e, in particolare, del virile e fattivo ardore della gente veneta.

Un figlio di questa terra, Monsignor Dottor Costante Chimenton, professore del seminario di Treviso, ha amorosamente tracciato la storia di San Donà di Piave in un’interessante volume di 900 pagine, copiosamente documentato ed illustrato; ed è sulla sua scorta che vogliamo qui richiamare gli eventi connessi con la guerra e compendiare l’opera di restaurazione che, per virtù di Governo e di popolo, ha doppiamente redento il gentil paese.

Il Santo Patrono

Son dodici i santi che portano il nome di Donato, per cui si può comprendere come sia stata lunga la controversia storica, non peranco risolta, per decidere quali di essi fosse l’autentico patrono di San Donà. La chiesa, a tagliar corto stabilì che l’onore spettasse a San Donato Vescovo martire, ma il curioso è che nel paese il tempio principale fu invece sempre dedicato alla Madonna delle Grazie, alla quale si aggiunse San Donato soltanto quando, nella prima metà del secolo scorso, il tempio in questione, ormai cadente e ad ogni modo inadeguato per la cresciuta popolazione venne ricostruito tra un devoto entusiasmo popolare in un nuovo edificio arcipretale che ricevette poi, a grado a grado, gli abbellimenti che lo resero particolarmente pregevole e venerato.

Era esso, come naturale, il fulcro del paese, per antica tradizione religiosissimo, e, intorno, l’abitato schierava la guardia delle sue case, nella cui massa, dalle apparenze modeste, spiccavano parecchi edifici ragguardevoli e sobriamente eleganti, quali il Municipio, le sedi di alcune banche e aziende diverse e varie palazzine e ville private, così che San Donà aveva aspetto e sostanza di vera cittadina, e il suo territorio – sanato dalle ardite bonifiche che avevano regolato il corso delle acque – si dispiegava ubertoso florido, presso il margine del lido adriatico.

L’arrivo della guerra
Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

La guerra turbò la questa quieta armonia delle opere, ma trovò il popolo di San Donà pronto a qualunque sacrificio, come ben si vide allorché il nembo tragico avvolse il paese. Dopo Caporetto, San Donà di Piave divenne uno dei punti strategici contro cui si sferrò l’azione dei belligeranti. Quasi tutti i giorni, nei suoi bollettini ufficiali, il Comando Supremo ebbe a registrare il nome di San Donà o delle sue frazioni; le vittime immolate sul suo suolo furono innumerevoli; le sue campagne furono allagate di sangue. Le prime avvisaglie della lotta vi si sparsero il 29 ottobre del 1917, allorché il paese fu invaso dal nostro esercito in ritirata. Seguirono gli esodi degli abitanti, le depredazioni e i saccheggi, le vessazioni e le brutalità dell’orta nemica, i bombardamenti senza tregua, i combattimenti sulle rive del Piave, ove i nostri si erano arrestati ed aggrappati, e quindi la rovina dello sciagurato borgo, flagellato da ogni parte. I profughi dovettero sparpagliarsi in tutte le regioni d’Italia, persino in Sicilia, mentre l’autorità municipale, capeggiata dal sindaco, Giuseppe Bortolotto, trovava asilo in Firenze, ove organizzava l’opera di tutela e di esistenza morale riannodando con pazienti ricerche le disperse fila della comunità. Il paese rimane, fin dove poté, l’arciprete monsignor Saretta, che si adoperò a favore degli infelici parrocchiani con uno zelo così caldo e coraggioso che gli austriaci, sospettosi e urtati, finirono per trasferirlo a Portogruaro.

Nel settore di San Donà-Caposile la lotta non ebbe mai respiro. In quegli acquitrini si mantennero tenacemente abbarbicati di avversari, e con pari tenacia i nostri sforzarono di snidarli, sfidando i covi di mitragliatrici di cui era cosparso tutto il margine del Piave, mentre altre stavano appiattite tra i ruderi delle case, di guisa che tutto il territorio era un feroce agguato di distruzione e di morte e dovunque s’accumulavano le rovine e giacevano al sole e alle intemperie le salme insepolte.

Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

Specialmente furiosa si scatenò la battaglia, nell’estate del 1918, all’allorchè da una parte e dall’altra si giocò la carta decisiva, e il nemico ributtato dal fiume, comprese che la sua ora disperata, la sua perdita definitiva,  stavano per arrivare. Invano s’irrigidì, invano si esasperò nella spietata violenza, invano eresse le forche sui pioppi e sugli ippocastani, per impiccarvi legionari cecoslovacchi ch’erano passati a combattere con noi; il monito crudele non valse a rianimare l’esercito prostrato e tantomeno propiziargli il sognato trionfo. L’autunno successivo, a un anno dall’invasione, quella sciagura era vendicata, il paese redento, il nemico ricacciato e rotto, la guerra vinta dal valore delle nostre armi, dall’ardimento dei nostri magnifici soldati; e dall’avversario null’altro rimase, tristo conforto, se non lo sfogo codardo delle ultime prepotenze sugli inermi, delle ultime brutalità sui vecchi, sulle donne, sui fanciulli, degli ultimi vandalismi sulle cose, delle ultime razzie nella desolata contrada ch’era costretto ad abbandonare.

I sandonatesi avevano però già ricevuto il premio del loro sacrificio nella liberazione, alla quale tanti dei loro avevano valorosamente contribuito, così che il nucleo di questi combattenti seppe meritarsi otto medaglie di bronzo, dieci d’argento e una medaglia d’oro, quella che frigiò il petto di Giannino Ancillotto, l’aquila eroica, il prodigioso bombardatore aereo che non esitò a distruggere anche la propria villa, pur di colpire il nemico che la profanava, nella sua diletta San Donà.

Dopo la guerra, solo distruzione

Il primo cittadino che entrò in quella terra redenta fu l’antico sindaco, divenuto Commissario Prefettizio, il commendatore Giuseppe Bortolotto, che vi giunse il primo novembre 1918 con un autocarro militare, attraversò il Piave con le sue truppe, visse quel giorno e il successivo in mezzo ai soldati e passò la notte tra i carriaggi dell’esercito, nutrendosi del rancio comune. Subito egli si accinse all’opera della ricostruzione, ma la situazione, nel paese deserto, era spaventosa.

Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

Il centro dell’abitato era completamente distrutto. Il nucleo principale, nella zona immediatamente vicina al Piave e nei dintorni della chiesa, era ridotto a un mucchio di rovine. Del pari gli stabili, sulle principali vie d’accesso al paese e al fiume, erano quasi tutti a terra e soltanto qualche casa colonica era rimasta in piedi. In pochi giorni la popolazione giunse a cinquemila anime e via via s’accrebbe col ritorno dei profughi privi di tutto, in un luogo in cui c’era più nulla e ogni cosa era da improvvisare, da rifare di sana pianta.

Un compito immane fu affrontato, tra comprensibili malumori, in un disordine caotico, aggravato dagli intralci burocratici e dall’incomprensione delle autorità superiori e dello stesso Governo di quel tempo, mentre le tristi condizioni divenivano minacciose per il dilagare delle acque dalle rovinate bonifiche e per il diffondersi delle malattie. La stessa Croce Rossa americana, sollecitata a porgere il suo aiuto giudicava che San Donà fosse ormai un paese morto e che non mettesse conto di spender tempo e fatiche per farlo risorgere.

Eppure, per l’ammirevole tenacia del Commissario, che seppe moltiplicarsi riverberando il proprio entusiasmo in chi lo attorniava, piano piano San Donà risorse. Nel duro lavoro molto giovò anche l’ausilio del clero, con la alla testa il bravo arciprete, monsignor Saretta, che indefessamente ed efficacemente si prodigò per lenire tante miserie e far tornare negli spiriti la calma e la fede, a cominciare dalla fede religiosa, per la quale egli provvide subito a riattivare le pratiche del culto, officiando tra le macerie del tempio, dapprima, poi in una baracca provvisoria, mentre si dava mano alla demolizione del Duomo pericolante per ricostruirlo.

La ricostruzione del Duomo e dei luoghi di culto

Si ricostruirono infatti il Duomo e il suo campanile, su progetto del professor Giuseppe Torres di Venezia. La chiesa, ad unica navata, con cinque porte, è fronteggiata da una maestoso pronao, adorno di sei colonne di pietra artificiale e di un timpano a finte bugne. Il campanile, che le sorge a fianco, è alto 76 metri, quadrangolare, massiccio, sormontato da una cuspide sulla quale si libra un angelo rivestito di rame. La spesa s’aggirò sui tre milioni e l’edificio sacro fu aperto al culto nel marzo del 1923.

Si ricostruirono pure le chiese di Passarella e di Chiesanuova e le case canoniche di quelle frazioni del Comune, oltre quella di San Donà; come pure vennero ricostruite altre chiese ed oratori ed edifici di carattere religioso, per cui la cattolicissima plaga potè a poco a poco vedere rimosso ha rimesso a sesto e notevolmente migliorato il proprio patrimonio di pratica cristiana.

Il nuovo ponte

E a poco a poco anche l’opera della ricostruzione civile ebbe il suo coraggioso e mirabile sviluppo. Una di quelle che trovarono per prime le solerti cure dell’amministrazione provinciale e comunale fu l’opera del ponte sul Piave, per ristabilire le normali comunicazioni tra San Donà e la frazione di Musile, essendo stato distrutto dalla guerra il robusto ponte di legno che da trent’anni allacciava le due località (ndr in realtà il ponte di legno venne distrutto molti anni prima da una piena del Piave, quello distrutto nel 1917 era in muratura e ferro). Il nuovo ponte fu costruito in poco più di un anno, tra il maggio del 1921 e il luglio del 1922. Composto di quattro travate di di ferro e lungo 210 metri, esso venne inaugurato dal Duca d’Aosta e, in omaggio all’augusto Condottiero ebbe il nome di Emanuele Filiberto di Savoia. Anche sulla linea ferroviaria, transitante sul Piave, si dovettero ristabilire le comunicazioni, e ciò fu fatto dapprima con un ponte in ferro ad unico binario, che venne poi sistemato a binario doppio.

L’aquedotto

Il paese ritrovava così i suoi sbocchi, mentre si lavorava riorganizzare il nucleo urbano in base a un piano regolatore che, tra l’altro, contemplava l’apertura di cinque grandi strade e la formazione d’una piazza davanti alla chiesa, là dove in passato si aggruppavano vecchie e modeste abitazioni. Si diede pur mano a ripristinare l’acquedotto, unico mezzo per il rifornimento dell’acqua potabile, e quindi opera vitalissima per il Comune. L’impianto preesistente, posto presso il fiume da cui prendeva l’acqua per passarla alle vasche di decantazione e di filtraggio e alla cabina di organizzazione, era a un mucchio di rovine; per ciò si dovete ricostruirlo di sana pianta e si dispose poi l’ampliamento della vecchia rete portando a sette chilometri la lunghezza complessiva delle condutture stradali.

La sistemazione è tuttavia provvisoria, essendo già in corso di studio l’opera grandiosa dell’acquedotto del Basso Piave, che dovrà risolvere in modo assai più degno il problema dell’alimentazione idrica per tutta quella plaga, costretta ancora ad accontentarsi di un’acqua non sempre esente da salsedine e da altri sgradevoli sapori.

Il Municipio

Anche il Municipio di San Donà era divenuto alla fine della guerra un incomposto ammasso di macerie, per cui si imponeva la completa ricostruzione. E la nuova opera riuscì tale da non far rimpiangere l’antica. Si eresse, infatti, un edificio dignitosissimo, ricco di fasto plastico in cemento, di sfarzo decorativo di colonne abbinate, balaustre e trabeazioni, arioso ed elegante per la presenza di un portico che ne snellisce la massa architettonica e in pari tempo l’adorna efficacemente.

La superba sede municipale vanta un ampio scalone a tenaglia, con gli scalini di marmo e la ringhiera in ferro battuto, ritorta a volute capricciose, illuminata da una trifora che forma un grandioso elemento ornamentale della facciata posteriore. Pregevolissima è la decorazione in affreschi e stucchi nel salone del Consiglio, ove attira lo sguardo una gran carta geografica – sistemata in ricca cornice – riproducente il campo di battaglia del Basso Piave dal 1917 al 1918: ricordo e monito ai presenti e ai venturi. Mobili e lampadari artistici compongono un adeguato corredo per questa e le altre sale del palazzo, nonché per gli edifici, i quali appaiono tutti quanto mai confortevoli nella loro sobria eleganza.

Si provvide pure a riparare, riattare e ricostruire gli edifici scolastici del Comune che, a vero dire, non avevano neanche prima della guerra alcuna impronta artistica, così che nel campo intellettuale di San Donà è tuttora desto il desiderio di un edificio più contemporaneo alle aspirazioni dell’ambiente.

L’Ospedale

Per la sua stessa ubicazione poco discosta dal centro del Paese, l’ospedale Umberto I di San Donà, ch’era stato eretto nel 1913, fu esposto al tiro diretto delle artiglierie, di guisa che il vasto fabbricato principale, come pur quello del locale d’isolamento, fu interamente distrutto e si dovette, all’immediato dopoguerra, provvedere alla sua radicale ricostruzione. I fabbricati vennero pertanto ricostruiti secondo tutte le esigenze moderne, riforniti di ottimo materiale medico e chirurgico e dotati d’una cappella sacra.

Il Cimitero
Foto originale italiana, non presente nell’articolo

Il cimitero comunale di San Donà di Piave fu pur devastato e sconvolto dalla guerra: lo si riparò nel miglior modo possibile, ma, risultando esso oramai insufficiente, se ne preparò poi un altro, più grande, a qualche distanza dall’abitato. Anche un nuovo macello è venuto a sostituire quello insufficiente dell’anteguerra che fu tra i pochi edifici della città e risparmiati dal furore delle artiglierie: il complesso dei nuovi fabbricati, semplice decoroso e con un perfetto impianto di macchinari, assicura la praticità e rapidità dell’importante servizio.

L’Orfanotrofio

Un’altra opera, di carattere sociale, s’imponeva a lenire lo strazio che la guerra aveva portato nella popolazione distruggendo tante famiglie. V’erano più di cinquecento orfani di tutti due i genitori e trecento  orfani di padre o di madre, e queste cifre, già impressionanti, risultarono poi inferiori alla realtà. Occorreva dunque un Orfanotrofio e si provvide anche a questo. Nel 1921 esso iniziò il suo funzionamento; ampliato poi con le officine, esso rappresenta oggi il primo nobilissimo monumento eretto alla memoria dei prodi che sacrificarono la vita per il loro paese, mentre è in via di attuazione un degno monumento ai Caduti in guerra che riceverà la sua espressione patriottica ed artistica nell’edificio della Casa di Ricovero, ove troveranno posto, sulla severa facciata, le lapidi coi nomi degli Eroi.

Poiché per l’Orfanotrofio si dovette utilizzare un fabbricato incompiuto ch’era destinato ad Asilo, si provvide poi a costruire un Asilo nuovo nel centro del paese, Esso fu costruito nel 1921 e più tardi lo si ingrandì aggiungendovi due ali per le suore, per le scuole, i laboratori e le verande. Fornito di ampi locali, di un cortile per la ricreazione, di un teatrino, in una di una cappellina, esso formicola ora di bambini e di bambine. Nel medesimo ambiente sono sistemati un istituto per l’educazione religiosa delle fanciulle, la scuola di lavoro per le orfanelle, con laboratori di maglieria, di calze, di camicie e di ricamo; la scuola di lavoro per le fanciulle esterne, la cucina economica per i poveri, l’unione missionaria parrocchiale con il suo laboratorio speciale, le scuole elementari private, la biblioteca circolante, il ricreatorio festivo per le ragazze, la scuola di piano e varie altre istituzioni cattoliche femminili, mentre per quelle maschili è sorto un apposito fabbricato al posto della vecchia chiesa provvisoria. E intanto si prepara, su linee grandiose, la l’attuazione in San Donà della benemerita Opera Don Bosco che troverà sede in una serie di edifici ora in corso di costruzione.

Il Consorzio delle Bonifiche

Sulla piazza principale di San Donà – la Piazza Indipendenza – è sorto il Palazzo del Consorzio delle Bonifiche del Piave. Con tale nome i Consorzi Idraulici Uniti, che si propongono la bonifica di 400 chilometri quadrati di terreno, hanno fuse le direttive e le forze costituendo un ente dal quale la complessa opera redentrice dello storico agro di Jesolo ed Eraclea verrà studiata e disciplinata da tecnici di profonda competenza idraulica e da provetti agricoltori.

E’ un’impresa gigantesca, che prosegue nel tempo e nello spazio quella degli avi per riscattare la terra regalando il corso delle acque, e che, iniziata, nella sua nuova impresa, al principio del secolo, aveva già compiuto grandi passi e raggiunto risultati superbi, quando la guerra non solo l’arrestò, ma tutto distrusse, così che ci dovette poi ricostruire, rifare e riparare, per ricomporre il patrimonio dei vetisette stabilimenti idrovori, dei canali e delle strade, delle conche e dei pozzi, dei motori e delle pompe: fatica imponente che onora il paese e la stirpe.

Il palazzo, in cui ha stanza dello Stato maggiore di quella che può considerarsi come una incruenta ma ardua guerra, per redimere le basse valli e le paludi, si presenta nell’autorità di linee d’un tardo Rinascimento italiano, con poche sovrastrutture decorative nel corpo centrale, in tre piani, con sovrastante frontone triangolare, fra larghe pilastrate, e con due ali laterali a semplice finestre architravate. Per tutta la lunghezza dell’edificio si rincorrono quindici archi, in modo da seguire la teoria armonica dei porticati che adornano gli altri edifici sulla piazza, il vasto rettangolo della quale sarà completato con la costruzione del Palazzo del Littorio.

Le banche e gli stabilimenti industriali

Un altro porticato si profila di là per strada maggiore per che pur delimita la piazza medesima:  quello che fornisce elegante base al nuovo palazzo della Banca Mutua Popolare Cooperativa, l’istituto che in mezzo secolo di laboriosa attività, ha tanto contribuito alla prosperità del paese. Ad esso si sono aggiunte nel dopoguerra, in decorose sedi, le succursali della Cassa di Risparmio di Venezia, del Credito Veneto, di Padova, e della Banca Cattolica di Treviso. Si sono pur riattivati gli stabilimenti industriali, a cominciare da quello della Juta, che esisteva da un decennio, dava lavoro a 650 persone ed era guarnito di un poderoso macchinario di cui durante l’invasione una parte andò rovinata ed il resto depredato, per guisa che non fu facile compito la restaurazione. Analoga sorte toccò la Distilleria, i fabbricati e gli impianti della quale andarono distrutti: ricostruita e riattivata, questa industria ha poi saputo espandersi con l’aggiunta di un liquorificio e di un oleificio. Anche la Segheria fu distrutta dalle fondamenta, ma non tardò a rinascere, come tante altre attività dell’operosa cittadina che ora s’accinge ad accogliere nuove imprese industriali, come quella d’uno zuccherificio.

Il Teatro Verdi

Con la reintegrazione delle fonti e degli strumenti del quotidiano lavoro, San Donà si è pur rifornita dei rifugi per l’onesto svago. I sandonatesi furono sempre appassionati per il teatro e, possedendo un piccolo ma grazioso Teatro Sociale, lo resero capace di sostenere la rappresentazione di commedie e di operette, e anche d’opere con la partecipazione di insigni artisti. Distrutto dalla guerra in modo totale, si è preferito lasciarlo nella polvere delle care memorie per dargli un successore del tutto nuovo, che ha preso il nome augurale di Giuseppe Verdi. L’edificio, di stile rinascimento, contiene una sala capace di ospitare mille spettatori. Esso iniziò nel 1921 la sua missione consolatrice, nella quale pur si adoperò, manco a dirlo, il cinematografo, croce e delizia del nostro vertiginoso tempo.

San Donà lavora e ha quindi il pieno diritto di distrarsi un poco, di divertirsi, di ridere, finalmente, dopo aver pianto tanto. Essa deve e vuole obliare nella serenità attuale le sciagure di cui fu vittima e delle quali ogni traccia esteriore è ormai scomparsa nel suo volto, rifatto più fresco e più bello. Chi passa oggi per le lunghe larghe strade luminose, fiancheggiate da gentili case nuove, da palazzi pomposi, da leggiadre ville, da negozi e magazzini colmi d’ogni ben di Dio, più non pensa all’ieri che sembra ormai lontano lontano, ma, nella gaiezza del luogo e del ritmo gagliardo delle sue opere, indovina le più liete promesse del domani.

Il nuovo ponte sul fiume Piave, in quel 12 novembre di cento anni fa

Il nuovo ponte sul fiume Piave, in quel 12 novembre di cento anni fa

Il 12 novembre 1922 venne inaugurato il nuovo ponte sul fiume Piave tra San Donà e Musile. Un evento di grande rilevanza e nel dettaglio raccontato dalle pagine de “La Gazzetta di Venezia” di martedì 14 novembre 1922. Lo stesso è stato riportato per intero anche dal libro di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto « Il ponte della vittoria diventa storia 1922-2022 » edito in occasione del centenario dall’inaugurazione e parte di una minuziosa ricerca storica dei collegamenti fluviali in questo tratto del fiume nel corso dei secoli.

Il nuovo ponte di S. Donà di Piave

San Donà di Piave s’è svegliata domenica mattina per tempo, per fare una grande toilette di festa. Non sono frequenti le feste in questa ricca e vigorosa città di agricoltori gagliardi. Non son frequenti le feste, quantunque, da quattro anni in qua, questo cospicuo centro di bonifiche e di lavoro sia la meta venerata non di poetici pellegrinaggi commemorativi, ma di convegni e adunate fecondi, per l’economia nazionale di ricostruttori, di agricoltori, di bonificatori.

Ma era pur necessario che un giorno fosse conclamata e celebrata con particolare solennità la gloria di questa piccola città distrutta completamente dalla guerra, avvilita dall’invasione, e risorta più grande, più bella, più nobile che mai, per la silenziosa e tenace operosità dei suoi cittadini più atti all’azione che alle chiacchere, più alla ricostruzione effettiva sollecita e miracolosa della loro città che allo studio dei sistemi, per arrivarvi…

Il Vecchio ponte in una immagine dei primi del Novecento

Nella città imbandierata in ogni casa e ad ogni finestra, arrivano per prime le squadre nazionaliste e fasciste parte col primo treno del mattino, parte con un convoglio di automobili. Le squadre, nelle loro caratteristiche divise nere ed azzurre, che occupano gran parte, insieme ai loro numerosissimi gagliardetti. E poi arrivano i soldati, i fanti grigio-verdi del 71° fanteria, una compagnia, al comando del capitano Corner, con la musica del reggimento. Vi sono poi alcuni plotoni di guardie regie, e i carabinieri, magnifici come sempre, nell’imponenza della loro uniforme 1830.

Ma San Donà che ha visto sfilare nelle sue strade tutti i più autorevoli rappresentanti della metropoli lagunare, deve aver compreso che alla cerimonia di inaugurazione del nuovo ponte, cui essi venivano a presenziare, Venezia tutta aveva voluto dare un significato specialissimo: la riconoscenza della antica Dominante che a San Donà e sul suo fiume era stata salvata dall’onta di una terza invasione straniera, l’omaggio alla città operosa e fedele che, con il sacrificio rovinoso, di tutta sé stessa, aveva preservata l’antica madre dalla rovina e forse dalla distruzione.

L’arrivo del Duca d’Aosta
Il ponte distrutto durante la guerra

Il Duca d’Aosta, ricevuto dal presidente del Consiglio provinciale comm. Picchini, dal presidente della Deputazione comm. Saccardo, da S.E. il sottosegretario ai Lavri pubblici on. Sardi, e da S.E. il generale Sani comandante il corpo d’armata di Bologna, che rappresentava anche il Ministero della Guerra, era giunto a Mestre verso le 8, ed aveva poi subito in automobile proseguito per San Donà. Quando vi giunse, al saluto della popolazione si aggiunse quello delle squadre fasciste.

Il Principe di recò subito al Teatro Moderno, dove gli venne offerto un vermouth d’onore, S.A.R. si compiacque di tener quivi circolo. Gli furono presentate successivamente tutte le autorità sandonatesi con a capo il sindaco cav. Guarinoni, e quelle veneziane. Poi sfilata dei gloriosi mutilati dei combattenti della grande guerra, dei gregari della III Armata, dei devorati al valore. Per tutti il Principe ha una parola di lode, di compiacimento, di simpatia.

La cerimonia inaugurale

Poco prima delle 10, annunciato dalle agili note della fanfara reale e dai tre attenti di rigore, il Principe della Terza Armata esce dal Teatro Moderno.

Il console della Legione di San Marco, avv. Iginio Magrini, presenta al Duca le squadre fasciste. Ed esse sfilano in perfetto ordine, mentre la musica del 71° fanteria suona l’Inno del Piave.

Il palco delle autorità (da “San Donà di Piave” di C. Polita, 2016)

Nel silenzio profondo della folla, che si accalca numerosissima e reverente, sotto il sole chiaro e freddo, le note nostalgiche risuonano altissime, con effetto indimenticabile e di commozione.

Le squadre nazionaliste e fasciste, ad un comando, si mettono in marcia. Esse, sventolando al vento i loro gagliardetti neri, azzurri e tricolori, formano la testa del corteo, che si avvia al Ponte nuovo. Poi, a piedi attorniato e seguito dalle autorità e dagli ufficiali della sua Casa, preceduto da un drappello di RR. Carabinieri, di Regie guardie e di valletti della Provincia di Venezia in tenuta di gala, si avvia il Duca d’Aosta. Sul suo passaggio crepitano gli applausi della popolazione, mentre dalle finestre mani gentili gettano fiori sul passi del Duce invitto della III Armata.

Sulla riva del Piave l’imponente architettura ferrea del nuovo ponte appare inghirlandata di lauri, di ori e di nastri dai colori nazionali e della Provincia di Venezia. L’accesso al ponte è chiuso dal simbolico nastro tricolore.

Alla destra del ponte è eretta un’ampia ed elegante tribuna. L’Eminentissimo Pietro La Fontaine, Cardinale Patriarca di Venezia, vi attende il Duca. Fra il Principe del sangue e il Principe della Chiesa l’incontro è cordialissimo. Il Duca rimane in piedi nel mezzo della tribuna, mentre intorno gli si affollato le autorità. Davanti alla tribuna sono schierati i fanti del 71°, i fascisti ed i nazionalisti coi loro gagliardetti.

La benedizione
La copertina della Domenica del Corriere dedicata alla cerimonia di inaugurazione del Ponte (26 novembre 1922)

Il Cardinale Patriarca tra il religioso silenzio dell’imponente adunata incomincia a parlare. Dice che al pensiero di dover benedire il ponte rinnovellato si riaccese in lui in memoria del celebre sogno di Mardocheo il quale in un giorno di pericolo per la sua nazione vide torbido e minaccioso il cielo, e intese scuotersi la terra, mentre due dragoni venivano a combattimento. Allora varie altre nazioni congiuravano alla rovina di una nazione innocua, tanto che per quella nazione sorse un giorno di tribolazione e di pericolo e di timore, ma levando questa nazione le grida al Signore fu esaudita e un picciol fonte crebbe in forma regale e un picciol lume addivenne sole e l’umile nazione insidiata fu esaltata e i forti che volevano sterminarla furono umiliati.

Il Patriarca continua dicendo che quando l’Austria mosse guerra alla Serbia il cielo d’Europa fu turbato e la terra fu veramente scossa non sapendo dove di sarebbe andati a parare. Nei due dragoni vede la Germania e la Francia che vengono a combattimento e sente le voci delle due parti che ciascuna vuol trarre a sé le due parti che ciascuna vuol trarre a sé l’Italia minacciandole chissà quale triste condizione, qualora rifiutandosi all’una o all’altra parte, questa riuscisse vincitrice.

Gli uomini che governavano allora giudicarono che l’Italia entrasse in guerra, come è noto. Allora varie nazioni si strinsero insieme dicendo di voler infliggere grave sconfitta a questa Italia e venne inopinatamente il momento di quella dolorosa sciagura a cagione della quale l’antico ponte sul Piave fu fatto saltare.

Il cardinale La Fontaine durante il suo lungo discorso in una immagine apparsa sulla copertina de “L’illustrazione Italiana” (19 novembre 1922)

L’oratore soggiunge che quello fu veramente giorno di tribolazione, di affanno e di pericolo. Che da tutte le parti si levarono le grida al Signore e che a Venezia autorità e popolo davanti alla Nicopeia in San Marco chiedevano coraggio e salvezza. Le preci furono esaudite e il piccolo Piave addivenne fiume regale che gareggiò col Po, dove tanti volevano la linea di difesa non per la massa delle acque, ma per l’opportunità che dette al coraggio dei soldati della difesa.

E un piccolo lume, cioè il nucleo dei torti che ripresero ardire, crebbe in grande mole, quando aggiungendosi ad esso innumerevoli valorosi, sotto la guida del Sovrano, del generale in capo e degli altri Duci, si oppose al nemico con tale resistenza che culminò nel fatto di Vittorio Veneto: e gli umili furono esaltati e quelli che si reputavano potenti furono debellati. Il ponte rinnovellato che oggi s’inaugura colla benedizione di Dio, dice quanto sia grande questa esaltazione.

Qui il Patriarca si volge a S.A. il Duca d’Aosta, dicendo:

« Permettete Altezza, che io qui pubblicamente vi esprima la mia ammirazione e la mia gratitudine perché voi, l’intelletto d’amore più che comandante foste padre dei vostri soldati; con l’affetto per voi, sapeste avvivare l’amor della patria e il coraggio per cui i soldati vi seguivano lieti al cimento, come ad opera meritoria. Vi ringrazio non in nome dell’Italia, chè qui io non rappresento l’Italia, ma in nome del martoriato Veneto nostro del quale fui costituito primo pastore. Che Dio vi rimeriti e benedica, come benedica i cari che lasciarono la vita su queste sponde per la salvezza e la grandezza della patria ».

Il felice e commosso accento dell’Eminente Pastore è salutato da una calorosa irrefrenabile acclamazione. Il Patriarca indossa quindi i sacri paramenti e, con mitria e pastorale, si avvia a compiere il rito della benedizione del ponte, assistito dal Vescovo della Diocesi mons. Longhin, di Treviso. Mentre il rito si compie, un coro di fanciulli canta soavemente la Canzone del Piave.

I discorsi
Il Duca d’Aosta Emanuele Filiberto, con dietro il cardinale La Fontaine, sulla destra la signora Corinna Ancillotto (da “San Donà di Piave” di C. Polita, 2016)

Il comm.Saccardo presidente della Deputazione provinciale, dà inizio alla serie dei discordi. Dopo aver reso omaggio alla Maestà del Re, presente in ispirito, e qui fulgidamente rappresentato dalla Altezza Reale del Duca d’Aosta, e aver ricordato che fu la concordia dei cuori che, sulle sponde di questo sacro fume eresse un muro infrangibile di petti umani, l’oratore scioglie un inno al valore dei nostri eroi, che resistettero sul Piave.

Del nuovo ponte il comm. Saccardo fa quindi una breve storia: ricorda i nomi dell’on. Giovanni Chiggiato, che l’iniziò, del Gr. Uff. Carlo Allegri che lo proseguì, dell’’ing. Ippolito Radaelli che tracciò il programma e ne diresse l’esecuzione, coadiuvato dall’ing. Rossi, dal segretario generale cav. uff. Settimio Magrini e dal rag. Giorgiutti che espletarono le pratiche amministrative, l’ing. Raimondo Ravà, che vi concorse colla sua duplice qualità di presidente del Magistrato alle Acque e di presidente della Commissione per le riparazioni dei danni di guerra ecc.

E l’oratore così conclude:

« Sia nell’invocazione dei nostri morti l’auspicio di ogni nostra impresa. E su questo ponte che nuovamente cavalca le acque del fiume sacro, ponte benedetto in nome di Dio, dalla mano veneranda del Cardinale Patriarca di Venezia, non un semplice corteo di autorità ufficiali, non soltanto un’onda di popolo entusiasta, ma qualche cosa di ben più alto s’avanzi. Voi Donna Corinna Ancilotto, madre di una medaglia d’oro, esempio di fulgente eroismo, vogliate voi infrangere sulle spalle del ponte la tradizionale bottiglia, augurio festoso di lunga resistenza.

E Voi, Altezza Reale, rappresentante del Re e mirabile soldato d’Italia, Voi, generale della III Armata che fra l’immensa gratitudine delle anime nostre, avete voluto accogliere il nostro invito e partecipare a questa festa, di cui siete il genio tutelare, degnatevi gradire la mia preghiera e incedere primo sulla nuova via così intimamente legata al culto delle memorie patrie. Sentiranno i nostri cuori che nella Vostra persona, è veramente l’Italia che passa! ».

L’oratore è vivamente applaudito.

Prende poi la parola il sindaco di San Donà cav. Guarinoni, che pronuncia un breve, commosso ed efficacissimo discorso. S.E. l’on. Sardi, poi, con voce squillante porta il saluto del nuovo governo di Vittorio Veneto, che intende valorizzare veramente la vittoria strappata al nemico sulle rive di questo fiume sacro al quale, come a tutte le terre venete, guarda l’Italia tutta con sentimento di viva riconoscenza e di profondo affetto. Da ultimo parla brevemente il sindaco di Cavazuccherina.

Il battesimo
Le autorità attraversano il ponte durante la cerimonia di inaugurazione (da “San Donà di Piave” di C. Polita, 2016)

I discorsi sono finiti. Il Duca s’avvia alla testata del ponte, dove, sopra un tavolo, è spiegata la pergamena che costituisce l’atto di nascita del ponte. L’atto è così concepito:

« Da Sua Altezza Reale il Principe Emanuele di Savoia Duca d’Aosta, in rappresentanza di S.M. il Re d’Italia, viene oggi 12 novembre 1922 inaugurato il nuovo ponte sul Piave tra Musile e San Donà, benedetto da S.E. il Patriarca di Venezia Cardinale Pietro La Fontaine, costruito in sostituzione di quello distrutto per fatto bellico il 10 novembre 1917.

« Nel fervore delle opere che tendono al risollevamento delle terre, teatro della grande guerra redentrice, concordemente, tenacemente nel peripiglio e nella gloria cooperanti con fede entusiastica alla riaffermazione dei sacri diritti nazionali ed alla reintegrazione dei confini naturali nostri nell’ora in cui mirabili energie con slancio mirabile preparano prosperosi giorni alla patria, le autorità civili, militari, ecclesiastiche convengono tutte alla cerimonia inaugurale dell’opera che si dedica all’Augusto Principe Emanuele Filiberto e che sorge ora più grande a testimoniare l’operosità e la tenacia di propositi del popolo italiano, un quinquennio appena dopo la sua demolizione ».

Il Duca, il Patriarca e le altre autorità appongono la loro firma. Quindi il Segretario generale della Provincia avv. Settimio Magrini offre S.A.R. una copia, riccamente rilegata, di un opuscolo compilato dallo stesso Magrini, nel quale è narrata diffusamente la storia del Ponte di San Donà e illustrato con belle fotografie. Il Principe gradisce molto il dono, e mostra di ricordare perfettamente le circostanze della demolizione del ponte e della sua provvisoria ricostruzione, dopo la vittoria, da parte dei pontieri della III Armata.

Intanto la signora Corinna Ancillotto, madre dell’eroico aviatore medaglia d’oro s’appresta a battezzare il ponte con la rituale bottiglia di sciampagna. La bottiglia, legata ad un nastro azzurro e oro, i colori della Provincia di Venezia, si rompe felicemente sopra uno dei grandi pilastri di ferro. Allora, mentre la musica intona la Marcia Reale e le truppe presentano le armi, il Duca scioglie il nastro tricolore che gli sbarra l’accesso del ponte, e passa per primo. La bella cerimonia è compiuta. Il Duca arriva all’altra sponda, salutanto da entusiastica evviva, e dagli alalà dei fascisti che si schierano sulla passarella laterale del ponte.

Il banchetto

Il Duca, in automobile si reca quindi all’Orfanotrofio, dove verrà più tardi servito il banchetto offerto dalla Provincia. Intanto il generale Sani, nella Piazza del Municipio, passa in rivista i fascisti e i nazionalisti che gli vengono presentati dall’avv. Iginio Magrini.

La pergamena che ricorda la visita del Duca d’Aosta Emanuele Filiberto di Savoia all’Orfanotrofio in occasione dell’inaugurazione del Ponte (da “Cent’anni di carità di M. Franzoi, 2021)

Il Duca d’Aosta, dopo aver visitato minutamente l’Orfanotrofio ed essersi molto interessato alla bella e benefica istituzione, scese nel salone, dove le mense erano imbandite alle 12.45. Il Principe, che portava tutte le decorazioni, sedette al centro della tavola d’onore, tra la signora Imma d’Adamo, consorte del Prefetto di Venezia, a destra, e la signora Corinna Ancillotto, a sinistra. Sedevano poi ancora alla tavola d’onore; alla destra del Principe il comm. Saccardo, il generale Sani, il comm. Picchini, il senatore Diena e il Sindaco di Venezia prof. Giordano; alla sinistra il sottosegretario di Stato on. Sardi, il Prefetto d’Adamo, il cav. di Gr. Cr. Raimondo Ravà, presidente del Magistrato delle Acque, l’ammiraglio Mortola, il comm. Mandruzzato che rappresentava il Primo presidente della Corte d’Appello, l’on. Chiggiato, il comm. Plinio Donatelli vice presidente del Consiglio provinciale. V’erano poi, alle varie tavole, tutte le altre autorità, notabilità e rappresentanze.

Alle ore 2 la colazione ebbe termine, e il Duca, che aveva voluto che gli fossero presentate le due graziose figliuole del Segretario generale della Provincia, lasciò la sala, salutato da un caldo applauso. Egli si recò subito a visitare il magnifico ospitale civile di San Donà, risorto per la tenacia del comm. Trentin. Fu ricevuto dallo stesso comm. Trentin che gli fu da guida nella visita minuziosa che egli fece al bellissimo stabilimento, che mostrò di apprezzare altamente. La popolazione, saputo che il Principe si trovava all’ospedale, gli improvvisò una calda manifestazione.

Il Principe volle quindi recarsi a Zenson, a visitare quel cimitero e quella terra sulla quale rifulse – nella famosa ansa – il valore della III Armata.

Ripartì alle ore 16 con la ferrovia, diretto a Torino, fatto segno ad una entusiastica dimostrazione da parte di tutto popolo di San Donà, che si accalcava presso il vagone-salone per salutare ancora una volta il Principe della III Armata. Il generale Sani e il sottosegretario on. Sardi sono partiti a loro volta, con lo stesso treno, diretti a Venezia.

Per ulteriori approfondimenti: 1. “Il ponte della vittoria diventa storia: 1922-2022 – passi barca, ponti e vie d’acqua a Musile e dintorni (di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto – Tipolitografia Biennegrafica – Musile di Piave – 2022); 2. “San Donà di Piave – Piccola guida di una città senza storia?” di Chiara Polita – Digipress, San Donà di Piave, 2016); 3. “Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave” (Digipress, San Donà di Piave, 2021); 4. “S. Donà di PIave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Mons. Costante Chimenton, Tipografia Editrice Trevigiana, 1928); 5. Archivio storico “Gazzetta di Venezia”, 14 novembre 1922

Guido Guarinoni, Sindaco di San Donà di Piave

Ing. Guido Guarinoni (fotografia Giacomelli, Venezia)

La guerra che tutto travolse ridusse San Donà in un cumulo di macerie, non vi era edificio che si fosse salvato. Se non erano state le bombe a combinar sconquassi, ci pensò l’uomo nel depredare quanto all’abbisogna. Gli abitanti che non avevano potuto o non avevano voluto abbandonare il territorio per lo più avevano trovato riparo nelle campagne sfidando i soprusi degli occupanti e la fame di chi ogni giorno si trovava a dover fare i conti con gli eserciti in lotta. Chi non aveva resistito si era allontanato verso i paesi del portogruarese sperando in un futuro ritorno. Dopo un anno di guerra rimase nell’aria solo l’odore acre della polvere di quegli edifici diroccati, di quel centro cittadino disseminato di tante voragini causate dalle bombe che copiose erano cadute in cerca di un nemico e che ora doveva trovare nei superstiti la forza per far risorgere il paese.

In una veduta aerea del 1918 il centro cittadino distrutto, in alto il Duomo, sulla sinistra il Palazzo Comunale (fotografia originale)
Le difficoltà del lento ritorno
La San Donà del dopoguerra tra le macerie si cucinava per sfamare la popolazione. Probabile che il borghese possa essere Guido Guarinoni (fotografia originale)

In ogni dove a San Donà sorsero baracche per offrire riparo a quanti erano rimasti e a quelli che un po’ alla volta avevano deciso di tornare. Quel che gli occhi trovavano dava un peso enorme al cuore, mai avrebbero pensato di ritrovarsi in una simile situazione di disperazione. Come non bastasse la guerra era finita da poco quando nei primi giorni di gennaio del 1919 la Piave tornò a far pesare la propria incombente presenza. Gli argini ancora danneggiati dai bombardamenti e dai trinceramenti degli eserciti in lotta non erano stati ancora riparati. Facile fu per le ribelli acque del grande fiume trovare un varco ed allagare le campagne riducendole in acquitrini paludosi. Se durante la guerra questo aveva fatto gioco per bloccare l’offensiva austroungarica, ora metteva in pericolo la ricostruzione. In ambito governativo si arrivò persino ad ordinare l’evacuazione, provvedimento poi ritirato per la ferma protesta del sindaco Giuseppe Bortolotto e della popolazione stessa. Proprio il Sindaco era tornato da poco da quella Firenze che aveva offerto rifugio alla macchina amministrativa sandonatese e che ora a fatica cercava di coordinare il ritorno della popolazione e di dare un ordine alla ricostruzione. Lo stesso Sindaco più volte era entrato in contrasto con le autorità governative tanto da dare le dimissioni, ma dopo un periodo di commissariamento venne richiamato per poi rimanere in carica sino alle elezioni dell’autunno del 1920.

Piazza Indipendenza nell’immediato dopo guerra in una cartolina dell’epoca (fotografia Italvando Battistella)
L’Italia che ritorna al voto
Una giovane (Teresina Guarinoni?) nel giardino Bressanin anno 1919 (foto originale)

Le elezioni sia a livello nazionale che a livello locale durante la guerra erano rimaste congelate. La situazione generale era in rapido mutamento e le cicatrici dei lunghi anni di conflitto ebbero presto un loro peso. A questo si aggiunsero gli effetti della rivoluzione russa, con le idee del socialismo che stavano rapidamente varcando i confini. L’Italia ne venne attraversata e questo ebbe subito un riverbero nelle elezioni amministrative del 1920 tanto che in molte zone questo cementò un’alleanza tra il nascente partito fascista e molte componenti centriste, dando vita al Blocco Nazionale in contrapposizione proprio ai socialisti. In talune zone a frapporsi tra i due schieramenti si inserì il Partito Popolare, e proprio a San Donà di Piave a sorpresa le elezioni amministrative videro prevalere proprio quest’ultimo.

Racconta la Gazzetta di Venezia del 6 novembre 1920:  « Ieri, 5., fu convocato per la prima volta il nuovo consiglio comunale. Il Commissario prefettizio cav. Bortolotto riferì a lungo sull’amministrazione straordinaria del passato difficile periodo e fece gli auguri che la nuova Amministrazione possa bene affrontare i gravi problemi che s’impongono per la resurrezione del disgraziato paese.

Passato alle nomine riuscì eletto Sindaco l’ingegnere Guarinoni ed assessori i signori Bastianetto, Battistella, Roma, Zorzetto. Il pubblico numeroso che assisteva alla seduta accolse con segni di disapprovazione l’esito della votazione. I nomi dei nuovi amministratori scelti fra la maggioranza eletta dal Partito popolare danno poco affidamento poiché il momento critico che attraversa il nostro Comune richiedeva persone colte e pratiche della vita amministrativa. ».  Il malcelato critico commento del giornale era frutto della spinta che lo stesso aveva dato affinchè si formasse un blocco unico con il partito fascista mentre San Donà aveva deciso altrimenti.

Guido Guarinoni, Sindaco di San Donà
Ritratto di famiglia presso il giardino Bressanin nel 1919, anche in questo caso il signore più anziano potrebbe essere Guido Guarinoni (foto originale)

Guido Guarinoni, il protagonista della nostra storia, divenne Sindaco di San Donà nel novembre 1920. Durante la guerra aveva trovato riparo a Venezia, città nella quale ancora risiedeva come si desume dall’atto di matrimonio della figlia che lì si sposò nel 1922 con l’industriale originario di Firenze Gino Baldi. Nonostante i timori alla sua elezione l’opera dell’amministrazione Guarinoni fu fondamentale nella ricostruzione di San Donà. Lo stesso Monsignor Chimenton dà merito all’amministrazione Guarinoni per quanto fatto negli anni del suo mandato. Essendo il libro di Monsignor Chimenton del 1928, questo non era affatto scontato anche se rimarcava come l’amministrazione di quel periodo agì in modo profittevole grazie alla collaborazione dell’opposizione. Nello specifico si riferiva a quel partito fascista che poi gli succedette, ruolo in seguito divenuto non più contendibile dopo la creazione del Podestà con cariche non più elettive. Il fatto che il Sindaco risiedesse a Venezia non costituì un impedimento dato che sin da subito gli si affiancò Marco Bastianetto quale consigliere anziano, con cui Guarinoni era stato consigliere comunale prima della guerra e, cosa non secondaria, era tra i fondatori del Partito Popolare sandonatese assieme ad Alberto Battistella, Giuseppe Boem, Pietro Perin, Enrico Picchetti e Giuseppe Zucotto.

L’amministrazione Guarinoni

Ad affiancare il Sindaco Guido Guarinoni ci furono, oltre a Marco Bastianetto, i Sig.ri Umberto Roma, Giuseppe Zorzetto, Giuseppe Boem e Alberto Battistella. L’amministrazione Guarinoni nei tre anni che rimase in carica diede attuazione al piano regolatore approvato nei mesi precedenti alle elezioni, iniziò e completò la ricostruzione del Municipio; su progetto dell’architetto Giuseppe Torres fu ultimato il campanile nel 1922 con le campane che ritornarono a risuonare il venerdì Santo dell’anno seguente e fu quasi completato il duomo poi consacrato nel 1925; si allacciò all’acquedotto la gran parte del centro cittadino; e come ricorda Monsignor Chimenton:  « …si eseguì la pavimentazione interna del paese ; si iniziò e quasi si ultimò il nuovo cimitero ; si deliberò l’alberazione di alcune strade ; si provvide per ottenere la concessione del terreno , richiesto per la sistemazione delle baracche; si proseguì e si ripristinò la viabilità pubblica ; si sistemarono gli edifici scolastici, e si iniziarono le pratiche per averne di nuovi ; si provvide in parte all’illuminazione pubblica ; si approvò l’istruzione religiosa nelle scuole. ».

Il Nuovo Ospedale
L’Inaugurazione dell’Ospedale “Umberto I” (foto Battistella)

Furono tanti gli importanti eventi e le inaugurazioni che si susseguirono negli anni dell’amministrazione Guarinoni. L’11 dicembre 1921 alla presenza del Ministro Raineri e del Vescovo di Treviso Monsignor Andrea Giacinto Longhin venne inaugurato il nuovo ospedale “Umberto I”, ricostruito in viale Regina Margherita dopo le grandi distruzioni della guerra. Grande fu l’impegno del Presidente comm. Antonio Trentin e del vicepresidente cav. dott. Vincenzo Janna per riuscire a dare al direttore dell’ospedale Alessandro Girardi e al suo assistente dott. Carlo Cristani una struttura adeguata alle esigenze di un comprensorio sandonatese destinato ad un grande sviluppo. Per reperire i fondi utili alla costruzione dell’ospedale era stata indetta anche una lotteria nazionale con l’estrazione del primo premio nel marzo 1920.

Cerimonia di inaugurazione dell’ospedale, da destra: comm. Chiggiato, comm. ing, Umberto Fantucci, comm. Antonio Trentin, S.E. il ministro Raineri, il sindaco ing. Guido Guarinoni, mons. Luigi Saretta, S.E. Monsignor Andrea Giacinto Longhin, prefetto di Venezia comm. D’Adamo (foto Giacomelli, Venezia)
Il Congresso delle Bonifiche

Dal 23 al 25 marzo 1922 si tenne a San Donà di Piave il Congresso Nazionale delle Bonifiche che diede grande lustro alla città richiamando molti esponenti della politica nazionale a cominciare da quelli governativi, per non tralasciare don Luigi Sturzo e il parlamentare sandonatese Silvio Trentin, oltre a tanti tecnici che stavano portando avanti una grande opera di bonifica in tante zone d’Italia. Nei nostri territori attraversati dalla guerra molte di quelle opere vennero ancor più implementate per riparare alle molte distruzioni causate dagli eserciti in lotta. Fu grande il risalto dato all’evento nella stampa nazionale e locale, in particolare La Gazzetta di Venezia dedicò ampie paginate ai temi in discussione e ai tanti interventi dei partecipanti alla tre giorni congressuale.

Questo l’intervento di saluto del Sindaco Guido Guarinoni come riportato da La Gazzetta di Venezia di quei giorni: « Egli ricorda che quando, sul novembre 1918, orgogliosi della grande vittoria, i cittadini di San Donà tornarono dall’esilio, e videro lo squallore di queste terre di messi opime e d’invidiata prosperità, pareva un sogno la speranza che in breve tempo sarebbero risorte, per incamminarsi a più promettente avvenire. Pure, per la fermezza di propositi e l’intensità del lavoro della popolazione, la vita riprende il suo corso normale.

Il nome di San Donà, orgogliosa di essere stata scelta a sede di questo Congresso è grato all’Istituto Federale di Credito per il risorgimento delle Venezie ed alla Federazione dei Consorzi, e con essi agli illustri Presidenti comm. Ravà e comm. Mazzotto, l’oratore dà il saluto, in nome del Comune, al ministro Bertini, ai sottosegretari Beneduce, Martini e Merlin, alle Autorità e ai Congressisti.

Augura che il Congresso sia buon augurio per l’avvenire di S. Donà che un secolo fa non era che un villaggio di poche case, specie in una zona palustre di oltre 40 mila ettari, e che oggi, mercè la fiorente attività dei Consorzi di bonifica è un importantissimo centro di vasti territori, la cui prosperità economica va sempre crescendo, e si avvia a tempi radiosi di prosperità, di benessere e di progresso. (applausi vivissimi) »

L’inaugurazione del Nuovo Ponte
L’inaugurazione del Ponte, il palco delle autorità. Sulla sinistra Monsignor Longhin con Mons, Saretta; al centro il patriarca di Venezia il Cardinale La Fontaine, alle sue spalle il Duca d’Aosta e alla sua sinistra il sottosegretario Sardi; sulla destra Corinna Ancillotto con a fianco il sindaco Guido Guarinoni (Illustrazione Italiana, nov 1922)

Il 12 novembre 1922 ebbe luogo anche l’inaugurazione del nuovo ponte sul Piave. Distrutto dall’esercito italiano nel novembre 1917 per fermare l’avanzata austroungarica, subito dopo la guerra ne venne costruito uno provvisorio in legno. Poi fu la volta di quello definitivo con caratteristiche molto simili a quello che tuttora percorriamo e che successivamente fu parzialmente ricostruito anche dopo la seconda guerra mondiale. In quel novembre 1922 il ponte venne inaugurato al cospetto delle massime autorità con la presenza di Sua Altezza il Duca Emanuele Filiberto d’Aosta, del Patriarca di Venezia il Cardinale Pietro La Fontaine, del Vescovo di Treviso Monsignor Andrea Giacinto Longhin, del sottosegretario ai Lavori Pubblici Alessandro Sardi e di tutte le massime autorità cittadine a cominciare dal Sindaco Guido Guarinoni. Grande fu la festa con una San Donà gremitissima che acclamò gli oratori che si succedettero sul palco. Dopo la benedizione del Patriarca di Venezia vi fu la firma ufficiale del Duca d’Aosta sulla pergamena che sancì il battesimo del ponte, quindi la classica rottura della bottiglia da parte della contessa Corinna Ancillotto, madre dell’aviatore sandonatese Giannino Ancillotto, medaglia d’oro al valor militare. Vi è poi una curiosità attinente alla famiglia Guarinoni ed inerente al ponte: tra gli ingegneri che seguirono la costruzione del ponte ci fu anche Ippolito Radaelli, cognato del Sindaco Guido Guarinoni. Sposato inizialmente con la sorella Alda Maria, rimase vedovo ed in seconde nozze sposò Crico Clorinda a sua volta imparentata con Guido Guarinoni avendone sposato il fratello Amedeo, anche lei rimasta prematuramente vedova.

L’inaugurazione del Municipio
Il Presidente del Consiglio Benito Mussolini 1l 3 giugno 1923 sul terrazzo del Municipio di San Donà di Piave (fotografia Ferruzzi)

Ma un evento ancor più solenne avvenne il 3 giugno 1923 quando venne inaugurato il Municipio di San Donà di Piave progettato dall’architetto Camillo Pugliesi Allegra, lo stesso che poi progetterà il Palazzo dei Consorzi della Bonifica che completerà i grandi palazzi che contornano ancor oggi Piazza Indipendenza. A tenere a battesimo il Palazzo istituzionale della città fu addirittura il presidente del consiglio Benito Mussolini. In carica dall’ottobre 1922 e impegnato in un grande giro istituzionale in Veneto Mussolini fece tappa anche a San Donà di Piave. Imponente la cornice di folla che accolse il presidente del Consiglio per un evento che ancor oggi è ricordato con una targa all’interno del Municipio nella quale è citata una frase detta da Mussolini in quella occasione: “ Qui una volta giunse il nemico, gli italiani giurano che non succederà mai più “. Un’enfasi che non venne poi troppo confermata dai fatti , ma eravamo solo all’alba del ventennio che segnerà l’Italia negli anni successivi.

La targa posta all’interno del Municipio con la citazione di Mussolini in una cartolina dell’epoca (foto A. Batacchi)
Le elezioni amministrative dell’agosto 1923

Dopo tre anni di amministrazione Guarinoni a metà agosto del 1923 si tennero le ultime elezioni amministrative prima che il regime fascista istituisse la figura del Podestà di nomina governativa. Differentemente dalle precedenti questa volta il partito fascista prevalse. Sabato 18 agosto 1923 si insediò il nuovo consiglio che nominò Costante Bortolotto Sindaco di San Donà di Piave. Tra gli eletti figurava anche l’ex Sindaco Guido Guarinoni.

Questo l’articolo della Gazzetta di Venezia che racconta quella giornata:  « Il Commissario prefettizio ha oggi insediato il nuovo Consiglio comunale. Dopo la lettura della relazione che fu applauditissima, venne nominato sindaco il sig. cav. Dott. Costante Bortolotto. Furono nominati assessori effettivi i sigg. Janna cav. Dott. Vincenzo, De Faveri dott. Cav. Giuseppe, Bastianetto Marco e Guarinoni ing. Guido. Assessori supplenti i sigg. Velluti ing. Francesco e Davanzo Giuseppe. Furono spediti i seguenti telegrammi:  “ S. E. Benito Mussolini, Roma – Nuova amministrazione San Donà di Piave risorta dalla guerra prima volta riunita oggi sede municipale da Vostra Eccellenza inaugurata manda reverente saluto e ossequio Capo Governo auspicando che programma restaurazione nazionale abbia completo sicuro svolgimento. “.  ” Generale Cittadini, Primo Aiutante Campo Sua Maestà Re d’Italia, Roma. Nuova amministrazione comunale San Donà di Piave riunitasi prima volta rivolge ossequiente pensiero a Sua Maestà il Re di Italia milite in guerra probo cittadino in pace primo fra tutti nelle nobili proficue e sane iniziative nazionali. “.  Oggi (19) continuazione della Pesca, musica in Piazza, rappresentazione straordinaria del Circo Caveagna e un attraente spettacolo pirotecnico. Si prevede gran numero di gente. La tradizionale fiera di S. Rocco è stata superiore ad ogni aspettativa ». 

Costante Bortolotto, Sindaco nel 1923 e Podestà nel 1927
Comm. Costante Bortolotto, primo Podestà di San Donà di Piave (Fotografia Batacchi)

L’amministrazione Bortolotto si mosse in continuità con quella precedente in un quadro che vedeva oramai il partito fascista sempre più dominante nella politica cittadina. Mentre a livello nazionale la tensione crebbe con la legge Acerbo che condizionò le elezioni politiche dell’aprile 1924 cui seguì il delitto Matteotti, anticamera all’instaurazione della dittatura.  Costante Bortolotto rimase in carica due anni, poi il 9 marzo 1925 con la sua nomina a fiduciario del P.N.F di tutto il Basso Piave passò il testimone al dott. Giuseppe De Faveri in continuazione con lo stesso Consiglio Comunale in precedenza eletto. Il Consiglio rimase in carica ancora per poco più di un anno per poi venire sciolto il 18 luglio 1926. Dopo un periodo di commissariamento prefettizio del cav. rag. Arturo Sears, il 9 aprile 1927 venne nominato il primo Podestà di San Donà di Piave che vide il ritorno di Costante Bortolotto alla prima carica cittadina. Quanto a Guido Guarinoni con lo scioglimento del Consiglio finì la sua avventura politica sandonatese, ma è indubbio che ancor oggi a cento anni di distanza molto di quanto ricostruito durante la sua amministrazione dopo quel terribile conflitto mondiale è ancor oggi visibile in città. Guido Guarinoni e la sua famiglia mantennero la residenza a Venezia dove tra l’altro sia lui che la moglie Maria Velluti entrarono a far parte dell’Ordine Equestre del Sacro Sepolcro di Gerusalemme. Entrambi sono stati tumulati nel cimitero di San Donà di Piave presso la tomba di famiglia che accoglie anche gli antenati dei Guarinoni oltre alla figlia Teresina morta nel 1973 e il marito Gino Baldi morto venti anni dopo.

A destra la tomba della famiglia Guarinoni, a sinistra quella della famiglia Bastianetto. Sia Guido Guarinoni che Marco Bastianetto sono stati protagonisti della ricostruzione di San Donà di Piave dopo la grande guerra. Nel secondo dopoguerra lo sarà anche Celeste Bastianetto, figlio di Marco, primo sindaco eletto dopo la Liberazione anch’egli lì tumulato nella tomba di famiglia

Racconto diviso in due parti: 1. Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo – 2. Guido Guarinoni Sindaco di San Donà di Piave

Per approfondimenti: 1. « S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella » di Mons. Costante Chimenton (Tipografia Editrice Trevigiana, Treviso – 1928); 2. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Centro Stampa, Oderzo – 1995); 3. « L’esercito per la rinascita delle Terre Liberate, il ripristino delle arginature dei fiumi del Veneto dalla Piave al Tagliamento » di Comando Supremo del Regio Esercito (Stab. Tipolitografico Militare, Bologna – 1919); 4. « L’ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Dino Casagrande, Franco Ambrosi, Federico Teker, Rita Finotto, Nicoletta Lo Monaco, Silvia Cagnatel, Angelino Battistella (Tipolitografia Adriatica, Musile di Piave – 2000); 5. « San Donà di Piave, piccola guida di una città senza storia? » di Chiara Polita (Tipografia Digipress, San Donà di Piave – 2016); 6. « Il Ponte della Vittoria diventa storia 1922-2022 » di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto (Bienne Grafica, Musile di Piave – 2022); 7. Archivio “La Gazzetta di Venezia” anni 1920-1923, quotidiano di Venezia; 8. Archivio “Gazzettino” anno 1923, quotidiano di Venezia

Louis Robert de Beauchamp, l’aviatore francese a cui San Donà diede una medaglia

Louis Marie Maurice Georges Robert de Beauchamp

Dagli oggetti talvolta scaturisce una storia che nel suo prender forma quasi incanta. La nostra è una storia che dal luccichio dell’argento riemerge lenta e subito si dipana grazie ad una data che lega un episodio della prima guerra mondiale alla nostra San Donà di Piave. Non è il fronte verso cui andavano i nostri soldati il palcoscenico dell’episodio accaduto il 17 novembre 1916, la nostra storia cala dal cielo e ha un accento spiccatamente francese. La sorpresa di chi avrà visto sbucare tra le nuvole l’aereo di questo sconosciuto capitano sarà stata come minimo pari a quella che abbiamo provato noi a veder prima e toccar con mano poi la medaglia dalla quale ci siamo incamminati per ricostruire la storia del nostro protagonista.

Il capitano Louis Robert de Beauchamp
Louis Robert de Beauchamp (da sinistra), con i fratelli Marie Michel e Hubert assieme alla madre Valérie Marie Antoinette Turquet

Il protagonista dell’episodio che andremo a raccontare è un capitano dell’aviazione francese dagli infiniti nomi: Louis Marie Maurice Georges Robert de Beauchamp. Nato a Senlis nell’alta Francia nel 1887, era figlio del visconte Marie Louis Michel Maurice Robert de Beauchamp, capitano del 9° Reggimento Corazzieri, e di Valérie Marie Antoinette Turquet. La madre morì il 4 maggio 1897, fu una delle vittime del furioso incendio che colpì “Le Bazar de la Charité” a Parigi, un’istituzione benefica dove morirono 120 persone, un evento che scosse fortemente tutta la Francia. Il giovane Louis e i suoi due fratelli rimasero così orfani di madre sin dalla tenera età. Louis seguì le orme del padre e entrò presto nell’accademia militare di St. Cyr nella regione della Loira. Quel giovane votato alla cavalleria ben presto trovò nell’aviazione la sua aspirazione più grande, arruolatosi nel 1908 nell’ottobre 1912 virò deciso verso l’aviazione ottenendo il brevetto di pilota civile e l’anno seguente quello di pilota militare.

La guerra è alle porte

Il Nieuport 16, uno degli aerei della squadriglia MS 23 (immagine dal sito dedicato alla squadriglia)

Allo scoppio della guerra il capitano Beauchamp si ritrova subito in prima linea. Il fronte franco-tedesco è stato tra i più cruenti di tutta la guerra mondiale. Le fanterie nelle trincee e il fuoco continuo delle artiglierie divennero sin da subito il cruento spartito di una guerra di posizione nella quale l’aviazione si ritagliò un ruolo importante. Dal cielo gli aerei esploravano il terreno circostante, attaccavano con mitragliatrici e bombe le difese avversarie e soprattutto contrastavano i palloni di osservazione chiamati Drachen che davano sempre informazioni importanti alle artiglierie per colpire le linee avversarie. Il capitano Beauchamp si mise in mostra in una operazione di bombardamento già nel novembre 1914, mentre per l’abbattimento di un Aviatik C avvenuto il 4 febbraio 1915 si meritò una menzione speciale: « Il 4 febbraio 1915 con l’abilità e la precisione delle sue manovre eseguite sotto il fuoco rotolante dell’artiglieria nemica, permise all’ufficiale osservatore da lui guidato, di causare con il suo fuoco (moschettone), la caduta di un biplano nemico dopo una breve lotta ».Il 10 ottobre accadde un episodio che dà il senso del coraggio del capitano Beauchamp. Uscito in missione, combattè contro quattro aerei tedeschi consumando interamente la sua dotazione di munizioni delle mitragliatrici (450 colpi), sulla via del ritorno venne affrontato da un aereo tedesco armato di due mitragliatrici. Il capitano Beauchamp pur senza munizioni virò puntando diritto verso l’aereo tedesco, colto di sorpresa dalla manovra il pilota tedesco ignorando che Beauchamp fosse in realtà disarmato si ritirò.

La nomina a comandate di squadriglia

7 dicembre 1916 Il capitano Beauchamp (il secondo in piedi da destra), alla sua sinistra il tenente Daucourt (tratta rivista “L’Aérophile” 1-15 dicembre 1916)

L’8 dicembre 1915 divenne il comandante della squadriglia MS 23 e prese parte alla lunga battaglia di Verdun dove per mesi i francesi resistettero a caro prezzo all’offensiva tedesca. La battaglia di Verdun è ricordata come uno dei più cruenti eventi bellici della storia, negli opposti fronti furono 700mila i caduti in battaglia in quei lunghi mesi. Tante le operazioni nelle quali il capitano Beauchamp fu protagonista. Nel maggio comandò una missione a cui parteciparono anche dei piloti di altre squadriglie per andare a colpire un gran numero di drachen di osservazione. Gli otto piloti partirono in missione su dei Nieuport 16 portando a termine con successo l’operazione. Vennero abbattuti sei drachen, pur lamentando la perdita di un Nieuport dopo un combattimento aereo. Sono numerose le menzioni che il comandante Beauchamp ottenne per le sue missioni, citazioni che comparivano nei comunicati del comando francese e che valevano quasi un’onorificenza tanto era il prestigio che creavano attorno al protagonista.

L’impresa di Essen, una missione con un volo di oltre 700 chilometri

Il capitano Beauchamp in una rara fotografia a colori con il Sorwith 1B1 prima della missione verso Essen (Getty Image)

Tra i pionieri dei voli di esplorazione con rilevamenti fotografici e dei voli notturni, nel settembre 1916 il capitano Beauchamp compì la prima delle operazioni a lungo raggio che lo caratterizzò. Assieme al tenente Daucourt a bordo di due Sopwith 1B1 armati delle sole bombe, il capitano Beauchamp partì per una missione che aveva come obiettivo le fabbriche di armamenti Krupp ad Essen. Un’operazione azzardata data la distanza e il viaggiar attraverso dei territori nemici ma dall’alto valore simbolico e che vide i due piloti coronare questa loro missione con successo. Saranno dodici le bombe sganciate su Essen dopo un viaggio lunghissimo ad alta quota che per i mezzi dell’epoca era un’assoluta novità. Un’impresa che fu celebrata con grande risalto dalla stampa dell’epoca.

17 novembre 1916, De Beauchamp in missione a Monaco di Baviera

La seconda missione impossibile è relativa proprio alla nostra storia. Questa volta il capitano Beauchamp partì in solitaria verso Monaco di Baviera e grande fu il risalto sui giornali dell’epoca. Proponiamo per l’intero l’articolo a firma Gino Piva pubblicato sia su “La Stampa” di Torino che sul “Resto del Carlino” di Bologna:

Il Sopwith 1B1 “Ariel” del capitano de Beauchamp prima della missione verso Monaco di Baviera

I particolari del formidabile viaggio aereo del capitano De Beauchamp

 « Ieri sera ci giungeva notizia che ai borghi del paese di San Donà di Piave, nell’antico agro altinate, ad una trentina di chilometri a nord di Venezia, era atterrato in buone condizioni un aereoplano Nieuport (ndr Sopwith) che aveva a bordo un unico aviatore, il capitano francese De Beauchamp. Tosto si ebbero i ragguagli intorno all’atterramento ed al volo compiuto dall’arditissimo aviatore, ragguagli sui quali si potrebbe costruire il tessuto di uno dei più romanzeschi episodi dell’aviazione. Il capitano Beauchamp, giovane e brillante ufficiale, che proviene dai cacciatori, si era offerto volontariamente di eseguire un bombardamento di rappresaglia su Monaco di Baviera, quale risposta al bombardamento aereo compiuto sulla città aperta di Amiens dagli aviatori tedeschi ».

Dai campi della Marna

« Lo straordinario volo era stato a lungo preordinato. Il capitano Beauchamp, compiuta la sua missione su Monaco, avrebbe dovuto dirigersi verso le alpi ed entrare in Italia per prendere terra a Venezia. Erano stati avvertiti di questo volo tutti i nostri posti antiaerei ed i campi di aviazione onde lo svelto apparecchio francese non fosse scambiato per un apparecchio nemico. Prese tutte le opportune predisposizioni, in condizioni metereologiche tutt’altro che rassicuranti, il capitano Beauchamp lasciava terra alle sette e mezza di ieri, 17 corrente, da un campo di aviazione dell’alta Marna. La partenza si effettuava nel più perfetto orario. Sembrava che nessuno dubitasse che l’aviatore avrebbe fatto tutto quanto si fosse proposto. I saluti dei camerati furono brevi ed augurali. L’apparecchio nelle brume del primo mattino spiccò il volo dai campi della Marna e si sottrasse tosto, dirigendosi verso nord-est, agli sguardi dei rimasti che ne seguivano il volo con intensa emozione ».

La prima pagina dell’Excelsior del 19 novembre 1916 che venne dedicata alle imprese di Essen e Monaco

Il volo ed il bombardamento

« Dall’alta Marna, per Colmar, la Foresta Nera, il Wurtemberg raggiungendo quote dai 1000 ai 3000 metri, il capitano Beauchamp, si diresse sopra Monaco, eludendo la vigilanza delle guardie antiaeree. Egli filava diritto e sicuro verso il cielo tedesco, tenendo sempre una grande altezza. La temperatura era bassissima ed oltremodo gelide erano le correnti che l’aviatore andava incontrando. L’impresa in qualche momento sembrava diventare disperata; ed in quei momenti critici il capitano Beauchamp faceva più che mai appello alla eccezionalità delle sue forze fisiche e morali. Grande era l’impegno che egli si era assunto e sempre più grande sembrava diventare quanto più diventava avverso lo spazio in cui la macchina aerea si librava. Verso mezzogiorno Beauchamp era in vista di Monaco. Il solitario e temerario sparviero veniva salutato da numerosi colpi di cannone. Ma nulla ormai poteva più trattenerlo. A bordo dell’aeroplano erano agganciate sei bombe ad alto esplosivo; e quando l’apparecchio, dopo essersi abbassato, si trovò sopra la principale stazione ferroviaria della città, le sei bombe furono lasciate cadere. L’aviatore riferisce che gli effetti furono visibilissimi. L’operazione fu rapidamente compiuta, quindi – nonostante l’allarme – l’apparecchio prese quota dirigendosi verso sud-est ».

L’aereo Sopwith 1B1 “Ariel” del capitano Beauchamp dopo l’atterraggio a San Donà di Piave (tratta da La Guerre aérienne illustrée)

L’atterramento a San Donà

« Gettatosi lungo l’Inn per la valle volò su Innsbruck da dove per la valle dell’Eisach, passato il Brennero, sospeso sul territorio alpino, candido di nevi, filò verso il mare. Questa era la meta. I profili terrestri poco si distinguevano nella foschia della giornata piovosa e nevosa; ma il luccicore delle paludi e la striscia bianca del mare si rilevavano facilmente. Il capitano Beauchamp oramai vedeva l’Italia; vedeva tutta la laguna nostra. Gli parve di essere già sopra a Venezia. Il Basso agro del Piave infatti, visto dall’alto, dà facilmente questa illusione. Il volo dunque era compiuto. Non c’era che da atterrare. Ed il capitano Beauchamp con l’animo pieno di legittimo orgoglio fu accolto entusiasticamente dai nostri ufficiali che avvertirono del glorioso arrivo il comandante la piazza di Venezia. Il capitano Beauchamp nella serata si recava a Venezia per riferire i particolari del suo meraviglioso viaggio aereo al comandante De Challange della squadriglia di aviazione francese ».

L’aereo Sopwith 1B1 “Ariel” del capitano Beauchamp dopo l’atterraggio a San Donà di Piave (tratta da La Guerre aérienne illustrée)

La versione del Gazzettino

Sulle pagine del Gazzettino di Venezia il viaggio in direzione Italia lo diedero frutto di necessità piuttosto che di programmazione: «….Compiuta la sua missione, inseguito da numerosi apparecchi nemici e sorpreso da un violento temporale, il valoroso aviatore s’elevò fino ad una altezza di quattromila metri. Stimando per le condizioni atmosferiche quasi impossibile il ritorno alla sua sede decise di portarsi in Italia e dirigendosi verso sud, attraversò le Alpi inseguito fino al Brennero dai numerosi velivoli tedeschi. Dopo un’ora e tre quarti di volo, da Monaco, vide il cielo alquanto rischiararsi, le nubi diradandosi gli lasciarono intravedere il mare. Allora decise di scendere. Come è noto, il capitano De Beauchamp prese terra a poca distanza da San Donà di Piave ».

La permanenza a Venezia
Il capitano Beauchamp a sinistra, alla sua destra il tenente Daucourt (cartolina originale)

Dopo essere atterrato nei pressi di San Donà di Piave il capitano Beauchamp si trasferì a Venezia dove era già di stanza una squadriglia di aerei francesi in supporto a quelli italiani. Nella domenica successiva all’impresa la Gazzetta di Venezia segnalò la sua presenza assieme a quella dei diplomatici francesi e alla pari di quella delle più importanti rappresentanze diplomatiche alleate, in occasione della grande cerimonia tenuta in piazza San Marco per la consegna di numerose onorificenze ai militari italiani che si erano distinti in combattimento, molte di queste alla memoria. Probabilmente lo stesso Beauchamp in quella occasione venne insignito di una medaglia da parte dei comandi italiani, essendo la stessa genericamente citata nel suo palmares. Il capitano ripartì alla volta di Milano mercoledì 22 novembre assieme alla moglie che nel frattempo lo aveva raggiunto, così ne dà notizia la Gazzetta di Venezia: « … A quell’ora alla stazione il pubblico era assai numeroso ed il capitano, che era entrato nel buffet, venne subito riconosciuto e fatto segno ad una calorosa manifestazione. Circondato dalla folla plaudente attraversò l’atrio e quando il treno per Milano si mosse applausi vivissimi lo salutarono. Egli ringraziò sorridendo e salutando modestamente ».

Una medaglia d’argento, la sorpresa della nostra storia
La medaglia d’argento coniata dal Comune di San Donà di Piave in ricordo dell’impresa del capitano Beauchamp

La pietra d’inciampo di quella impresa che ha dato lo spunto per ritrovarne la storia è una stata una medaglia d’argento che la Città di San Donà di Piave coniò per ricordare l’evento e chissà, consegnarla al protagonista. Il come, il dove o il quando è rimasto tra le pieghe della storia ma vi è la concretezza di questa medaglia oggi recuperata e tornata a San Donà. Nel lato principale lo stemma di San Donà di Piave, la data e il ringraziamento a Louis De Beauchamp, la citazione dell’aereoporto di partenza Belfort, l’oggetto della missione Monaco di Baviera e l’imprevista destinazione finale San Donà di Piave. Sul retro stilizzato l’uomo che vola armato con una bomba come un’aquila oltre le Alpi … fino a quel luogo vicino alle sponde del Piave, tra mare e laguna chiamato San Donà e che per quell’impresa ebbe un risalto internazionale.

Il retro della medaglia d’argento coniata dal Comune di San Donà di Piave in ricordo dell’impresa del capitano Beauchamp
Per il capitano Beauchamp l’onorificenza francese più prestigiosa
Il generale Robert Georges Nivelle

Louis Robert de Beauchamp tornato in Francia si ritrovò nuovamente immerso nell’infinita battaglia di Verdun, giunta ormai ad una svolta. Il giorno 12 dicembre 1916 per le sue imprese di Essen e Monaco di Baviera gli venne consegnata la coccarda della Legione d’Onore dal generale Robert Georges Nivelle, comandante dell’intero settore di Verdun e che il giorno dopo sarebbe stato egli stesso nominato comandante in capo dell’esercito francese. Questa la motivazione della Legion d’Onore: « Ufficiale del più grande coraggio. Posto alla testa di uno squadrone dell’esercito, ha mostrato durante la battaglia di Verdun, eccezionali qualità di ritmo, iniziativa e spirito. Nelle missioni di ricognizione così come nelle missioni di caccia, ha costantemente dato ai suoi piloti i migliori esempi di coraggio riflessivo e senso del dovere. Riuscì per primo ad organizzare ed eseguire bombardamenti a lungo raggio, dimostrando, nel compimento di queste missioni, energia, tenacia e audacia senza pari. ».

Il destino di un eroe semplice
I resti dell’aereo del capitano de Beauchamp precipitato nei pressi di Verdun (fotografia originale)

Poche sono le vicende di guerra che sono legate ad un lieto fine. Ad un mese da quella missione che lo aveva portato sino a San Donà di Piave, il 17 dicembre 1916 il capitano Beauchamp s’alzo in volo con il suo Sapd 7 alle ore 15.00. Dopo aver inseguito un aereo nemico venne attaccato da altri tre aerei tedeschi e, come sempre, Beauchamp non negò loro battaglia. Colpito ripetutamente virò verso le linee francesi cercando di atterrare vicino il bosco di Vaux-Chapitre nei pressi di Vaux-devant-Damloup a pochi chilometri da Verdun. Impervio il terreno scelto, il capitano venne sbalzato fuori dall’aereo, subito soccorso, le ferite inferte dalle pallottole delle mitragliatrici tedesche non gli lasciarono scampo. Colpito alla testa e con l’arteria del braccio recisa, l’esser riuscito a portarsi nei pressi delle linee francesi era stato il suo ultimo atto glorioso. Attoniti i suoi compagni d’arme che vanamente ne avevano atteso il ritorno alla base. Presso l’aeroporto della squadriglia venne allestita la camera ardente. Il funerale venne celebrato solennemente il 20 dicembre 1916 – come scrisse una rivista dell’epoca – « …in mezzo ad un pubblico di valorosi che piansero tutti il grande condottiero, l’eroe immortale che avevano appena perso e che non può essere vendicato in quanto era il più glorioso tra tutti ».

I fratelli Beauchamp caduti per la Francia
La lapide dedicata ai caduti al cimitero di Lignac che ricorda tra gli altri anche i tre fratelli de Beauchamp

Le spoglie di Louis Marie Maurice Georges Robert de Beauchamp riposano ancor oggi presso la tomba di famiglia a Saint-Julien l’Ars, un piccolo paese a pochi chilometri da Poitiers nel dipartimento di Vienne nella regione odierna della Nuova Aquitania (con capoluogo Bordeaux). Lì sono ricordati anche i suoi fratelli Hubert Marie Henry (sottotenente di fanteria morto nel 1915 sulle trincee di Ypres in Belgio) e Marie Michel Pierre Jean (sottotenente di aviazione morto in combattimento nel 1918 a  Oulchy-le-Château), un’intera famiglia caduta per la Francia. Nel 2016 è stato celebrato il centenario dalla sua scomparsa, a cui oggi aggiungiamo anche il nostro ricordo.

La fotografia pubblicata da La Nouvelle Republique in occasione del centenario dalla morte di Louis Robert de Beauchamp, nell’immagine la tomba di famiglia a St. Julien l’Ars
Il Capitano De Beauchamp in una immagine apparsa su « La Guerre aérienne illustrée » del 7 dicembre 1916, autografata

Per approfondimenti: 1. « L’illustration » rivista del 23-30 dicembre 1916; 2. « Excelsior , Journal Illustré Quotidien » Dimanche 19 novembre 1916; 3. Escadrille MS-23, sito dedicato alla squadriglia MS23; 4. « La Nouvelle republique », articolo dedicato alla commemorazione del centenario dalla morte; 5. « Huffpost », articolo dedicato alla tragedia del Le Bazar de la Charité; 6. « Gallica », articolo dedicato a Louis Robert de Beauchamp. 7. «Archivio storico La Stampa », l’articolo del 20 novembre 1916.