Nel lontano 1938 nacque l’associazione “Amici Moto Ombra”

Nel lontano 1938 nacque l’associazione “Amici Moto Ombra”

In un articolo del periodico “Il Piave”, edito dall’amministrazione comunale di San Donà di Piave, nel gennaio 1973 si poteva leggere qualche cenno storico dell’associazione “Amici Moto Ombra”

Una cartolina degli “Amici Moto Ombra” con la loro classica moto stilizzata

Uno dei motti dell’associazione “Amici Moto Ombra” recitava così « Empi il Bicchier che vuoto – vuota il bicchier che pieno – non lo lasciar mai vuoto – non lo lasciar mai pieno ». Nata nel 1938 per iniziativa di quindici amici fondatori in un periodo di grandi ristrettezze e con un Paese oramai prossimo alla guerra e alle distruzioni che questa portò, ebbe il merito di continuare la sua opera per un periodo lunghissimo tanto che l’articolo apparso su “Il Piave” festeggiava il suo trentacinquesimo anniversario.

I Soci fondatori degli « Amici Moto Ombra »

Da Sinistra in alto: Zorzi Vittorio, Tronco Giovanni, Brollo Libero, Pasini Nino (primo presidente), Bello Oreste, Pasini Luigi; in mezzo: Bincoletto Luigi, Momesso Giuseppe, Giacobbi Giuseppe, Caramel Alfredo, Boccato Luigi; in basso: Frara Luigi, Bergamo Mario, Murer Bruno, Carlesso Giulio.

Da “Il Piave” – Ricorre quest’anno il 35° anniversario della «Amici Moto Ombra – G. Tronco »

Ricorre quest’anno il 35° anniversario della fondazione del decano dei sodalizi cittadini la « AMICI MOTO OMBRA – Giovanni Tronco ».
Da queste colonne ci proponiamo di far conoscere che cosa è la AMICI MOTO OMBRA, il perché della sua fondazione e le finalità che l’hanno fatta nascere e sin qui progredire per assumere adesioni innumerevoli.

Una foto di gruppo con sullo sfondo la moto modello « Amici Moto Ombra », la vista è su via Trecidi Martiri dove si nota anche l’Oratorio Don Bosco

Nel lontano 1938, nel mese di febbraio, un gruppo di quindici operai spinti da profondi sentimenti di amicizia dettero vita alla AMICI MOTO OMBRA come fini ricreativi ma soprattutto spinti da un più nobile ideale che si identificava nel motto « uno per tutti e tutti per uno – Agire nell’ombra » e cioè intervenire con l’aiuto morale e finanziario per quegli amici che si venivano a trovare in ristrettezze e difficoltà economiche. Sta di fatto che le quote che settimanalmente ogni amico versa, a fondo perduto, vanno ad aumentare il fondo cassa creando la potenzialità degli interventi nei confronti di chi può averne bisogno. Dunque lo scopo primo è aiutare gli amici e dopo il divertimento.

Tra la folla un carro allegorico degli « Amici Moto Ombra » trainato dai buoi


La « Amici Moto Ombra », però, non soltanto si ricorda degli amici iscritti, ma in occasione delle festività più care a tutti interviene verso chi soffre, distribuendo pacchi dono ai vari Enti morali del paese,
Fra le manifestazioni sociali, trattandosi di operai, una delle più sentite è la consumazione di un pranzetto spuntino in occasione della festa del Lavoro. Nei primi anni di vita del sodalizio durante tale manifestazione veniva assegnato un diploma alla più bella sbornia tra i partecipanti allo spuntino; questo non per incitamento al vizio del bere ma soltanto perché il ritrovarsi uniti per lo spuntino creava l’occasione di un pomeriggio pieno di allegria per tutti e colmo di libagioni fra amici cari.

Un classico “spuntino” degli « Amici Moto Ombra »


Ferma e basata su questi principi la AMICI MOTO OMBRA è fiorita aumentando sempre più il numero degli iscritti. Dai 15 amici fondatori attualmente contra n. 107 soci amici.
Attualmente a far parte del sodalizio sono rimasti soltanto due dei fondatori; gli amici BERGAMO MARIO e CARAMEL ALFREDO.
Il sodalizio nell’immediato dopoguerra è stato intitolato alla memoria di Giovanni Tronco, socio fondatore, fucilato dai nazisti nell’eccidio di Cà Giustiniani con altri 12 Martiri della resistenza.
Tradizionalmente, durante il carnevale, il sodalizio organizza una veglia danzante che quest’anno avrà luogo il 10 febbraio p.v. all’Hotel Vienna. La serata sarà allietata da un noto complesso musicale.

Torpedoni in colonna in una gita degli anni Cinquanta

Giovanni Tronco, tra i fondatori degli «Amici Moto Ombra» fu uno dei Tredici Martiri

Come ricorda anche l’articolo de “Il Piave” tra i soci fondatori degli « Amici Moto Ombra » vi era anche Giovanni Tronco che il 28 aprile 1944 venne fucilato per rappresaglia dai nazifascisti assieme ad altri dodici compagni di cella nei pressi di Cà Giustinian a Venezia, in quello che ancor oggi viene ricordato come il sacrificio dei Tredici Martiri. Abbiamo trattato quell’episodio a questo link http://bluestenyeyes.altervista.org/san-dona-di-piave-il-sacrificio-dei-13-martiri/, dove tra l’altro è anche possibile scaricare il libretto che l’amministrazione comunale di San Donà di Piave (Medaglia d’argento al Valor Militare per la Guerra di Liberazione) ha pubblicato nel 1964 in occasione del ventennale. Per ricordarlo gli Amici vollero associare il suo nome a quello degli « Amici Moto Ombra ».

L’addio autografo alla famiglia di Giovanni Tronco, tratto dal libretto edito dal Comune di San Donà di Piave (1964)

Gli Ottanta anni degli « Amici Moto Ombra »

Nel 2018 l’associazione ha festeggiato gli Ottanta anni dalla fondazione. Evento che è stato ricordato in un articolo de La Nuova Venezia a firma Giovanni Monforte: «… Il sodalizio è formato da un gruppo di amici che si ritrovano ancora oggi settimanalmente per promuovere iniziative benefiche agendo soprattutto nell’ombra, intervenendo con l’aiuto morale e finanziario non solo verso i soci in caso di difficoltà, ma anche verso enti morali. «Rispetto al 1938 i tempi sono cambiati, meno difficili però con maggiori esigenze, ma gli obiettivi e lo spirito di carattere sociale e benefico sono sempre quelli che hanno animato i soci fin dall’inizio», spiegano. Il gruppo trae il nome dal simbolo: una moto con due ruote di bicchieri, motore e serbatoio raffigurati da una damigiana e una botticella. »

Per approfondimenti: 1. « Il Piave » del 5 febbraio 1973 periodico amministrazione comunale San Donà di Piave; 2. articolo « La Nuova Venezia » del 17 febbraio 2018.

Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo

Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo

Incrociare delle vecchie foto di un album è una pratica semplice, accade o potrebbe accadere ad ogni ora del giorno in una qualsiasi famiglia. Non sempre si riesce a riconoscere le persone ritratte ma sai che in qualche maniera hanno fatto parte della tua storia. A volte può accadere di incrociare foto di un album qualsiasi, di una famiglia qualsiasi e scoprire che comunque fanno parte della tua storia, o più propriamente della storia della tua città. E fu così che attratto da un cognome eccoci a tracciare una storia che ci porta a più di cento anni fa.

La San Donà a cavallo del secolo
Il ponte sul fiume Piave ad inizio secolo

La San Donà della fine Ottocento divenne un punto di riferimento per tutto il mandamento. Le grandi bonifiche avevano ampliato il territorio destinato all’agricoltura e anche le vie di comunicazione avevano avuto un grande sviluppo grazie al collegamento ferroviario con Venezia inaugurato nel 1885 e il successivo prolungamento verso Portogruaro inaugurato l’anno dopo. Anche il nuovo ponte pedonale in ferro che aveva sostituito quello in legno distrutto da una piena del Piave aveva portato grandi benefici alle cittadine poste sulle due sponde. Non fosse per gli argini ancora incompleti che costringeva tutti a fare i conti con le regolari bizze autunnali del fiume, San Donà si era comunque avviata ad uno sviluppo importante. Il nuovo ospedale inaugurato nel 1913 fu il giusto completamento alle tante opere pubbliche cittadine che stavano arricchendo il tessuto urbano sandonatese. Uno sviluppo che ben presto si trovò a fronteggiare le ombre di una guerra che oscurò il futuro e a cui il buio di un anno di occupazione austroungarica in prima linea regalò un’immane distruzione.

I Guarinoni
A inzio secolo un’immagine del Rialto Jesolo

Nella crescita della San Donà a cavallo del Novecento s’inseriscono i protagonisti della nostra storia, la famiglia Guarinoni. Lo spunto è venuto da alcune foto ritrovate facenti parte di uno stesso album. Una in particolare raffigurava la casa dei Guarinoni e, con sorpresa, era in realtà una cartolina viaggiata del 1915 con tante utili informazioni da approfondire.

I Guarinoni erano esponenti dell’alta borghesia sandonatese la stessa che al tempo veniva identificata come quella dei possidenti. Per lo più proprietari terrieri, i possidenti erano appartenenti a quella ristretta cerchia a cui veniva riconosciuto il diritto di voto e con esso la partecipazione alla politica attiva della città. I Guarinoni sin dall’Ottocento li troviamo citati nella storia sandonatese, in particolare il loro nome viene ricordato in due episodi dal Plateo nel suo libro, ripresi poi anche da Monsignor Chimenton. Entrambi i loro libri sono dei testi fondamentali da cui attingere importanti notizie in merito alla storia cittadina. Se il racconto di Plateo si ferma ai primi del novecento quello di Monsignor Chimenton ci permette di arrivare con la sua narrazione ai cinque lustri successivi e grazie al quale possiamo arricchire la parte riguardante i Guarinoni anche del periodo successivo alla grande guerra nel quale Guido Guarinoni ebbe un ruolo fondamentale nella ricostruzione della città.

La fucilazione del Cimetta
Rialto Jesolo (o Spalto Jesolo) visto da via Maggiore

Ambedue gli episodi riportati dal Plateo si riferiscono a quel periodo che vide San Donà inglobata nel Regno Lombardo-Veneto durante l’occupazione austriaca, ovvero dalla caduta di Napoleone sino alla fine della terza guerra di indipendenza (1815-1866). « Molti episodi, che provano il patriottismo della popolazione, si narravano fino a ieri e si ricordano ancora oggi dai vecchi, fra cui l’eroica fine di quell’Antonio Cimetta da Portogruaro, qui residente, trovato in possesso di un vecchio archibugio e sospettato d’italianità, condannato alla fucilazione, dal consiglio di guerra presieduto dal Colonnello Radetzky, figlio del famoso maresciallo. L’esecuzione capitale ebbe luogo qui il 14 gennaio 1849, presso l’argine del Piave, di fronte all’abitazione Guarinoni.

Il Cimetta, circondato da’ suoi carnefici, che lo accompagnavano all’estremo supplizio incitandolo a rivelare i nomi dei cospiratori che si servivano di lui per corrispondere col governo provvisorio di Venezia, approfittò dell’ultimo istante di vita per gettare in aria il berretto e gridare: Viva l’Italia! imitando così Antonio Sciesa, il popolano milanese celebre nella storia per la tipica frase: « tiremm innanz » con la quale rispose alle promesse di aver salva la vita se rivelava i nomi dei compagni di fede.

Una colonna spezzata nel nostro cimitero, collocata sulla fossa che racchiude le ossa del Cimetta, porta la seguente epigrafe:

ANTONIO CIMETTA

MARINAIO DI PORTOGRUARO AGENTE CORAGGIOSO DI QUELLA COSPIRAZIONE CHE HA REDENTA LA PATRIA

A MORTE DA TRIBUNALE AUSTRIACO CONDANNATO SUBIVA INTREPIDO LA FUCILAZIONE IN QUESTO COMUNE

14 GENNAIO 1849

SPIRANDO COL GRIDO  VIVA L’ITALIA

I CITTADINI DI S. DONA’ NEL XXXII ANNIVERSARIO.

Dunque una prima traccia della casa dei Guarinoni la possiamo trovare lungo l’argine, un indizio che in effetti possiamo anche intravedere nella cartolina la cui inquadratura dall’alto ci fa pensare effettivamente potesse essere ai piedi dell’argine.

“Il tricolore sulla residenza municipale “
Il Municipio in una cartolina del 1916

Il secondo episodio è posteriore, siamo già a Regno d’Italia costituito, con l’Austria che aveva perso la Lombardia e aveva trasferito la capitale dei suoi possedimenti a Venezia.

« La notte del 24 giugno 1863, quarto anniversario delle battaglie di S. Martino e Solferino, fu inalberata sul culmine del tetto della residenza municipale, ora uffizi dei consorzi, una bandiera tricolore di seta, regalata dalla signora Giovanna Guarinoni, nota per i suoi sentimenti patriottici. All’alba del dì seguente il vessillo sventolò superbo fin tanto che la polizia, scompigliata da tanta baldanza, non riuscì ad impadronirsi del corpo del reato, sul quale s’imbastì analogo processo politico.

Questa dimostrazione ardita, ispirata da alcuni signori del paese, ebbe per intrepidi e avveduti esecutori Giuseppe Mucelli, Giuseppe Baradel e Leopoldo Zaramella, tre distinti operai, tre buoni cittadini, tre ottimi patrioti, i due primi già appartenenti ai volontari del patrio riscatto, e il terzo arruolatosi nel 1866.

Il vessillo incriminato venne dal Pretore custodito nel luogo più sicuro dell’ufficio, ossia nel cassetto della propria scrivania. Nell’ottobre dello stesso anno il Mucelli e lo Zaramella, ai quali si associò Antonio Battistella, tre falegnami decisi di riavere la bandiera, resa sacra dalla persecuzione austriaca, approfittando di una notte in cui imperversava il temporale, con un vento infuriato e con abbondanti scariche di tuoni, penetrarono nell’ufficio pretoriale, ora caserma delle Guardie di Finanza, e scassinate porte e cassetti poterono prendere la bandiera tanto desiderata e uscire inavvertiti.

L’ardua impresa destò in paese grande rumore per il fatto che non furono toccati i denari dei depositi e gli oggetti di valore che si trovavano accanto alla bandiera, e gli autori della sottrazione di questa non lasciarono tracce del loro passaggio. Tuttavia le perquisizioni domiciliari si estesero a molte persone sospette di sentimenti patriottici, ma senza esito, perché la bandiera, bene piegata, poté dal Mucelli venir nascosta nel vuoto invisibile praticato ingegnosamente, in un tagliere di legno, che rimase appeso in cucina insieme a vari altri, e sfuggire così all’occhio vigile della polizia. »

Dopo questa seconda citazione che testimonia dei sentimenti italiani dei Guarinoni di quel tempo torniamo alle vicende famigliari che da quella cartolina abbiamo iniziato a dipanare. Non abbiamo trovato traccia della signora Giovanna citata dal Plateo, sarebbero state necessarie ulteriori ricerche, di certo era collegata allo stesso ramo famigliare da cui siamo partiti per andare indietro nel tempo. Perché il reale protagonista dei Guarinoni a cui quella cartolina si lega è Guido Guarinoni, sindaco di San Donà di Piave dal 1920 al 1923.

I contorni della storia albergano tra i rami dei legami famigliari
L’estratto dell’atto di matrimonio tra Guido Guarinoni e Maria Velluti (1896)

I Guarinoni in quel secolo Ottocento erano una famiglia di possidenti ben in vista a San Donà. Tra l’altro in alcuni loro locali in disuso in via Jesolo mossero i primi passi gli appassionati di teatro sandonatesi con tanto di rappresentazioni. Il nonno di Guido era Giovanni Battista mentre la nonna era Bressanin Maddalena. Anche quest’ultima appartenente ad una famiglia il cui cognome non era sconosciuto tra i possidenti di San Donà. Del resto, anche nelle successive generazioni non mutò l’appartenenza. Il padre di Guido era coetaneo di Giovanna Guarinoni citata da Plateo, Luigi Guarinoni sposò giovanissimo Bortoluzzi Teresa, una possidente di Noventa. Tra i registri di San Donà si riescono a rintracciare diversi fratelli e sorelle di Guido. Il padre morì nel 1881, i figli erano ancora giovani e poco dopo morì anche il primogenito Ugo Antonio. La sorella Alda Maria si sposò con l’ing, Radaelli di Venezia, un legame con la città lagunare che sarà importante per la famiglia i cui interessi anche professionali s’intrecciarono particolarmente con Venezia. Anche Guido divenne ingegnere e conobbe il collega Francesco Velluti di Dolo, di lì a poco ne sposò nel 1896 la sorella diciottenne Maria Velluti. I componenti della famiglia Velluti erano dei possidenti di Dolo i cui genitori erano morti pochi anni prima.  I due novelli sposi andarono a vivere nella casa di famiglia a San Donà di Piave in Rialto Jesolo, 141.  In quella stessa casa viveva anche il fratello Amedeo Guarinoni che nel 1898 aveva sposato Clorinda Crico, figlia del medico di Musile, il dottor Giacomo Crico. Sia Guido che Amedeo ebbero una figlia, nel 1897 Maria Velludi diede alla luce Teresina, mentre Clorinda Crico ebbe nel 1899 Teresa. Entrambi i nomi prendevano spunto come era d’uso un tempo da una nonna, in questo caso quella paterna.

Una immagine di Villa Guarinoni del 1915 (foto di A. Cadamuro)
La cartolina della storia
Un dettaglio dell’immagine di villa Guarinoni, in posa la famiglia del futuro sindaco di San Donà di Piave

E qui la nostra storia torna ad agganciarsi a quella famosa cartolina, quella casa vista dall’alto potrebbe proprio essere stata in Rialto Jesolo, il fotografo Antonio Cadamuro potrebbe averla ripresa dall’argine e cosa ancor più ammirevole in quel giardino posto sul retro della casa si nota l’ing. Guido Guarinoni, all’epoca già consigliere comunale, con parte della famiglia allargata che in quella abitazione viveva. Alla figlia di Guido Guarinoni Teresina veniva inviata la cartolina nel 1915, era firmata da una non meglio identificata Rita e la destinazione era Dolo dove la ragazza si trovava assieme alla madre in quel dicembre. L’Italia era già in guerra, San Donà era percorsa dalle truppe che si muovevano verso il fronte e si iniziava a cercare un posto meno esposto, e di sicuro i possedimenti di famiglia a Dolo lo erano. Qualche anno prima la zia Clorinda Crico rimasta vedova nel 1902, si era sposata con il cognato Radaelli Onofrio, rimasto anch’egli vedovo prematuramente di Alda Maria, sorella del marito di Clorinda. L’ombra lunga della guerra arrivò su San Donà nel 1917, la famiglia Guarinoni nel frattempo aveva trovato riparo a Venezia. La casa di famiglia subì dure conseguenze dal conflitto mondiale trovandosi sulla linea del fronte lungo l’argine del Piave. In una seconda fotografia presente nell’album la si ritrova ridotta in macerie, in quel Rialto Jesolo colpito ripetutamente dall’artiglieria italiana nella San Donà dove le truppe austriache vennero fermate dalla resistenza italiana attestata oltre il Piave. La famiglia Guarinoni mantenne la residenza a Venezia anche successivamente, tanto che nonostante Guido Guarinoni nel 1920 fosse divenuto sindaco di San Donà di Piave i successivi matrimoni in quei primi anni venti di Teresa e Teresina celebrati a Venezia negli atti i genitori risultano ancora residenti a Venezia.


Villa ridotta in macerie dopo la prima guerra mondiale

Racconto diviso in due parti: 1. Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo – 2. Guido Guarinoni Sindaco di San Donà di Piave

Per approfondimenti: 1. « Il territorio di S. Donà nell’agro d’Eraclea » (1905) di Teodegisillo Plateo; 2. « S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella » (1928) di Mons. Costante Chimenton.

Antonio Pasinetti, un fotografo di San Donà

Cartolina viaggiata del 1940 (Ed. Fratelli Dall’Oro, fotografia Antonio Pasinetti, Fotocelere di A. Campassi – Torino)
I fotografi di San Donà dall’Annuario del Regno d’Italia 1935

In via Borgo, poi via Vittorio Emanuele, quindi corso Silvio Trentin sempre vi è stato un fotografo. Che sia egli Battacchi, oppure Pasinetti, o anche Striuli le loro immagini sono rimaste impresse nella storia sandonatese in quanto sono state oggetto di cartolina. Un biglietto da visita importante di San Donà di Piave e come tale oggetto da collezione e testimanianza da tramandare ai posteri.

Foto da cartolina

Una macchina fotografica a pellicola dell’epoca.

E allora ci par di vederli i fotografi di quegli anni muoversi con quei loro strumenti di lavoro, solo lontani parenti di quelli sconfinati nell’oggi dell’era digitale. Doveva essere una strumentazione piuttosto ingombrante quella che veniva utilizzata all’epoca che sicuramente non sfuggiva agli occhi dei passanti, molti dei quali divenivano parte attiva degli scatti del fotografo anche perchè liberare la scena poteva risultare un pò complicato. E allor si capisce come i fotografi cercavano sovente degli orari dove i soggetti in movimento fossero pochi e non costringessero gli stessi a sprecare inutilmente lastre e pellicole in cerca del giusto scatto che solo in un secondo tempo avrebbero potuto controllare.

Tutto in una notte, degli indimenticabili scatti

Cartolina viaggiata del 1942 (Foto Antonio Pasinetti, Fotocelere di A. Campassi – Torino)

E viaggiando ancora di immaginazione pensiamo ad Antonio Pasinetti che in fatto di cartoline ha contribuito in modo importante, con degli scatti di assoluto valore beneficiati all’epoca anche da dei formati che valorizzavano al massimo l’immagine proposta nelle cartoline. In particolare gli scatti notturni di Piazzetta Trevisan devono avere avuto una preparazione particolarmente accurata. I lampioni accesi, la fontana pienamente funzionante, di sicuro non furono pochi nemmeno i permessi per riuscire a realizzare il tutto. Non ci stupiremo che la sua opera fosse stata richiesta dalle autorità dell’epoca, un modo per celebrare artisticamente la collocazione della nuova fontana al centro della piazza di fronte al Duomo. E allora pensiamo al fotografo mentre studia la scena, guarda le luci a disposizione e cerca la giusta angolazione per trovare la migliore inquadratura. Un lavoro talmente accurato che di quella piazza possiamo ora ammirarne ben tre scatti divenuti cartolina. Sembra quasi di accompagnare l’autore in quel notturno contesto seguendo quel suo obiettivo quasi fosse uno guardo reale. Un accompagnarci passo passo intorno a quella piazza sentendo i rumori e apprezzando le luci, le ombre e i precisi contorni dei dettagli.

Cartolina viaggiata del 1935 (foto di Antonio Pasinetti, Fotocelere di A. Campassi – Torino)

La fontana di Piazzetta Trevisan

Il duomo distrutto nel 1918 ritratto dalle case che all’epoca erano poste nello spazio che poi sarà destinato a piazzetta Trevisan

Le cartoline sono della metà degli anni Trenta e furono più volte riproposte anche in successive edizioni sino agli anni sessanta. Quella Piazza fu voluta dall’arciprete Luigi Saretta all’alba della ricostruzione dopo il buio e la distruzione della grande guerra. Prima di fronte al vecchio duomo la città si era interamente sviluppata lungo la via principale che dinanzi passava, oltre quella linea di case non vi era nulla. Nel ridisegno della città con la riedificazione del nuovo duomo venne sviluppata frontalmente anche una piazza appena oltre il corso il principale intitolata ad Angelo Trevisan, esponente di quella casata a cui è legata l’origine stessa di San Donà. Uno spazio che venne pienamente utilizzato nel 1925 in occasione del Congresso Eucaristico e che successivamente vide la collocazione della fontana. L’anno preciso lo si può desumere da una cartolina dell’epoca, alla base della fontana viene indicato l’anno fascista XII°, ovvero il 1934. Il che ci riconduce a quegli scatti fotografici di Antonio Pasinetti, poi divenuti cartolina.

La fontana di Piazzetta Trevisan in una cartolina viaggiata del 1934, l’iscrizione alla base indica lo stesso anno della cartolina ovvero il XII° anno fascista.
Quell’angolo del Duomo nel 1932

Quell’angolo del Duomo nel 1932

Il timbro della cartolina del 1932

Quelle storie sospese che s’incrociano nelle cartoline hanno un nuovo capitolo. Non tanto per lo scritto questa volta ma per i protagonisti della storia. Di sfuggita avevo intravisto solo l’immagine, sembrava quasi il classico soggetto religioso che talvolta s’incrocia in talune cartoline. A guardarla bene aveva un qualcosa di famigliare, un già visto che poteva avere un nesso passato ma non certezza. Ed invece una volta arrivatami in mano ecco scoprirne anche la didascalia. Il velo subito è sceso e il nesso sandonatese è stato subito scoperto, quel granello di ricordo è divenuto montagna. L’approfondimento poteva iniziare.

La cappella del Duomo di San Donà di Piave
Il fronte della cartolina viaggiata del 1932, con l’altare della Cappella del Duomo di San Donà

L’immagine è della fine degli anni venti, ovvero di quel periodo nel quale anche il nuovo Duomo sandonatese conobbe la sua completa ricostruzione dopo la grande guerra. La stessa immagine la si trova nel libro di Monsignor Chimenton “S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella” (1928). E’ uno scatto del fotografo sandonatese Batacchi, molte le sue immagini della città contenute nel libro del Chimenton e ancor più numerose quelle divenute cartoline in quegli anni. Il soggetto ritratto in questa immagine è l’altare dedicato San Vincenzo Ferreri presente nella Cappella della Fonte Battesimale nel Duomo di San Donà di Piave, la prima cappella alla destra dell’altare principale. Offerto alla parrocchia dal cav. Dott. Vincenzo Janna, sopra l’altare campeggia una pala dipinta dal pittore Cherubini incastonata in un mobile fatto dall’intagliatore Papa su disegno dell’architetto Torres.

Così descriveva Monsignor Chimenton la pala dedicata a San Vincenzo Ferreri: « La Madonna delle Grazie campeggia in posto d’onore, su quella tela, seduta su di un ricco trono, come una matrona; fra le sue braccia sostiene il Bambino. Riccamente vestita, in un atteggiamento dolce e delicato, unitamente con il suo Figliuolo Divino volge il suo sguardo verso i Santi che stanno ai piedi del suo trono, e verso i fedeli che presentano le loro venerazioni: sembra ripetere che la sorgente della sua grandezza e dei suoi trionfi è nella Divina Maternità. Dietro il trono della Vergine, sullo sfondo che si allunga come in una visione di panorama, si scorge il nuovo tempio di S. Donà di Piave, ultimato in tutte le sue parti, anche nel suo nuovo pronao, e il campanile ».

Una fotografia odierna della pala dedicata a San Vincenzo Ferrer

« Ai piedi del trono della Vergine stanno i Santi patroni della cittadina, che ricordano la diocesi di Treviso e la vecchia Gastaldia di S. Donà: S. Liberale, che regge lo stendardo del Comune di Treviso, è in atteggiamento di perfetto guerriero, dalla divisa romana, e la corazza sul petto; tiene la sua fronte rivolta alla Vergine; con le mani congiunte sembra impetrare da Maria nuove grazie per la diocesi di cui è patrono, come ne ottenne per la stessa durante la guerra; San Vincenzo Ferreri, nel suo abito domenicano, la più bella fiugura, forse, del quadro, che additando con la mano sinistra la Vergine, la mano destra poggiata sul petto, ricorda in parte almeno, il programma della sua predicazione; S. Donato Vescovo sostiene nella sua destra il pastorale e nella sinistra il libro del Vangelo: è la figura solenne del patrono della Gastaldia; S. Marco evangelista, austera figura di pensatore e d’inspirato, che, la fronte leggermente sollevata, l’occhio raccolto come di chi medita su quanto sta compiendo, o meglio su verità che devono formare la base della nuova fede, scrive il suo Vangelo: seduto su d’un masso, ha presso di sé il fulvo leone, simbolo della gloriosa repubblica di Venezia ».

Una cartolina sorprendentemente rara che non ricordo di aver mai incrociato e che potrebbe essere parte anche di una serie di cartoline.

Nella mappa del Duomo l’esatta ubicazione dell’altare nella cappella della Fonte Battesimale
La tipografia S.P.E.S. San Donà di Piave
La tipografia S.P.E.S. con vista Duomo

Anche il retro porta una sorpresa relativa alla stampa della cartolina. A editare e stampare la stessa è la S.P.E.S. di Evaristo Da Villa che delle cartoline poi farà una missione con una sterminata varietà nei decenni successivi anche se la tipografia sandonatese non la si trova più stampigliata sul retro. Riguardo alla S.P.E.S. ci viene in soccorso ancora Monsignor Chimenton che di questa tipografia scrive « La tipografia Spes sorse dopo la guerra. Iniziò il suo lavoro in casa Gnes, in viale Margherita. Nel 1926 si trasportò in un locale più ampio, più adatto, in via Giannino Ancillotto, presso il nuovo teatro Verdi. Ne è proprietario Evaristo Da Villa, la direzione tecnica è affidata al signor Guido Zottino.

Quel destinatario depositario di una storia
Il destinatario della cartolina del 1932

La cartolina è  del 1932 e venne inviata a Roma presso l’Ospizio Salesiano del Sacro Cuore dove risiedeva il chierico Luigi Ferrari. Questi altri non era che uno dei tre salesiani che nel 1928 arrivarono a San Donà di Piave per partecipare alla fondazione dell’Oratorio Don Bosco, all’epoca già in costruzione. Oltre al chierico, vi erano il direttore don Riccardo Giovannetto e il coadiutore Mauro Picchioni. I tre legarono la loro permanenza sandonatese non solo in ottica costruzione dell’Oratorio ma prestarono la loro opera anche all’Orfanotrofio fondato subito dopo la conclusione della prima guerra mondiale.

L’arrivo dei salesiani a San Donà di Piave
Bollettino Salesiano nr. 11 novembre 1928

Una descrizione molto significativa dell’arrivo dei tre salesiani a San Donà di Piave è contenuta nel Bollettino Salesiano nr. 11 del novembre 1928 (pag. 7):  « Il 24 settembre, giorno in cui il popolo di S. Donà di Piave celebrava la festa in onore della Madonna del Colèra, i Salesiani fecero ingresso in città per dar principio al loro apostolato tra la gioventù. L’accoglienza che il buon popolo fece ai nostri confratelli, fu la più entusiastica che si possa immaginare.  Alla stazione erano ad attenderli l’Arciprete Mons. Luigi Saretta, che tanto si adoperò per avere in S. Donà i Figli di Don Bosco, e con lui erano la Contessa Corinna Ancilotto, benemerita Presidente dell’Orfanotrofio, Donna Amelia Fabris e Donna Maria Bortolotto del Comitato d’onore; le signore Perin, Bastianetto e Bagnolo del gruppo Donne Cattoliche; il Cav. Magg. Peruzzo, il cav. Marco Bastianetto, l’ing. Ennio Contri, il geom. Attilio Rizzo, i sig. Giuseppe Bizzarro, Alberto Battistella, Umberto Roma ed altri di cui ci sfugge il nome, per il Comitato esecutivo pro Oratori e per gli Uomini Cattolici. Dopo un breve saluto e colloquio nella sala d’aspetto, gentilmente concessa dal Capo Stazione, li attendeva una immensa folla che li accolse con evviva ed esclamazioni mentre i fanciulli eseguivano con l’accompagnamento della Banda locale, apposito inno composto dal Rev.mo Arciprete. »

In corteo verso il sentro cittadino. « S’iniziò il corteo aperto dai bambini dell’Orfanotrofio, dai Fanciulli della Dottrina, dagli Aspiranti al Circolo, dal Circolo Giovanile, e dietro agli Uomini Cattolici, venivano i Salesiani circondati dal Clero locale, dal Comitato Esecutivo dell’Oratorio e dalle Autorità. Seguiva una folla immensa di signore, di donne del popolo, di giovanette del Circolo, di Piccole Italiane, e in coda per adesione in segno di onore, una interminabile fila di automobili delle principali Famiglie del paese. Il corteo imponente si diresse al Duomo fra una festa di sole, di canti, di suoni, uno sventolio di bandiere e due ali di popolo reverente e festante. Da tutte le case su tutti gli alberi erano scritte inneggianti ai Salesiani. Giunti in Piazza del Duomo il corteo si fermò su l’atrio ove, accompagnato dalla Banda fu di nuovo eseguito l’inno da migliaia di voci.

In una immagine fatta all’Orfanotrofio in quegli anni, sono presenti i tre salesiani. Nella foto si riconoscono tra gli altri: il primo seduto a sinistra MAURO PICCHIONI, il chierico P. Pretz, MONSIGNOR LUIGI SARETTA, don RICCARDO GIOVANNETTO, il sig. G. Rocco. In alto in veste nera, uno dei protagonisti di questa nostra storia il chierico LUIGI FERRARI

Il saluto in Duomo.  Entrati nella Chiesa affollata di popolo, i Salesiani ricevettero il saluto da mons. Vescovo di Treviso. Mons. Longhin ricordò la lunga attesa, le preghiere, le suppliche dell’Arciprete e prendendo lo spunto dall’immensa moltitudine presente fece rilevare come tutto il popolo avesse desiderata ed attesa la venuta dei Salesiani. In nome di tutti e in nome proprio, Egli si disse lieto di salutarli: Benedicti! Sicuro che traendo lo spirito e gli auspici del grande Educatore don Bosco, essi avrebbero compiuta opera feconda di bene nella vasta Parrocchia. Si augurò di veder presto sugli Altari il Fondatore della Famiglia Salesiana, lieto di tornare a S. Donà per celebrare le virtù e le glorie di Giovanni Bosco.

La processione in onore della Madonna del Colera del 24 novembre 1928 tratta da Inoratorio

Dopo la Messa solenne celebrata da mons. Valentino Bernardi con assistenza di S. E. Mons. Vescovo e di numeroso Clero, i Salesiani furono accompagnati in Canonica dove ricevettero l’omaggio del l’ill.mo sig. Podestà Dr. Costante Bortolotto e dei due vice podestà sig. Giuseppe Fornasari e sig. Giuseppe Davanzo.

Sul mezzogiorno Autorità e Clero in bella armonia di gioia e di festa, si raccolsero in Canonica a banchetto insieme con mons. Vescovo e i Padri Salesiani. Al levar delle mense brindarono, acclamatissimi l’Arciprete e il Podestà. Rispose il Rev.mo Ispettore Don Festini ringraziando commosso.

La processione pomeridiana.    Nel pomeriggio si svolse la tradizionale interminabile Processione sigillata da un ispirato discorso di monsignor Vescovo. Tal festa rimarrà in benedizione ed in memoria nel cuore di tutti i Sandonatesi. »

Questa la relazione pubblicata dall’ottimo AVVENIRE D’ITALIA del 29 settembre . « Sentiamo il dovere di esprimere a Mons . Longhin, al R .mo Sig. Arciprete, alle Autorità e a tutte le egregie persone che ebbero parte attiva in questa dimostrazione, la nostra riconoscenza. Particolarmente a Mons. Saretta, che volle con un bellissimo Numero Unico intitolato : I Salesiani a S . Donà di Piave far conoscere alla buona popolazione l’opera di D. Bosco e l’apostolato dei suoi figli. Nella lettera con cui annunziava la venuta dei Salesiani, diceva ai suoi parrocchiani : Fin dal primo istante i Salesiani devono sentire la simpatia, la benevolenza, il cuore di S. Donà di Piave. Li accompagneremo all’Altare, per sciogliere l’inno della riconoscenza e per invocare la benedizione del Signore sopra di loro e sopra i nostri figli». I salesiani hanno sentito ciò nell’accoglienza del 24 settembre e sperano che la benedizione del Signore e la benevolenza del popolo sandonatese li aiuteranno a esplicare con frutto la propria missione. »

E come d’incanto anche il mittente è d’eccezione

Ricca la storia contenuta in questa cartolina, da ogni parte la si guardi offre spunti di approfondimento. Manca solo di conoscere chi abbia scritto al chierico Luigi Ferrari in quel 1932. Come la ciliegina sulla torta è da sempre considerata l’ultima preziosità ivi depositata, anche il mittente è la giusta conclusione di questa nostra storia. Lo scritto è breve quasi una stringata risposta ad una precedente missiva. “Anch’io….ricordando” è l’unica frase inserita, accompagnata dalla firma: Luigi Saretta, ovvero l’arciprete di San Donà di Piave.

Le poche parole scritte da Monsignor Saretta.

Per approfondimenti: 1. « S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella » (1928) di Mons. Costante Chimenton; 2. « Storia cristiana di un popolo – San Donà di Piave » (1994, De Bastiani Editore) di Domenico Savio Teker; 3. « Ancora un giro in giostra » (2006, Tipolitografia Colorama) di Wally Perissinotto; 4. « Cent’anni di carità » (2021, Digipress Book) a cura di Marco Franzoi; 5. le pagine dei siti Inoratorio.it e Duomosandona.it

Quel terribile inverno russo del ’42

« Mannaggio u freddu ca fa » (cit. Alessandro Marini, 277° Regg. Fanteria – Divisione Vicenza)

Cartolina viaggiata di San Donà di Piave (Chiesa – Interno). La cartolina porta nell’immagine un’imperfezione, è sporcata dall’inchiostro di un timbro particolarmente grande.

Ci sono cartoline sulle cui immagini ci soffermiamo incuriosendoci sui soggetti, i dettagli, i ricordi. Spesso questi ultimi nemmeno ci appartengono essendo legati ad un altro tempo, ad un’altra generazione. Eppure lì ci soffermiamo pensando se e dove abbiamo visto questa stessa immagine. In questo caso l’interno del Duomo è una di quelle immagini che sono state riproposte più volte nelle cartoline dedicate a San Donà di Piave. La stessa immagine la possiamo trovare sia negli anni trenta-quaranta che successivamente, magari in edizioni sgranate per le prime e patinate per le seconde. La storia che ci viene da questa cartolina è però un’altra e la scelta di quell’interno chiesa non era che una preghiera, una speranza.

La Storia nascosta nel retro

Come talvolta accade è il retro della cartolina che ti spinge ad approfondire, a vedere chi la scrive e chi ne era il destinatario regalandoti un vissuto vero. Siamo negli anni Quaranta, quelli terribili della seconda guerra mondiale, quelli conclusivi del ventennio fascista. L’Italia ormai in guerra vedeva le proprie migliori generazioni partire per i vari fronti, poco prima che l’Italia divenisse essa stessa oggetto del contendere. Quei giovani che avevano attraversato il periodo della grande guerra e che magari avevano vissuto le privazioni e la fame di quel crudo primo dopoguerra, erano lì zaino in spalla a ripercorrere lo stesso destino attraversato dai loro padri.

La madre, mittente della cartolina spediata il 27 dicembre 1942

A scrivere la cartolina è una madre il cui figlio era stato arruolato in un reggimento di fanteria. Lucia Marini, questo il suo nome, la inviava al figlio Alessandro spedendola ad uno di quegli indirizzi speciali che poi l’avrebbero smistata ai vari reggimenti. E’ questo un dettaglio importante perché ci racconta chiaramente lo scenario lungo il quale questa cartolina ha iniziato il suo viaggio.

La posta militare
Timbro « 156 »

Pur non essendo indicata la destinazione, quel numero accanto alla posta militare segnala la divisione a cui è stata inviata la cartolina. Erano molti all’epoca gli indirizzi di questo tipo, nel caso della spedizione in Russia erano addirittura 28. Dei semplici uffici postali dedicati operanti inizialmente presso il comando di Divisione e che poi iniziarono a spostarsi al seguito delle truppe. Una presenza importante quella di questi uffici postali itineranti che dava modo alla truppa di mantenere un contatto con le famiglie in Patria in epoche dove la lettera e lo scritto erano l’unico modo per comunicare. La posta militare 156 in particolare era stata assegnata alla « Divisione Vicenza ».

Posta militare 156, Divisione « Vicenza »
La posta militare delle truppe nella campagna di Russia

La Divisione “Vicenza” era stata ricostituita nella primavera del 1942 dopo le glorie conquistate nella prima guerra mondiale e il successivo scioglimento nel 1919. A farne parte vennero chiamati il 277° e il 278° Reggimento di Fanteria e il 156° Reggimento di Artiglieria. A fine settembre la Divisione “Vicenza” iniziò il suo trasferimento in Russia. Ad affiancare la Divisione anche il servizio postale denominato posta militare 156. Inizialmente il servizio operava da Brescia poi dal 10 ottobre al seguito delle truppe si insediò a Kupjansk, in Ucraina. A metà dicembre gli attacchi russi furono particolarmente cruenti e anche Divisione “Vicenza” venne trasferita a Rossoš. Dopo il lungo trasferimento il 277* Reggimento venne subito schierato in prima linea con le truppe alpine. Gennaio fu un mese terribile per l’esercito italiano attestato sulla linea del Don. I nomi di Nikitowka, Nikolajevka e Valniki divennero presto sinonimi di sofferenza e tragedia. A metà gennaio alla pari delle truppe alpine la Divisione Vicenza venne travolta dall’avanzata dell’Armata Rossa, pesanti furono le perdite ancor più accresciute dalla successiva rovinosa ritirata dove la fanteria pagò a caro prezzo l’inadeguatezza del proprio equipaggiamento. Il 17 gennaio 1943 la posta Militare 156 cessò di esistere, con essa la 108 (Corpo Alpino), la 201 (Divisione Tridentina), la 202 (Divisione Julia) e la 203 (Divisione Cuneense). Altre resistettero sino a marzo, poche altre fino a maggio quando il destino della spedizione in Russia era oramai segnato.

Una speranzosa attesa affidata ad una cartolina

Tornando alla cartolina in questione, questa era solo parte di una fitta corrispondenza tra madre e figlio, tipica di quei tempi di guerra. Talune volte a scrivere e a leggere questi scritti era un sacerdote perchè non sempre le generazioni nate a cavallo del secolo avevano potuto usufruire di un’adeguata istruzione. La scarsa puntualità della consegna portava a ricevere più lettere assieme con delle risposte che si accavallavano. Marini Alessandro che la madre nello scritto chiama Dino apparteneva al 277° Reggimento Fanteria, inquadrato nella Compagnia Comando con incarico telefonista.

Cartolina scritta da Lucia Marini il 27 dicembre 1942

Caro Dino,

ieri ho ricevuto due cartoline in data 5 e 7 corr. e lettera in data 11 corr. dove mi dici che sei in viaggio. Coraggio, caro Dino, speriamo sempre nel Signore. Noi stiamo bene augurando a te. Spero che almeno il secondo telegramma ti sia giunto, ad ogni modo ti mando tanti auguri e ti raccomando di continuare a scrivermi sempre. Ti scriverò presto lettera, intanto ti mando tanti baci.

Tua mamma

Saluti auguri per il nuovo anno. (scritta alla rovescia)

Il triste epilogo

Spedita subito dopo il Natale del 1942 questa cartolina si incamminò verso la Russia ma non è dato sapere fin dove arrivò, di certo non tra le mani del figlio. Come detto la posta militare 156 cessò di esistere il 17 gennaio 1943 quando il fronte cedette. Quale sia stato il destino di Alessandro ce lo indica l’albo dei caduti della seconda guerra mondiale dove il suo nome è incluso e che particolarmente nel caso della Russia unisce accanto ai caduti anche i dispersi. Il soldato Alessandro Marini viene segnalato in questo elenco dal 31 marzo 1943, sul database del sito della Divisione Vicenza viene inserita un’ulteriore informazione relativa al luogo della morte identificato nel campo di prigionia 56 di Uciostoje, nella regione russa di Tambov. Era nato il 10 ottobre 1920 a Cessalto, poco più che maggiorenne morì sul fronte russo.

L’incredibile opera del fato

Il ricordo è un qualcosa di vivo che talvolta è capace di sorprendere quando meno te lo aspetti. E allora può capitare che un documento recuperato tanti anni fa si possa infilare nel mezzo di un altro ricordo che stai sfogliando pretendendo giustamente di esserne parte. Quasi nello stesso momento in cui sua madre scriveva la cartolina, Alessandro Marini scriveva una « cartolina postale per le forze armate » inviando i migliori auguri di buone feste ai funzionari dei Consorzi di Bonifica di San Donà di Piave presso cui evidentemente lavorava aggiungendo uno speciale saluto a Berto Maschietto presumibilmente suo collega. Anche in questo caso l’uso dei nomi è importante Alessandro è il suo nome ufficiale, che lui riduceva a Sandro ma tutti compresa sua madre lo chiamavano Dino. E così si firma per l’amico-collega scrivendogli: “Mannaggio u freddu ca fa”. Dalla stessa si evince che faceva parte della Compagnia Comando del 277° Reggimento Fanteria, 1° Battaglione, ovvero lo stesso reparto che nell’offensiva russa di metà gennaio schierato in supporto alle truppe alpine nel coprire il fronte, venne praticamente decimato. Queste le parole scritte nelle sue memorie dal Col. Giulio Cesare Salvi, comandante del 277° Reggimento: « La situazione peggiora. Il 15 gennaio 1943 il 1/277° dislocato alla difesa di Rossoch, viene travolto dai carri armati russi e pochissimi Ufficiali e soldati riescono a sfuggire…. »

La cartolina postale scritta da Alessandro Marini il 26 dicembre 1942, timbro postale posta militare 156 del 1 gennaio 1943
Il ritorno al mittente
Il destinatario della cartolina e il timbro del mancato recapito

Quella cartolina spedita da Lucia Marini da San Donà di Piave il 27 dicembre 1942 con il timbro « Al mittente, non potuto recapitare per eventi bellici » tornò il 26 agosto 1943. L’immagine rovinata dell’interno del duomo dall’inchiostro di un timbro altro non era che la sovrapposizione successiva di più cartoline che non era stato possibile recapitare. Centinaia, migliaia di missive che tornavano in Patria con tutti i loro irrisolti desideri e le perdute speranze, solo pochi vedranno poi tornare i loro cari. Un triste epilogo che trovò una San Donà su cui gli echi della guerra si materializzarono con il rombo degli aerei in cielo e i successivi bombardamenti. Come molte città venete anche San Donà di Piave ne pagò un prezzo. Ma questa per il momento è un’altra storia.

Per approfondimenti:

1. Divisione Vicenza ; 2. Memoriale del Col. Giulio Cesare Salvi (comandante del 277° Reggimento Fanteria); 3. Posta Militare 156 – La Divisione “Fantasma”; 4. L’elenco dei caduti della Divisione “Vicenza” (Marini); 5. Campagna italiana in Russia (agosto 1941-20 gennaio 1943); 6. Prima battaglia sul Don (20 agosto-1° settembre 1942); 7. Seconda battaglia sul Don (11 dicembre 1942 -31 gennaio 1943); 8. Offensiva Ostrogožsk-Rossoš’ (12 gennaio-27 gennaio 1943); 9. U.N.I.R.R. (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia);

Cartoline che raccontano: il campo del San Donà

Una cartolina di San Donà del 1927 o precedente, le case del Foro Boario, il vecchio Cimitero, la Caserma “Tito Acerbo” o “San Marco”, mentre al posto dell’Oratorio Don Bosco prima venne costruito un campo di calcio

Quante storie possono esser nascoste in una sola cartolina. La data dell’immagine può esser imprecisa ma i soggetti che lì son ritratti ne danno un contorno. Se la prima pietra dell’Oratorio è stata posata il 15 maggio 1927, pur nell’imprecisione del tratto dell’immagine tutto si può dire tranne che in quel terreno oltre al cimitero ci sia un cantiere. Le cronache ci dicono che prima che fosse posata la prima pietra quel terreno fu concesso al San Donà Foot-Ball Club e adattato a campo di calcio, per cui quell’immagine è ancor precedente al 22 dicembre 1925 quando venne inaugurato il campo di calcio. In quegli anni venti andava ad iniziare la storia quasi centenaria del calcio sandonatese.

L’inizio della Storia
Villa Amelia, nei pressi della quale si ritrovavano i primi calciatori sandonatesi

La nostra storia non può che cominciare prendendo in prestito le parole scritte da Gianni Colosetti nel suo libro sullo sport sandonatese che poi faranno da base anche a quello successivo scritto da Monforte e Pasqualato sulla storia del’A.C. San Donà.
« A San Donà la scintilla della palla rotonda è stata attivata da un giovane impresario sandonatese, operante nel campo dei pozzi artesiani, Leonida Fava, che nel corso dei suoi viaggi di lavoro, ebbe modo di assistere a degli incontri dell’Ambrosiana Inter di Milano appassionandosi a questo nuovo sport.
Avendone la possibilità, acquistò un pallone coinvolgendo in questa sua passione gli amici Antonio e Giuseppe Battistella, Federico ed Eugenio Alfier, Giovanni Nespolo, con i quali cominciò a ritrovarsi la domenica mattina nei pressi della stazione ferroviaria in un prato dietro Villa Amelia detto “Il Campo del Mago”. Il rudimentale campo da gioco era situato in via Garibaldi: grossi sassi materializzavano inizialmente le porte, sostituiti successivamente da pali di salice terminanti a forchetta sui quali veniva posta la traversa. Una parte importante in quella fase è stata svolta dal tecnico delle ferrovie, addetto al ripristino della linea San Donà-Ceggia, ancora gravemente danneggiata dagli eventi bellici, il triestino Szabados. Il tecnico, avvicinatosi al gruppo iniziò ad insegnare loro i primi rudimenti e le regole fondamentali del calcio, in particolare come trattare la palla “all’ungherese”, tiro effettuato cioè con l’esterno del piede, in modo da dare al pallone un effetto rotatorio rientrante.
Quei ritrovi domenicali, però, non durarono a lungo. Privati del loro terreno di gioco, destinato momentaneamente dai proprietari ad altri usi, quei pionieri cessarono l’attività ma proseguirono a cercare proseliti in attesa di reperire qualche altro terreno dove sfogare la loro nuova passione ».

Un vero campo dove giocare

Continua Colosetti nel suo libro: « Furono proprio due di questi nuovi proseliti, Bruno e Gino Rossi, che contribuirono a risolvere, dopo qualche tempo, il gravoso problema del terreno di gioco. I due fratelli, infatti, convinsero il padre Enrico a cedere in affitto un campo dislocato dietro la caserma “Tito Acerbo”, terreno che fu, dagli stessi, ben spianato e dotato di pali per le porte ». Un campo di calcio vicino alla Caserma “Tito Acerbo”, che forse ancora non aveva tale denominazione, la zona è la stessa della cartolina ma il campo non sembra essero quello che si intravede nell’immagine. Viene detto dietro la Caserma mentre quella che si vede nell’immagine della cartolina è la facciata della stessa prospiciente la strada detta “Del Casermone”. Vien però citato il nome di Enrico Rossi che ritroveremo poi, evidentemente tutta quella zona era stata di sua proprietà, sia davanti che dietro la caserma.

La nascita dell’Ardita
L’ « Ardita » la prima squadra che si formo nei primi anni

Ben presto quel gruppo di giocatori formarono una squadra vera. « La ripresa dell’attività portò nuovi adepti, alcuni dei quali avevano già dimestichezza con il pallone avendolo praticato nelle scuole veneziane o trevigiane da essi frequentate. Dopo qualche tempo al gruppo si unì Tullio Roma, che essendosi diplomato capitano di lungo corso, aveva giocato, oltre che nell’istituto scolastico, anche nella giovanile del Venezia con un altro sandonatese Giovanni (Nino) Gallerani, studente presso l’Istituto Commerciale Sanudo. Così, vuoi per la sua esperienza che per il grado derivategli dal suo titolo di studio, quando, costituita la squadra, si trattò di designare il capitano, la scelta non potè che essere rivolta sul suo nome.
Raggiunto il numero sufficiente fu costituita una squadra alla quale fu dato il nome di “Ardita” che con tassazioni personali e questue fra amici si diede una divisa, maglia bianco nera a scacchi e pantaloncini bianchi. Hanno fatto parte dell’Ardita: Alessandro Janna (presidente), Ruggero Galassini (allenatore). Giocatori: Eugenio, Nene e Federico Alfier, Antonio e Giuseppe Battistella, fratelli Bincoletto, Gino Bonetto, Libero Dus, Emilio Caramel, Cesarin, Giuseppe Da Villa, Sante Calcide, Amos e Ruggero Galassini, Girolamo Gallerani, Vito Girardi, Bernardo Guerrato, Loro da Ceggia, Bruno Marusso, Giuseppe Nespolo, Giovanni e Giuseppe Picchetti, Tullio Roma, Bruno e Gino Rossi, Salvador, Antonio Velludo, Alessandro Zuccon e Luigi Zorzi.

Dietro quella Caserma il campo di calcio diviene importante

« Le esibizioni dei calciatori erano motivo di curiosità da parte di molti che, dopo aver assistito a qualche allenamento non mancavano di appassionarsi e ingrandire il numero dei calciatori. La cosa non sfuggì ad Alessandro Janna, presidente dell’Unione Sportiva Piave, che prese subito a cuore le necessità di quei pionieri, non disdegnando di far fronte alle loro esigenze.
Il campo di calcio fu recintato con delle tavole provenienti dall’Azienda Agricola Janna, dotato di una baracca di legno nelle vicinanze della quale una fontanella d’acqua serviva ai giocatori per lavarsi e tentare di ripulirsi, a turno, dal copioso fango che nelle giornate piovose rendeva quel terreno più simile ad una stazione di cure termali che ad un campo di calcio. Il campo aveva anche nel signor Callegher il suo custode. »

Celeste Bastianetto presidente del San Donà
Il presidente Celeste Bastianetto con il San Donà F.C. nel 1926

Il campo dietro la caserma venne dunque recintato, nel mentre entra in scena la figura di Celeste Bastianetto. Era “un ragazzo del ‘99” reduce da quella prima guerra mondiale nella quale era stato insignito di una medaglia di bronzo al valor militare. Laureatosi in legge, divenne avvocato venendo poi nominato presidente dell’Azione Cattolica sandonatese. Impegnato nell’associazionismo cattolico al fianco di monsignor Saretta, fondò anche un’associazione ginnico sportiva che per la sua attività condivideva gli spazi del campo di calcio. Racconta Colosetti: « L’attività era svolta anche nel campo di calcio dell’Ardita e fu proprio grazie a queste comuni frequentazioni che Celestino Bastianetto pensò di unire queste giovani realtà sportive. Dopo una serie di contatti con Alessandro Janna, il “manager” dei calciatori, domenica 14 dicembre 1924, terminate le funzioni pomeridiane, nei locali della canonica si tenne una riunione nel corso della quale furono gettate le basi per la creazione di una Polisportiva alla cui presidenza fu nominato Celestino Bastianetto, che aveva una componente calcistica nel San Donà Football Club e una ginnica sportiva, nelle sopracitate associazioni parrocchiali. »

Monsignor Saretta acquista il terreno per il futuro Oratorio

Dopo aver avuto in desiderio di far arrivare a San Donà di Piave per tanti anni i Salesiani, monsignor Saretta decise di acquistare il terreno vicino al vecchio Cimitero. Ne da conto Wally Perissinotto nel suo libro: « Oggetto della transazione era l’area edificabile di 12.667 mq posta in località Loghetto, subito dopo il vecchio cimitero comunale, sulla strada di via Calnova (l’odierna via XIII Martiri).
Il confine orientale frantumava l’originaria proprietà proseguendo in modo irregolare lungo un breve tratto dell’attuale via Eraclea, detta strada “del Casermone” per la presenza della imponente Caserma “Tito Acerbo”. A sud e a ovest il terreno andava a morire nell’acqua di scolo della fossa Molina e in quello delimitante la proprietà Bortolotto. Sul fondo, parte seminativo e parte prativo, c’erano i resti di una casa colonica danneggiata dalla guerra già abitata dal sig. Enrico Rossi e Callegher ». Ecco ritornar i nomi di Enrico Rossi e Callegher, il primo diede in affitto il terreno dietro la Caserma per il primo campo di calcio, mentre il secondo ne era il custode.

Il terreno acquistato nel 1925 da Monsignor Saretta tra il vecchio cimitero e la Caserma che divenne provvisoriamente campo di calcio, in seguito nel 1927 furono acquistati altri due lotti di terreno vicino a quello acquistato per primo e venne costruito l’Oratorio Don Bosco
Prima dell’Oratorio un nuovo campo di calcio

In attesa che maturino i tempi per la costruzione dell’Oratorio, Monsignor Saretta decise di destinare quel terreno inizialmente a un campo di calcio. Scrive ancora Wally Perissinotto nel suo libro: « E’ interessante osservare comunque come in questo secondo atto compaia la specifica destinazione d’uso della proprietà immobiliare: “ricreatorio e campo sportivo, nonché scuola professionale”, annotazione che ci svela i progetti dell’arciprete a medio e lungo termine. Una fattura conservata in archivio parrocchiale della ditta “Barbato costruzioni edili” ci fornisce ulteriori indicazioni: già a dicembre sul fondo ripulito e adeguatamente sistemato veniva costruito uno spogliatoio per consentire l’attività ginnico-sportiva dei giovani sandonatesi.
Sappiamo che la gestione del campo venne affidata alla società sportiva “San Donà Foot-ball Club” le cui finalità avevano senz’altro incontrato l’approvazione del parroco. Infatti lo statuto pubblicato il 15 agosto 1926 recita fedelmente: “Accanto allo sport (la società sportiva) curerà l’educazione dell’animo dei giovani. All’art. 12. E’ dovere di ogni socio giocatore di astenersi completamente dalla bestemmia e dal turpiloquio. E all’art. 24. Il campo sportivo sarà chiuso a chiunque non appartenga alla società, ma in ore da convenirsi potrà essere aperto alle due Società dei ginnasti della Guido Negri e degli Esploratori cattolici… ».

L’inaugurazione del nuovo campo di calcio

Racconta Gianni Colosetti dell’inaugurazione del nuovo campo: « I lavori di livellamento e di costruzione dello spogliatoio furono eseguiti dall’impresa Dante Barbato che provvide anche alla recinzione del medesimo recuperando lo steccato del vecchio campo. L’impianto fu inaugurato, domenica 22 dicembre 1925, alla presenza del Podestà Giuseppe De Faveri, del dottor Stocchino, segretario del Fascio, di autorità civili e militari e con la partecipazione della banda comunale.
Nel susseguirsi dei rari discorsi commemorativi, ci fu un piccolo incidente “diplomatico”, l’avvocato Bastianetto, i cui rapporti con il segretario del Fascio non erano di certo idilliaci, non acconsentì che il dottor Stocchino, intervenisse adducendo a motivazione il ritardo accumulato dai vari discorsi precedenti. Dopo la benedizione data da don Casonato, in assenza del Parroco impegnato a Montebelluna e il taglio del rituale nastro fatto dalla madrina, la Signora Pasin vedova Guarinoni, si disputò l’incontro tra l’undici sandonatese e il Portogruaro.
Fu quella, in pratica la prima esibizione ufficiale del San Donà Football-Club capitanato da Tullio Roma che si era presentato in campo, come tutti i componenti della squadra, vestendo la maglia bianconera dell’Ardita seguito da un accompagnatore che portava delle maglie azzurre.
Prima di iniziare l’incontro, Tullio indossò la nuova divisa dicendo: “Copriamo la vecchia gloriosa bianconera con la nuova maglia azzurra”, quindi consegnò ad ognuno dei componenti la squadra la nuova casacca. L’incontro terminò con il punteggio di 2-0 a favore del Portogruaro che era una delle formazioni emergenti di quel periodo ».

Una delle prime formazioni del San Donà, la maglia “sembra” azzurra e l’edificio alle spalle li colloca proprio nel nuovo campo di via Calnova tra dicembre 1925 e l’aprile 1927
Quella vecchia foto del San Donà Foot-ball Club d’azzurro vestito
Il manifesto di una delle ultime gare giocate dal San Donà F.C. su quel campo sportivo (stampato da Tipografia SPES – via Giannno Ancillotto)

Sul libro di Wally Perissinotto è presente una foto che viene indicata come una delle prime del calcio sandonatese. Ebbene grazie alla cartolina ora abbiamo pure una più giusta collocazione temporale di quei giocatori. Alle spalle degli stessi vi è un casolare le cui fattezze le rincontriamo in quello presente nella cartolina nelle vicinanze di via Calnova. La maglia scura indica che potrebbe essere quella descritta da Gianni Colosetti nel suo racconto, magari non legata all’inaugurazione del dicembre 1925 ma sicuramente una delle gare successive. Il campo fu utilizzato non solo dal San Donà ma anche dai ginnasti facenti parte della Polisportiva, che nel frattempo nel novembre 1926 vide le dimissioni di Celeste Bastianetto dalla presidenza perchè inviso all’autorità fascista dell’epoca che di lì a poco sciolse anche le componenti cattoliche della Polisportiva. Alessandro Janna divenne il presidente del San Donà Foot-ball Club affiancato da Girolamo Janna e Fausto Picchetti, mentre la società dovette entrar a far parte dell’Opera Nazionale Dopolavoro. Il San Donà F.C. ebbe in gestione quel campo sino alla primavera del 1927, quando Monsignor Saretta si vide costretto a dare lo sfratto ai calciatori in quanto aveva ottenuto quanto sperato, l’arrivo dei salesiani a San Donà. Poche settimane dopo ci fu la posa della prima pietra dell’Oratorio Don Bosco, ma questa è un’altra storia. Quanto al San Donà Foot-ball Club, presto divenne Società Sportiva Fascista e di lì a due anni venne inaugurato il nuovo campo sportivo del Littorio, l’attuale Stadio “Verino Zanutto”, ma anche questa è un altra storia.

Lo statuto del San Donà Foot-ball Club, 15 agosto 1926

Per approfondimenti sul campo di calcio di via Calnova: (1) « Monsignor Saretta, “Pastore” di San Donà di Piave » a cura del Gruppo “El Solzariol” (2004); (2)« Ancora un giro in giostra » di Wally Perissinotto (2006); (3) « Storia dello sport sandonatese » di Gianni Colosetti (2007); (4) « A.C. San Donà – 90 anni di Calcio Biancoceleste » di Giovanni Monforte e Stefano Pasqualato (2012)

Cartoline che raccontano: il Vecchio Cimitero

Una cartolina di San Donà presumibilmente del 1927 o precedente, le case del Foro Boario, il vecchio Cimitero, la Caserma “Tito Acerbo” o “San Marco”, ancora non c’era l’Oratorio Don Bosco

Quel vecchio cimitero nel mezzo di San Donà è forse l’elemento che è stato meno fotografato e meno riprodotto nelle cartoline del secolo scorso. La maggior parte delle immagini che sinora si sono viste sono state legate al periodo della prima guerra mondiale. Quelle austriache in particolare lo han ripreso nelle mura di cinta e nella sua entrata. Poi in qualche scorcio lo si incrocia ancora ma sempre per caso, di sfuggita, un contorno lontano da cercare. In questa cartolina degli anni venti un po’ sfumata dal tempo lo si vede dall’alto in una distesa sandonatese libera da costruzioni. Una San Donà che ancora doveva svilupparsi in quella direzione: le case del Foro Boario, il vecchio Cimitero, ancor non vi era l’oratorio Don Bosco, un po’ più in là la caserma « Tito Acerbo » o « San Marco » come nei vari periodi si è chiamata. La datazione dell’immagine è indubbiamente precedente al 15 maggio 1927, data della posa della prima pietra dell’Oratorio Don Bosco. Una immagine che mette insieme tante storie, una di queste è legata a quel vecchio cimitero.

In principio il cimitero s’accompagnava alla chiesa
Il cimitero di San Donà in una immagine austriaca del 25 nov. 1917

Quel cimitero di via Calnova è rimasto lì sin quasi la metà del secolo scorso, quando è stato dismesso definitivamente allorchè un allargamento del nuovo cimitero ha poi portato alla chiusura definitiva del vecchio a quasi vent’anni dall’ultima sepoltura.
E’ Teodegisillo Plateo, colui che per primo ci ha accompagnato attraverso la storia sandonatese, a raccontare che sin dalle sue origini a San Donà le sepolture dei morti erano svolte nelle vicinanze della chiesa cittadina. Quando nel 1475 venne costruita la nuova chiesa per talune personalità di particolare importanza la tumulazione poteva avvenire anche dentro la chiesa. Come ben sottolineava Plateo, poi ripreso da Monsignor Chimenton: « …Gli avelli (tombe) della chiesa e sagrestia erano ornate di lapidi, con iscrizioni che si confondevano con i simboli della religione e stavano a provare che le distinzioni di casta continuavano, come continuano anche oggi, anche nel sonno eterno ciò che avveniva presso gli egiziani, gli ebrei, i romani ed i greci ». Al popolo rimaneva lo spazio esterno che sino alla metà del cinquecento aveva una sua precarietà ed incuria a cui il vescovo Monsignor Francesco Pisani cercò di porre rimedio tanto che dal 1557 il cimitero fu provvisto di mura di cinta, furono tolti gli alberi da frutto e lasciate solo le piante d’olivo, i cui rami dovevano servire nella domenica delle palme.

Il peso del tempo su chiesa e cimitero

Il destino del cimitero andò di pari passo con quello della chiesa. La stessa con il passar degli anni cominciò a sentir il peso del tempo. L’ultima tumulazione in chiesa è della metà del settecento, ma con una San Donà che oramai superava i tremila abitanti sia gli spazi religiosi che quelli nel vicino cimitero divennero sempre più limitati. Tanto più quando le periodiche epidemie si diffondevano tra la popolazione e le decine di morti che causavano faticavano a trovare un posto decoroso nel camposanto. Scrive ancora Monsignor Chimenton, citanto Plateo: « Nel 1764 si sentì il bisogno di ingrandire il cimitero. Ma un ampliamento non fu possibile : il terreno che avrebbe dovuto essere destinato ad accogliere le salme, si trovò, in quell’epoca, rinchiuso fra due strade interne, le attuali Via Maggiore e via Calnova, e la canonica e la proprietà Pesaro, e precisamente nella località oggi conosciute coi nomi di Pescheria, Largo della Chiesa e Foro Boario- Si ricorse allora, per la prima volta, al rimedio di seppellire le nuove salme sopra i cadaveri già sepolti molti anni prima.»

Nell’ottocento il nuovo Cimitero
Il duomo in una immagine del 1915, lo stesso fu inaugurato ne 1842 mentre per il campanile si dovrà attendere cinquant’anni dopo

Dopo il periodo napoleonico e passati sotto il dominio austriaco, l’emergenza del cimitero trovò una prima soluzione grazie a Mons. Angelo Gallici che perorò la causa dell’apertura di un nuovo cimitero, sin quando nell’aprile 1825 fu inaugurato in via Calnova il nuovo sepolcreto, non troppo lontano dalla chiesa e ai margini dell’allora centro cittadino. Proprio la chiesa fu il successivo grosso intervento che conobbe San Donà. Nel 1838 su spinta del nuovo Monsignor Angelo Rizzi dopo la costruzione di una chiesa provvisoria in legno venne iniziata la demolizione del vecchio duomo e la successiva costruzione di quello nuovo inaugurato nel 1842, tutto molto ben raccontato da Mons. Chimenton ma che tralasciamo proseguendo nel verso del cimitero.

Il nuovo cimitero s’affaccia al nuovo secolo
Il registro degli atti di morte del 1880 del Comune di San Donà di Piave. In quell’anno sono stati 341 gli atti di morte redatti

Il nuovo cimitero di via Calnova non ebbe vita facile. Quando venne costruito San Donà aveva una popolazione di quattromila abitanti. Nonostante una grave carestia che colpì le campagne prima con la siccità e poi con le malattie che danneggiarono i bachi da seta e i vitigni, e buon ultimo un’epidemia di colera, trent’anni dopo gli abitanti erano divenuti seimila. Il nuovo cimitero visse sin da subito una grave emergenza. E’ Giacomo Carletto nel suo libro a raccontarci le varie traversie e i problemi che afflissero le diverse amministrazioni comunali costringendole sempre ad impegnarsi nel cercare soluzioni. Al problema degli spazi si sommò ben presto l’incuria che inevitabilmente divenne una emergenza sanitaria. Il cimitero era oramai nelle vicinanze delle case e nei periodi di grandi piogge le tombe sovente venivano allagate con il conseguente scorrere di queste acque impure verso i fossi rischiando di inquinare anche la falda da dove i pozzi privati attingevano. Frattanto nel 1890 venne eretta anche la cappella dedicata al Santissimo Redentore nella quale trovò ospitalità la lapide sepolcrale di Mons. Angelo Rizzi.

Il nuovo secolo e l’esigenza di un altro cimitero

Accanto a continue opere di costosa manutenzione, si arrivò ben presto ad avvertire l’esigenza della costruzione di un nuovo cimitero. Lo sviluppo di San Donà oramai lo imponeva, nel 1911 la popolazione aveva raggiunto i tredici mila abitanti. Sin dall’anno prima il dibattito in Consiglio Comunale aveva portato ad un unanime consenso, come ricorda il professor Giacomo Carletto nel suo libro: « Queste constatazioni, da tutti condivise, indirizzarono il dibattito verso una nuova direzione: la Giunta stessa sottopose al Consiglio un articolato programma che prevedeva lo spostamento del Cimitero in una località periferica, lontana dal centro, individuata “lungo la strada delle Code”, a mezzogiorno del canale consorziale Molina e a 450 metri circa dal quadrivio della strada Carbonera, sopra il terreno del cav. uff. Cesare Bortolotto” ».
Senonchè il progetto approntato si arenò sullo scoglio finanziario dopo che una revisione del progetto stesso imposta dalla Prefettura ne incrementò notevolmente la previsione di spesa. Per l’ennesima volta si optò per una importante manutenzione del vecchio cimitero, l’approssimarsi della guerra rimandò il tutto ad un futuro prossimo.

La grande guerra che tutto distrusse
La facciata del cimitero di San Donà di Piave in una immagine austriaca del 7 gennaio 1918

Il conflitto mondiale colpì duramente San Donà, tutto il centro ne fece le spese e il cimitero non fu da meno. Una porzione dello stesso tra l’altro divenne anche cimitero militare dove vennero sepolti decine di caduti della guerra. Ne dà conto anche Monsignor Chimenton: « Il cimitero militare è attiguo al cimitero comunale ; molte salme però sono sepolte dentro il recinto dello stesso cimitero comunale. Si può definire austriaco : pochissime le salme italiane. Sono circa 500 tombe, che contengono in gran parte, salme ignote ; quelle tombe sono curate con passione, visitate spesso dal forestiero, adorne di fiori dal nostro buon popolo. Le poche salme di italiani furono inumate negli ultimi giorni di Caporetto, o nei primi momenti della grande offensiva del giugno. ».

Il cimitero di San Donà di PIave subito dopo la guerra in una immagine dall’interno
Nel 1920 iniziano i lavori per un nuovo Cimitero
Una veduta aerea delle distruzioni della guerra, sulla destra si notano le mura in rovina del Cimitero Comunale

Dopo la guerra il problema del camposanto tornò d’attualità. Il progetto del nuovo cimitero manteneva tutta la sua urgenza ma al tempo stesso i tempi sarebbero stati lunghi, per cui il cimitero di via Calnova venne ripristinato superando le distruzioni causate dalla guerra. Il progetto del nuovo cimitero prese il via nel 1920 quando iniziarono già i lavori sul terreno di via Code. A differenza del vecchio progetto per raggiungere via Code venne decisa anche la costruzione di una nuova strada, una direttrice che dalla strada del Foro Boario incrociasse la via del Casermone (l’odierna via Eraclea) per poi attraverso i terreni di proprietà dei Bortolotto incrociare via Carbonera, per arrivare sino al nuovo cimitero, dopo l’attraversamento di un nuovo ponte a superar lo “scolo delle Code”. Il progetto della strada si rivelò un po’ più complicato del previsto, l’opera venne comunque consegnata alla fine del 1925, in pratica in quegli anni vennero costruite le attuali strade di via Giodo Bortolazzi e di viale Primavera.

Nel 1927 l’inaugurazione del nuovo Cimitero in zona Code

Quanto al nuovo cimitero lo stesso venne inaugurato il 19 giugno 1927 con la consacrazione da parte del vescovo di Treviso Monsignor Giacinto Longhin alla presenza delle autorità civili e religiose. Da quel 19 giugno il Podestà Costante Bortolotto avvertiva che non si sarebbero più potuti inumare cadaveri nel vecchio cimitero. Quando venne inaugurato non era ancora stato completato, come ricorda il professor Carletto, rispetto al progetto originario molto ancora mancava, come la casa del custode, la camera mortuaria, le due cappelle ossario e la chiesa a pianta circolare. « Nulla di questo progetto, eccetto il grande cancello in ferro battuto, fu costruito. Negli anni successivi la funzionalità più modesta sembrò guidare il completamento delle parti essenziali mancanti forse a causa della crisi economica che aveva costretto a ridimensionare i grandi progetti collegati alla ricostruzione del paese ».

Giannino Ancillotto, un illustre ospite del vecchio come del nuovo Cimitero
Nel primo anniversario della morte di Giannino Ancillotto, una manifestazione ricordo all’interno del vecchio cimitero (1925)

Durante la costruzione del nuovo cimitero un grave lutto colpì San Donà, in un incidente stradale morì la medaglia d’oro Giannino Ancillotto, eroe della prima guerra mondiale. I solenni funerali si tennero il 21 ottobre 1924 e la sua salma venne tumulata provvisoriamente nel vecchio cimitero presso la tomba della famiglia De Faveri. La traslazione nel nuovo cimitero tardò come ricorda Chiara Polita nel libro monografico dedicato all’eroico aviatore e al monumento a lui dedicato. L’imponente monumento in Piazza Indipendenza venne inaugurato solennemente nel 1931 alla presenza di migliaia di persone, poi iniziò un lungo carteggio per trovare la giusta collocazione nel nuovo cimitero della tomba dedicata all’eroe dell’aria. Come ricordato nel 1927 venne consacrato il cimitero ma risultava ancora incompleto, tanto che alla fine la tomba di Giannino Ancillotto venne edificata nello spazio che inizialmente era previsto per la casa del custode, sulla sinistra dell’entrata del cimitero. Nel 1938, a quattordici anni dalla scomparsa, la salma di Giannino Ancillotto venne traslata dal vecchio al nuovo cimitero, quel 16 ottobre 1938 fu un’altra grande giornata per la San Donà dell’epoca.

Il vecchio cimitero fine di una storia
Il Vecchio Cimitero in una immagine degli anni trenta ripresa dall’Oratorio Don Bosco (Foto Battistella)

Quanto al vecchio cimitero dal 1927 non è stato più oggetto di nuove inumazioni. Tutte le nuove sepolture sono state dirottate verso il nuovo con il risultato che già negli anni quaranta si rivelò insufficiente a ricevere tutte le salme. Tanto più che nel frattempo in vista della chiusura era iniziato il trasferimento da parte dei famigliari a proprie spese delle salme dal vecchio cimitero al nuovo. Come ricorda il libro di Luisa Furlan e Maria Trivellato la soluzione venne trovata nei primi anni quaranta ma perfezionata solo dopo la guerra nel 1946. I fratelli Bortolotto cedettero un’ampia area attorno al nuovo cimitero ed in permuta ebbero l’area del vecchio cimitero accanto all’Oratorio Don Bosco. Iniziò così l’urbanizzazione anche di quell’area di San Donà adiacente all’oratorio Don Bosco e che per centoventi anni era stata adibita a cimitero comunale.

In una processione religiosa del secondo dopoguerra sullo sfondo si nota l’Oratorio Don Bosco mentre non ci sono più le mura del vecchio Cimitero (Foto Battistella, tratta da San DOnà di Piave: una finestra sul passato, 2007)

Approfondimenti sull’argomento del Vecchio Cimitero si possono trovare sui seguenti libri: (1) “Il territorio di S. Donà nell’agro d’Eraclea” di Teodegisillo Plateo (1907); (2) “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Mons. Costante Chimenton (1928), (3) “San Donà di Piave” di Dino Cagnazzi (1995); (4) “Il disegno della città tra utopia e realizzazione” di Dino Casagrande e Giacomo Carletto (2002); (5) “Il monumento all’aviatore Giannino Ancillotto” di Chiara Polita (2010); (6) “La grande guerra degli ultimi” di Chiara Polita (2015); (7) “Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale” di Luisa Florian e Maria Trivellato (2019)

Quei feedback chiamati Cartoline QLS

Cartolina QLS di Renzo Crico di San Donà di Piave inviata in Algeria

Se ai giorni nostri il feedback è un qualcosa oramai entrato nella terminologia comune di coloro che utilizzano la rete, tanti anni fa questa consuetudine era praticata da chi utilizzava la radio che poi notificava la ricezione al collega attraverso la ben più lenta rete postale. Tale pratica veniva espletata attraverso la cartolina QLS che molti radioamatori spesso personalizzavano e per la cui comprensibilità delle sigle inserite può esser utile la tabella del Codice Q.

La Cartolina QLS (tratta da «Il Baracchino CB» di Maurizio Mazzotti, pag. 9-13, Edizioni CD 1977)

« Una fra le tante cose simpatiche nel mondo del radiantismo è lo scambio della cartolina QLS. Una specie di biglietto da visita, una carta di identità contenente dati e collegamenti avvenuti fra due amatori. Essa raccoglie il piacevole ricordo di «chiacchierate» fra amici, locali o distanti non importa. ciò che veramente conta è il piacere di donarla e riceverla. Ce ne sono di semplici, di estrose, di comiche e di raffinate. La cartolina QLS è un pò lo specchio dello spirito che l’ha ideata ed è estremamente soggettiva. Diamo pure libero sfogo alla fantasia inventando chissà quali motivi per ornarare la nostra QLS personale, però dobbiamo tener conto anche della ragione pratica per la quale è stata realizzata, vale a dire che, indipendentemente dalla facciata, dovremo preoccuparci delle informazioni «standard» che devono essere contenute sul retro.

Cartolina QLS di Luigi Rossi di San Donà di Piave inviata ad un radioamatore di Collegno (To)

Queste informazioni riguardano il QSO che si desidera confermare (di regola solo il primo); esse devono contenere; la data, l’ora di inizio del QSO, specificando se si tratta dell’ora locale o dell’ora internazionale abbreviata GMT (Greenwich Medium Time = tempo medio al meridiano di Greenwich), il canale o la frequenza usata (QRG), l’intensità dei segnali riferita alla lettura dello S’meter data in punti S’, la comprensibilità dei segnali da in punti R (da 1 a 5), qualche dato riguardante le vostre apparecchiature, RX, TX, antenna, nonchè il vostro indirizzo o il vostro P.O. BOX (Post Office Box = casella postale). Questo è il minimo indispensabile; si possono aggiungere altre cose come il WX (condizioni atmosferiche durante lo svolgimento del QSO) oppure il PSE QLS, che vuol dire: per favore mandami la tua QLS. Si chiuserà òa sequenza dei dati con un 73 (cordiali saluti) e 51 (sinceri auguri) dopodichè apporrete la vostra firma. Si puà spedire come una qualsiasi cartolina postale con relativa affrancatura o in busta chiusa con francobollo a tariffa lettera. Nulla ci vieta di scrivere tutto nella nostra lingua madre, ma di solito si preferisce l’inglese, perchè «fa più internazionale»…..»

Radioamatori a San Donà di Piave
Servizio di Tele Pordenone

Le due cartoline QLS inserite nell’articolo si riferiscono a due radioamatori sandonatesi di epoche diverse, Crico Renzo (I1CAW) degli anni cinquanta e Luigi Rossi (I3TPR) degli anni novanta. Ovviamente in quell’arco di tempo la tecnologia ha fatto passi da gigante e anche questo genere di comunicazioni tecniche hanno mutato il loro modo, per non parlar del periodo attuale. Nel 2004 è nata la sezione sandonatese dell’Associazione Radioamatori Italiani, tuttora operante e con sede nella frazione di Chiesanuova. Dati e informazioni si possono trovare nel loro sito, mentre l’ultima loro importante iniziativa è stata svolta durante il raduno nazionale dei bersaglieri «Piave 2018» svoltosi a San Donà di Piave.

Cartolina dell’A.R.I. San Donà dedicata al raduno nazionale dei bersaglieri “Piave 2018”
Incarico 40/B

Correva l’anno 1985, finite le scuole superiori, l’attesa terminava all’arrivo di una cartolina. Un cerchio si chiudeva, dopo l’arruolamento arrivava la partenza per il militare. Destinazione Salerno ed un incarico 40/B che presto trovò la sua chiarificazione in loco: Radiotelegrafista. Un mese di Car e poi il corso a San Giorgio a Cremano alla Scuola Specializzati Trasmissioni. Giusto una infarinatura generale di tre mesi e mezzo per poi andare al 93° Fanteria d’Arresto “Umbria”. Come a dire che la radio mi ha sfiorato in passato anche se poi non è stata una passione che ho coltivato. All’epoca le radio avevano una loro complicatezza che non si discostava troppo da quelle esposte nel filmato e da quelle che Renzo Crico, negli anni cinquanta doveva affrontare nella sua postazione radio in via Sabbioni.

Sulle tracce di un’immagine del passato

San Donà di Piave, foto austro-ungarica del 1917-18

Quella strana immagine campeggiava da tante settimane on line. Il venditore della Repubblica Ceca non la vendeva a poco. Le immagini del periodo di guerra non sempre hanno una datazione certa e men che meno una localizzazione esatta. Dopo un infinito scorrer dei giorni rimaneva là a galleggiare in rete: AK SAN DONA’ DI PIAVE VE ca. 1916. La data è ovviamente errata trattandosi di una immagine austro-ungarica, ma quel San Donà imponeva una scelta e così l’acquisto fu concluso e la foto una volta recapitata rimase lì in un angolo in attesa di capire se realmente fosse di San Donà di Piave.

Viale dei Tigli

Dopo averla guardata per bene quella doppia alberatura effettivamente poteva riferirsi a San Donà di Piave. All’epoca sia Viale dei Tigli che Viale Regina Margherita avevano una doppia alberatura ai lati della strada, due delle vie principali di San Donà, del resto non troppo numerose. Viale dei Tigli era la vecchia denominazione dell’attuale via Cesare Battisti, che da piazza Indipendenza si dirigeva verso l’argine che porta ad Eraclea. Diversamente Viale Regina Margherita era invece la strada che da dietro il Municipio conduceva all’ospedale cittadino «Umberto I», l’attuale viale della Libertà. Nel secondo dopoguerra all’ennesima distruzione l’ospedale venne ricostruito altrove mentre al suo posto sorse tra l’altro la scuola media intitolata in seguito a Ippolito Nievo.

Viale Regina Margherita nel 1919

Erano alberature rigogliose prima della guerra che al cospetto di quella immagine durante l’occupazione austro-ungarica sembravano la brutta copia. Eppure sfogliando delle immagini successive al conflitto mondiale la sagoma di quell’edificio è spuntata tra quelle che avevano resistito alla guerra. La casa con il lungo camino era lì tra le prime case all’inizio del Viale dietro al Municipio, subito prima di quelle che erano le prigioni austriache.

Viale Margherita negli anni trenta, in lontananza l’0spedale «Umberto I»

Dopo la prima guerra mondiale la zona subì un riordino urbanistico. Tanto che prima dell’edificio in questione venne costruita la strada denominata via Jesolo in direzione dell’argine del Piave, mentre proprio di fronte fu costruito il Monumento ai caduti della prima guerra mondiale.

Nella foto austro-ungarica si intravedeva sull’edificio la scritta Municipale così che lo si poteva intendere come un edificio istituzionale. In realtà alla pari della sua destinazione negli anni a venire, sin quasi ai giorni nostri, quell’edificio all’epoca era adibito a forno municipale. Per decenni dopo la guerra è stato utilizzato come panificio, numerose le gestioni che vi si sono succedute sin quando in anni recenti è stato demolito e al suo posto oggi campeggia un alto condominio.

Quel forno municipale divenuto panificio in una cartolina degli anni sessanta lo si intravede tra gli alberi