Il Piave mormorò e nel 1882 tirò dritto al passaggio

Il Piave mormorò e nel 1882 tirò dritto al passaggio

Un terribile settembre quello del 1882, ben rappresentato dal bollettino del ministero dell’agricoltura commercio: « Le piogge copiosissime, torrenziali che si verificarono in questa decade, ma specialmente dall’1 al 19, le quali furono cagione di così tremendi disastri nel Veneto, si devono alla persistenza di due depressioni atmosferiche, le quali persistettero per ben sette giorni l’una di qua e l’altra aldilà delle Alpi, mantenendo i loro centri in continua oscillazione. La depressione aldilà dei monti si mantenne quasi sempre a Nord Nord-Est; la posizione del centro di quella al di qua oscillò tra il Golfo di Genova ed il Veneto. In causa della reciproca posizione di questi due cicloni furono le Alpi del nord e del nord est quelle nelle quali si operò la massima condensazione del vapore acqueo. »

L’ alta Italia ne venne tutta travolta

Dalle pagine di Illustrazione Italiana le tremende cronache di quel settembre che segnarono solo l’inizio di un racconto che continuò anche nel mese successivo: «  Le piogge pressoché incessanti che da 15 giorni cadono sulla zona media del continente europeo, hanno straordinariamente gonfiato i torrenti alpini che precipitano dai gioghi dei nostri monti: essi hanno rovesciato la piena sui laghi e sui fiumi, i quali, comunicandosela via via per tutta la fitta rete idrografica dell’alta Italia, han convertito la Lombardia e più specialmente il Veneto, in un vasto campo di rovine. I giorni 15, 16 e 17 settembre segnano la data del funesto avvenimento. Ci sarebbe impossibile enumerare soltanto le rovine fatte dagli elementi anche perché un cielo implacabilmente rannuvolato continua a versare le acque del nuovo diluvio. […] Spaventevole è il disastro che ha colpito il Veneto, e più propriamente le sue più fiorenti città: Verona, Vicenza, Padova, ecc. L’inondazione di Verona resterà tristemente celebre nella storia contemporanea. L’Adige, turgido ed impetuoso, inondò la città il 15 e il 16, rompendo tutti i quattro ponti che l’accavalcano, rovesciando case, molini, piantagioni ecc.; poi, sotto Verona, ruppe gli argini in quattro punti e per le larghe brecce si rovesciò sulle campagne vicine. Tutti i fiumi e torrenti che dalle Alpi scendono nelle lagune, imitarono l’esempio del loro maggior fratello: il Piave, la Livenza, il Brenta, il Bacchiglione, il Cordevole. l’Astico, il Timonchio, ruppero ponti, squarciarono argini, devastando borgate e campagne; ed anche qui, pur troppo, si hanno a deplorare vittime umane. I ragguagli per ora sono incompleti, e le notizie disastrose si succedono senza posa: e, quello che è peggio, piove, piove dirottamente, facendo prevedere altri e maggiori guai. La grandezza della sciagura sembra scoraggiare qualunque opera di beneficienza. I raccolti del riso, dell’uva, della mellica e delle castagne sono irreparabilmente perduti: migliaia di famiglie son rimaste senza tetto, sprovviste di tutto, senza strumenti da lavoro, senza lagrime per piangere la morte de’ loro cari e la rovina della loro esistenza!»

L’Adige a Verona durante la piena del 1882 (tratta da “Illustrazione Italiana”)
L’indomito Piave s’aprì la via
In una cartina austriaca del 1841 l’ansa del Piave posta tra San Donà e Musile e travolta dalla piena del 1882. Nella cartina Mussetta par quasi arrivare nel centro di San Donà, tanto che il corso principale cittadino sembra segnarne il confine, anche se la toponomastica dice altro.

In quei giorni il livello del Piave toccò picchi sino ad allora mai raggiunti, mettendo in sofferenza tutti gli argini ed esondando in più punti, tanti anche i ponti danneggiati irrimediabilmente, tra cui il Ponte Vecchio di Belluno. In quel 16 settembre tutte le zone del basso corso del Piave pagarono un loro pesante tributo. La furia delle acque provocò molti danni esondando in più punti a Noventa dove il Piave ha un corso tortuoso. Le acque si aprirono un varco negli argini al Montiron, un altro più largo a Sabbionera, giorni dopo una terza breccia s’aprì a La Favorita. Furono 400 le famiglie che videro le proprie case allagate e la necessità di mettersi in salvo. L’impeto del Piave fu tale che nel tratto sandonatese l’ansa tra San Donà e Musile venne spazzata via, il Piave decise di andar dritto lasciando il proprio letto costeggiante l’argine San Marco; le poche case all’interno dell’ansa vennero travolte e a farne le spese fu anche il ponte di legno, all’epoca chiamato “della Pedona”, che dopo secoli aveva unito San Donà a Musile, ed ora irrimediabilmente danneggiato a soli sette anni dall’inaugurazione. Si narra che solo grazie al coraggio dell’impiegato del telegrafo Bressanin si riuscì a mantenere intatta la linea; il coraggioso si issò sulla pericolante struttura del ponte sganciando il prezioso filo del telegrafo prima che quella fondamentale linea di comunicazione s’interrompesse, seguendo il triste destino del ponte, isolando ancor di più l’intera zona.

Danni e allagamenti
Il ponte di legno sul Piave e il molino Finzi (tratta da “Illustrazione Italiana”)

Indicibili furono le sofferenze sopportate dalla popolazione prigioniera delle acque, infinite le esondazioni e le tracimazioni che inondarono le campagne, alto pure il numero degli sfollati messisi in salvo con difficoltà vista la portata degli allagamenti. Potente il grido di aiuto lanciato dal sindaco di San Donà Giorgio Trentin: «Siamo inondati attendiamo subito barche e truppe per salvare e soccorrere gli abitanti sorpresi nella notte e privi di tutto.». La violenza delle acque travolse la chiesa e il cimitero di Musile, posti allora nelle vicinanze del fiume, vennero poi ricostruiti in una zona più sicura. Non meglio andò sulla sponda sandonatese con importanti danni al Molino Finzi con il suo costoso macchinario a vapore e che creò alla popolazione un’immediata emergenza alimentare. Nella vicina Noventa furono ben 1500 i senza tetto obbligati a mettersi in salvo lontano da quel fiume che rappresentava un importante polo economico grazie al porto fluviale.

I difficoltosi soccorsi

I soccorsi furono rallentati dagli allagamenti e dalla rottura di quell’unico ponte che collegava le due sponde. Impreparata si trovò anche la Regia Marina con le sue imbarcazioni che si rilevarono inizialmente inadatte a quel tipo di operazione di soccorso nelle zone alluvionate. La situazione restò grave per giorni a causa della pioggia che non cessava e del livello delle acque che non sembrava deciso a calare, tanto che molte zone rimasero allagate per settimane, talune anche per mesi. Forte la solidarietà delle comunità vicine che inviarono viveri e aiuti alla popolazione in sofferenza.

Un’alluvione generalizzata

Il problema della piena, come detto, nel mandamento sandonatese non interessò solo il Piave, proprio l’ingrossamento generalizzato dei fiumi generò un effetto domino che vide esondare altri importanti corsi d’acqua. Già il giorno 16 settembre assieme al Piave ruppero gli argini sia il Meduna che il Monticano, il 23 settembre ci fu la rotta del Livenza a Torre di Mosto le cui acque si riversarono nelle campagne e si sommarono a quelle del Piave riportando indietro l’orologio della storia a prima delle bonifiche. Ben 37 mila ettari dei 44 mila che costituivano il dipartimento di San Donà vennero allagati. I raccolti ne furono intaccati con una popolazione costretta ad attendere i soccorsi, cercando al contempo di salvare i propri beni e i propri animali. Tutto il territorio ne pagò un prezzo anche per i lunghi mesi a venire, dove il semplice vivere dovette fare i conti con l’allarme sanitario in zone dove ancora la malaria mieteva le sue vittime. Furono anni difficili dove molti scelsero l’opzione di emigrare, tanti seguirono l’illusione del trasferimento oltre oceano in Sud America, come se lì la vita fosse meno dura.

Comitato di Soccorso del Basso Piave

Tra le tante richieste di aiuto, una vide l’unione di tutti i Comuni del comprensorio di San Donà uniti nel “Comitato di soccorso per gli inondati dal Piave” che inviarono una missiva ad ogni Comune del Regno per richiedere un aiuto in questo grave momento di difficoltà, così recitava l’appello:

« Onorevole Municipio, il tremendo disastro dell’inondazione di questo vasto territorio è oramai noto ovunque. Narrare i particolari strazianti per eccitare gli animi alla comprensione sarebbe quanto dubitare della potenza di quel sentimento spontaneo di fraterna solidarietà che fa della grande famiglia italiana una nazione civile rispettata e forte. Il comitato quindi, ricordando con raccapriccio il danno generale di oltre quattro milioni di lire e l’importanza a prestare i più urgenti soccorsi a più di 20 mila contadini vivi del necessario alla vita, e con una certa compiacenza di aver questo Distretto sempre risposto ai gridi di dolore delle popolazioni dei più remoti angoli della penisola colti da gravi jatture, si lusinga di trovare corrispondenza di sentimenti.

Qualunque sia la forma e la misura del sussidio che codesto Municipio e codesta cittadinanza crederanno di largire si avranno la gratitudine imperitura dei poveri disgraziati e dei loro rappresentanti.

San Donà di Piave 25 settembre 1882

Il comitato organizzatore: Trentin cav. Giorgio San Donà di Piave Sindaco di San Donà di Piave, Crico cav. Matteo Sindaco di Noventa di Piave, Vianello Alessandro Sindaco di Grisolera, Vian Lorenzo Sindaco di Torre di Mosto, Loro cav. Paolo Sindaco di Ceggia, D’Este Carlo Sindaco di San Michele del Quarto, Ferraresso Francesco Sindaco di Musile, Meneghini Giuseppe Assossre facente funzioni di Sindaco di Cavazuccherina, Varischio Antonio Sindaco di Fossalta di Piave, Placa Antonio Sindaco di Meolo.

Plateo Segretario.

I fondi per la ricostruzione
Una tombola organizzata a Roma per raccogliere fondi a favore dei danneggiati dall’inondazione del 1882

Imponente fu la raccolta di fondi per aiutare le zone colpite dalla grave calamità naturale. Alla elargizione che subito venne fatta dal Re, si aggiunse quella dello Stato, ed anche le varie amministrazioni comunali non si sottrassero nel dare un loro concreto contributo. Grandi erano i danni che tutta l’Italia settentrionale aveva subito, in Veneto i danni più gravi li aveva causati l’Adige destinatario dei maggiori aiuti, ma furono ben pochi i luoghi vicino a dei corsi d’acqua che non avevano avuto danni nel terribile settembre 1882. Tra le iniziative di raccolta fondi molte erano, come d’uso all’epoca, quelle legate a lotterie o tombole, tanti anni dopo San Donà fu beneficiaria di una iniziativa del genere quando dopo la grande guerra fu necessario ricostruire l’ospedale. Curiosamente i fondi destinati al distretto di San Donà ebbero un eccesso, che venne accantonato per destinarlo alla costruzione dell’ospedale. In questo caso i tempi si allungarono a dismisura e l’importante struttura dovette aspettare il nuovo secolo per trovare concretizzazione.

Ad ottobre, una nuova esondazione

All’alluvione del settembre 1882 ne seguì una ad ottobre che, fortunatamente, pur colpendo con una portata similare un territorio già in ginocchio per gli eventi del mese precedente, ebbe una durata inferiore. Dopo pochi giorni, le acque dell’irascibile fiume iniziarono a calare rientrando nell’alveo, ma furono molti i mesi nei quali le campagne continuarono a rimanere gonfie dell’acqua che le aveva attraversate, in un quasi ritorno alle origini, quando le bonifiche le avevano affrancate dalla realtà paludosa. Le stesse bonifiche che trovarono nuovo impulso anche negli anni a venire rivelandosi preziose nel salvare ancora una volta tutto il territorio.

La lenta ricostruzione
Un articolo della Gazzetta di Venezia dell’aprile 1886 dove si annunciava il completamento del nuovo ponte sul Piave

Furono imponenti le opere di risanamento che subirono i fiumi dopo un tale disastro. Per quanto riguarda il Piave si iniziò una lunga opera generalizzata di innalzamento degli argini quanto mai necessaria per riuscire a fronteggiare delle piene della portata di quella appena sostenuta. Nel sandonatese venne innanzitutto dato il via alla progettazione del nuovo ponte, opera la cui mancanza venne subito rimarcata rendendosi assolutamente necessario un suo veloce ripristino. Il nuovo corso del fiume ne impose una diversa collocazione, ma ovviamente venne subito accantonata la possibilità di rifarlo in legno. Solo sette anni era durato quello travolto dall’alluvione, venne scelta per cui una costruzione in ferro sorretta da piloni in muratura. Prima però venne inaugurato il ponte ferroviario che fu la grande novità di quegli anni, con la ferrovia che collegò prima San Donà e poi Portogruaro con Venezia. Inaugurato nel giugno 1885, il ponte ferroviario superò una prima piena del Piave nell’autunno, così come anche il costruendo ponte stradale resistette e dall’aprile 1886 San Donà e Musile tornarono ad essere collegate dal desiderato ponte.

I nuovi argini alla prova della piena del 1889
Degli sfollati accolti nella chiesa di San Donà (tratta da “Illustrazione Italiana”, 1882)

L’emergenza non terminò con l’innalzamento degli argini, le piene del Piave erano una costante e regolarmente si susseguivano anno dopo anno. Quella del 1889 ebbe una portata pari a quella record del 1882. Gli argini furono messi a dura prova, una prima breccia si aprì in quei nuovi argini innalzati tra il ponte stradale e quello ferroviario, la successiva pressione delle acque sull’argine San Marco fu tale che cedette in due punti, travolgendo sette case e causando ben dieci vittime in una stessa famiglia. Un’enorme massa d’acqua si riversò su Musile, tanto da allagare ben tre quarti del suo territorio, danni ingenti subirono anche Passarella e Chiesanuova. Ancora una volta passarono mesi prima che il territorio potesse liberarsi dalle acque ed iniziare la ricostruzione, con dei fondi per il ripristino e l’aiuto alle popolazioni che tardarono ad arrivare.

Nel 1903 la tragica alluvione ancor si ripete
In una cartolina dell’epoca la rotta all’Intestadura del 1903
Una cartolina commemorativa che ricorda l’intervento della Brigata Lagunari Venezia nelle innondazioni del 1903

A chiudere le grandi alluvioni di quel tempo ci fu quella del 1903. Ancora una volta delle eccezionali precipitazioni gonfiarono i fiumi, come vent’anni prima l’Adige allagò Verona, seppur in misura minore. Peggio ancor una volta quel che il Piave riservò alla popolazione del suo basso corso. Tremò la sponda sandonatese tenendo in apprensione tutti gli abitanti di Mussetta, poi nella notte tra il 30 e il 31 ottobre accadde la rotta: «…il fiume era minaccioso; una rotta degli argini si aspettava, nel posto detto Mussetta, dove vivevasi con ansia; invece, nel sito detto Intestadura la fiducia era unanime. D’un tratto, un rumore sordo avvertì quelli di Mussetta che il Piave aveva rotto lungi da loro: aveva rotto a Intestadura, villaggio di un migliaio di abitanti. Le acque, per uno squarcio largo oltre cento metri, irruppero spaventose, tutto travolgendo nella loro furia livellatrice: capanne, stalle, case, sui tetti delle quali arrivarono a stento a rifugiarsi coloro che non erano giunti a salvarsi sugli argini. Cinquemila persone, nel territorio circostante San Donà di Piave sono state colpite dal disastro; trenta chilometri quadrati di superficie sono stati allagati: e l’irruenza delle acque ha travolto nelle ruine, insieme con molte masserizie di miseri contadini, quattro vittime umane, due fanciulli e due poveri ottantenni. Nell’opera di salvataggio si sono segnalati, come sempre, per zelo, per umanità, i carabinieri e i nostri soldati.».

L’esondazione del 1903 (Archivio municipale di San Donà, tratta da “Il disegno della città tra utopia e realizzazione”)
Il Comizio del 17 gennaio 1904
In una immagine aerea durante la piena del 2018 la vecchia ansa del piave allagata con un piccolo lembo di terra a vista che all’epoca ne rappresentava l’estremità.

Nelle ultime righe del suo libro il Plateo dedicò parole accorate proprio alle alluvioni che lo videro per tanti anni in prima linea come Segretario municipale di San Donà di Piave. « Noi auguriamo che le grandi alluvioni, segnate dalla storia a tinte nere, non si ripetano più. Non possiamo però dimenticare l’altezza delle scaturigini del Piave, la sfrenatezza del suo corso, le angustie del suo alveo, il deviamento dello sbocco dalla laguna al mare e lo sboscamento progressivo dei monti, come tante cause di maggior impeto delle acque in tempo di piena. Dobbiamo poi constatare che queste cause costituiscono una potenza ignota ai tecnici e ai profani sin che dura l’attuale sistema di difesa, affatto insufficiente, prova ne sia che gli uni e gli altri rimasero fin qui ingannati dalle più studiate ipotesi. » Il Plateo ricorda poi un Comizio molto partecipato che si tenne il 17 gennaio 1904 a San Donà di Piave presso il Teatro Sociale, dove un Comitato composto tra gli altri dal Sindaco di San Donà Callegher, dal comm. Sicher e a cui diedero adesione molti sindaci del Basso Piave e del trevigiano, alla presenza di tanti senatori e deputati, rimarcarono molte richieste affinchè il Piave potesse essere messo in sicurezza. Di quell’ultima alluvione fecero anche un resoconto: 300 ettari l’estensione del territorio allagato con 757 famiglie e 5438 persone, le vittime furono 4, le case distrutte 8, le pericolanti sono 36, le danneggiate 120. I danni denunciati da piccoli proprietari, mezzadri, chiusuranti e braccianti, sommano a lire 383.343,25, esclusi quelli incalcolabili dei grandi proprietari.

Le alluvioni del Piave del 1882 nelle illustrazioni delle riviste
La pagina centrale dell'”Illustrazione Italiana” dell’ottobre 1882 con le due immagini dedicate a San Donà

I giornali dell’epoca dedicarono molte illustrazioni agli eventi tragici delle alluvioni che colpirono il Veneto in quella fine-inizio secolo. Disegni e incisioni che raccontavano di episodi realmente accaduti e che davano il senso, il più delle volte tragico, degli avvenimenti. Anche in periodi successivi dove l’immagine fotografica divenne protagonista, questo tipo di rappresentazioni grafiche continuarono a mantenere una loro importanza. Riguardo agli avvenimenti accaduti nelle nostre zone “L’Illustrazione Italiana” dedicò al Veneto una incisione composita nella doppia pagina centrale in uno dei numeri di ottobre. Così la lunga descrizione data dal giornale: « Il grande disegno, che occupa due pagine di questo numero si riferisce a diversi punti del Veneto desolati dalle inondazioni. L’ovale, che ne occupa il centro ed il disegno posto a destra, nella parte inferiore, rappresentano i lavori di palificazione e di arginatura, intrapresi ora, per chiudere la grande rotta di Legnago. Questi lavori sono importanti non solo per ragioni economiche, ma anche per ragioni idrauliche; trattandosi della rotta d’Adige più ampia e più profonda che si abbia avuta finora. Lo scandaglio scese in qualche punto ad una profondità di 37 metri…..Gli altri disegni che girano attorno a buona parte dell’ovale si riferiscono all’inondazione del Piave. Due volte: alla metà di settembre e alla fine d’ottobre, le acque di questo fiume uscirono dal loro letto, rompendo gli argini, facendo rovinare case e ponti, e fugando all’improvviso migliaia di poveretti che confusi, spauriti, cercavano rifugio nei punti più elevati. All’urto della prima piena caddero infranti il gran ponte di San Donà e il prossimo molino a vapore del cav. Finzi, ampio ed elegante opificio che dava lavoro e pane a moltissime povere famiglie. Il ritrattino, che spicca nella parte inferiore del nostro disegno, è del fanciullo Dazzi, quello che presso la rotta dell’Adige a Masi restò più di trenta ore, aggrappato al tronco d’un albero. Il poveretto è orfano; i suoi genitori rimasero vittime di quel fiume, al cui fiotto impetuoso egli poté sfuggire in modo tanto sorprendente. »

Nelle copertine delle riviste le tragedie del 1903
La copertina del “Secolo Illustrato” del novembre 1903

Due incisioni in prima pagina furono invece dedicate alla rotta dell’Intestadura del 1903. “Il Secolo Illustrato” raccontò con un’incisione in prima pagina la tragedia all’Intestadura accompagnandola anche con il triste racconto all’interno: « …il Piave purtroppo volle le sue vittime. La casa di Pietro Pavanetto fu spazzata via. In una stanzetta dormiva una vecchia madre ottantenne assieme a due figliolette che miseramente perirono. Il contadino Luigi Mandruzzato si trovò con una bambina di quattro anni e la madre ottantenne sul tetto di una cascina, ove la piena li raggiunse e la vecchia infelice venne strappata dalle braccia del figlio e miseramente affogò….». Lo stesso fece “La Domenica del Corriere” che raccontò un altro episodio accaduto: «…Mentre carabinieri e cittadini, dentro una grossa barca, sfidavano la furia dell’acqua limacciosa e terribile, raccogliendo uomini e dovve che stavano per annegare, un toro rimasto isolato sopra un lembo dell’argine caduto si lanciò nell’acqua inseguendo minacciosamente la barca stessa. Tra i naufraghi lo spavento fu grande : scampati da un pericolo, un altro li minacciava! Un carabiniere impugnata la daga, tenne a bada l’animale inferocito finchè un provvidenziale filare d’alberi permise alla barca di approdare trattenendo il toro. »

La copertina de “La Domenica del Corriere” del novembre 1903

Per ulteriori approfondimenti: 1. “Il ponte della vittoria diventa storia: 1922-2022 – passi barca, ponti e vie d’acqua a Musile e dintorni” di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto (Tipolitografia Biennegrafica, Musile di Piave – 2022); 2. “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Mons. Costante Chimenton (Tipografia Editrice Trevigiana, 1928); 3. “La bonifica nel basso piave” di Luigi Fassetta (Tipoffset, Venezia, 1977); 4. “San Donà di Piave” di Dino Cagnazzi, Giorgio Baldo, Tiziano Rizzo (Casa Editrice Legal, Padova, 1979); 5. “C’era una volta Musile” di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto (Biennegrafica, Musile di Piave, 2007); 6. “Torre di Mosto” di Dino Cagnazzi (Istituto Tipografico Editoriale, Dolo, 1979); 7.”Il disegno della città tra utopia e realizzazione” di Dino Casagrande e Giacomo Carletto (Tipolitografia Colorama, San Donà di Piave, 2002); 8. “Venezie sepolte nella terra del Piave” di Wladimiro Dorigo (Viella, Roma, 1994); 9. “Il territorio di S. Donà nell’agro d’Eraclea” di Teodegisillo Plateo (1907, Ristampa Editrice Trevigiana, 1969); 10. “Fossalta, dal 130 a.c. alla battaglia del Piave” di Alba Bozzo (Officine Grafiche Boschiero, Jesolo, 1983); 11. “Una terra ricca di memorie Noventa di Piave” di Dino Cagnazzi, Gianpietro Nardo, Luigi Bonetto (Istituto tipografico Editoriale, Dolo, 1980); 12. Archivio “Illustrazione Italiana” (consultabile on line)

«Cent’anni di carità», il nuovo libro su San Donà

Ieri, sabato 13 marzo 2021, è stato presentato un nuovo libro sulla storia di San Donà di Piave: « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi. Un altro capitolo della lunga storia sandonatese, un’altra prospettiva di quel periodo storico che vide San Donà crescere ad inizio novecento per poi subire il disastro della prima guerra mondiale ed il suo successivo ridisegno. Una parte importante di quella rinascita vide come protagonista assoluto monsignor Saretta ma ebbe nelle Suore di Maria Bambina delle preziose collaboratrici, sia prima che durante e soprattutto dopo la Grande Guerra. Cento anni fa sorgeva l’Orfanotrofio a San Donà di Piave, in questo libro viene raccontata la sua lunga storia e l’opera delle suore di Maria Bambina al servizio di San Donà. Un servizio svolto non solo all’interno dell’Orfanotrofio ma anche presso l’Istituto San Luigi, l’Ospedale civile, la Casa di riposo ed in altre infinite attività lungo questi cento anni.

Il libro è disponibile presso Casa Saretta, via Pralungo 12, 30027 San Donà di Piave (Ve). LINK

Il 14 aprile 1975 su “Il Piave” è stata pubblicata un’intervista a Suor Aurelia Giacobetti e Suor Aurelia Baldasso firmata da Gianfranco Bedin. Le due religiose sono state parte della storia dell’Orfanotrofio di San Donà di Piave sin dai primi anni. Di seguito pubblichiamo la lunga intervista integrale.

Due Suore raccontano

di Gianfranco Bedin

Monsignor Costante Chimenton nel suo volume « Storia di San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella » (1928) scrisse: « L’educazione della gioventù fu sempre riconosciuta il problema più delicato e più impellente per la vita di un popolo; il problema più assillante anche per la vita moderna, religiosa e civile. Delicato ed impellente perché nulla v’ha di più sacro dell’ingenuità dell’infanzia; assillante, perché dall’educazione dei primi anni dipende la vita intera dell’uomo.
A San Donà di Piave si affrontò questo problema; lo si affrontò sotto tutti gli aspetti: le opere già compiute e le opere in corso costituiscono un’assicurazione che nulla si trascurò per salvare la gioventù da quelle rovine, morali e fisiche, che manifestano le loro funeste conseguenze nei delinquenti della pubblica strada o nei sacrificati alla morte stessa primavera della vita ».


Una di queste prime opere fu l’Orfanotrofio, la cui costruzione, seppur con scopi diversi (asilo nido), iniziò nel 1914 per opera di Monsignor Giovanni Battista Bettanin.
I lavori, causa la prima guerra mondiale, furono interrotti: gli uomini furono chiamati alle armi e non si parlò più del costruendo asilo.
Nel 1919, su iniziativa di Monsignor Luigi Saretta, prevalse l’idea di riprendere la costruzione dell’edificio per ospitare i bambini rimasti orfani. Fra innumerevoli problemi e sacrifici, i lavori vennero ultimati nel 1921.
L’Orfanotrofio rappresenta quindi per San Donà una ricca pagina della sua storia, seppur triste per le vicissitudini patite dal primo al secondo conflitto mondiale.
Fra i testimoni di queste vicende sono ancor oggi la sorella Aurelia Giacchetti, nata nel 1901 a Valle di Cadore, e la sorella Aurelia Baldasso, nata nel 1899 a Sant’Andrea (Treviso), due suore che ancora operano nel locale Orfanotrofio e che nonostante il peso degli anni e le sofferenze patite ci ricordano nell’intervista che pubblichiamo quei tristi anni di vita dell’Opera e della nostra città.
Suor Aurelia Giachetti è giunta nella nostra città nel lontano 1923, suor Aurelia Baldasso pochi anni dopo, nel 1928.

Suor Aurelia Giacchetti e Suor Aurelia Baldasso

¤ Suor Aurelia Giachetti, lei è venuta a San Donà nel lontano 1923; cosa ricorda in articolare di quell’anno? « Quell’anno eravamo andate a Biadene nella villa del comm. Gaviolo, che era presidente dell’Opera. Il presidente aveva invitato tutti gli orfani e anche le ragazze che erano nell’asilo alle scuole di lavoro. Ci ha fatto trascorrere una giornata bellissima: aveva preparato il pranzo nel suo stupendo boschetto. Abbiamo trascorso la giornata in tutta serenità e prima di partire abbiamo fatto una fotografia ricordo. »
¤ Quanti orfani c’erano allora? « Venti interni e altrettanti esterni ».
¤ Si trattava di poveri? « No, erano tutti orfani di guerra: bambini e bambine ».
¤ Come era San Donà in quegli anni? « La città era tutta distrutta. Mi ricordo che, venendo dalla stazione ferroviaria, gli alberi erano ridotti a tronchi o abbattuti; c’era una grande demolizione. Il “Borsa” era l’unico albergo del centro del paese ancora abbastanza funzionante ».
¤ La situazione di San Donà com’era? E la gente? « Erano tutti malandati, c’erano le baracche. Il campo sportivo era tutto coperto di baracche. Quando andavamo là ricordo che c’erano tanti bambini: bisognava vedere in che condizione erano! Dove ora c’è la casa del Mutilato, allora c’era il macello attorniato da un fosso. I rifiuti del macello venivano scaricati proprio in quel fosso: può immaginare che puzza c’era nella zona, i ragazzi volevano sempre evitarla per andare in paese ».
¤ Lei, suor Aurelia Baldasso, è venuta a San Donà nel 1928; cosa era cambiato dal quadro fattoci da suor Giachetti? « Non ho trovato niente di cambiato: c’era poca gente, tante baracche, tanta miseria e poi tutti erano pieni di malaria. Ogni sabato venivano qua a prendersi il pane e una tazza di latte o altri generi alimentari, raccolti dall’Opera San Vincenzo. C’era tanta e tanta miseria. Nel 1929 la situazione si era aggravata, soprattutto d’estate, per la grande siccità. La gente correva a prendere l’acqua del Piave che però era salata; l’aspetto era desolante, tutte le piante seccavano, i campi non producevano niente, i pozzi si asciugavano ad uno ad uno…, erano anni che pativamo anche la sete ».
¤ Quante suore eravate in quel tempo? « Eravamo in nove, mentre i bambini erano centoventi. Poi sono venuti i Salesiani, in attesa che costruissero la loro sede, per cui ci siamo divisi i maschi (a loro) e le femmine (a noi).
¤ Si ricorda qualche fatto particolare accaduto ad un bambino o ad una bambina? « La morte della “Ginetta” causata da una peritonite. L’avevamo portata all’Ospedale, ma non c’era più nulla da fare. Ricordo poi un altro fatto dovuto ad una peritonite che aveva colpito un altro nostro ragazzo. All’Ospedale la nostra superiore disse al professor Girardi: “Professore me lo salvi”. Lui rispose: “Senta Superiora, in chi ha fiducia?” “Prima nel signore – disse lei – e poi anche nel professor Girardi”. Ricordo poi che nei primi anni i bambini erano stati quasi tutti colpiti dalla “tigna”: erano tutti senza capelli. Che pena, poveretti! »
¤ I bambini a quanti anni lasciano l’Orfanotrofio? « I maschi dopo la quinta elementare, le bambine dopo la terza media. Poi hanno la possibilità di tornare in famiglia, altrimenti vengono ospitati a Venezia dove frequentano le scuole medie superiori ».
¤ Quando diventano adulti, vengono mai a trovarvi? « Si, vengono spesso con tanta nostalgia e riconoscenza. Tanti si sono fatti anche un’ottima posizione nella società ».
¤ Come vi sembra si sia trasformata la vostra città dalla vostra venuta? « Quando eravamo venute, San Donà era praticamente distrutta: ora è risorta. Ci pare di essere in un altro mondo. C’è stato uno sviluppo straordinario da allora. Ricordo che gli amministratori del Comune erano molto scoraggianti: è stato monsignor Saretta a dare loro il coraggio necessario. C’è poi un particolare. Il Duomo era stato distrutto dai bombardamenti della prima guerra mondiale: nessuno andava più a Messa. Ma nel 1923, durante la settimana Santa, monsignor Saretta raccolse tutti i fedeli e tenne la S. Messa tra le rovine del Duomo alla quale intervennero moltissime persone ».
¤ Avete avuto momenti difficili nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale? « Si, abbiamo sofferto molto, anche per la pesante situazione economica: non avevamo i soldi per fare le compere. Avevamo allora centoventi bambini da sfamare ».
¤ Come avete risolto il problema? « Con molta fatica, soffrendo. I bambini andavano a scuola ma non si poteva dare loro la merenda perché altrimenti ci mancavano i viveri per il pranzo: si soddisfaceva in qualche modo la fame dando loro una patata bollita. Con le patate e la farina facevamo anche la polenta, Possiamo comunque affermare che i ragazzi, nonostante la situazione, non hanno mai patito la fame: magari polenta e formaggio, ma hanno sempre mangiato ».
¤ Come riscaldavate le camere dei bambini? « Si prendevano delle braci che mettevamo in uno scaldarello. Questo veniva “passato” su e giù sulle lenzuola, quel poco per togliere “il crudo”. Ad ogni bambino si dava poi una bottiglia di ferro contenente dell’acqua calda ».
¤ Che differenza avete notato tra i bambini d’allora e quelli di quest’era? « Un’enorme differenza. Allora nelle famiglie, causa la guerra e le sue conseguenze, soffrivano parecchio e si adattavano, per forza di cosem alla situazione. Erano “tremendi” una volta, ma, poveretti, non avevano colpe. Ora, invece, pretendono di più e ci sono in tutte le famiglie le possibilità economiche per accontentarli ».
¤ In quei difficili momenti, la cittadinanza sandonatese vi ha aiutato? « Poco. Non avendo quasi nulla per loro, non potevano logicamente aiutarci ».
¤ Andavate anche a questua? « Si, per sfamarci andavamo per i campi a raccogliere le spighe rimaste dopo la mietitura del frumento: un anno ne abbiamo raccolte, assieme ai bambini, circa dieci quintali. Nella seconda guerra mondiale, dopo la distruzione dell’Ospedale Civile Umberto I°, ci siamo trasferiti per sette mesi a Campodipietra, nel locale asilo. Là c’era anche un comando tedesco. I bambini andavano a chiedere ai soldati del pane o altro e loro li accontentavano sempre. Davano loro anche il dolce. Ricordo che ai bambini piaceva moltissimo andare a legna dai contadini che gli offrivano sempre del pane, salame e del vino ».
¤ Come siete stati trattati dai tedeschi durante la loro occupazione? « Ci hanno sempre rispettato. Qui davanti all’Orfanotrofio, nella villa Velluti, c’erano un comando di S.S.: quanta paura! Ci hanno comunque sempre rispettato, anzi ogni settimana ci mandavano dodici chili di carne per i nostri bambini. Erano momenti veramente brutti, per non parlare poi del bombardamento dell’Ospedale Umberto I°. Là c’era un comando tedesco. Quando hanno saputo che gli italiani volevano bombardare l’Ospedale sono scappati, lasciando là gli ammalati: che disastro, che macello! Anche noi siamo accorse per prime a prestare i necessari aiuti. Momenti di terrore li abbiamo passati invece con gli indiani che ci hanno devastato la cucina e tutti i locali ».
¤ Molti anni sono ormai passati; ora come vi trovate? « Ora siamo veramente in un altro mondo! ».
Così suor Aurelia Giachetti e Suor Aurelia Baldasso ci hanno raccontato, in questa semplice e forse disordinata intervista, le tristi vicissitudini del loro passato trascorso all’Orfanotrofio, un passatche molti sandonatesi ricordano e che i giovani devono sapere.
« Ora siamo in un altro mondo », così ci hanno detto. E’ una dichiarazione che deve far meditare, cos’ come da meditare sono le parole scritte da Monsignor Chimenton in apertura del nostro servizio. Erano i problemi di allora, sono i problemi dei nostri giorni.

Documenti:

In un post di novembre la Relazione Morale e Finanziaria dell’Orfanotrofio di San Donà di Piave del 1920, con il link per scaricarne la versione in pdf.

Guerrino Striuli «Il Gatto Nero»

Articolo di Gianfranco Bedin tratto da «Il Piave», anno 6 nr. 19, 15 novembre 1973

San Donà 1939-40 – In piedi da sinistra: Guerrino Striuli, Bergamini, Pavan, Cappello, Magrini, Franco, X; Accosciati: Fantin, Gavagnin, X, Silvestri.

« Se, nel zogo, Guerin xe stado grande
Vinzendo a Roma, co la Triestina
Un premio lù ‘l ga vù, svolando
Dal Lazio fina qua, l’altra matina,
la notizia, là su, ghe xe rivà
che, sul Piave, ghe iera novità.
Figuratevelo lui, coi altri muli,
tutti ‘torno la radio che gratava.
Attenzione! Un piccolo Striuli
Gà lassù, ogi, l’area del rigor
Per alenarse a far come su pare,
portier de classe, che za in tante gare
difendi l’alabarda con valor.
Avanti piciul, ocio a l’attacante…
salta de «palo» a «palo» e la «traversa»!
Fa che Trieste, sempre trionfante,
la razza dei campioni non sia persa! »

Guerrino Striuli sfoglia l’album dei ricordi

Questa poesia è stata dedicata a Guerrino Striuli da Leghissa, un tifoso triestino, nel 1948, nell’epopea d’oro del calcio alabardato, allorchè il popolare portiere diventò padre.
Guerrino Striuli, « Il gatto nero » del calcio nazionale è uno dei più significativi giocatori di calcio che la prolifica «Razza Piave» sandonatese abbia sfornato nel suo prestigioso passato.

Carriera

Nato a San Donà di Piave il 24 dicembre 1917, Guerrino iniziò la sua avventura calcistica a 14 anni nel ruolo di portiere, su quel vecchio teatro che è lo stadio Zanutto.
Militò quindi nello Jesolo, con le Leghe Leggere Marghera e nella Saffa di Milano.
Nel campionato 1938-39 (ndr 1939-40) tornò a vestire la maglia del San Donà. Allora i biancocelesti militavano in serie C.

Triestina 1947-48 : In piedi da sinistra: Zorzin, Striuli, Blason; in mezzo: Presca, Sessa, Radio; seduti: Rassetti, Mlacher, Ispiro, Tosolini, Begni.

Con la Triestina in serie A
Nel campionato successivo fece il grande balzo nella massima serie. Lo voleva la Sampierdarena, ma per una serie di contrattempi finì nella gloriosa Triestina dove rimase fino al 1949, a difendere la porta alabardata (circa 260 partite in serie A!), conquistando simpatie e ammirazione in tutto lo stivale calcistico. Con Striuli alla guardia dei pali, la Triestina conquistò il record d’imbattibilità, che durò 18 giornate.
Con la Triestina a San Donà… con amore!
Guerrino ci ricorda che nel 1941, in occasione di un incontro amichevole tra la sua Triestina e il San Donà allo “Zanutto”, conobbe Emilia Crivellaro, una bionda fotografa che cinque anni più tardi sarebbe diventata la compagna della sua vita.
Nel campionato 1950-51, Striuli passa dalla Triestina all’Arsenal Taranto in serie B. Il campionato successivo, a 33 anni, veste i colori del Nocera Inferiore e inizia nel contempo la carriera di allenatore.

Il ritorno a San Donà

San Donà 1951-52 : In piedi: Dalla Villa, dir. Padovan,Tosetto, mass. Paludetto, Carlini, Lepre, Tonon, all. Striuli, Finotto
Accosciati: Spadola, Sergio Mion, Brollo, Firotto, Bertoli

Campionato 1952-53. (ndr 1951-52) Guerrino Striuli torna a San Donà (Serie C) nella veste di tecnico.
Inizia quindi la sua carriera di allenatore sui campi del Basso Piave. Con l’Eraclea, in due anni, ottiene due promozione tra i dilettanti. Dal 1963 al 1965 è ancora al timone del suo San Donà, assieme ai vari Nani Perissinotto, Tognon, Ballacci.
Nel campionato 1965-66 salva il Caorle dalla retrocessione. L’anno seguente è alla guida del San Stino.

L’ intervista

Siamo nel 1967, Guerrino Striuli rompe i ponti con il calcio e si dedica ad altro sport… quello delle bocce.
« Siamo comunque sempre nel campo del pallone! »
Perché questa rottura? « Mi sono stancato – ci risponde Guerrino – del calcio. Mi piaceva lavorare con carta bianca. Mi è mancato questo presupposto ed ho preferito smettere ».
Ritornerebbe al calcio? « Sono ancora iscritto nei ruoli di allenatore, ma al calcio non tornerò. E’ da troppo tempo che sono fuori dal giro calcistico ».

Triestina 1948-49 – da sinistra: Sessa, Striuli, Trevisan, Bacchetti, accosciato Ispiro

Quali sono i compagni di squadra che più rimangono nei suoi ricordi? « Molti: lo stopper Raciglio Grezar e Ballarin periti poi nella tragedia di Superga, Tagliasacchi, Tosolini, Ispiro, Guglielmo Trevisan, le due ali della nazionale Colaussi e Pasinati, Piero Grosso, Carraro, Defilippis, Rossi, Salar, Blason, Gratton, Rosetti, Bagni, Giannini, Sessa, Zorzin, Radio e altri ancora che in questo momento non ricordo. Tutti grandi calciatori e ottimi amici nella vita. »
Quali sono stati come tecnici i suoi più grandi maestri? « Nereo Rocco nella Triestina che era affiancato dal C.T. Beppi Girani, e Varglien I° ».
Cosa le ha dato il calcio nella sua vita? « Grandi soddisfazioni. Penso che pochi come me abbiano avuto dal calcio così grosse soddisfazioni morali e sportive soprattutto ».

Guerrino Striuli


Quando militava in serie A, quanti soldi percepiva al mese? « Nel mio primo anno nella Triestina percepivo 1200 lire al mese. Negli ultimi anni circa 120-130 mila lire. Nel 1947-48, con la Triestina, classificata al 2° posto ho guadagnato più soldi per premi partita che con lo stipendio ».
Quale è stata la sua partita “storica”? « Quella del campionato 1947-48 quando abbiamo pareggiato (1-1) a Torino contro il grandissimo « TORO »: sono stato impegnato per quasi tutto l’incontro, volando continuamente da un palo all’altro della porta. Ricordo poi nello stesso campionato, la partita di Torino dove abbiamo battuto la Juventus per 1-0. In quel campionato la squadra, diretta da Rocco, era lo spauracchio d’Italia. Ci classificammo al 2° posto alle spalle del Torino con il Milan e la Juventus ».
C’è una differenza tra il calcio di allora e quello d’oggi? « Si, c’è una grande differenza: una volta i giocatori lottavano tutti per vincere ora si va sul campo per non perdere ».
C’è attualmente una crisi di giocatori nel calcio? « Non c’è nessuna crisi. I giocatori in Italia abbondano talmente che si potrebbero fare due nazionali dello stesso valore. Il male attuale del calcio sta nelle Società che, tra l’altro dovrebbero dare carta bianca agli allenatori. I giocatori, invece o sono trattati troppo bene oppure con sono capiti. E’ inutile che mi vengano a dire, per esempio, che Rivera con gioca bene perché ha paura di prendere le botte. Un giocatore chiunque esso sia, quando entra in campo bada a giocare come meglio le sue condizioni permettono ».
Che suggerimenti dà ai giovani che vogliono praticare il calcio? « Di praticare lo sport assiduamente anche se costa loro del sacrificio. Devono poi essere a posto moralmente, non devono bere e fumare. Solo così si può diventare, avendone le qualità dei buoni giocatori ».

Gianfranco Bedin

I Protagonisti del calcio sandonatese: 1. Francesco Canella “Dall’Oratorio al tetto del mondo”; 2. Arturo Silvestri con lo scudetto sul petto nella stagione 1951-52; 3. Guerin Sportivo | Adriano Meacci: «Scusate il ritardo »; 4. Glerean: « Nessun segreto, grande San Donà »; 5. Guerrino Striuli « Il gatto nero »; 6. Elvio Salvori, un sandonatese a Roma; 7. « Bomba » Cornaviera, una vita per il San Donà; 8. Silvano Tommasella, il miglior terzino biancoceleste; 9. « Nanni » Perissinotto, il bomber che stregò la Capitale; 10. Antonio Guerrato, quell’ala destra che non sbagliava una punizione; 11. Orfeo Granzotto: « Così è nato il Sandonà dei sogni »; 12. Bruno Visentin, il « Colombo » che volò in serie A; 13. Angelo Cereser, i suoi inizi sandonatesi visti da Torino; 14. Enzo Ferrari, quel sandonatese famoso prima di esserlo

L’inaugurazione del Monastero delle Clarisse

Tratto da « Il Piave » del 1° luglio 1968 Anno I N. 9 p.3

Il primo marzo 1968 usciva il primo numero de « Il Piave », il periodico di informazione a cura dell’Amministrazione comunale di San Donà di Piave. A cadenza quindicinale ogni famiglia riceveva una copia del giornale nella classica fogliazione a quattro facciate dove vi erano le notizie istituzionali riguardanti la città ma dove si potevano trovare anche degli approfondimenti riguardo la cultura, la storia e lo sport. In uno dei numeri di luglio vi si raccontava dell’inaugurazione del Monastero delle Clarisse in prossimità del cimitero cittadino, edificio che in seguito venne utilizzato altrimenti e di cui un’ampia porzione è oggi la sede del Museo della Bonifica.

Il Monastero delle Clarisse, un esempio dell’architettura moderna

Un nuovo monastero delle clarisse sorge di fronte al Camposanto, luogo di pace, serenità e solitudine. E’ stato inaugurato il 21 luglio u.s. in un tranquillo pomeriggio di primo estate.

Alla presenza del Vescovo Mistrorigo, di Autorità religiose e civili e con una imponente partecipazione di folla, il monastero è stato benedetto, inaugurato e consegnato ufficialmente alle suore clarisse, monache di stretta clausura.

Il Monastero in costruzione (Il Piave, anno I n. 9)

La S. Messa celebrata nel presbiterio ha acquistato un particolare significato, si avvertiva, nell’aria un senso di vero e profondo misticismo.

Al termine del rito c’è stata la visita al monastero. L’edificio si presenta come un qualcosa di estremamente valido in un contesto di architettura moderna; la funzionalità più completa e un buon gusto tipicamente moderno e privo di orpelli, si collegano chiaramente alle idee di Le Corbusier, caposcuola dell’architettura moderna.

L’edificio consta di una parte destinata al culto : il doppio coro per la preghiera notturna e diurna, orientati, uno verso il Tabernacolo e l’altra verso l’altare, servendo rispettivamente la recita notturna e l’altro al servizio Eucaristico ; inoltre lo spazio riservato alle due assemblee ruota attorno all’altare in modo da formare un angolo retto.

La parte riservata all’abitazione delle monache conserva gli stessi caratteri di modernità e funzionalità senza però rinunciare alla fedeltà ad una tradizione che traspare anche nei dettagli : le piccole celle, il tavolato per dormire, l’angolo per la preghiera individuale, la nuda croce, la severità degli infissi e delle rifiniture. Originale e a vasto respiro, si presenta il refettorio.

Cala la sera, il monastero è ormai una sagoma nera che si staglia su un cielo ancora luminoso. La gente, a gruppi se ne va, si incrociano gli ultimi commenti, elogi e qualche critica.