Il Martirio e la Resurrezione di San Donà di Piave

Nel giugno 1929, in contemporanea con l’uscita del libro di Monsignor Dottor Costante Chimenton “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella”, sulla rivista edita del Touring Club Italia “Le vie d’Italia e dell’America Latina” uscì un lungo articolo a firma Giorgio Paoli che da quel libro trasse ispirazione. A corredo dell’articolo furono inserite molte fotografie di Alfredo Batacchi, molte delle quali divenute nel frattempo cartoline di San Donà di Piave.

Rivista mensile del Touring Club Italiano, Anno XXXV – giugno 1929

di Giorgio Paoli

Fra i tanti paesi italiani che, per essersi trovati sulla ardente fronte della grande guerra, ebbero a condividerne le alterne vicende, a partirne le dure violenze, a supportarne i terribili sacrifici, a viverne la crudele angoscia e la vermiglia gloria, San Donà di Piave fu dei più martoriati e dei più eroici. Non solo una folta schiera dei suoi giovani figli – quattrocentoventi – immolarono la balda esistenza combattendo per la Patria, ma il paese stesso fu tutto travolto e sconquassato dalla tremenda bufera e, dopo il rovescio di Caporetto, invaso dal tracotante nemico, soffrì per un anno l’amarezza del selvaggio e nella lotta per la liberazione fu bersaglio di spietati colpi e vittima di innumeri ferite. Ridotto a uno spaventoso cumulo di macerie, sembrava, nel vittorioso termine del conflitto, ch’esso non potesse più risollevarsi dalla triste polvere in cui giaceva. Invece – miracolo d’energia e di fede – chi lo vede oggi lo trova risorto, lo saluta più bello di prima, risanato e forte, in piena maturazione di sviluppo, in una consolante ripresa di attività, in un sicuro ritmo di lavoro: esempio anch’esso, con mille altri, dell’inestinguibile gagliardia di nostra stirpe e, in particolare, del virile e fattivo ardore della gente veneta.

Un figlio di questa terra, Monsignor Dottor Costante Chimenton, professore del seminario di Treviso, ha amorosamente tracciato la storia di San Donà di Piave in un’interessante volume di 900 pagine, copiosamente documentato ed illustrato; ed è sulla sua scorta che vogliamo qui richiamare gli eventi connessi con la guerra e compendiare l’opera di restaurazione che, per virtù di Governo e di popolo, ha doppiamente redento il gentil paese.

Il Santo Patrono

Son dodici i santi che portano il nome di Donato, per cui si può comprendere come sia stata lunga la controversia storica, non peranco risolta, per decidere quali di essi fosse l’autentico patrono di San Donà. La chiesa, a tagliar corto stabilì che l’onore spettasse a San Donato Vescovo martire, ma il curioso è che nel paese il tempio principale fu invece sempre dedicato alla Madonna delle Grazie, alla quale si aggiunse San Donato soltanto quando, nella prima metà del secolo scorso, il tempio in questione, ormai cadente e ad ogni modo inadeguato per la cresciuta popolazione venne ricostruito tra un devoto entusiasmo popolare in un nuovo edificio arcipretale che ricevette poi, a grado a grado, gli abbellimenti che lo resero particolarmente pregevole e venerato.

Era esso, come naturale, il fulcro del paese, per antica tradizione religiosissimo, e, intorno, l’abitato schierava la guardia delle sue case, nella cui massa, dalle apparenze modeste, spiccavano parecchi edifici ragguardevoli e sobriamente eleganti, quali il Municipio, le sedi di alcune banche e aziende diverse e varie palazzine e ville private, così che San Donà aveva aspetto e sostanza di vera cittadina, e il suo territorio – sanato dalle ardite bonifiche che avevano regolato il corso delle acque – si dispiegava ubertoso florido, presso il margine del lido adriatico.

L’arrivo della guerra
Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

La guerra turbò la questa quieta armonia delle opere, ma trovò il popolo di San Donà pronto a qualunque sacrificio, come ben si vide allorché il nembo tragico avvolse il paese. Dopo Caporetto, San Donà di Piave divenne uno dei punti strategici contro cui si sferrò l’azione dei belligeranti. Quasi tutti i giorni, nei suoi bollettini ufficiali, il Comando Supremo ebbe a registrare il nome di San Donà o delle sue frazioni; le vittime immolate sul suo suolo furono innumerevoli; le sue campagne furono allagate di sangue. Le prime avvisaglie della lotta vi si sparsero il 29 ottobre del 1917, allorché il paese fu invaso dal nostro esercito in ritirata. Seguirono gli esodi degli abitanti, le depredazioni e i saccheggi, le vessazioni e le brutalità dell’orta nemica, i bombardamenti senza tregua, i combattimenti sulle rive del Piave, ove i nostri si erano arrestati ed aggrappati, e quindi la rovina dello sciagurato borgo, flagellato da ogni parte. I profughi dovettero sparpagliarsi in tutte le regioni d’Italia, persino in Sicilia, mentre l’autorità municipale, capeggiata dal sindaco, Giuseppe Bortolotto, trovava asilo in Firenze, ove organizzava l’opera di tutela e di esistenza morale riannodando con pazienti ricerche le disperse fila della comunità. Il paese rimane, fin dove poté, l’arciprete monsignor Saretta, che si adoperò a favore degli infelici parrocchiani con uno zelo così caldo e coraggioso che gli austriaci, sospettosi e urtati, finirono per trasferirlo a Portogruaro.

Nel settore di San Donà-Caposile la lotta non ebbe mai respiro. In quegli acquitrini si mantennero tenacemente abbarbicati di avversari, e con pari tenacia i nostri sforzarono di snidarli, sfidando i covi di mitragliatrici di cui era cosparso tutto il margine del Piave, mentre altre stavano appiattite tra i ruderi delle case, di guisa che tutto il territorio era un feroce agguato di distruzione e di morte e dovunque s’accumulavano le rovine e giacevano al sole e alle intemperie le salme insepolte.

Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

Specialmente furiosa si scatenò la battaglia, nell’estate del 1918, all’allorchè da una parte e dall’altra si giocò la carta decisiva, e il nemico ributtato dal fiume, comprese che la sua ora disperata, la sua perdita definitiva,  stavano per arrivare. Invano s’irrigidì, invano si esasperò nella spietata violenza, invano eresse le forche sui pioppi e sugli ippocastani, per impiccarvi legionari cecoslovacchi ch’erano passati a combattere con noi; il monito crudele non valse a rianimare l’esercito prostrato e tantomeno propiziargli il sognato trionfo. L’autunno successivo, a un anno dall’invasione, quella sciagura era vendicata, il paese redento, il nemico ricacciato e rotto, la guerra vinta dal valore delle nostre armi, dall’ardimento dei nostri magnifici soldati; e dall’avversario null’altro rimase, tristo conforto, se non lo sfogo codardo delle ultime prepotenze sugli inermi, delle ultime brutalità sui vecchi, sulle donne, sui fanciulli, degli ultimi vandalismi sulle cose, delle ultime razzie nella desolata contrada ch’era costretto ad abbandonare.

I sandonatesi avevano però già ricevuto il premio del loro sacrificio nella liberazione, alla quale tanti dei loro avevano valorosamente contribuito, così che il nucleo di questi combattenti seppe meritarsi otto medaglie di bronzo, dieci d’argento e una medaglia d’oro, quella che frigiò il petto di Giannino Ancillotto, l’aquila eroica, il prodigioso bombardatore aereo che non esitò a distruggere anche la propria villa, pur di colpire il nemico che la profanava, nella sua diletta San Donà.

Dopo la guerra, solo distruzione

Il primo cittadino che entrò in quella terra redenta fu l’antico sindaco, divenuto Commissario Prefettizio, il commendatore Giuseppe Bortolotto, che vi giunse il primo novembre 1918 con un autocarro militare, attraversò il Piave con le sue truppe, visse quel giorno e il successivo in mezzo ai soldati e passò la notte tra i carriaggi dell’esercito, nutrendosi del rancio comune. Subito egli si accinse all’opera della ricostruzione, ma la situazione, nel paese deserto, era spaventosa.

Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

Il centro dell’abitato era completamente distrutto. Il nucleo principale, nella zona immediatamente vicina al Piave e nei dintorni della chiesa, era ridotto a un mucchio di rovine. Del pari gli stabili, sulle principali vie d’accesso al paese e al fiume, erano quasi tutti a terra e soltanto qualche casa colonica era rimasta in piedi. In pochi giorni la popolazione giunse a cinquemila anime e via via s’accrebbe col ritorno dei profughi privi di tutto, in un luogo in cui c’era più nulla e ogni cosa era da improvvisare, da rifare di sana pianta.

Un compito immane fu affrontato, tra comprensibili malumori, in un disordine caotico, aggravato dagli intralci burocratici e dall’incomprensione delle autorità superiori e dello stesso Governo di quel tempo, mentre le tristi condizioni divenivano minacciose per il dilagare delle acque dalle rovinate bonifiche e per il diffondersi delle malattie. La stessa Croce Rossa americana, sollecitata a porgere il suo aiuto giudicava che San Donà fosse ormai un paese morto e che non mettesse conto di spender tempo e fatiche per farlo risorgere.

Eppure, per l’ammirevole tenacia del Commissario, che seppe moltiplicarsi riverberando il proprio entusiasmo in chi lo attorniava, piano piano San Donà risorse. Nel duro lavoro molto giovò anche l’ausilio del clero, con la alla testa il bravo arciprete, monsignor Saretta, che indefessamente ed efficacemente si prodigò per lenire tante miserie e far tornare negli spiriti la calma e la fede, a cominciare dalla fede religiosa, per la quale egli provvide subito a riattivare le pratiche del culto, officiando tra le macerie del tempio, dapprima, poi in una baracca provvisoria, mentre si dava mano alla demolizione del Duomo pericolante per ricostruirlo.

La ricostruzione del Duomo e dei luoghi di culto

Si ricostruirono infatti il Duomo e il suo campanile, su progetto del professor Giuseppe Torres di Venezia. La chiesa, ad unica navata, con cinque porte, è fronteggiata da una maestoso pronao, adorno di sei colonne di pietra artificiale e di un timpano a finte bugne. Il campanile, che le sorge a fianco, è alto 76 metri, quadrangolare, massiccio, sormontato da una cuspide sulla quale si libra un angelo rivestito di rame. La spesa s’aggirò sui tre milioni e l’edificio sacro fu aperto al culto nel marzo del 1923.

Si ricostruirono pure le chiese di Passarella e di Chiesanuova e le case canoniche di quelle frazioni del Comune, oltre quella di San Donà; come pure vennero ricostruite altre chiese ed oratori ed edifici di carattere religioso, per cui la cattolicissima plaga potè a poco a poco vedere rimosso ha rimesso a sesto e notevolmente migliorato il proprio patrimonio di pratica cristiana.

Il nuovo ponte

E a poco a poco anche l’opera della ricostruzione civile ebbe il suo coraggioso e mirabile sviluppo. Una di quelle che trovarono per prime le solerti cure dell’amministrazione provinciale e comunale fu l’opera del ponte sul Piave, per ristabilire le normali comunicazioni tra San Donà e la frazione di Musile, essendo stato distrutto dalla guerra il robusto ponte di legno che da trent’anni allacciava le due località (ndr in realtà il ponte di legno venne distrutto molti anni prima da una piena del Piave, quello distrutto nel 1917 era in muratura e ferro). Il nuovo ponte fu costruito in poco più di un anno, tra il maggio del 1921 e il luglio del 1922. Composto di quattro travate di di ferro e lungo 210 metri, esso venne inaugurato dal Duca d’Aosta e, in omaggio all’augusto Condottiero ebbe il nome di Emanuele Filiberto di Savoia. Anche sulla linea ferroviaria, transitante sul Piave, si dovettero ristabilire le comunicazioni, e ciò fu fatto dapprima con un ponte in ferro ad unico binario, che venne poi sistemato a binario doppio.

L’aquedotto

Il paese ritrovava così i suoi sbocchi, mentre si lavorava riorganizzare il nucleo urbano in base a un piano regolatore che, tra l’altro, contemplava l’apertura di cinque grandi strade e la formazione d’una piazza davanti alla chiesa, là dove in passato si aggruppavano vecchie e modeste abitazioni. Si diede pur mano a ripristinare l’acquedotto, unico mezzo per il rifornimento dell’acqua potabile, e quindi opera vitalissima per il Comune. L’impianto preesistente, posto presso il fiume da cui prendeva l’acqua per passarla alle vasche di decantazione e di filtraggio e alla cabina di organizzazione, era a un mucchio di rovine; per ciò si dovete ricostruirlo di sana pianta e si dispose poi l’ampliamento della vecchia rete portando a sette chilometri la lunghezza complessiva delle condutture stradali.

La sistemazione è tuttavia provvisoria, essendo già in corso di studio l’opera grandiosa dell’acquedotto del Basso Piave, che dovrà risolvere in modo assai più degno il problema dell’alimentazione idrica per tutta quella plaga, costretta ancora ad accontentarsi di un’acqua non sempre esente da salsedine e da altri sgradevoli sapori.

Il Municipio

Anche il Municipio di San Donà era divenuto alla fine della guerra un incomposto ammasso di macerie, per cui si imponeva la completa ricostruzione. E la nuova opera riuscì tale da non far rimpiangere l’antica. Si eresse, infatti, un edificio dignitosissimo, ricco di fasto plastico in cemento, di sfarzo decorativo di colonne abbinate, balaustre e trabeazioni, arioso ed elegante per la presenza di un portico che ne snellisce la massa architettonica e in pari tempo l’adorna efficacemente.

La superba sede municipale vanta un ampio scalone a tenaglia, con gli scalini di marmo e la ringhiera in ferro battuto, ritorta a volute capricciose, illuminata da una trifora che forma un grandioso elemento ornamentale della facciata posteriore. Pregevolissima è la decorazione in affreschi e stucchi nel salone del Consiglio, ove attira lo sguardo una gran carta geografica – sistemata in ricca cornice – riproducente il campo di battaglia del Basso Piave dal 1917 al 1918: ricordo e monito ai presenti e ai venturi. Mobili e lampadari artistici compongono un adeguato corredo per questa e le altre sale del palazzo, nonché per gli edifici, i quali appaiono tutti quanto mai confortevoli nella loro sobria eleganza.

Si provvide pure a riparare, riattare e ricostruire gli edifici scolastici del Comune che, a vero dire, non avevano neanche prima della guerra alcuna impronta artistica, così che nel campo intellettuale di San Donà è tuttora desto il desiderio di un edificio più contemporaneo alle aspirazioni dell’ambiente.

L’Ospedale

Per la sua stessa ubicazione poco discosta dal centro del Paese, l’ospedale Umberto I di San Donà, ch’era stato eretto nel 1913, fu esposto al tiro diretto delle artiglierie, di guisa che il vasto fabbricato principale, come pur quello del locale d’isolamento, fu interamente distrutto e si dovette, all’immediato dopoguerra, provvedere alla sua radicale ricostruzione. I fabbricati vennero pertanto ricostruiti secondo tutte le esigenze moderne, riforniti di ottimo materiale medico e chirurgico e dotati d’una cappella sacra.

Il Cimitero
Foto originale italiana, non presente nell’articolo

Il cimitero comunale di San Donà di Piave fu pur devastato e sconvolto dalla guerra: lo si riparò nel miglior modo possibile, ma, risultando esso oramai insufficiente, se ne preparò poi un altro, più grande, a qualche distanza dall’abitato. Anche un nuovo macello è venuto a sostituire quello insufficiente dell’anteguerra che fu tra i pochi edifici della città e risparmiati dal furore delle artiglierie: il complesso dei nuovi fabbricati, semplice decoroso e con un perfetto impianto di macchinari, assicura la praticità e rapidità dell’importante servizio.

L’Orfanotrofio

Un’altra opera, di carattere sociale, s’imponeva a lenire lo strazio che la guerra aveva portato nella popolazione distruggendo tante famiglie. V’erano più di cinquecento orfani di tutti due i genitori e trecento  orfani di padre o di madre, e queste cifre, già impressionanti, risultarono poi inferiori alla realtà. Occorreva dunque un Orfanotrofio e si provvide anche a questo. Nel 1921 esso iniziò il suo funzionamento; ampliato poi con le officine, esso rappresenta oggi il primo nobilissimo monumento eretto alla memoria dei prodi che sacrificarono la vita per il loro paese, mentre è in via di attuazione un degno monumento ai Caduti in guerra che riceverà la sua espressione patriottica ed artistica nell’edificio della Casa di Ricovero, ove troveranno posto, sulla severa facciata, le lapidi coi nomi degli Eroi.

Poiché per l’Orfanotrofio si dovette utilizzare un fabbricato incompiuto ch’era destinato ad Asilo, si provvide poi a costruire un Asilo nuovo nel centro del paese, Esso fu costruito nel 1921 e più tardi lo si ingrandì aggiungendovi due ali per le suore, per le scuole, i laboratori e le verande. Fornito di ampi locali, di un cortile per la ricreazione, di un teatrino, in una di una cappellina, esso formicola ora di bambini e di bambine. Nel medesimo ambiente sono sistemati un istituto per l’educazione religiosa delle fanciulle, la scuola di lavoro per le orfanelle, con laboratori di maglieria, di calze, di camicie e di ricamo; la scuola di lavoro per le fanciulle esterne, la cucina economica per i poveri, l’unione missionaria parrocchiale con il suo laboratorio speciale, le scuole elementari private, la biblioteca circolante, il ricreatorio festivo per le ragazze, la scuola di piano e varie altre istituzioni cattoliche femminili, mentre per quelle maschili è sorto un apposito fabbricato al posto della vecchia chiesa provvisoria. E intanto si prepara, su linee grandiose, la l’attuazione in San Donà della benemerita Opera Don Bosco che troverà sede in una serie di edifici ora in corso di costruzione.

Il Consorzio delle Bonifiche

Sulla piazza principale di San Donà – la Piazza Indipendenza – è sorto il Palazzo del Consorzio delle Bonifiche del Piave. Con tale nome i Consorzi Idraulici Uniti, che si propongono la bonifica di 400 chilometri quadrati di terreno, hanno fuse le direttive e le forze costituendo un ente dal quale la complessa opera redentrice dello storico agro di Jesolo ed Eraclea verrà studiata e disciplinata da tecnici di profonda competenza idraulica e da provetti agricoltori.

E’ un’impresa gigantesca, che prosegue nel tempo e nello spazio quella degli avi per riscattare la terra regalando il corso delle acque, e che, iniziata, nella sua nuova impresa, al principio del secolo, aveva già compiuto grandi passi e raggiunto risultati superbi, quando la guerra non solo l’arrestò, ma tutto distrusse, così che ci dovette poi ricostruire, rifare e riparare, per ricomporre il patrimonio dei vetisette stabilimenti idrovori, dei canali e delle strade, delle conche e dei pozzi, dei motori e delle pompe: fatica imponente che onora il paese e la stirpe.

Il palazzo, in cui ha stanza dello Stato maggiore di quella che può considerarsi come una incruenta ma ardua guerra, per redimere le basse valli e le paludi, si presenta nell’autorità di linee d’un tardo Rinascimento italiano, con poche sovrastrutture decorative nel corpo centrale, in tre piani, con sovrastante frontone triangolare, fra larghe pilastrate, e con due ali laterali a semplice finestre architravate. Per tutta la lunghezza dell’edificio si rincorrono quindici archi, in modo da seguire la teoria armonica dei porticati che adornano gli altri edifici sulla piazza, il vasto rettangolo della quale sarà completato con la costruzione del Palazzo del Littorio.

Le banche e gli stabilimenti industriali

Un altro porticato si profila di là per strada maggiore per che pur delimita la piazza medesima:  quello che fornisce elegante base al nuovo palazzo della Banca Mutua Popolare Cooperativa, l’istituto che in mezzo secolo di laboriosa attività, ha tanto contribuito alla prosperità del paese. Ad esso si sono aggiunte nel dopoguerra, in decorose sedi, le succursali della Cassa di Risparmio di Venezia, del Credito Veneto, di Padova, e della Banca Cattolica di Treviso. Si sono pur riattivati gli stabilimenti industriali, a cominciare da quello della Juta, che esisteva da un decennio, dava lavoro a 650 persone ed era guarnito di un poderoso macchinario di cui durante l’invasione una parte andò rovinata ed il resto depredato, per guisa che non fu facile compito la restaurazione. Analoga sorte toccò la Distilleria, i fabbricati e gli impianti della quale andarono distrutti: ricostruita e riattivata, questa industria ha poi saputo espandersi con l’aggiunta di un liquorificio e di un oleificio. Anche la Segheria fu distrutta dalle fondamenta, ma non tardò a rinascere, come tante altre attività dell’operosa cittadina che ora s’accinge ad accogliere nuove imprese industriali, come quella d’uno zuccherificio.

Il Teatro Verdi

Con la reintegrazione delle fonti e degli strumenti del quotidiano lavoro, San Donà si è pur rifornita dei rifugi per l’onesto svago. I sandonatesi furono sempre appassionati per il teatro e, possedendo un piccolo ma grazioso Teatro Sociale, lo resero capace di sostenere la rappresentazione di commedie e di operette, e anche d’opere con la partecipazione di insigni artisti. Distrutto dalla guerra in modo totale, si è preferito lasciarlo nella polvere delle care memorie per dargli un successore del tutto nuovo, che ha preso il nome augurale di Giuseppe Verdi. L’edificio, di stile rinascimento, contiene una sala capace di ospitare mille spettatori. Esso iniziò nel 1921 la sua missione consolatrice, nella quale pur si adoperò, manco a dirlo, il cinematografo, croce e delizia del nostro vertiginoso tempo.

San Donà lavora e ha quindi il pieno diritto di distrarsi un poco, di divertirsi, di ridere, finalmente, dopo aver pianto tanto. Essa deve e vuole obliare nella serenità attuale le sciagure di cui fu vittima e delle quali ogni traccia esteriore è ormai scomparsa nel suo volto, rifatto più fresco e più bello. Chi passa oggi per le lunghe larghe strade luminose, fiancheggiate da gentili case nuove, da palazzi pomposi, da leggiadre ville, da negozi e magazzini colmi d’ogni ben di Dio, più non pensa all’ieri che sembra ormai lontano lontano, ma, nella gaiezza del luogo e del ritmo gagliardo delle sue opere, indovina le più liete promesse del domani.

Guido Guarinoni, Sindaco di San Donà di Piave

Ing. Guido Guarinoni (fotografia Giacomelli, Venezia)

La guerra che tutto travolse ridusse San Donà in un cumulo di macerie, non vi era edificio che si fosse salvato. Se non erano state le bombe a combinar sconquassi, ci pensò l’uomo nel depredare quanto all’abbisogna. Gli abitanti che non avevano potuto o non avevano voluto abbandonare il territorio per lo più avevano trovato riparo nelle campagne sfidando i soprusi degli occupanti e la fame di chi ogni giorno si trovava a dover fare i conti con gli eserciti in lotta. Chi non aveva resistito si era allontanato verso i paesi del portogruarese sperando in un futuro ritorno. Dopo un anno di guerra rimase nell’aria solo l’odore acre della polvere di quegli edifici diroccati, di quel centro cittadino disseminato di tante voragini causate dalle bombe che copiose erano cadute in cerca di un nemico e che ora doveva trovare nei superstiti la forza per far risorgere il paese.

In una veduta aerea del 1918 il centro cittadino distrutto, in alto il Duomo, sulla sinistra il Palazzo Comunale (fotografia originale)
Le difficoltà del lento ritorno
La San Donà del dopoguerra tra le macerie si cucinava per sfamare la popolazione. Probabile che il borghese possa essere Guido Guarinoni (fotografia originale)

In ogni dove a San Donà sorsero baracche per offrire riparo a quanti erano rimasti e a quelli che un po’ alla volta avevano deciso di tornare. Quel che gli occhi trovavano dava un peso enorme al cuore, mai avrebbero pensato di ritrovarsi in una simile situazione di disperazione. Come non bastasse la guerra era finita da poco quando nei primi giorni di gennaio del 1919 la Piave tornò a far pesare la propria incombente presenza. Gli argini ancora danneggiati dai bombardamenti e dai trinceramenti degli eserciti in lotta non erano stati ancora riparati. Facile fu per le ribelli acque del grande fiume trovare un varco ed allagare le campagne riducendole in acquitrini paludosi. Se durante la guerra questo aveva fatto gioco per bloccare l’offensiva austroungarica, ora metteva in pericolo la ricostruzione. In ambito governativo si arrivò persino ad ordinare l’evacuazione, provvedimento poi ritirato per la ferma protesta del sindaco Giuseppe Bortolotto e della popolazione stessa. Proprio il Sindaco era tornato da poco da quella Firenze che aveva offerto rifugio alla macchina amministrativa sandonatese e che ora a fatica cercava di coordinare il ritorno della popolazione e di dare un ordine alla ricostruzione. Lo stesso Sindaco più volte era entrato in contrasto con le autorità governative tanto da dare le dimissioni, ma dopo un periodo di commissariamento venne richiamato per poi rimanere in carica sino alle elezioni dell’autunno del 1920.

Piazza Indipendenza nell’immediato dopo guerra in una cartolina dell’epoca (fotografia Italvando Battistella)
L’Italia che ritorna al voto
Una giovane (Teresina Guarinoni?) nel giardino Bressanin anno 1919 (foto originale)

Le elezioni sia a livello nazionale che a livello locale durante la guerra erano rimaste congelate. La situazione generale era in rapido mutamento e le cicatrici dei lunghi anni di conflitto ebbero presto un loro peso. A questo si aggiunsero gli effetti della rivoluzione russa, con le idee del socialismo che stavano rapidamente varcando i confini. L’Italia ne venne attraversata e questo ebbe subito un riverbero nelle elezioni amministrative del 1920 tanto che in molte zone questo cementò un’alleanza tra il nascente partito fascista e molte componenti centriste, dando vita al Blocco Nazionale in contrapposizione proprio ai socialisti. In talune zone a frapporsi tra i due schieramenti si inserì il Partito Popolare, e proprio a San Donà di Piave a sorpresa le elezioni amministrative videro prevalere proprio quest’ultimo.

Racconta la Gazzetta di Venezia del 6 novembre 1920:  « Ieri, 5., fu convocato per la prima volta il nuovo consiglio comunale. Il Commissario prefettizio cav. Bortolotto riferì a lungo sull’amministrazione straordinaria del passato difficile periodo e fece gli auguri che la nuova Amministrazione possa bene affrontare i gravi problemi che s’impongono per la resurrezione del disgraziato paese.

Passato alle nomine riuscì eletto Sindaco l’ingegnere Guarinoni ed assessori i signori Bastianetto, Battistella, Roma, Zorzetto. Il pubblico numeroso che assisteva alla seduta accolse con segni di disapprovazione l’esito della votazione. I nomi dei nuovi amministratori scelti fra la maggioranza eletta dal Partito popolare danno poco affidamento poiché il momento critico che attraversa il nostro Comune richiedeva persone colte e pratiche della vita amministrativa. ».  Il malcelato critico commento del giornale era frutto della spinta che lo stesso aveva dato affinchè si formasse un blocco unico con il partito fascista mentre San Donà aveva deciso altrimenti.

Guido Guarinoni, Sindaco di San Donà
Ritratto di famiglia presso il giardino Bressanin nel 1919, anche in questo caso il signore più anziano potrebbe essere Guido Guarinoni (foto originale)

Guido Guarinoni, il protagonista della nostra storia, divenne Sindaco di San Donà nel novembre 1920. Durante la guerra aveva trovato riparo a Venezia, città nella quale ancora risiedeva come si desume dall’atto di matrimonio della figlia che lì si sposò nel 1922 con l’industriale originario di Firenze Gino Baldi. Nonostante i timori alla sua elezione l’opera dell’amministrazione Guarinoni fu fondamentale nella ricostruzione di San Donà. Lo stesso Monsignor Chimenton dà merito all’amministrazione Guarinoni per quanto fatto negli anni del suo mandato. Essendo il libro di Monsignor Chimenton del 1928, questo non era affatto scontato anche se rimarcava come l’amministrazione di quel periodo agì in modo profittevole grazie alla collaborazione dell’opposizione. Nello specifico si riferiva a quel partito fascista che poi gli succedette, ruolo in seguito divenuto non più contendibile dopo la creazione del Podestà con cariche non più elettive. Il fatto che il Sindaco risiedesse a Venezia non costituì un impedimento dato che sin da subito gli si affiancò Marco Bastianetto quale consigliere anziano, con cui Guarinoni era stato consigliere comunale prima della guerra e, cosa non secondaria, era tra i fondatori del Partito Popolare sandonatese assieme ad Alberto Battistella, Giuseppe Boem, Pietro Perin, Enrico Picchetti e Giuseppe Zucotto.

L’amministrazione Guarinoni

Ad affiancare il Sindaco Guido Guarinoni ci furono, oltre a Marco Bastianetto, i Sig.ri Umberto Roma, Giuseppe Zorzetto, Giuseppe Boem e Alberto Battistella. L’amministrazione Guarinoni nei tre anni che rimase in carica diede attuazione al piano regolatore approvato nei mesi precedenti alle elezioni, iniziò e completò la ricostruzione del Municipio; su progetto dell’architetto Giuseppe Torres fu ultimato il campanile nel 1922 con le campane che ritornarono a risuonare il venerdì Santo dell’anno seguente e fu quasi completato il duomo poi consacrato nel 1925; si allacciò all’acquedotto la gran parte del centro cittadino; e come ricorda Monsignor Chimenton:  « …si eseguì la pavimentazione interna del paese ; si iniziò e quasi si ultimò il nuovo cimitero ; si deliberò l’alberazione di alcune strade ; si provvide per ottenere la concessione del terreno , richiesto per la sistemazione delle baracche; si proseguì e si ripristinò la viabilità pubblica ; si sistemarono gli edifici scolastici, e si iniziarono le pratiche per averne di nuovi ; si provvide in parte all’illuminazione pubblica ; si approvò l’istruzione religiosa nelle scuole. ».

Il Nuovo Ospedale
L’Inaugurazione dell’Ospedale “Umberto I” (foto Battistella)

Furono tanti gli importanti eventi e le inaugurazioni che si susseguirono negli anni dell’amministrazione Guarinoni. L’11 dicembre 1921 alla presenza del Ministro Raineri e del Vescovo di Treviso Monsignor Andrea Giacinto Longhin venne inaugurato il nuovo ospedale “Umberto I”, ricostruito in viale Regina Margherita dopo le grandi distruzioni della guerra. Grande fu l’impegno del Presidente comm. Antonio Trentin e del vicepresidente cav. dott. Vincenzo Janna per riuscire a dare al direttore dell’ospedale Alessandro Girardi e al suo assistente dott. Carlo Cristani una struttura adeguata alle esigenze di un comprensorio sandonatese destinato ad un grande sviluppo. Per reperire i fondi utili alla costruzione dell’ospedale era stata indetta anche una lotteria nazionale con l’estrazione del primo premio nel marzo 1920.

Cerimonia di inaugurazione dell’ospedale, da destra: comm. Chiggiato, comm. ing, Umberto Fantucci, comm. Antonio Trentin, S.E. il ministro Raineri, il sindaco ing. Guido Guarinoni, mons. Luigi Saretta, S.E. Monsignor Andrea Giacinto Longhin, prefetto di Venezia comm. D’Adamo (foto Giacomelli, Venezia)
Il Congresso delle Bonifiche

Dal 23 al 25 marzo 1922 si tenne a San Donà di Piave il Congresso Nazionale delle Bonifiche che diede grande lustro alla città richiamando molti esponenti della politica nazionale a cominciare da quelli governativi, per non tralasciare don Luigi Sturzo e il parlamentare sandonatese Silvio Trentin, oltre a tanti tecnici che stavano portando avanti una grande opera di bonifica in tante zone d’Italia. Nei nostri territori attraversati dalla guerra molte di quelle opere vennero ancor più implementate per riparare alle molte distruzioni causate dagli eserciti in lotta. Fu grande il risalto dato all’evento nella stampa nazionale e locale, in particolare La Gazzetta di Venezia dedicò ampie paginate ai temi in discussione e ai tanti interventi dei partecipanti alla tre giorni congressuale.

Questo l’intervento di saluto del Sindaco Guido Guarinoni come riportato da La Gazzetta di Venezia di quei giorni: « Egli ricorda che quando, sul novembre 1918, orgogliosi della grande vittoria, i cittadini di San Donà tornarono dall’esilio, e videro lo squallore di queste terre di messi opime e d’invidiata prosperità, pareva un sogno la speranza che in breve tempo sarebbero risorte, per incamminarsi a più promettente avvenire. Pure, per la fermezza di propositi e l’intensità del lavoro della popolazione, la vita riprende il suo corso normale.

Il nome di San Donà, orgogliosa di essere stata scelta a sede di questo Congresso è grato all’Istituto Federale di Credito per il risorgimento delle Venezie ed alla Federazione dei Consorzi, e con essi agli illustri Presidenti comm. Ravà e comm. Mazzotto, l’oratore dà il saluto, in nome del Comune, al ministro Bertini, ai sottosegretari Beneduce, Martini e Merlin, alle Autorità e ai Congressisti.

Augura che il Congresso sia buon augurio per l’avvenire di S. Donà che un secolo fa non era che un villaggio di poche case, specie in una zona palustre di oltre 40 mila ettari, e che oggi, mercè la fiorente attività dei Consorzi di bonifica è un importantissimo centro di vasti territori, la cui prosperità economica va sempre crescendo, e si avvia a tempi radiosi di prosperità, di benessere e di progresso. (applausi vivissimi) »

L’inaugurazione del Nuovo Ponte
L’inaugurazione del Ponte, il palco delle autorità. Sulla sinistra Monsignor Longhin con Mons, Saretta; al centro il patriarca di Venezia il Cardinale La Fontaine, alle sue spalle il Duca d’Aosta e alla sua sinistra il sottosegretario Sardi; sulla destra Corinna Ancillotto con a fianco il sindaco Guido Guarinoni (Illustrazione Italiana, nov 1922)

Il 12 novembre 1922 ebbe luogo anche l’inaugurazione del nuovo ponte sul Piave. Distrutto dall’esercito italiano nel novembre 1917 per fermare l’avanzata austroungarica, subito dopo la guerra ne venne costruito uno provvisorio in legno. Poi fu la volta di quello definitivo con caratteristiche molto simili a quello che tuttora percorriamo e che successivamente fu parzialmente ricostruito anche dopo la seconda guerra mondiale. In quel novembre 1922 il ponte venne inaugurato al cospetto delle massime autorità con la presenza di Sua Altezza il Duca Emanuele Filiberto d’Aosta, del Patriarca di Venezia il Cardinale Pietro La Fontaine, del Vescovo di Treviso Monsignor Andrea Giacinto Longhin, del sottosegretario ai Lavori Pubblici Alessandro Sardi e di tutte le massime autorità cittadine a cominciare dal Sindaco Guido Guarinoni. Grande fu la festa con una San Donà gremitissima che acclamò gli oratori che si succedettero sul palco. Dopo la benedizione del Patriarca di Venezia vi fu la firma ufficiale del Duca d’Aosta sulla pergamena che sancì il battesimo del ponte, quindi la classica rottura della bottiglia da parte della contessa Corinna Ancillotto, madre dell’aviatore sandonatese Giannino Ancillotto, medaglia d’oro al valor militare. Vi è poi una curiosità attinente alla famiglia Guarinoni ed inerente al ponte: tra gli ingegneri che seguirono la costruzione del ponte ci fu anche Ippolito Radaelli, cognato del Sindaco Guido Guarinoni. Sposato inizialmente con la sorella Alda Maria, rimase vedovo ed in seconde nozze sposò Crico Clorinda a sua volta imparentata con Guido Guarinoni avendone sposato il fratello Amedeo, anche lei rimasta prematuramente vedova.

L’inaugurazione del Municipio
Il Presidente del Consiglio Benito Mussolini 1l 3 giugno 1923 sul terrazzo del Municipio di San Donà di Piave (fotografia Ferruzzi)

Ma un evento ancor più solenne avvenne il 3 giugno 1923 quando venne inaugurato il Municipio di San Donà di Piave progettato dall’architetto Camillo Pugliesi Allegra, lo stesso che poi progetterà il Palazzo dei Consorzi della Bonifica che completerà i grandi palazzi che contornano ancor oggi Piazza Indipendenza. A tenere a battesimo il Palazzo istituzionale della città fu addirittura il presidente del consiglio Benito Mussolini. In carica dall’ottobre 1922 e impegnato in un grande giro istituzionale in Veneto Mussolini fece tappa anche a San Donà di Piave. Imponente la cornice di folla che accolse il presidente del Consiglio per un evento che ancor oggi è ricordato con una targa all’interno del Municipio nella quale è citata una frase detta da Mussolini in quella occasione: “ Qui una volta giunse il nemico, gli italiani giurano che non succederà mai più “. Un’enfasi che non venne poi troppo confermata dai fatti , ma eravamo solo all’alba del ventennio che segnerà l’Italia negli anni successivi.

La targa posta all’interno del Municipio con la citazione di Mussolini in una cartolina dell’epoca (foto A. Batacchi)
Le elezioni amministrative dell’agosto 1923

Dopo tre anni di amministrazione Guarinoni a metà agosto del 1923 si tennero le ultime elezioni amministrative prima che il regime fascista istituisse la figura del Podestà di nomina governativa. Differentemente dalle precedenti questa volta il partito fascista prevalse. Sabato 18 agosto 1923 si insediò il nuovo consiglio che nominò Costante Bortolotto Sindaco di San Donà di Piave. Tra gli eletti figurava anche l’ex Sindaco Guido Guarinoni.

Questo l’articolo della Gazzetta di Venezia che racconta quella giornata:  « Il Commissario prefettizio ha oggi insediato il nuovo Consiglio comunale. Dopo la lettura della relazione che fu applauditissima, venne nominato sindaco il sig. cav. Dott. Costante Bortolotto. Furono nominati assessori effettivi i sigg. Janna cav. Dott. Vincenzo, De Faveri dott. Cav. Giuseppe, Bastianetto Marco e Guarinoni ing. Guido. Assessori supplenti i sigg. Velluti ing. Francesco e Davanzo Giuseppe. Furono spediti i seguenti telegrammi:  “ S. E. Benito Mussolini, Roma – Nuova amministrazione San Donà di Piave risorta dalla guerra prima volta riunita oggi sede municipale da Vostra Eccellenza inaugurata manda reverente saluto e ossequio Capo Governo auspicando che programma restaurazione nazionale abbia completo sicuro svolgimento. “.  ” Generale Cittadini, Primo Aiutante Campo Sua Maestà Re d’Italia, Roma. Nuova amministrazione comunale San Donà di Piave riunitasi prima volta rivolge ossequiente pensiero a Sua Maestà il Re di Italia milite in guerra probo cittadino in pace primo fra tutti nelle nobili proficue e sane iniziative nazionali. “.  Oggi (19) continuazione della Pesca, musica in Piazza, rappresentazione straordinaria del Circo Caveagna e un attraente spettacolo pirotecnico. Si prevede gran numero di gente. La tradizionale fiera di S. Rocco è stata superiore ad ogni aspettativa ». 

Costante Bortolotto, Sindaco nel 1923 e Podestà nel 1927
Comm. Costante Bortolotto, primo Podestà di San Donà di Piave (Fotografia Batacchi)

L’amministrazione Bortolotto si mosse in continuità con quella precedente in un quadro che vedeva oramai il partito fascista sempre più dominante nella politica cittadina. Mentre a livello nazionale la tensione crebbe con la legge Acerbo che condizionò le elezioni politiche dell’aprile 1924 cui seguì il delitto Matteotti, anticamera all’instaurazione della dittatura.  Costante Bortolotto rimase in carica due anni, poi il 9 marzo 1925 con la sua nomina a fiduciario del P.N.F di tutto il Basso Piave passò il testimone al dott. Giuseppe De Faveri in continuazione con lo stesso Consiglio Comunale in precedenza eletto. Il Consiglio rimase in carica ancora per poco più di un anno per poi venire sciolto il 18 luglio 1926. Dopo un periodo di commissariamento prefettizio del cav. rag. Arturo Sears, il 9 aprile 1927 venne nominato il primo Podestà di San Donà di Piave che vide il ritorno di Costante Bortolotto alla prima carica cittadina. Quanto a Guido Guarinoni con lo scioglimento del Consiglio finì la sua avventura politica sandonatese, ma è indubbio che ancor oggi a cento anni di distanza molto di quanto ricostruito durante la sua amministrazione dopo quel terribile conflitto mondiale è ancor oggi visibile in città. Guido Guarinoni e la sua famiglia mantennero la residenza a Venezia dove tra l’altro sia lui che la moglie Maria Velluti entrarono a far parte dell’Ordine Equestre del Sacro Sepolcro di Gerusalemme. Entrambi sono stati tumulati nel cimitero di San Donà di Piave presso la tomba di famiglia che accoglie anche gli antenati dei Guarinoni oltre alla figlia Teresina morta nel 1973 e il marito Gino Baldi morto venti anni dopo.

A destra la tomba della famiglia Guarinoni, a sinistra quella della famiglia Bastianetto. Sia Guido Guarinoni che Marco Bastianetto sono stati protagonisti della ricostruzione di San Donà di Piave dopo la grande guerra. Nel secondo dopoguerra lo sarà anche Celeste Bastianetto, figlio di Marco, primo sindaco eletto dopo la Liberazione anch’egli lì tumulato nella tomba di famiglia

Racconto diviso in due parti: 1. Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo – 2. Guido Guarinoni Sindaco di San Donà di Piave

Per approfondimenti: 1. « S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella » di Mons. Costante Chimenton (Tipografia Editrice Trevigiana, Treviso – 1928); 2. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Centro Stampa, Oderzo – 1995); 3. « L’esercito per la rinascita delle Terre Liberate, il ripristino delle arginature dei fiumi del Veneto dalla Piave al Tagliamento » di Comando Supremo del Regio Esercito (Stab. Tipolitografico Militare, Bologna – 1919); 4. « L’ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Dino Casagrande, Franco Ambrosi, Federico Teker, Rita Finotto, Nicoletta Lo Monaco, Silvia Cagnatel, Angelino Battistella (Tipolitografia Adriatica, Musile di Piave – 2000); 5. « San Donà di Piave, piccola guida di una città senza storia? » di Chiara Polita (Tipografia Digipress, San Donà di Piave – 2016); 6. « Il Ponte della Vittoria diventa storia 1922-2022 » di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto (Bienne Grafica, Musile di Piave – 2022); 7. Archivio “La Gazzetta di Venezia” anni 1920-1923, quotidiano di Venezia; 8. Archivio “Gazzettino” anno 1923, quotidiano di Venezia

Louis Robert de Beauchamp, l’aviatore francese a cui San Donà diede una medaglia

Louis Marie Maurice Georges Robert de Beauchamp

Dagli oggetti talvolta scaturisce una storia che nel suo prender forma quasi incanta. La nostra è una storia che dal luccichio dell’argento riemerge lenta e subito si dipana grazie ad una data che lega un episodio della prima guerra mondiale alla nostra San Donà di Piave. Non è il fronte verso cui andavano i nostri soldati il palcoscenico dell’episodio accaduto il 17 novembre 1916, la nostra storia cala dal cielo e ha un accento spiccatamente francese. La sorpresa di chi avrà visto sbucare tra le nuvole l’aereo di questo sconosciuto capitano sarà stata come minimo pari a quella che abbiamo provato noi a veder prima e toccar con mano poi la medaglia dalla quale ci siamo incamminati per ricostruire la storia del nostro protagonista.

Il capitano Louis Robert de Beauchamp
Louis Robert de Beauchamp (da sinistra), con i fratelli Marie Michel e Hubert assieme alla madre Valérie Marie Antoinette Turquet

Il protagonista dell’episodio che andremo a raccontare è un capitano dell’aviazione francese dagli infiniti nomi: Louis Marie Maurice Georges Robert de Beauchamp. Nato a Senlis nell’alta Francia nel 1887, era figlio del visconte Marie Louis Michel Maurice Robert de Beauchamp, capitano del 9° Reggimento Corazzieri, e di Valérie Marie Antoinette Turquet. La madre morì il 4 maggio 1897, fu una delle vittime del furioso incendio che colpì “Le Bazar de la Charité” a Parigi, un’istituzione benefica dove morirono 120 persone, un evento che scosse fortemente tutta la Francia. Il giovane Louis e i suoi due fratelli rimasero così orfani di madre sin dalla tenera età. Louis seguì le orme del padre e entrò presto nell’accademia militare di St. Cyr nella regione della Loira. Quel giovane votato alla cavalleria ben presto trovò nell’aviazione la sua aspirazione più grande, arruolatosi nel 1908 nell’ottobre 1912 virò deciso verso l’aviazione ottenendo il brevetto di pilota civile e l’anno seguente quello di pilota militare.

La guerra è alle porte

Il Nieuport 16, uno degli aerei della squadriglia MS 23 (immagine dal sito dedicato alla squadriglia)

Allo scoppio della guerra il capitano Beauchamp si ritrova subito in prima linea. Il fronte franco-tedesco è stato tra i più cruenti di tutta la guerra mondiale. Le fanterie nelle trincee e il fuoco continuo delle artiglierie divennero sin da subito il cruento spartito di una guerra di posizione nella quale l’aviazione si ritagliò un ruolo importante. Dal cielo gli aerei esploravano il terreno circostante, attaccavano con mitragliatrici e bombe le difese avversarie e soprattutto contrastavano i palloni di osservazione chiamati Drachen che davano sempre informazioni importanti alle artiglierie per colpire le linee avversarie. Il capitano Beauchamp si mise in mostra in una operazione di bombardamento già nel novembre 1914, mentre per l’abbattimento di un Aviatik C avvenuto il 4 febbraio 1915 si meritò una menzione speciale: « Il 4 febbraio 1915 con l’abilità e la precisione delle sue manovre eseguite sotto il fuoco rotolante dell’artiglieria nemica, permise all’ufficiale osservatore da lui guidato, di causare con il suo fuoco (moschettone), la caduta di un biplano nemico dopo una breve lotta ».Il 10 ottobre accadde un episodio che dà il senso del coraggio del capitano Beauchamp. Uscito in missione, combattè contro quattro aerei tedeschi consumando interamente la sua dotazione di munizioni delle mitragliatrici (450 colpi), sulla via del ritorno venne affrontato da un aereo tedesco armato di due mitragliatrici. Il capitano Beauchamp pur senza munizioni virò puntando diritto verso l’aereo tedesco, colto di sorpresa dalla manovra il pilota tedesco ignorando che Beauchamp fosse in realtà disarmato si ritirò.

La nomina a comandate di squadriglia

7 dicembre 1916 Il capitano Beauchamp (il secondo in piedi da destra), alla sua sinistra il tenente Daucourt (tratta rivista “L’Aérophile” 1-15 dicembre 1916)

L’8 dicembre 1915 divenne il comandante della squadriglia MS 23 e prese parte alla lunga battaglia di Verdun dove per mesi i francesi resistettero a caro prezzo all’offensiva tedesca. La battaglia di Verdun è ricordata come uno dei più cruenti eventi bellici della storia, negli opposti fronti furono 700mila i caduti in battaglia in quei lunghi mesi. Tante le operazioni nelle quali il capitano Beauchamp fu protagonista. Nel maggio comandò una missione a cui parteciparono anche dei piloti di altre squadriglie per andare a colpire un gran numero di drachen di osservazione. Gli otto piloti partirono in missione su dei Nieuport 16 portando a termine con successo l’operazione. Vennero abbattuti sei drachen, pur lamentando la perdita di un Nieuport dopo un combattimento aereo. Sono numerose le menzioni che il comandante Beauchamp ottenne per le sue missioni, citazioni che comparivano nei comunicati del comando francese e che valevano quasi un’onorificenza tanto era il prestigio che creavano attorno al protagonista.

L’impresa di Essen, una missione con un volo di oltre 700 chilometri

Il capitano Beauchamp in una rara fotografia a colori con il Sorwith 1B1 prima della missione verso Essen (Getty Image)

Tra i pionieri dei voli di esplorazione con rilevamenti fotografici e dei voli notturni, nel settembre 1916 il capitano Beauchamp compì la prima delle operazioni a lungo raggio che lo caratterizzò. Assieme al tenente Daucourt a bordo di due Sopwith 1B1 armati delle sole bombe, il capitano Beauchamp partì per una missione che aveva come obiettivo le fabbriche di armamenti Krupp ad Essen. Un’operazione azzardata data la distanza e il viaggiar attraverso dei territori nemici ma dall’alto valore simbolico e che vide i due piloti coronare questa loro missione con successo. Saranno dodici le bombe sganciate su Essen dopo un viaggio lunghissimo ad alta quota che per i mezzi dell’epoca era un’assoluta novità. Un’impresa che fu celebrata con grande risalto dalla stampa dell’epoca.

17 novembre 1916, De Beauchamp in missione a Monaco di Baviera

La seconda missione impossibile è relativa proprio alla nostra storia. Questa volta il capitano Beauchamp partì in solitaria verso Monaco di Baviera e grande fu il risalto sui giornali dell’epoca. Proponiamo per l’intero l’articolo a firma Gino Piva pubblicato sia su “La Stampa” di Torino che sul “Resto del Carlino” di Bologna:

Il Sopwith 1B1 “Ariel” del capitano de Beauchamp prima della missione verso Monaco di Baviera

I particolari del formidabile viaggio aereo del capitano De Beauchamp

 « Ieri sera ci giungeva notizia che ai borghi del paese di San Donà di Piave, nell’antico agro altinate, ad una trentina di chilometri a nord di Venezia, era atterrato in buone condizioni un aereoplano Nieuport (ndr Sopwith) che aveva a bordo un unico aviatore, il capitano francese De Beauchamp. Tosto si ebbero i ragguagli intorno all’atterramento ed al volo compiuto dall’arditissimo aviatore, ragguagli sui quali si potrebbe costruire il tessuto di uno dei più romanzeschi episodi dell’aviazione. Il capitano Beauchamp, giovane e brillante ufficiale, che proviene dai cacciatori, si era offerto volontariamente di eseguire un bombardamento di rappresaglia su Monaco di Baviera, quale risposta al bombardamento aereo compiuto sulla città aperta di Amiens dagli aviatori tedeschi ».

Dai campi della Marna

« Lo straordinario volo era stato a lungo preordinato. Il capitano Beauchamp, compiuta la sua missione su Monaco, avrebbe dovuto dirigersi verso le alpi ed entrare in Italia per prendere terra a Venezia. Erano stati avvertiti di questo volo tutti i nostri posti antiaerei ed i campi di aviazione onde lo svelto apparecchio francese non fosse scambiato per un apparecchio nemico. Prese tutte le opportune predisposizioni, in condizioni metereologiche tutt’altro che rassicuranti, il capitano Beauchamp lasciava terra alle sette e mezza di ieri, 17 corrente, da un campo di aviazione dell’alta Marna. La partenza si effettuava nel più perfetto orario. Sembrava che nessuno dubitasse che l’aviatore avrebbe fatto tutto quanto si fosse proposto. I saluti dei camerati furono brevi ed augurali. L’apparecchio nelle brume del primo mattino spiccò il volo dai campi della Marna e si sottrasse tosto, dirigendosi verso nord-est, agli sguardi dei rimasti che ne seguivano il volo con intensa emozione ».

La prima pagina dell’Excelsior del 19 novembre 1916 che venne dedicata alle imprese di Essen e Monaco

Il volo ed il bombardamento

« Dall’alta Marna, per Colmar, la Foresta Nera, il Wurtemberg raggiungendo quote dai 1000 ai 3000 metri, il capitano Beauchamp, si diresse sopra Monaco, eludendo la vigilanza delle guardie antiaeree. Egli filava diritto e sicuro verso il cielo tedesco, tenendo sempre una grande altezza. La temperatura era bassissima ed oltremodo gelide erano le correnti che l’aviatore andava incontrando. L’impresa in qualche momento sembrava diventare disperata; ed in quei momenti critici il capitano Beauchamp faceva più che mai appello alla eccezionalità delle sue forze fisiche e morali. Grande era l’impegno che egli si era assunto e sempre più grande sembrava diventare quanto più diventava avverso lo spazio in cui la macchina aerea si librava. Verso mezzogiorno Beauchamp era in vista di Monaco. Il solitario e temerario sparviero veniva salutato da numerosi colpi di cannone. Ma nulla ormai poteva più trattenerlo. A bordo dell’aeroplano erano agganciate sei bombe ad alto esplosivo; e quando l’apparecchio, dopo essersi abbassato, si trovò sopra la principale stazione ferroviaria della città, le sei bombe furono lasciate cadere. L’aviatore riferisce che gli effetti furono visibilissimi. L’operazione fu rapidamente compiuta, quindi – nonostante l’allarme – l’apparecchio prese quota dirigendosi verso sud-est ».

L’aereo Sopwith 1B1 “Ariel” del capitano Beauchamp dopo l’atterraggio a San Donà di Piave (tratta da La Guerre aérienne illustrée)

L’atterramento a San Donà

« Gettatosi lungo l’Inn per la valle volò su Innsbruck da dove per la valle dell’Eisach, passato il Brennero, sospeso sul territorio alpino, candido di nevi, filò verso il mare. Questa era la meta. I profili terrestri poco si distinguevano nella foschia della giornata piovosa e nevosa; ma il luccicore delle paludi e la striscia bianca del mare si rilevavano facilmente. Il capitano Beauchamp oramai vedeva l’Italia; vedeva tutta la laguna nostra. Gli parve di essere già sopra a Venezia. Il Basso agro del Piave infatti, visto dall’alto, dà facilmente questa illusione. Il volo dunque era compiuto. Non c’era che da atterrare. Ed il capitano Beauchamp con l’animo pieno di legittimo orgoglio fu accolto entusiasticamente dai nostri ufficiali che avvertirono del glorioso arrivo il comandante la piazza di Venezia. Il capitano Beauchamp nella serata si recava a Venezia per riferire i particolari del suo meraviglioso viaggio aereo al comandante De Challange della squadriglia di aviazione francese ».

L’aereo Sopwith 1B1 “Ariel” del capitano Beauchamp dopo l’atterraggio a San Donà di Piave (tratta da La Guerre aérienne illustrée)

La versione del Gazzettino

Sulle pagine del Gazzettino di Venezia il viaggio in direzione Italia lo diedero frutto di necessità piuttosto che di programmazione: «….Compiuta la sua missione, inseguito da numerosi apparecchi nemici e sorpreso da un violento temporale, il valoroso aviatore s’elevò fino ad una altezza di quattromila metri. Stimando per le condizioni atmosferiche quasi impossibile il ritorno alla sua sede decise di portarsi in Italia e dirigendosi verso sud, attraversò le Alpi inseguito fino al Brennero dai numerosi velivoli tedeschi. Dopo un’ora e tre quarti di volo, da Monaco, vide il cielo alquanto rischiararsi, le nubi diradandosi gli lasciarono intravedere il mare. Allora decise di scendere. Come è noto, il capitano De Beauchamp prese terra a poca distanza da San Donà di Piave ».

La permanenza a Venezia
Il capitano Beauchamp a sinistra, alla sua destra il tenente Daucourt (cartolina originale)

Dopo essere atterrato nei pressi di San Donà di Piave il capitano Beauchamp si trasferì a Venezia dove era già di stanza una squadriglia di aerei francesi in supporto a quelli italiani. Nella domenica successiva all’impresa la Gazzetta di Venezia segnalò la sua presenza assieme a quella dei diplomatici francesi e alla pari di quella delle più importanti rappresentanze diplomatiche alleate, in occasione della grande cerimonia tenuta in piazza San Marco per la consegna di numerose onorificenze ai militari italiani che si erano distinti in combattimento, molte di queste alla memoria. Probabilmente lo stesso Beauchamp in quella occasione venne insignito di una medaglia da parte dei comandi italiani, essendo la stessa genericamente citata nel suo palmares. Il capitano ripartì alla volta di Milano mercoledì 22 novembre assieme alla moglie che nel frattempo lo aveva raggiunto, così ne dà notizia la Gazzetta di Venezia: « … A quell’ora alla stazione il pubblico era assai numeroso ed il capitano, che era entrato nel buffet, venne subito riconosciuto e fatto segno ad una calorosa manifestazione. Circondato dalla folla plaudente attraversò l’atrio e quando il treno per Milano si mosse applausi vivissimi lo salutarono. Egli ringraziò sorridendo e salutando modestamente ».

Una medaglia d’argento, la sorpresa della nostra storia
La medaglia d’argento coniata dal Comune di San Donà di Piave in ricordo dell’impresa del capitano Beauchamp

La pietra d’inciampo di quella impresa che ha dato lo spunto per ritrovarne la storia è una stata una medaglia d’argento che la Città di San Donà di Piave coniò per ricordare l’evento e chissà, consegnarla al protagonista. Il come, il dove o il quando è rimasto tra le pieghe della storia ma vi è la concretezza di questa medaglia oggi recuperata e tornata a San Donà. Nel lato principale lo stemma di San Donà di Piave, la data e il ringraziamento a Louis De Beauchamp, la citazione dell’aereoporto di partenza Belfort, l’oggetto della missione Monaco di Baviera e l’imprevista destinazione finale San Donà di Piave. Sul retro stilizzato l’uomo che vola armato con una bomba come un’aquila oltre le Alpi … fino a quel luogo vicino alle sponde del Piave, tra mare e laguna chiamato San Donà e che per quell’impresa ebbe un risalto internazionale.

Il retro della medaglia d’argento coniata dal Comune di San Donà di Piave in ricordo dell’impresa del capitano Beauchamp
Per il capitano Beauchamp l’onorificenza francese più prestigiosa
Il generale Robert Georges Nivelle

Louis Robert de Beauchamp tornato in Francia si ritrovò nuovamente immerso nell’infinita battaglia di Verdun, giunta ormai ad una svolta. Il giorno 12 dicembre 1916 per le sue imprese di Essen e Monaco di Baviera gli venne consegnata la coccarda della Legione d’Onore dal generale Robert Georges Nivelle, comandante dell’intero settore di Verdun e che il giorno dopo sarebbe stato egli stesso nominato comandante in capo dell’esercito francese. Questa la motivazione della Legion d’Onore: « Ufficiale del più grande coraggio. Posto alla testa di uno squadrone dell’esercito, ha mostrato durante la battaglia di Verdun, eccezionali qualità di ritmo, iniziativa e spirito. Nelle missioni di ricognizione così come nelle missioni di caccia, ha costantemente dato ai suoi piloti i migliori esempi di coraggio riflessivo e senso del dovere. Riuscì per primo ad organizzare ed eseguire bombardamenti a lungo raggio, dimostrando, nel compimento di queste missioni, energia, tenacia e audacia senza pari. ».

Il destino di un eroe semplice
I resti dell’aereo del capitano de Beauchamp precipitato nei pressi di Verdun (fotografia originale)

Poche sono le vicende di guerra che sono legate ad un lieto fine. Ad un mese da quella missione che lo aveva portato sino a San Donà di Piave, il 17 dicembre 1916 il capitano Beauchamp s’alzo in volo con il suo Sapd 7 alle ore 15.00. Dopo aver inseguito un aereo nemico venne attaccato da altri tre aerei tedeschi e, come sempre, Beauchamp non negò loro battaglia. Colpito ripetutamente virò verso le linee francesi cercando di atterrare vicino il bosco di Vaux-Chapitre nei pressi di Vaux-devant-Damloup a pochi chilometri da Verdun. Impervio il terreno scelto, il capitano venne sbalzato fuori dall’aereo, subito soccorso, le ferite inferte dalle pallottole delle mitragliatrici tedesche non gli lasciarono scampo. Colpito alla testa e con l’arteria del braccio recisa, l’esser riuscito a portarsi nei pressi delle linee francesi era stato il suo ultimo atto glorioso. Attoniti i suoi compagni d’arme che vanamente ne avevano atteso il ritorno alla base. Presso l’aeroporto della squadriglia venne allestita la camera ardente. Il funerale venne celebrato solennemente il 20 dicembre 1916 – come scrisse una rivista dell’epoca – « …in mezzo ad un pubblico di valorosi che piansero tutti il grande condottiero, l’eroe immortale che avevano appena perso e che non può essere vendicato in quanto era il più glorioso tra tutti ».

I fratelli Beauchamp caduti per la Francia
La lapide dedicata ai caduti al cimitero di Lignac che ricorda tra gli altri anche i tre fratelli de Beauchamp

Le spoglie di Louis Marie Maurice Georges Robert de Beauchamp riposano ancor oggi presso la tomba di famiglia a Saint-Julien l’Ars, un piccolo paese a pochi chilometri da Poitiers nel dipartimento di Vienne nella regione odierna della Nuova Aquitania (con capoluogo Bordeaux). Lì sono ricordati anche i suoi fratelli Hubert Marie Henry (sottotenente di fanteria morto nel 1915 sulle trincee di Ypres in Belgio) e Marie Michel Pierre Jean (sottotenente di aviazione morto in combattimento nel 1918 a  Oulchy-le-Château), un’intera famiglia caduta per la Francia. Nel 2016 è stato celebrato il centenario dalla sua scomparsa, a cui oggi aggiungiamo anche il nostro ricordo.

La fotografia pubblicata da La Nouvelle Republique in occasione del centenario dalla morte di Louis Robert de Beauchamp, nell’immagine la tomba di famiglia a St. Julien l’Ars
Il Capitano De Beauchamp in una immagine apparsa su « La Guerre aérienne illustrée » del 7 dicembre 1916, autografata

Per approfondimenti: 1. « L’illustration » rivista del 23-30 dicembre 1916; 2. « Excelsior , Journal Illustré Quotidien » Dimanche 19 novembre 1916; 3. Escadrille MS-23, sito dedicato alla squadriglia MS23; 4. « La Nouvelle republique », articolo dedicato alla commemorazione del centenario dalla morte; 5. « Huffpost », articolo dedicato alla tragedia del Le Bazar de la Charité; 6. « Gallica », articolo dedicato a Louis Robert de Beauchamp. 7. «Archivio storico La Stampa », l’articolo del 20 novembre 1916.

Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo

Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo

Incrociare delle vecchie foto di un album è una pratica semplice, accade o potrebbe accadere ad ogni ora del giorno in una qualsiasi famiglia. Non sempre si riesce a riconoscere le persone ritratte ma sai che in qualche maniera hanno fatto parte della tua storia. A volte può accadere di incrociare foto di un album qualsiasi, di una famiglia qualsiasi e scoprire che comunque fanno parte della tua storia, o più propriamente della storia della tua città. E fu così che attratto da un cognome eccoci a tracciare una storia che ci porta a più di cento anni fa.

La San Donà a cavallo del secolo
Il ponte sul fiume Piave ad inizio secolo

La San Donà della fine Ottocento divenne un punto di riferimento per tutto il mandamento. Le grandi bonifiche avevano ampliato il territorio destinato all’agricoltura e anche le vie di comunicazione avevano avuto un grande sviluppo grazie al collegamento ferroviario con Venezia inaugurato nel 1885 e il successivo prolungamento verso Portogruaro inaugurato l’anno dopo. Anche il nuovo ponte pedonale in ferro che aveva sostituito quello in legno distrutto da una piena del Piave aveva portato grandi benefici alle cittadine poste sulle due sponde. Non fosse per gli argini ancora incompleti che costringeva tutti a fare i conti con le regolari bizze autunnali del fiume, San Donà si era comunque avviata ad uno sviluppo importante. Il nuovo ospedale inaugurato nel 1913 fu il giusto completamento alle tante opere pubbliche cittadine che stavano arricchendo il tessuto urbano sandonatese. Uno sviluppo che ben presto si trovò a fronteggiare le ombre di una guerra che oscurò il futuro e a cui il buio di un anno di occupazione austroungarica in prima linea regalò un’immane distruzione.

I Guarinoni
A inzio secolo un’immagine del Rialto Jesolo

Nella crescita della San Donà a cavallo del Novecento s’inseriscono i protagonisti della nostra storia, la famiglia Guarinoni. Lo spunto è venuto da alcune foto ritrovate facenti parte di uno stesso album. Una in particolare raffigurava la casa dei Guarinoni e, con sorpresa, era in realtà una cartolina viaggiata del 1915 con tante utili informazioni da approfondire.

I Guarinoni erano esponenti dell’alta borghesia sandonatese la stessa che al tempo veniva identificata come quella dei possidenti. Per lo più proprietari terrieri, i possidenti erano appartenenti a quella ristretta cerchia a cui veniva riconosciuto il diritto di voto e con esso la partecipazione alla politica attiva della città. I Guarinoni sin dall’Ottocento li troviamo citati nella storia sandonatese, in particolare il loro nome viene ricordato in due episodi dal Plateo nel suo libro, ripresi poi anche da Monsignor Chimenton. Entrambi i loro libri sono dei testi fondamentali da cui attingere importanti notizie in merito alla storia cittadina. Se il racconto di Plateo si ferma ai primi del novecento quello di Monsignor Chimenton ci permette di arrivare con la sua narrazione ai cinque lustri successivi e grazie al quale possiamo arricchire la parte riguardante i Guarinoni anche del periodo successivo alla grande guerra nel quale Guido Guarinoni ebbe un ruolo fondamentale nella ricostruzione della città.

La fucilazione del Cimetta
Rialto Jesolo (o Spalto Jesolo) visto da via Maggiore

Ambedue gli episodi riportati dal Plateo si riferiscono a quel periodo che vide San Donà inglobata nel Regno Lombardo-Veneto durante l’occupazione austriaca, ovvero dalla caduta di Napoleone sino alla fine della terza guerra di indipendenza (1815-1866). « Molti episodi, che provano il patriottismo della popolazione, si narravano fino a ieri e si ricordano ancora oggi dai vecchi, fra cui l’eroica fine di quell’Antonio Cimetta da Portogruaro, qui residente, trovato in possesso di un vecchio archibugio e sospettato d’italianità, condannato alla fucilazione, dal consiglio di guerra presieduto dal Colonnello Radetzky, figlio del famoso maresciallo. L’esecuzione capitale ebbe luogo qui il 14 gennaio 1849, presso l’argine del Piave, di fronte all’abitazione Guarinoni.

Il Cimetta, circondato da’ suoi carnefici, che lo accompagnavano all’estremo supplizio incitandolo a rivelare i nomi dei cospiratori che si servivano di lui per corrispondere col governo provvisorio di Venezia, approfittò dell’ultimo istante di vita per gettare in aria il berretto e gridare: Viva l’Italia! imitando così Antonio Sciesa, il popolano milanese celebre nella storia per la tipica frase: « tiremm innanz » con la quale rispose alle promesse di aver salva la vita se rivelava i nomi dei compagni di fede.

Una colonna spezzata nel nostro cimitero, collocata sulla fossa che racchiude le ossa del Cimetta, porta la seguente epigrafe:

ANTONIO CIMETTA

MARINAIO DI PORTOGRUARO AGENTE CORAGGIOSO DI QUELLA COSPIRAZIONE CHE HA REDENTA LA PATRIA

A MORTE DA TRIBUNALE AUSTRIACO CONDANNATO SUBIVA INTREPIDO LA FUCILAZIONE IN QUESTO COMUNE

14 GENNAIO 1849

SPIRANDO COL GRIDO  VIVA L’ITALIA

I CITTADINI DI S. DONA’ NEL XXXII ANNIVERSARIO.

Dunque una prima traccia della casa dei Guarinoni la possiamo trovare lungo l’argine, un indizio che in effetti possiamo anche intravedere nella cartolina la cui inquadratura dall’alto ci fa pensare effettivamente potesse essere ai piedi dell’argine.

“Il tricolore sulla residenza municipale “
Il Municipio in una cartolina del 1916

Il secondo episodio è posteriore, siamo già a Regno d’Italia costituito, con l’Austria che aveva perso la Lombardia e aveva trasferito la capitale dei suoi possedimenti a Venezia.

« La notte del 24 giugno 1863, quarto anniversario delle battaglie di S. Martino e Solferino, fu inalberata sul culmine del tetto della residenza municipale, ora uffizi dei consorzi, una bandiera tricolore di seta, regalata dalla signora Giovanna Guarinoni, nota per i suoi sentimenti patriottici. All’alba del dì seguente il vessillo sventolò superbo fin tanto che la polizia, scompigliata da tanta baldanza, non riuscì ad impadronirsi del corpo del reato, sul quale s’imbastì analogo processo politico.

Questa dimostrazione ardita, ispirata da alcuni signori del paese, ebbe per intrepidi e avveduti esecutori Giuseppe Mucelli, Giuseppe Baradel e Leopoldo Zaramella, tre distinti operai, tre buoni cittadini, tre ottimi patrioti, i due primi già appartenenti ai volontari del patrio riscatto, e il terzo arruolatosi nel 1866.

Il vessillo incriminato venne dal Pretore custodito nel luogo più sicuro dell’ufficio, ossia nel cassetto della propria scrivania. Nell’ottobre dello stesso anno il Mucelli e lo Zaramella, ai quali si associò Antonio Battistella, tre falegnami decisi di riavere la bandiera, resa sacra dalla persecuzione austriaca, approfittando di una notte in cui imperversava il temporale, con un vento infuriato e con abbondanti scariche di tuoni, penetrarono nell’ufficio pretoriale, ora caserma delle Guardie di Finanza, e scassinate porte e cassetti poterono prendere la bandiera tanto desiderata e uscire inavvertiti.

L’ardua impresa destò in paese grande rumore per il fatto che non furono toccati i denari dei depositi e gli oggetti di valore che si trovavano accanto alla bandiera, e gli autori della sottrazione di questa non lasciarono tracce del loro passaggio. Tuttavia le perquisizioni domiciliari si estesero a molte persone sospette di sentimenti patriottici, ma senza esito, perché la bandiera, bene piegata, poté dal Mucelli venir nascosta nel vuoto invisibile praticato ingegnosamente, in un tagliere di legno, che rimase appeso in cucina insieme a vari altri, e sfuggire così all’occhio vigile della polizia. »

Dopo questa seconda citazione che testimonia dei sentimenti italiani dei Guarinoni di quel tempo torniamo alle vicende famigliari che da quella cartolina abbiamo iniziato a dipanare. Non abbiamo trovato traccia della signora Giovanna citata dal Plateo, sarebbero state necessarie ulteriori ricerche, di certo era collegata allo stesso ramo famigliare da cui siamo partiti per andare indietro nel tempo. Perché il reale protagonista dei Guarinoni a cui quella cartolina si lega è Guido Guarinoni, sindaco di San Donà di Piave dal 1920 al 1923.

I contorni della storia albergano tra i rami dei legami famigliari
L’estratto dell’atto di matrimonio tra Guido Guarinoni e Maria Velluti (1896)

I Guarinoni in quel secolo Ottocento erano una famiglia di possidenti ben in vista a San Donà. Tra l’altro in alcuni loro locali in disuso in via Jesolo mossero i primi passi gli appassionati di teatro sandonatesi con tanto di rappresentazioni. Il nonno di Guido era Giovanni Battista mentre la nonna era Bressanin Maddalena. Anche quest’ultima appartenente ad una famiglia il cui cognome non era sconosciuto tra i possidenti di San Donà. Del resto, anche nelle successive generazioni non mutò l’appartenenza. Il padre di Guido era coetaneo di Giovanna Guarinoni citata da Plateo, Luigi Guarinoni sposò giovanissimo Bortoluzzi Teresa, una possidente di Noventa. Tra i registri di San Donà si riescono a rintracciare diversi fratelli e sorelle di Guido. Il padre morì nel 1881, i figli erano ancora giovani e poco dopo morì anche il primogenito Ugo Antonio. La sorella Alda Maria si sposò con l’ing, Radaelli di Venezia, un legame con la città lagunare che sarà importante per la famiglia i cui interessi anche professionali s’intrecciarono particolarmente con Venezia. Anche Guido divenne ingegnere e conobbe il collega Francesco Velluti di Dolo, di lì a poco ne sposò nel 1896 la sorella diciottenne Maria Velluti. I componenti della famiglia Velluti erano dei possidenti di Dolo i cui genitori erano morti pochi anni prima.  I due novelli sposi andarono a vivere nella casa di famiglia a San Donà di Piave in Rialto Jesolo, 141.  In quella stessa casa viveva anche il fratello Amedeo Guarinoni che nel 1898 aveva sposato Clorinda Crico, figlia del medico di Musile, il dottor Giacomo Crico. Sia Guido che Amedeo ebbero una figlia, nel 1897 Maria Velludi diede alla luce Teresina, mentre Clorinda Crico ebbe nel 1899 Teresa. Entrambi i nomi prendevano spunto come era d’uso un tempo da una nonna, in questo caso quella paterna.

Una immagine di Villa Guarinoni del 1915 (foto di A. Cadamuro)
La cartolina della storia
Un dettaglio dell’immagine di villa Guarinoni, in posa la famiglia del futuro sindaco di San Donà di Piave

E qui la nostra storia torna ad agganciarsi a quella famosa cartolina, quella casa vista dall’alto potrebbe proprio essere stata in Rialto Jesolo, il fotografo Antonio Cadamuro potrebbe averla ripresa dall’argine e cosa ancor più ammirevole in quel giardino posto sul retro della casa si nota l’ing. Guido Guarinoni, all’epoca già consigliere comunale, con parte della famiglia allargata che in quella abitazione viveva. Alla figlia di Guido Guarinoni Teresina veniva inviata la cartolina nel 1915, era firmata da una non meglio identificata Rita e la destinazione era Dolo dove la ragazza si trovava assieme alla madre in quel dicembre. L’Italia era già in guerra, San Donà era percorsa dalle truppe che si muovevano verso il fronte e si iniziava a cercare un posto meno esposto, e di sicuro i possedimenti di famiglia a Dolo lo erano. Qualche anno prima la zia Clorinda Crico rimasta vedova nel 1902, si era sposata con il cognato Radaelli Onofrio, rimasto anch’egli vedovo prematuramente di Alda Maria, sorella del marito di Clorinda. L’ombra lunga della guerra arrivò su San Donà nel 1917, la famiglia Guarinoni nel frattempo aveva trovato riparo a Venezia. La casa di famiglia subì dure conseguenze dal conflitto mondiale trovandosi sulla linea del fronte lungo l’argine del Piave. In una seconda fotografia presente nell’album la si ritrova ridotta in macerie, in quel Rialto Jesolo colpito ripetutamente dall’artiglieria italiana nella San Donà dove le truppe austriache vennero fermate dalla resistenza italiana attestata oltre il Piave. La famiglia Guarinoni mantenne la residenza a Venezia anche successivamente, tanto che nonostante Guido Guarinoni nel 1920 fosse divenuto sindaco di San Donà di Piave i successivi matrimoni in quei primi anni venti di Teresa e Teresina celebrati a Venezia negli atti i genitori risultano ancora residenti a Venezia.


Villa ridotta in macerie dopo la prima guerra mondiale

Racconto diviso in due parti: 1. Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo – 2. Guido Guarinoni Sindaco di San Donà di Piave

Per approfondimenti: 1. « Il territorio di S. Donà nell’agro d’Eraclea » (1905) di Teodegisillo Plateo; 2. « S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella » (1928) di Mons. Costante Chimenton.

La tipografia G.B. Bianchi (fotografia), 1918

Via Maggiore a San Donà di Piave nel 1918

Qualche mese fa raccontavamo la storia della Tipografia G.B. Bianchi ( « Tipografia G.B. Bianchi, San Donà di Piave » ) la sua venuta a San Donà di Piave e la sua importanza nella vita cittadina con le varie pubblicazioni, non ultime le cartoline. A distanza di qualche mese è stato possibile trovarne traccia in una fotografia austriaca scattata durante il terribile periodo dell’occupazione nemica nel primo conflitto mondiale. Ora ne abbiamo la giusta ubicazione, si trovava in via Maggiore nel tratto che dal ponte sul fiume Piave portava al centro cittadino. Nella foto la si nota con la sua insegna sulla destra, sullo sfondo si intravede il Duomo gravemente danneggiato dai cannoneggiamenti dell’esercito italiano posizionato oltre la linea del Piave.

Racconta Monsignor Chimenton che dopo la guerra riprese la sua attività in una sede più onorifica, solo che quella via Nazionale che il Chimenton cita al momento non è ben identificabile, anche se potrebbe essere il primo tratto di dell’attuale corso Silvio Trentin e che nel periodo successivo alla prima guerra mondiale venne denominata via Vittorio Emanuele.

Il sacrificio dei legionari cechi sul fronte del Piave

I cinque legionari cechi giustiziati il 19 giugno 1918 a Calvecchia, presso casa Davanzo vicino alla scuola (foto originale)

Una delle tante Storie che si sono intrecciate con le vicende della Grande Guerra è stata indubbiamente quella incentrata sui legionari cecoslovacchi. Alcune di quelle strazianti vicende sono accadute nelle nostre terre, flagellate esse stesse dal loro essere prima linea nel conflitto mondiale.

L’impero diviso

Quell’insieme di popoli rappresentato dall’impero austroungarico si presentò sullo scenario della prima guerra mondiale tutt’altro che unito. Molte erano le spinte indipendentiste al suo interno che nemmeno la crudezza della guerra seppe nascondere, tra queste anche quelle nelle regioni della Boemia e della Slovacchia. Durante la guerra si formò un governo in esilio che cercò una sponda negli stati dell’Intesa allo scopo in un futuro prossimo di ottenere il riconoscimento di un nuovo stato con capitale Praga. Tra le varie iniziative ci fu quella di costituire un gruppo di legionari che dopo la rotta di Caporetto venne inquadrato nell’esercito italiano. Per la gran parte formato da ex prigionieri dell’esercito austro-ungarico costituirono il I° battaglione del 33° reggimento, a comando italiano già nel maggio del 1918 parte di esso venne dislocato sul fronte del Piave. Chiaramente costoro venivano considerati dei traditori dal comando austroungarico e il loro ruolo avrebbe dovuto essere di solo supporto alle truppe italiane. Nonostante l’accordo di un loro immediato ritiro in caso di combattimento gli eventi portarono a tutt’altro e a metà del giugno 1918 l’intero battaglione era schierato tra Casa Fasan e Fossa delle Millepertiche.

I cinque legionari giustiziati a Calvecchia

Racconta Eugenio Bucciol nel suo libro che l’offensiva austriaca del 15 giugno 1918 colse il battaglione dei legionari schierato accanto agli italiani e contrariamente agli accordi presi questi non vennero ritirati ma parteciparono attivamente ai combattimenti e alle controffensive di quei giorni. Costretti al ripiegamento assieme alle truppe italiane, nel pomeriggio  del 17 giugno venne ordinata la controffensiva e i legionari si trovarono a fronteggiare la 10ª divisione austroungarica costituita principalmente da soldati cechi come loro. Al termine della battaglia i legionari avevano catturato duecento prigionieri e otto mitragliatrici; otto di loro erano morti, sessantatrè feriti o dispersi. « …Sei dei legionari dichiarati dispersi erano caduti nelle mani dei loro connazionali della 10ª divisione, comandata dal generale polacco Gologòrsky, con sede a Ceggia. Essi erano:

Antonín Kahler (2)

Hynek Horák, nato il 25 marzo 1899 a Bohdane (Boemia), fatto prigioniero dagli italiani il 2 agosto 1917 a Hermada. Contadino, sposato, due figli.

Antonín Kahler, nato il 6 giugno 1883 a Praga. Caduto prigioniero degli italiani sull’Isonzo il 15 settembre 1917. Orefice, sposato, una figlia.

Emanuel Kubeš (2)

Jozef Kříž, nato il 31 maggio 1888 a Šebanovice (Boemia), fatto prigioniero dagli italiani il 9 ottobre 1916 presso Jamiano. Scalpellino, sposato, un figlio.

Emanuel Kubeš, mato l’8 agosto 1880 a Praga, arresosi agli italiani il 7 agosto 1916 sul Monte Sabotino. Imbianchino, sposato, due figli.

František Viktora, nato il 24 dicembre 1875 a Purkarec (Boemia), caduto prigioniero degli italiani il 5 maggio 1917 a Jamiano. Macchinista, celibe.

František Viktora (2)

Una ferita alla coscia con frattura del femore salvò la vita del sesto legionario catturato, Antonin Vokřínek. Nel lazzaretto di San Stino fu interrogato, ma ottenne il rinvio del processo. Trasferito a Udine, alla fine di ottobre era già tornato a casa in convalescenza. Pochi giorni dopo cessava per lui, con la guerra perduta, ogni presupposto di colpa.

Il 18 giugno i cinque legionari furono processati dal tribunale della 10ª divisione. Condannati a morte per alto tradimento, vennero impiccati alle ore 14 del giorno seguente, tra gli insulti del capitano di cavalleria Maier che comandava l’esecuzione, agli ippocastani davanti alla scuola, presso l’agenzia Giustiniani, con il privilegio di avere ciascuno una pianta per sé. Alla sera furono sepolti nel vicino vigneto. » Sulla sepoltura la versione di Bucciol differisce da quella di Mons. Chimenton secondo cui i cinque legionari rimasero appesi agli ippocastani per due giorni.

Un sesto legionario giustiziato a Calvecchia

Continua Eugenio Bucciol:  « Il 21 giugno 1918 fu giustiziato a Calvecchia, nella campagna di San Donà di Piave, sulla strada per Ceggia, il legionario Bedřích Havlena, nato a Nova Lbota (Boemia) il 18 maggio 1888, impiegato delle imposte, celibe, catturato dagli italiani a San Michele del Carso il 28 novembre 1915.

La targa posta a Calvecchia in ricordo del legionario Bedřích Havlena (2)

Nell’offensiva del Solstizio si era arreso ai cechi del 98°, il suo reggimento di provenienza. L’avevano condotto a Calvecchia, nella fattoria Bertolotti, detta, in virtù dell’intonaco, “la Casa rossa”, sede del comando della 10ª divisione cui subentrò, all’arrivo del legionario, quello della 46ª che lo prese in consegna nella stalla.

Condannato a morte, si dovette attendere che inchiodassero un legno al palo del telegrafo davanti alla “Casa rossa” per ricavare il braccio della forca. Alle 11.30 il legionario si diresse con passo sicuro verso il luogo dell’esecuzione. Aveva ottenuto che gli slegassero le mani. Accanto all’improvvisato patibolo, anticipò gli esecutori aggrappandosi con una mano alla traversa e infilandosi con l’altra il capestro; ma il sostegno cedette al suo peso. Lo ricondussero nella stalla. La consuetudine voleva che fosse graziato e in tal senso si pronunciò il comando interpellato. Ma il presidente del tribunale, il capitano Von Fröhlich, insistette affinché l’operazione venisse ripetuta. Alle 14.30 il legionario fu fatto uscire nuovamente dalla stalla dove aveva scritto una cartolina ai famigliari. Accanto al palo si aggrappò ancora al sostegno che resistette. Parendogli tuttavia troppo basso, pregò che sterrassero il suolo. Lo accontentarono. Alla base del palo fu posta una cassetta-. Bedřích Havlena vi salì sopra per infilarsi il cappio. Un militare diede un calcio alla cassetta. Lo tolsero alle 19 per seppellirlo nel campo davanti al palo telegrafico. »

Furono tristi giorni per i legionari cechi catturati dagli austroungarici, lungo tutto il fronte ripetute furono .le esecuzioni ai danni dei legionari catturati. Complessivamente alla fine della guerra saranno 46 i legionari giustiziati dagli austroungarici, 8 dagli italiani e 2 giustiziati in Slovacchia.

I tre legionari cechi giustiziati il 18 giugno 1918 ad Oderzo (foto originale)

I cinque legionari di Calvecchia nel ricordo di Mons. Chimenton

″ Le forche ufficiali, le più speciose, funzionarono di fronte alle scuole di Calvecchia, sui cinque ippocastani prospicienti quell’edificio scolastico.

Su questi ippocastani furono giustiziati i czeco slovacchi. Fatti prigionieri sul fronte italiano del Carso, incorporati nel nostro esercito, presero parte alla battaglia del giugno in località di Fossalta di Piave e caddero prigionieri degli Austriaci : giudicati dal tribunale di guerra con una procedura sommaria, dichiarati traditori, furono trascinati attraverso Noventa e San Donà fino a Calvecchia e immediatamente giustiziati. Ferveva sul Piave la grande battaglia : essi rimasero appesi alle corde di quei cinque ippocastani per due giorni interi : le truppe austriache che movevano all’assalto lessero così in quelle vittime la loro sentenza. Le salme furono gettate confusamente nell’orto della famiglia Carlo Carpenè, in proprietà di Federico Colosso, e vi rimasero fin dopo l’armistizio quando, come già accennammo, furono esumate e sepolte nel cimitero militare di San Donà. Su molte di quelle salme penzolanti fu posta in un cartellino a stampa, questa dicitura : Così si puniscono i traditori della Patria!.

Sulla parete di quella scuola, prospiciente la strada, di fonte agli ippocastani, dopo l’armistizio fu posta una lapide su cui furono incise queste parole, dettate in cattiva lingua italiana da qualche prigioniero di guerra: « Qui morirono per la patria 5 legionari – Czeco slovacchi, – combattendo in Italia – per la libertà del popolo – dalla vendetta l’Austria gli impiccava – 18 giugno 1918 »

Nel 1921 l’esumazione dei legionari caduti

Nel 1921 le salme dei legionari cechi furono trasportate in patria. Così lo racconta Monsignor Chimenton nel capitolo dedicato al cimitero militare di San Donà attiguo a quello comunale:  « In questo cimitero erano state deposte anche le salme dei vari soldati czeco slovacchi, che, caduti prigionieri degli Austriaci, durante la battaglia del giugno 1918, furono impiccati dinanzi le scuole di Calvecchia. Le salme furono esumate e trasportate a Praga il 2 aprile 1921. – Il loro riconoscimento fu semplicissimo. Dal cimitero degli impiccati di Calvecchia le salme erano state trasportate nel cimitero comunale subito dopo l’armistizio : occupavano la prima fila nord; nella traslazione le salme esumate e avvolte separatamente in una tela da campo erano state rinchiuse in apposite casse funebri. L’autorità boema volle accertarsi dell’autenticità di quelle salme : esumate le casse e aperte, le salme apparvero scheletrite ; ma le loro braccia erano ancora legate dietro la schiena, con il filo telefonico usato dall’Austria in simili esecuzioni, e attorno al collo le vittime portavano ancora un nodo scorsoio e un pezzo di fune che aveva servito alla loro esecuzione capitale. L’autenticità apparve evidente : rinchiuse in doppia cassa quelle salme furono composte nuovamente e trasportate in Boemia. »

Il 24 aprile 1921 in occasione della traslazione dei legionari giustiziati in Italia, ebbe luogo una grande cerimonia e ad essi furono tributati i più grandi onori militari in una grande cornice di popolo. Furono poi tumulati nel cimitero Olsany di Praga (2)

La terra sandonatese a ricordo del sacrificio dei legionari

Nel 1924, come racconta Chiara Polita, un’Associazione cecoslovacca per le onoranze ai caduti in guerra volendo ricordare in occasione dell’inaugurazione di un nuovo cimitero i propri legionari caduti sul fronte italiano inviò una richiesta particolare al Comune di San Donà di Piave. Desiderava avere della terra dei campi di battaglia italiani da inserire in una nicchia. Venne dato l’assenso da parte del Comune e di quel prelievo è rimasta traccia in un verbale. Il solenne prelievo venne effettuato dal Sindaco Costante Bortolotto assieme al sig. Antonio Bincoletto, dell’Associazione Mutilati e Invalidi di guerra, al rag. Ippolito Gianasso, della sezione sandonatese dell’Associazione Nazionale ex combattenti, e al segretario comunale Livio Fabris. Il prelievo venne effettuato l’11 giugno 1924: « …in territorio di questo Comune e precisamente sulla riva destra del Piave in prossimità del ponte distrutto durante la guerra mondiale 1915-1918 e nella zona delle ex trincee interrate ». Posta in un doppio sacchetto con i sigilli del Comune e i colori nazionali quella terra venne inviata al Console cecoslovacco a Trieste.

Fonti: Approfondimenti sulle vicende dei legionari cechi sul fronte del Piave è possibile trovarli in questi testi: 1. « S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e Passarella » di Mons. Costante Chimenton (1928); 2. « Dalla Moldava al Piave – I legionari cecosclovacchi sul fronte italiano nella Grande Guerra » di Eugenio Bucciol (Ed. Nuova dimensione, 1998); 3. « Di qua e al di là del Piave – La grande guerra degli ultimi » di Chiara Polita (Mazzanti Libri, 2015)

Il 5 gennaio 1918, Mons. Saretta nominato parroco della Cattedrale di Portogruaro

Tratto da “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Monsignor Costante Chimenton (1928, capitolo V pp. 263-268)

Portogruaro il 20 novembre 1917
Monsignor Saretta rifugiato a Portogruaro

Portogruaro, nel dicembre del 1917, sembrava una terra deserta : i pochi borghesi del centro, come pure i contadini della campagna, vivevano la massima parte appartati e diffidenti ; grandi concentramenti di truppe austro-ungariche per le campagne. Rendeva più penosa quella posizione il silenzio assoluto che dall’autorità militare fu imposto a tutte le campane ; il provvedimento non portò gravi conseguenze, perché in città di Portogruaro il servizio del culto era limitatissimo, anche per mancanza di clero : il parroco Mons. G. B. Tittilo e i canonici della cattedrale si erano allontanati al primo avvicinarsi del nemico ; in città erano rimasti, – animi veramente zelanti, – con Mons. Vescovo, don Luigi Bortoluzzi, arciprete di S. Agnese e Mons. Giuseppe Gaiatto ex parroco del Duomo : anche le classe dirigenti si erano allontanate.

Portogruaro, 3 dicembre 1917

L’arrivo dell’arciprete di San Donà. Specialmente nel campo spirituale, fu considerato un dono provvidenziale da parte di quella popolazione. In mezzo a tanti orrori non era spenta la fede in Portogruaro ; era assopita e bisognava ridestarla nelle coscienze ; bisognava commuovere un po’ i cuori, eccitare gli animi, far comprendere al popolo che il sacerdote è fatto per lui, e che gli sta vicino non soltanto quando la pace e la gioia rendono felice la sua vita, ma più ancora quando la guerra, la miseria, la fame e la prigionia lo gettano sul lastricato della pubblica strada, lo costringono a stendere la mano per chiedere l’elemosina di un pane, lo avviliscono nelle sue aspirazioni di libertà, gli spezzano gli affetti più santi, religiosi e famigliari.

Mons. Luigi Saretta era fatto per questo lavoro. – Quando giunse a Portogruaro trovò le chiese abbandonate ; il popolo stesso, non compresi i suoi profughi, guardava con occhio di diffidenza il sacerdote forestiero che giungeva a rimpiazzare il posto, rimasto vacante, dei suoi pastori. Ma quella figura pallida, magra, che giungeva, in quei giorni, sul luogo della prigionia, prigioniero volontario, tormentato da sofferenze, suscitò presto le simpatie : la diffidenza dei primi momenti si cambiò in affetto, finì in entusiasmo. Mons. Saretta riuscì ad impadronirsi di quel popolo, a portare un nuovo soffio di vita, anche in mezzo ad un nemico che non cessò mai di controllare i passi dei nostri connazionali.

La cerimonia del 31 dicembre 1917 nella Cattedrale

Segnò l’inizio della sua missione provvidenziale la cerimonia della benedizione solenne, in occasione del ringraziamento dell’anno 1917, nella Cattedrale di Portogruaro. A lui, abbiamo già detto, fu dal Vescovo affidato l’incarico di tenere il discorso d’occasione, compito delicatissimo in quei momenti, più delicato ancora perché a quella cerimonia potevamo intervenire, in veste ufficiale, le stesse autorità militari dell’esercito invasore. La bella Cattedrale quella sera era gremita di popolo : cittadini e profughi, frammisti ai soldati tedeschi, stavano riuniti dinanzi all’altare, al Crocefisso sanguinante sulla croce, che mai forse, durante la guerra, rappresentò più che in quella circostanza le sofferenze degli uni e degli altri.

Portogruaro prima della prima guerra mondiale

Mons. Saretta fu felicissimo nel suo discorso. Seppe commuovere il cuore di tutti, senza suscitare sospetti o gelosie, facile difetto per chi parla in pubblico e sotto l’impulso di una commozione così naturale per chi è prigioniero e bersagliato dal nemico ; più naturale ancora in chi, da una condizione fortunata, è sbalzato nella miseria, lontano dal suo paese, in balìa di una forza brutale che non conosce limiti nelle sue vendette. Siamo riusciti a rintracciare, fra le carte accatastate nell’archivio di San Donà, il manoscritto degli appunti del brevissimo discorso, conservato da Mons. Saretta con gelosia. E che l’indiscrezione di chi scrive questa monografia potè carpire ; ci perdoni Mons. Saretta l’indiscrezione ancor più marcata, che oggi commettiamo, nel pubblicare integralmente questi appunti : è un documento storico, e la storia, anche questa volta, domanda che siano rispettati i suoi diritti:

« Salvum fac…. Mai grido d’angoscia, voce di pianto e di preghiera uscì più spontanea di questa che la chiesa ci pone sulle labbra, in questa sera, ultima del 1917! – Oh! Signore, salva il tuo popolo! – Siamo qui raccolti davanti al tuo altare per implorare misericordia e perdono. – Ecce populus tuus omnes nos! Siamo il tuo popolo! – Altri gridarono : nolumus hunc regnare super nos! ; ma noi ripetiamo: non habemus alium regem nisi Christum!

Noi siamo la tua eredità. Noi che siamo stati redenti dal tuo sangue.

Ma in questa sera quante memorie ci opprimono! In questo momento quanti affetti si affollano nel nostro cuore! La chiesa ci suggerisce l’inno della lode e del ringraziamento, e non ci accorgiamo che le lagrime inondano il nostro volto ; noi ci accorgiamo che il pianto è l’unica voce che vibra nelle nostre anime.

Ogni anno che muore porta con sé la mestizia. Esso rappresenta qualche cosa che scompare nella vita di un uomo. E’ così breve la vita! – Esso ci parla della fugacità del tempo ; nella nullità di tutte le cose umane. Ma quest’anno 1917 è per noi più triste del solito ; la sua fine ci trova oppressi dal più profondo dolore, dalla più orribile sventura che possa colpire una nazione. Tu comprendi il mio pensiero, o Signore, tu che hai pianto sulle rovine della tua patria!

Nondimeno tu aspetti da noi un tributo di lode : tu ce lo chiedi ; tu ne hai diritto. E, sia pur nel pianto, noi gridiamo grazie, o Signore : Te Deum laudamus!

Grazie! Tutte le calamità che ne circondano, furono permesse da Te : esse sono il frutto dell’abuso dei tuoi doni ; sono la punizione dei nostri peccati. – Tutto il bene che ci è venuto in quest’anno, ci è venuto da Te ; tutto il male ci è venuto dagli uomini. – Noi stessi, disobbedendo alla tua legge, abbiamo fabbricato la nostra rovina. – Dei tuoi doni, grazie! ; del nostro abuso, del nostro peccato, Signore, perdono!

Parce, Domine : salvum fac populum tuum! In te, Domine, speravi : non confundar in aeternum! ».

L’interno della cattedrale di Portogruaro

Le brevissime parole furono pronunciate fra le lagrime, vorremmo dire fra i singhiozzi. Quelle parole furono sillabate ad una ad una, e attraversarono i cuori aprendoli alle serene speranze di un radioso avvenire, come una scintilla elettrica e come una voce benefica e amica.

Piacque il discorso al popolo ; non dispiacque neppure al nemico che in quella sera aveva raddoppiato il servizio di spionaggio : l’oratore in poche parole aveva detto molto per gli uni e il suo pensiero era stato bene inteso ; si era contenuto dentro i giusti limiti anche per gli altri e nessuno rimase offeso.

Il primo gennaio in duomo con i profughi di San Donà

La cerimonia religiosa dell’ultimo giorno dell’anno 1917 fu completata, in una forma più intima e più simpatica, il primo gennaio del nuovo anno 1918, con la Messa celebrata dopo mezzogiorno, a porte chiuse, nel Duomo di Portogruaro. Alla presenza dei soli profughi di S. Donà : Mons. Saretta indossò i paramenti e usò i vasi sacri dell’arcipretale di S. Maria delle Grazie. – Fu un poema di commozione e di lagrime, specialmente quando, al Vangelo, l’arciprete Mons. Saretta portò l’augurio, presso a poco con queste parole: « Ho voluto questa riunione intima nella casa del Signore, perché oggi le nostre anime ne sentivano il bisogno. – Sebbene una barriera di ferro e di fuoco ci separi dai nostri cari, e sebbene lontani dalla nostra terra che è ormai un cumulo di rovine, noi abbiamo nel cuore la speranza. Sopra il Piave inviolato, spiriti che vanno e vengono portano e ricevono i voti, gli affetti, le lagrime di un popolo che oggi è unito più che mai nella sua fede e nella sua volontà di vivere…» – S.E. Mons. Francesco Isola, presente a questa cerimonia, comprese che aveva trovato un ottimo elemento che poteva riuscire di massimo vantaggio anche al suo popolo, e con bolla vescovile, in data 5 gennaio 1918, nominò Mons. Luigi Saretta parroco della Cattedrale di Portogruaro.

Era ciò che desiderava Mons. Saretta : la sua nuova posizione gli avrebbe assicurato un prestigio dinanzi alle stesse autorità tedesche ; lo avrebbe messo più strettamente a contatto con i profughi, dispersi nel vasto territorio di Portogruaro, e con i cittadini stessi, tanto bisognosi di assistenza spirituale. La consegna della chiesa si effettuò subito ; la consegna, invece, della canonica non si ebbe che il 22 gennaio 1918, non appena quella casa fu lasciata libera da un Comando austriaco che vi aveva preso dimora. Così furono salvati, almeno in parte, il mobilio e i libri dell’arciprete della Cattedrale.

L’occupazione raccontata da Monsignor Chimenton in “San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” nei post dedicati:

29 ottobre – 5 novembre 1917  prima parte; 6 – 9 novembre 1917 seconda parte; 9 – 11 novembre 1917 terza parte; 9 – 12 novembre 1917 (Passarella) quarta parte; 12 – 14 novembre (Passarella-Chiesanuova) quinta parte; 14 – 15 novembre 1917 (Chiesanuova) sesta parte; 13 novembre 1917 (Grisolera) settima parte; 14 – 18 novembre 1917 ottava parte; 16 – 21 novembre 1917 (Passarella e Chiesanuova) nona parte; 19 – 22 novembre 1917 (San Donà) decima parte; 23 – 30 novembre undicesima parte; 22 – 30 novembre 1917 (Torre di Mosto) dodicesima parte; 1 – 5 dicembre 1917 tredicesima parte; 6 – 8 dicembre 1917 quattordicesima parte; 8 – 15 dicembre 1917 quindicesima parte; 16 – 30 dicembre 1917 sedicesima parte; 31 dicembre 1917 – 5 gennaio 1918 diciassettesima parte

Monsignor Saretta confinato a Portogruaro

Tratto da “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Monsignor Costante Chimenton (1928, capitolo IV pp. 242-246)

In viaggio verso Portogruaro
La stazione di Santo Stino di Livenza

Piovigginava quella mattina ; « un fango orribile aveva tramutato le strade in pozzanghere. Gettate sulla carretta poche masserizie, il convoglio procedette a piedi fino a S. Stino di Livenza » : a don Zandomenighi non fu permesso di accompagnare alla stazione i due partenti, a cui si prospettavano nuove peripezie e più odiose vessazioni. La mamma di Mons. Saretta, causa il tempo e le strade impraticabili si soffermò a Torre di Mosto con una suora : il figlio arciprete le promise che sarebbe venuto a prenderla quanto prima.

Si partì dalla stazione di S. Stino alle 12.30 del 17 dicembre : pessima ed umida la stagione : tutta la gente unitamente alle suore, a Mons. Saretta e a don Marin, fu fatta salire su carrozzoni da bestiame. Carrozzoni aperti, per far contemplare ai profughi la bellezza, l’incanto poetico della stagione invernale. Dopo un viaggio disastroso, poco dopo la mezzanotte del giorno 18, si giunse a Portogruaro : le sentinelle li lasciarono tutti rinchiusi nei carrozzoni, tenuti a guardia, fino alle 10 antimeridiane. ̶ ̶ ̶ Lasciati in libertà ognuno dovette pensare a provvedersi di cibo e alloggio : Mons. Saretta sistemò le suore nell’ospedale civile : poi, abboccatosi con il Vescovo, ottenne ospitalità nella canonica di S. Agnese.

Monsignor Saretta e la vita a Portogruaro
Portogruaro a fine novembre del 1917

Ma l’arciprete di S. Donà doveva trovarsi in uno stato d’animo compassionevole : troncati i contatti diretti con casa Sgorlon, con Ceggia, con Torre di Mosto, vide il suo popolo, per il quale si era votato alla prigionia, lontano da sé, con un avvenire che per tutti si presentava assai fosco. Perduta quella tranquillità di spirito, che manifesta sempre nel suo diario, la sera del 18 dicembre, vergava queste parole : « Alla sera, cena tranquilla, ma tristissima, con don Berto in canonica di S. Agnese ! Ma… quando finirà questo doloroso calvario? ».

I primi giorni, in Portogruaro, passarono assai monotoni ; nessun incidente importante : mancarono spesso i viveri, ma non si ebbero, in compenso, noie maggiori. ̶ ̶ Si tentò di scindere anche quella piccola comunità sandonatese. Le suore furono richieste dalla stessa arciduchessa d’Austria per il servizio degli ospedali militari di S. Stino ; ma le suore si rifiutarono e chiesero invece di prestare servizio all’ospedale civile di Portogruaro.

Le festività a Portogruaro
Portogruaro ai primi di dicembre 1917

Poche persone di S. Donà potè Mons. Saretta avvicinare in questi primi giorni : tenne una vita ritiratissima fra Santa Agnese e l’ospedale ; potè avvicinare unicamente, il 22 dicembre, il dott. Perin, giunto in Portogruaro, e di sentire da lui tutti i patimenti e le peripezie della colonia affidata a don Rossetto in Cà Fiorentina. Un po’ di sollievo provò la sera dello stesso giorno, 22 dicembre, quando S.E. Mons. Isola lo chiamò e lo pregò di accettare l’incarico di tenere il discorso del 31 dicembre in Cattedrale. Le sue condizioni di salute erano un po’ infelici ; pure Mons. Saretta accettò l’incarico : fu un incarico delicatissimo, ma che avrebbe potuto riuscire vantaggioso al popolo, e anche un mezzo efficace per raccogliere i suoi parrocchiani dispersi nei paesi circonvicini di Portogruaro.

Il giorno di Natale fu triste : Mons. Saretta restò a letto fino alle 13 per non assistere al Pontificale del Duomo. ̶ ̶ ̶ Il 27 dicembre potè vedere don Rossetto e trattenersi con lui a tutto il 28. La vita cominciava un po’ a mutare aspetto, sebbene nessuna illusione Mons. Saretta si poteva formare, attese specialmente le condizioni in cui versava, nel campo religioso e politico, la città di Portogruaro.

L’ arrivo della madre di Monsignor Saretta
Monsignor Saretta con la madre e la sorella

La mamma dell’arciprete giunse a Portogruaro un po’ tardi, il 29 dicembre. Mons. Saretta non aveva potuto muoversi dalla nuova sede : la mamma, preoccupata di un lungo silenzio di 15 giorni, decise di mettersi sulle tracce del figlio e di raggiungerlo. Dovette portarsi a piedi da Torre di Mosto alla stazione di San Stino, sotto una pioggia torrenziale : il cuore di madre ha le sue esigenze. A lei, che ne aveva fatta esplicita domanda, fu negato ogni mezzo di trasporto, e unicamente concesso il “nulla osta” per il viaggio che doveva compiere. Mons. Saretta si mostrò graditissimo delle cure prestate alla sua mamma dal confratello di Torre di Mosto, e spedì una lettera, calda di affetto e di riconoscenza, a don Zandomenighi : « Mi spiace, scrive don Zandomenighi nelle sue memorie, di non produrre tale documento, anche perché contiene cenni specifici sulle peripezie occorsagli a Torre ; mi esprimeva sentimenti di perenne gratitudine per averlo salvato in uno dei momenti più pericolosi della sua prigionia ».

Finisce con l’arrivo a Portogruaro di Monsignor Saretta, di don Marin e delle suore il IV capitolo del libro di Mosignor Chimenton. Un pericoloso viaggio lungo quella prima linea rappresentata del Piave, la stessa percorsa da molte centinaia di profughi in cerca di rifugio. La guerra non è però finita e l’opera di Monsignor Saretta anche in quel di Portogruaro non sarà minore. Riprenderemo il filo del racconto tra qualche settimana.

L’occupazione raccontata da Monsignor Chimenton in “San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” nei post dedicati:

29 ottobre – 5 novembre 1917  prima parte; 6 – 9 novembre 1917 seconda parte; 9 – 11 novembre 1917 terza parte; 9 – 12 novembre 1917 (Passarella) quarta parte; 12 – 14 novembre (Passarella-Chiesanuova) quinta parte; 14 – 15 novembre 1917 (Chiesanuova) sesta parte; 13 novembre 1917 (Grisolera) settima parte; 14 – 18 novembre 1917 ottava parte; 16 – 21 novembre 1917 (Passarella e Chiesanuova) nona parte; 19 – 22 novembre 1917 (San Donà) decima parte; 23 – 30 novembre 1917 undicesima parte; 22 – 30 novembre 1917 (Torre di Mosto) dodicesima parte; 1 – 5 dicembre 1917 tredicesima parte; 6 – 8 dicembre 1917 quattordicesima parte; 8 – 15 dicembre 1917 quindicesima parte; 16 – 30 dicembre 1917 sedicesima parte; 31 dicembre 1917 – 5 gennaio 1918 diciassettesima parte

Dopo l’arresto di Monsignor Saretta, nuova destinazione per i profughi sandonatesi

Tratto da “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Monsignor Costante Chimenton (1928, capitolo IV pp. 217-218; pp. 222-224; pp. 241-242)

San Donà di Piave, via Maggiore il 7 gennaio 1918

A Torre di Mosto si era rifugiato il parroco di Passarella don Innocenzo Zandomenighi, nominato parroco dalle truppe di occupazione. E qui vi sarà l’incontro con Monsignor Saretta. Monsignor Chimenton intreccia i racconti degli scritti del parroco di Passarella e quelli di don Umberto Marin per narrare l’arresto dei due sacerdoti di San Donà.

Il clero attenzionato dalle truppe di occupazione

Quale l’accusa che gravava sul clero di S. Donà di Piave? L’accusa dello spionaggio, facile e opportuna scappatoia per levarsi d’intorno dei sacerdoti che costituivano un controllo prolungato sulle vessazioni che, con freddo cinismo, si perpetravano dai nemici sul popolo italiano.

Non destano meraviglia, se si tiene presente questo concetto, le disposizioni segrete emanate contro il clero italiano, ritenuto sempre dall’Austria come una spia, un elemento equivoco che bisognava o domare con la fame o sopprimere con la violenza. Questo principio, che fu principio fondamentale della politica tenuta dall’Austria nei paesi invasi, fu sanzionato in varie circolari : ne citiamo semplicemente una : « In caso di offensiva, e se per ragioni di difficoltà non venisse effettuato lo sgombero, tutti i borghesi di sesso maschile che vivono qui, verranno dichiarati in arresto e rinchiusi a cura del personale del reparto informativo ; il parroco, sotto la sorveglianza mia personale, sarà tenuto nella prigione ». (nota: ” La Battaglia del Montello, Comando dell’VIII Armata, Ufficio informazioni, riservatissimo, luglio 1918 – Battaglia del Montello, Comando dell’VIII Armata – “I.R. 44 Regg. Famt., Misure di precauzione per la repressione dello spionaggio nemico” – SI riferisce allo spionaggio compiuto dai nostri invasi nel territorio di Sernaglia”.)

Mons. Saretta e don Marin furono maggiormente colpiti da questa imputazione di spionaggio. – Mons. Saretta era ormai caduto nelle mani della giustizia : il severo controllo organizzato attorno alla sua persona non lasciava incertezze ; un po’ difficile invece si presentò la cattura di don Marin.

Dal Diario di don Zandomenighi: l’incontro con Mons. Saretta

Giunse il giorno 8 dicembre, giorno indimenticabile per il clero di S. Donà. Dispersi dalla guerra, i due parroci di S. Donà e di Passarella si trovarono momentaneamente ricongiunti sulla via del dolore e della fame ; la loro posizione giuridica si era interamente tramutata : don Zandomenighi, parroco eletto di Torre di Mosto, a Mons. Saretta, profugo e ramingo, un giorno suo superiore, concedeva l’elemosina e il soccorso. L’uguaglianza delle sofferenze fece dimenticare ogni divergenza giuridica : sul campo del dolore i due rappresentanti legittimi del popolo si intesero, si scambiarono i soccorsi, organizzarono un piano di comune salvezza.

Torre di Mosto, tratta da “La grande guerra tra terra e acqua” (archivio Renzo Vedovo)

Cediamo la parola all’ex parroco di Passarella : « Avevo celebrato la prima Messa e, ritornando a casa, mi incontro con l’arciprete di S. Donà : la barba lunga, pallidissimo, ma pure con il fare scherzoso, mi domandò il permesso di celebrare, e mi disse che fra un’ora sarebbero arrivate tutte le suore, e, fra qualche giorno, forse domani, anche sua madre con la donna di casa. Avevo quattro camerette con due letti ; a noi, quattro giorni prima, si era aggiunto P. Emidio, l’economo di Chiesanuova : quella mattina stessa domandarono ricovero il sig. Roma di S. Donà e, più tardi, don Umberto Marin. Come fare? Come provvedere di alloggio? Le suore, come tante pecore, occuparono la stanza vuota, priva di letti, e si accontentarono di riposarsi così, gettate sul nudo pavimento, nell’estrema povertà come il poverello d’Assisi in S. Damiano ; l’arciprete di S. Donà, il P. Emidio ed io su di un unico letto, da buoni fratelli, don Umberto nella stessa stanza ; la nipote, le cugine, la signora Letizia Saretta, l’inserviente, nella quarta stanza, esse pure sul nudo pavimento ». E per il vitto? Il problema si presentò ancor più interessante : « le due mie cugine e la nipote, che ormai erano conosciute, in giro ogni mattina, presso le varie macellerie per domandare un po’ di carne, e al molino per chiedere farina, e sul mezzogiorno in caserma, presso i gendarmi, con una pignatta, per prendere un po’ di minestra : il pranzo doveva essere allestito in due o tre riprese per mancanza di piatti e di posate ». Condizioni compassionevoli, ma ben più fortunate di quelle in cui si trovò gettata la gran massa del popolo di S. Donà, sotto l’oppressione di un nemico, e in momenti così tristi e così fatali. Allo stimolo della fame che tormentava, all’ostilità di uno spionaggio spietato, alle continue requisizioni che privavano il popolo di tutto e lo sottoponevano ad un regime insostenibile, non è da scordarsi la preoccupazione di un avvenire che si avanzava minaccioso, saturo di nuove persecuzioni e di nuovi pericoli.

Dal diario di don Umberto Marin: lo sgombero di via Sgorlon

Dopo l’arresto di Mons. Saretta e il suo internamento a Torre di Mosto, si volle dal Comando militare di Palazzetto che fosse allontanato da quella posizione anche il cappellano che, alle dipendenze dell’arciprete di San Donà, prestava il servizio religioso alla comunità concentrata in casa Sgorlon.

Torre di Mosto, tratta da “La grande guerra tra terra e acqua” (archivio Sergio Tazzer)

Un capitano a cavallo giunse la mattina del 13 dicembre a casa Sgorlon : riferì al cappellano che quella stessa mattina doveva partire. Il capitano, che parlava perfettamente italiano, si mostrò gentilissimo nei suoi atti ; con un atteggiamento quasi compassionevole verso il sacerdote, disse che motivi di convenienza avevano costretto l’autorità austriaca a trasferirlo in altra sede. Don Marin non si lasciò vincere da quelle prime parole melate : teneva con sé, nascosto in casa Sgorlon, tutto il tesoro della chiesa di San Donà. Il capitano, sempre con modi gentili, conchiuse : « E’ ordine superiore ; io devo eseguire quest’ordine, e lei veda di seguirmi! ». Fu inutile ogni resistenza : don Marin gettò su di una carretta di campagna un po’ di masserizie ; poi salì in cappella, prese la sacra pisside con le Specie consacrate, se la assicurò al petto, sotto le vesti, e, fra le grida di quella comunità e dei profughi accorsi dalle cascine circonvicine, intraprese il suo viaggio. Così la comunità di casa Sgorlon rimase priva del sacerdote e dei conforti della fede ; di essa si interessò, a lunghe riprese, don Rossetto, in quell’epoca impegnato in una missione del tutto pastorale nel concentramento di Cà Fiorentina.

L’arrivo di don Marin a Torre di Mosto e l’incontro con Monsignor Saretta

Dopo un viaggio lungo e faticoso, stanco, affamato, inzaccherato, don Marin giunse a Torre di Mosto poco dopo il mezzogiorno. Sulla pubblica piazza, contornato da gendarmi, lo attendeva l’arciprete di San Donà, già informato del suo arrivo, e che, dimenticando per un momento le sue lunghe sofferenze, fece al nuovo arrivato una festosa accoglienza. I due sacerdoti si abbracciarono e si baciarono tra le lagrime ; poi : « Porto con me l’Eucarestia! », esclamò il cappellano. Mons. Saretta s’inginocchiò, adorò Cristo, « che veniva a confortarlo nel Calvario da lui tanto coraggiosamente e con tanta generosità d’animo intrapreso ».

Monsignor Saretta e don Marin arrestati
Villa Loro a Ceggia, dove furono interrogati Mosignor Saretta e don Marin

I soldati fecero salire i due sacerdoti su di una carretta campestre e il convoglio si mosse. – Per dove? Era una nuova incognita a cui non si sapeva dare una risposta. Sulla stessa piazza di Torre assisteva, quale spettatore, il sig. Umberto Roma di San Donà. – Questi, commosso dinanzi a quella scena stranissima, si accostò ai due sacerdoti per rivolgere loro un saluto e una parola d’incoraggiamento. « Eh ! ci segua ! – esclamò Mons. Saretta ; – ci faccia compagnia ! » – « Ben volentieri ! », rispose il sig. Roma ; e salì, arrampicandosi su quel calesse già ormai in movimento. – Ma non era un viaggio di piacere : subito si comprese che la comitiva era diretta a Ceggia, presso il Comando di divisione, sistemantosi a Villa Loro. – Umberto Roma, conosciuto l’equivoco, chiese di tornare a Torre di Mosto : i gendarmi si opposero e lo dichiararono prigioniero di guerra, unitamente ai due sacerdoti. – A Villa Loro i tre prigionieri furono gettati in una lurida stanza : passarono la notte su un povero giaciglio ; tre soldati, con la baionetta innestata, furono incaricati a far la guardia a quei malcapitati, uno nella stanza stessa, il secondo fuori della porta e il terzo alla finestra. I prigionieri furono trattati da veri furfanti, o meglio da delinquenti.

L’interrogatorio e l’insperata liberazione

La mattina i tre prigionieri consumarono le Sacre Specie. – Verso le nove, si iniziò l’interrogatorio presso la cancelleria del tribunale di guerra. L’equivoco per il sig. Roma fu subito chiarificato : il prigioniero improvvisato fu rimesso in libertà ; al contrario l’interrogatorio dei due sacerdoti si protrasse fino alle tre e mezzo del pomeriggio ; furono discussi a lungo i rapporti presentati dai due sacerdoti contro le violenze e le rapine perpetrate dai soldati a danno delle donne e delle famiglie profughe. La montatura dello spionaggio tramontò, e anche i due sacerdoti, digiuni da ben 24 ore, furono rimessi in libertà. Si volle anzi, da quel Comando riparare, in qualche modo, all’affronto fatto ingiustamente patire : in una carrozza, unitamente al sig. Roma, i due sacerdoti furono ricondotti a Torre di Mosto. (1)

Torre di Mosto, tratta da “La grande guerra tra terra e acqua” (Archivio di Renzo Vedovo)

(nota 1): Il Sig. Umberto Roma rimase a Torre di Mosto fino all’armistizio ; ma la sua permanenza in quella località fu sempre poco fortunata : privo di notizie dei suoi familiari, visse giornate di dolore, come tutto il popolo invaso di San Donà ; riportiamo qualche periodo della lettera, spedita a Mons. Saretta, risiedente in quell’epoca a Portogruaro, il 22 luglio 1918 : “ Da molto tempo non ho notizie dirette ; però ognuno che so venire da Porto, lo interpello se mi sa dare di Lei notizie…. Spero continuerà a star bene ; fui ammalato, con otto giorni di letto lo scorso giugno : fortissimi dolori intestinali mi lasciarono in brutto stato… ; ieri tornati a disturbarmi : speriamo sia cosa passeggera. – Immagini lo stato dell’animo mio per non aver ancora notizie dei miei cari… Io e la sorella ce la passiamo, nella speranza che il buon Dio calcoli questo tempo per un po’ di purgatorio ; ma non le enumero i dispiaceri che soffriamo, ecc. “. (Cfr. Arch. Di Curia, incarto San Donà di Piave e la nuova chiesa).

Dal diario di don Zandomenighi: una nuova destinazione per la comunità di Monsignor Saretta

Passarono sei giorni in queste condizioni anormali, « quando, la mattina del giorno 14, Mons. Saretta e don Marin furono chiamati in tutta fretta dai gendarmi austriaci ; una carretta era giunta nel cortile ; i sacerdoti furono fatti salire : dovevano essere ricondotti nuovamente a Ceggia. E si fermarono a Ceggia tutta la giornata, sottoposti ad un nuovo interrogatorio lungo e minuzioso. Ritornarono a tarda sera tranquilli. Ma forse non era rimasta contenta e soddisfatta la cattiveria austriaca : la mattina del giorno 15, per tempo, un soldato mi venne a domandare, per ordine del Comando, se la sera antecedente erano ritornati i due sacerdoti, e a quale ora fossero ritornati ; due giorni dopo un ordine militare internava i due sacerdoti, con tutte le suore, a Portogruaro ».

L’occupazione raccontata da Monsignor Chimenton in “San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” nei post dedicati:

29 ottobre – 5 novembre 1917  prima parte; 6 – 9 novembre 1917 seconda parte; 9 – 11 novembre 1917 terza parte; 9 – 12 novembre 1917 (Passarella) quarta parte; 12 – 14 novembre (Passarella-Chiesanuova) quinta parte; 14 – 15 novembre 1917 (Chiesanuova) sesta parte; 13 novembre 1917 (Grisolera) settima parte; 14 – 18 novembre 1917 ottava parte; 16 – 21 novembre 1917 (Passarella e Chiesanuova) nona parte; 19 – 22 novembre 1917 (San Donà) decima parte; 23 – 30 novembre 1917 undicesima parte; 22 – 30 novembre 1917 (Torre di Mosto) dodicesima parte; 1 – 5 dicembre 1917 tredicesima parte; 6 – 8 dicembre 1917 quattordicesima parte; 8 – 15 dicembre 1917 quindicesima parte; 16 – 30 dicembre 1917 sedicesima parte; 31 dicembre 1917 – 5 gennaio 1918 diciassettesima parte

Ordine di sgombero : inizia l’esodo verso Torre di Mosto

Tratto da “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Monsignor Costante Chimenton (1928, capitolo IV pp. 210-217)

San Donà di Piave, 24 novembre 1917
Un giogo che non sembra allentarsi

Le vessazioni, i soprusi, le violenze aumentavano intanto con un crescendo spaventevole, raddoppiato dalla disillusione in cui era caduto l’esercito austriaco in seguito ai disastrosi scontri sulla destra del Piave.

La notte dal 5 al 6 dicembre, in una cascina, presso casa Sant, alcuni soldati austriaci, che avevano tentato di rubare quel po’ di pollame che costituiva l’unica ricchezza di un povero vecchio, certo Bevilacqua di S. Donà, quando si videro scoperti dal proprietario che gridò al soccorso, spararono contro di lui diversi colpi di rivoltella : una pallottola lo colpì alla guancia destra, e gli spezzo la mascella. Compiuta quell’eroica azione, quei delinquenti se ne andarono canticchiando una canzonaccia e bestemmiando a Salandra e a Sonnino (nota: presidente del consiglio il primo, ministro degli esteri il secondo, che portarono l’Italia nel campo dei paesi dell’Intesa e alla conseguente guerra contro l’Austria), abbandonando in una pozza di sangue quel vecchio. Il poveretto fu assistito da Mons. Saretta, che mandò subito per un medico ungherese, che era sul posto, a pochi passi dalla località : ma il medico si rifiutò di prestare il suo soccorso ad un italiano, e a Mons. Saretta che insisteva, in nome dei primi elementi di umanità, per ottenere la sua presenza, in chiara lingua toscana rispose : ‹‹ Così possano crepare tutti i borghesi! ››.

Solo alla mattina la ferita gravissima fu disinfettata da una suora infermiera ; ma il sangue perduto durante la notte e che non riuscì a fermare con una medicazione provvisoria, annunziò prossima la morte del vecchio : Mons. Saretta gli somministrò i conforti religiosi ; poi si rivolse al capitano Paolo Hertzog, che sempre si era dimostrato generoso e caritatevole verso i nostri profughi, e ottenne che il ferito fosse trasportato in un ospedale. Sulla sera del giorno 6 l’infelice partiva sopra un rozzo carro da trasporto, accompagnato da due soldati ; Mons. Saretta, incontratolo per strada, gli somministrò l’Estrema Unzione : all’ospedale di Torre di Mosto, dove era diretto, il Bevilacqua giunse cadavere. Le prove più dure non erano ancora giunte : Mons. Saretta doveva affrontare umiliazioni ancor più forti prima di giungere ad una sistemazione un po’ tranquilla in Portogruaro, dove già si era concentrato un forte nucleo di sandonatesi.

Casa Sgorlon, subito dopo la guerra
Ordine di sgombero per le comunità di casa Sgorlon, casa Sant e casa Catelan

Il 6 dicembre si impose tutto lo sgombero della zona : il provvedimento, che poteva essere giustificato da necessità tattiche e di incolumità per gli invasi, assunse un aspetto odioso per il modo con cui fu attuato. Già alcune famiglie avevano, in antecedenza, presa la via della profuganza, senza meta, senza direzione, senza viveri. Mons. Saretta si portò quella mattina in casa Catelan ; chiamò a raccolta gli uomini per prendere con questi gli accordi nel caso venisse singolarmente imposta la partenza : non sarebbe stato prudente lasciarsi colpire da un improvviso ordine di sgombero. Poco lontano da casa Catelan stava stanziando il comando di un battaglione.

Monsignor Saretta raggiunge un accordo sullo sgombero, subito disatteso

Il giorno 7 dicembre, un venerdì che non si dimenticherà mai dai profughi prigionieri di S. Donà, Mons. Saretta chiese un abboccamento con il colonnello : aiutato da un interprete, potè perorare la causa del suo popolo in modo efficacissimo e ottenere promessa formale che, qualora fosse stata sgomberata la zona Catelan-casa Sant, i profughi di S. Donà, sotto la responsabilità del loro arciprete, avrebbero potuto rimanere, o certamente non avrebbero avuto noie finchè non si fossero trovati i mezzi di trasporto e un rifugio sicuro nelle retrovie. Il permesso scritto doveva essere consegnato a Mons. Saretta un po’ più tardi : il colonello si impegnava intanto a notificare la cosa al Comando di divisione, da cui dipendeva il settore. Mons. Saretta era appena tornato con il fausto annunzio in casa Catelan e in casa Sant, quando una strana visita fece comprendere che gli eventi precipitavano. Il maggiore medico ungherese, l’assassino che il giorno innanzi si era rifiutato di curare il Bevilacqua, in compagnia del sergente che comandava la pattuglia, entrò in casa Sant per una minuta perlustrazione di tutte le stanze. Fu il segnale della catastrofe : imprecando alla guerra e a chi l’aveva dichiarata, quel maggiore si allontanò, lanciando prima un’occhiata sprezzante e quasi di compiacenza sui due vecchi di Passarella, che giacevano miseramente accovacciati in un angolo della cucina.

La zona dell’esodo di quei primi giorni di dicembre

Giungeva intanto la notizia che casa Sgorlon era stata sgomberata. Mons. Saretta si precipitò sul luogo per impedire lo sgombero e ottenere che si rispettasse l’ordine del colonnello. Lungo il percorso ebbe chiara la visione di quell’ultimo strazio ; nei cortili delle case erano state gettate a terra le povere masserizie dei contadini, mentre la truppa, avida di impadronirsi del bottino, piantonava le stanze, e con la rivoltella in mano, minacciava chiunque ardisse avvicinarsi. Dopo un mese di strazi, la nuova odissea veniva così ufficialmente ripresa. Nessun riguardo ai bambini, alle donne, agli ammalati : la soldatesca, costituita di elementi bosniaci, la mezzaluna intrecciata sull’elmetto, laceri, sporchi, senza camicia, veri banditi da galera, pareva scelta apposta per compiere l’ultimo scempio di un popolo, reo unicamente di essere italiano!

In casa Sgorlon erano ricoverate più di cento persone assistite dal cappellano don Marin. Nel cortile dell’ampio fabbricato, tre carri erano ormai già carichi di masserizie gettate alla rinfusa. Il vecchio padrone di casa, un tipo patriarcale girava intorno attonito, con due cappelli in testa, un paletot e un giubbone d’inverno sulle spalle ; i bambini strillavano ; le donne scapigliate sembravano impazzite, mentre, dentro, nella casa, i mussulmani consumavano il saccheggio di quanto non era stato gettato sui carri. Una vecchia, che non poteva scendere dalle scale, fu afferrata per il collo per essere gettata giù dalla finestra : due testimoni che tentarono di salire per salvarla, furono respinti col calcio del fucile : la disgraziata, trascinata in modo brutale giù per la scala da due bosniaci, rimase tutta pesta.

L’ira di Monsignor Saretta per lo sgombero forzato, ad un passo dalla fucilazione

Un furioso cannoneggiamento di abbatteva intanto su S. Donà e Grisolera, e un tenente a cavallo impartì l’ordine della partenza. Mons. Saretta non seppe più contenersi, e, furente contro quel nuovo sistema di assassinio, gridò che si attendesse almeno la risposta del comandante di divisione e si rispettassero gli ordini superiori. Il cappellano don Marin fu mandato ad informare del fatto il colonnello ; ma il percorso era lungo quattro chilometri, e nell’attesa, acconsentita dal tenente, fu una lotta continua tra i soldati che chiedevano una partenza precipitosa e Mons. Saretta che reclamava giustizia e umanità. Quel giorno non si pranzò ; neppure i bambini chiesero cibo, colpiti dalla scena del tutto nuova e dall’atteggiamento dell’arciprete, il quale aveva imposto ai suoi di non allontanarsi, e che, le mani incrociate sul petto, misurando in tutte le direzioni il cortile di casa Sgorlon, non cedeva dinanzi alle minacce dei Bosniaci e del loro comandante.

Monsignor Saretta

Verso le due del pomeriggio un sergente, seguito da due soldati bosniaci, in tenuta di servizio, si accostò a Mons. Saretta e gli impose di seguirlo : fu condotto in casa Sant. La casa era in uno stato di vero assedio, tutta piantonata da truppa. Il maggiore medico, in atteggiamento di minaccia, attendeva l’arciprete : lo investì con sarcasmi e con parole asprissime, e gli impose la partenza, sotto pena di fucilazione immediata. Mons. Saretta reagì fortemente agli insulti di chi abusava di una forza brutale e rimbeccò ad una ad una le osservazioni e le offese di quel medico degenerato : un sergente triestino si frappose fra i due litiganti, e Mons. Saretta, sbalzato da quel triestino che bestemmiava in lingua toscana perfetta, si vide perduto : rispose che cedeva alla violenza! Volle però salire nella cappellina di casa Sant, dove consumò l’Eucarestia distribuendo la Comunione alle suore e ai bambini più teneri ; fece poi gettare su due carri quelle poche masserizie che erano state salvate sino allora ; si interessò perché le suore mettessero in salvo il corredo liturgico della chiesa di S. Donà e i documenti riguardanti l’ospedale e l’asilo ; poi…. Si diede in mano ai soldati. Erano le tre pomeridiane.

Inizia l’esodo verso Torre di Mosto

Si organizzò il corteo per la partenza. Ogni suora fu fiancheggiata da due gendarmi armati ; l’arciprete, come l’elemento più torbido e pericoloso, da quattro gendarmi : a lui non si permise di scambiare una parola. Una bambina, che lo vide in quello stato di arresto, gli si avvicinò per baciargli l’ultima volta la mano : fu cacciata lontano bruscamente con un calcio.

Don Umberto Marin

Sul volto di tutti era scolpito lo spavento : la preoccupazione più angosciosa era per la sorte riservata all’arciprete. Mons. Saretta era pallido come la morte : un sudore freddo gli imperlava la fronte e non poteva parlare. Si scosse da quell’atteggiamento unicamente quando il maggiore medico impose che i due vecchi ammalati, rincantucciati in cucina, non venissero trasportati. Tentò allora di parlare, ma la voce gli si strozzò in gola. Mentre da tutti si attendeva che la strana compagnia si mettesse in moto, con un fare sdolcinato che in altre epoche avrebbe avuto del comico, il maggiore medico, sotto pretesto di assistenza ai due vecchi, requisiva due suore, suor Luigia Cernesoni e suor Battistina Lanza, e ordinò venissero rinchiuse in una stanza. Le due requisite piansero e scongiurarono ; supplicarono che i due ammalati fossero sì affidati alle loro cure, ma trasportati con la carovana : col calcio del fucile furono sospinte dai Bosniaci su per la scala, mentre due soldati con la baionetta che toccava loro il petto gridavano che le avrebbero finite se non avessero smesso di strillare. Alle quattro precise del 7 dicembre la carovana si mosse : a questa era stata aggiunta, travolta dalla stessa sorte, tutta la famiglia Sant che aveva ospitato le suore e l’arciprete. Anche quella sera il sole tramontava in un mare di fuoco.

Pochi minuti dopo giungeva il cappellano militare, P. Tecelin Joseph Jaksch, accompagnato da don Marin, con il permesso del Comando di divisione, con cui si concedeva all’arciprete di S. Donà e ai suoi parrocchiani l’ordine scritto di rimanere sul posto. Troppo tardi! Il permesso giovò soltanto per la famiglia Sgorlon che riprendeva e rioccupava le proprie stanze, dove rimase indisturbata fino al 19 febbraio 1918.

La sosta notturna presso Stretti
Immagine tratta da “Una memoria di guerra nell’anno dell’invasione austro-ungarica” (2012, Battistella-Polita)

Dopo tre ore di cammino angoscioso, sempre in silenzio, si giunse in località chiamata Stretti, a sette chilometri da Grisolera e cinque da Torre di Mosto. Qui i soldati ordinarono la sosta e il riposo per la notte. La posizione era deserta ; nessun vestigio di abitazione umana ; una stamberga abbandonata, al di là del canale, raccolse quella notte un centinaio di persone. ‹‹ E noi dovemmo passare la notte così, dopo una giornata di tante vicende. Prendemmo posto, con la poca roba che ci era rimasta, in una orribile stanzaccia ; per coricarci in qualche modo, stendemmo un po’ di fieno che doveva aver servito alle sentinelle del ponte sul vicino canale, e che doveva contenere molti inquilini poco graditi. In un’altra stanzaccia prese ricovero la famiglia Sant che era stata cacciata con noi. Faceva freddo, un freddo umido che saliva dalle acque circostanti con una nebbia fitta che penetrava le ossa. I bambini impauriti, privi di nutrimento, piangevano. ̶ ̶ ̶ Ci siamo raccolti per la preghiera : i soldati bosniaci guardavano e sorridevano ; un po’ di polenta fredda, portata dalla famiglia Sant, fu l’unico cibo di quella giornata, condito con le lagrime più amare : poi, vestiti come eravamo, ciascuno si gettò sulla terra, sulla paglia, accovacciato lungo le pareti ; qualche coperta sulle spalle alle donne e ai bambini, e si cercò il riposo. Ma non fu possibile il riposo dopo una giornata di tante lotte e di tante emozioni ; fuori, i soldati avevano acceso un gran fuoco che minacciava quel tugurio mezzo coperto di paglia, e tra le risa, i frizzi e gli schiamazzi attendevano il sorgere del nuovo sole. Più lontano, in un sussulto monotono, cadenzato, rumoreggiava il cannone››.

La mattina dell’8 si ritrovarono soli nel viaggio verso Torre di Mosto

Spuntò finalmente il mattino del giorno 8 dicembre, festa dell’Immacolata : gli uni dubitavano sulla sorte degli altri. Quando si videro tutti in vita, dinanzi alla catapecchia, imbrattati di fango e di lordura, ma ancora salvi ; quando si videro soli e senza soldati che si erano allontanati senza lasciare nuovi ordini e nuove disposizioni ; quando si riconobbero liberi da tante angherie, respirarono e ringraziarono la Provvidenza. ̶ Le due suore rimaste prigioniere furono ugualmente protette dalla mano di Dio : otto giorni dopo raggiunsero le consorelle a Torre di Mosto, accompagnate dal cap. Hertzog. Il capitano anzi, che le precedette a cavallo, permise che quelle sue suore potessero trasportare a Torre quel materiale che era rimasto abbandonato in casa Sant, e, di più, concedette loro una armenta per provvedere di latte gli ammalati. Una brina gelata dava tutto attorno alla campagna deserta lo spettacolo della morte.
Bisognava provvedere a tanta gente per non lasciarla morire di fame e di freddo in quella località ; bisognava provvedere ai mezzi di trasporto. Mons. Saretta, staccatosi subito dalla compagnia, si diresse verso Torre di Mosto per celebrarvi la Messa e per provvedere alle necessità più urgenti.

Quel grave pericolo corso da Monsignor Saretta

Fu durante quel viaggio disastroso del 7 dicembre che Mons. Saretta corse il pericolo di venir soppresso per sempre. Teneva rinchiuso nel taschino della veste la copia di un discorso pronunciato nell’arcipretale di S. Donà di Piave alla presenza di tutto il popolo e delle autorità civili e militari, in occasione dell’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia ; e, sotto le calze, il suo minuscolo diario di guerra, caduto ora nelle nostre mani, e che ci serve per la ricostruzione di queste scene dolorosissime. Erano due documenti assai pericolosi : il primo poteva essere carpito alla più semplice perquisizione ; il secondo poteva rimanere nascosto. Il primo documento doveva scomparire ; e scomparve in un modo semplicissimo, del tutto originale. Imbacuccato nel su mantello, quando Mons. Saretta percepì che la sua condanna alla fucilazione poteva essere racchiusa in quelle poche pagine, piegò la testa fino a coprirsi la bocca, estrasse, dal disotto, quell’opuscolo e cominciò a lacerarlo con i denti fino a ridurlo, lentamente, pezzo a pezzo, in una pontiglia : poi lo sputò, a varie riprese, sulla lunga strada. ‹‹ Sta male, Reverendo ! ››, gli ripeteva sghignazzando un interprete triestino, veramente poco triestino, che lo accompagnava unitamente ai soldati di guardia ; ‹‹ ringrazi Cadorna ! ››. All’ironia si aggiungevano gli insulti e le beffe ! ‹‹ No ! signore, ̶ rispose sollevando la testa pallida Mons. Saretta, ̶ sto benissimo ; oggi non ho nessuno da ringraziare, e neppure lei ! ››.
L’interprete comprese la risposta, e più non fiatò ; prima del tramonto quel documento compromettente era scomparso del tutto.

L’occupazione raccontata da Monsignor Chimenton in “San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” nei post dedicati:

29 ottobre – 5 novembre 1917  prima parte; 6 – 9 novembre 1917 seconda parte; 9 – 11 novembre 1917 terza parte; 9 – 12 novembre 1917 (Passarella) quarta parte; 12 – 14 novembre (Passarella-Chiesanuova) quinta parte; 14 – 15 novembre 1917 (Chiesanuova) sesta parte; 13 novembre 1917 (Grisolera) settima parte; 14 – 18 novembre 1917 ottava parte; 16 – 21 novembre 1917 (Passarella e Chiesanuova) nona parte; 19 – 22 novembre 1917 (San Donà) decima parte; 23 – 30 novembre 1917 undicesima parte; 22 – 30 novembre 1917 (Torre di Mosto) dodicesima parte; 1 – 5 dicembre 1917 tredicesima parte; 6 – 8 dicembre 1917 quattordicesima parte; 8 – 15 dicembre 1917 quindicesima parte; 16 – 30 dicembre 1917 sedicesima parte; 31 dicembre 1917 – 5 gennaio 1918 diciassettesima parte