Quel ricordo della Russia che ritorna e gli altri caduti sandonatesi

La terribile campagna di Russia la raccontammo qualche anno fa attraverso il viaggio di una cartolina partita da San Donà di Piave e mai arrivata a quel figlio poi caduto in quella terra lontana http://bluestenyeyes.altervista.org/quel-terribile-inverno-russo-del-42/. Altri giovani soldati nati a San Donà di Piave sono caduti in Russia, per la maggior parte appartenenti a degli stessi Reggimenti, i più sono stati dichiarati dispersi durante le offensive russe di fine gennaio 1943:

• Bragato Mario (1921), fante del 277° Reggimento Fanteria, morto il 10 marzo 1943 campo 188 (Tambov)

• Brollo Angelo (1914), mitragliere del 156° Battaglione Mitraglieri, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Conte Antonio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Dalla Francesca Elio (1921), fante del 278° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Giacomel Giuseppe (1922), fante del 278° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Masarin Vittorio (1922), fante 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Mattiel Attilio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Miozzo Angelo (1922), fante del 278° Reggimento Fanteria, caduto 30 gennaio 1943 (disperso)

• Ongaretto Ferruccio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, morto 28 marzo 1943 campo 56 (Uciostoie)

• Pavan Giannetto (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, morto il 10 novembre 1944 campo 56 (Uciostoie)

• Scomparin Gregorio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Sgnaolin Renato (1922), mitragliere del 156° Battaglione Mitraglieri, caduto 31 dicembre 1942 (disperso)

• Stefanello Alfredo (1922), caporale del 278° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Vallese Antonio (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 23 gennaio 1943 (disperso)

• Zamuner Arturo (1914), mitragliere del 156° Battaglione Mitraglieri, caduto 31 dicembre 1942 (disperso)

• Zanutto Pacifico (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, caduto 31 gennaio 1943 (disperso)

• Zecchin Luigi (1922), fante del 277° Reggimento Fanteria, morto 11 marzo 1943 campo 62 (Nekrilovo)

Una Cerimonia Solenne il 15 settembre 2024

Per Ricordare e Onorare i Soldati del Csir e dell’ARMIR, i Reduci, i Caduti, i Dispersi e i Morti in Prigionia nell’ottantunesimo anniversario del Ripiegamento di Russia, domenica 15 settembre 2024 è stata indetta una Cerimonia Solenne dall’UNIRR presso il Tempio di Cargnacco a Pozzuolo del Friuli (Ud) con inizio alle ore 9.30.

Per approfondimenti: 1. Divisione Vicenza ; 2. Memoriale del Col. Giulio Cesare Salvi (comandante del 277° Reggimento Fanteria); 3. Posta Militare 156 – La Divisione “Fantasma”; 4. L’elenco dei caduti della Divisione “Vicenza” (Marini); 5. Campagna italiana in Russia (agosto 1941-20 gennaio 1943); 6. Prima battaglia sul Don (20 agosto-1° settembre 1942); 7. Seconda battaglia sul Don (11 dicembre 1942 -31 gennaio 1943); 8. Offensiva Ostrogožsk-Rossoš’ (12 gennaio-27 gennaio 1943); 9. U.N.I.R.R. (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia);

28 luglio 1944, ottanta anni fa il sacrificio dei Tredici Martiri

Le tombe dei Martiri della Libertà presenti nel cimitero di San Donà di Piave

« Verso la mezzanotte del 27 luglio, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 4 giugno 1945, essi venivano bruscamente svegliati nelle loro celle, invitati a vestirsi e a partire. Partirono per non più ritornare. Alla soglia del carcere, gli assassini li attendevano, quaranta uomini armati di tutto punto contro tredici uomini inermi e legati mani e piedi.

Per giustificare l’eccidio, un simulacro di processo venne tenuto, clandestinamente, in qualche luogo. La sentenza, già preparata in anticipo, venne letta ai morituri nei pressi del luogo dell’esecuzione. E quando l’alba stava per spuntare, ripetute scariche di mitra falciavano i loro poveri corpi, dai quali, come ultima manifestazione di una vita spesa per il bene della Patria, uscì un sol grido: « Viva l’Italia ».

Da quel mattino in cui i Caduti cessarono di essere degli esseri viventi, essi diventarono un simbolo di dedizione al dovere, della volontà di lotta, delle sofferenze e del martirio di tutto un popolo e presero un nome comune: i Tredici Martiri di Cà Giustinian ».

La commemorazione solenne in occasione del ventesimo anniversario

Il libretto che contiene il testo dell’incip è stato editato dal Comune di San Donà di Piave in occasione di una commemorazione solenne che si tenne il 6 settembre 1964 in occasione del ventesimo anniversario. Ai Tredici Martiri e a quel libretto abbiamo già dedicato un post « San Donà di Piave, il sacrificio dei Tredici Martiri », con la possibilità di scaricare il libretto stesso a questo link: « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° anniversario della Resistenza ». A seguire invece l’invito spedito alle autorità per la manifestazione del 6 settembre 1964:

L’attentato di Cà Giustinian

La targa ricordo presente a Cà Giustinian

L’attentato che poi portò alla rappresaglia e all’uccisione dei Tredici Martiri avvenne il 26 luglio 1944. L’obiettivo a Venezia era la sede del Comando provinciale della Guardia nazionale repubblicana (Gnr). In quel palazzo aveva sede anche la polizia segreta del Partito fascista (Upi), oltre che un ufficio di propaganda tedesco, che risulterà l’anello debole che permise il successo dell’azione. Un obiettivo altamente simbolico che vide il crollo dei cinque piani del palazzo con numerose vittime, tra cui due militari tedeschi. Racconta Morena Biason nel suo libro (1): « …fu acquistato il baule che doveva servire allo scopo, predisposto il congegno di accensione, preparata la bomba dentro la cassa e, la mattina del 26, Varisco si recò presso l’abitazione in cui la cassa era custodita, lo studio dello scultore Velluti, e mise in funzione il congegno, dopodichè Velluti scrisse l’indirizzo tedesco sul coperchio della cassa che venne caricata sulla barca che la doveva portare a destinazione: la portarono “Kim” e un altro. I due si erano presentati al corpo di guardia del Comando provinciale della Gnr di Venezia preceduti da tre soldati tedeschi insieme ai quali, dopo aver dichiarato di dover consegnare il baule all’ufficio propaganda tedesco, avevano esibito i loro documenti personali ed erano stati fatti entrare nello stabile. Dato che l’ufficio non era ancora aperto, la cassa era stata lasciata in custodia al corpo di guardia e i due portatori se ne erano andati dicendo che sarebbero tornati poco dopo. Lo scoppio della bomba aveva provocato il crollo completo dei cinque piani dell’edificio, come voleva Varisco, solo nella parte posteriore. In seguito erano stati individuati i tre soldati tedeschi che avevano accompagnato Kim e il suo compagno all’interno del palazzo ed era stato appurato che erano stati sorpresi nella loro buona fede….»

L’alba del 28 luglio 1944

La tomba degli undici martiri sandonatesi di Cà Giustinian

Il giorno ventisette venne decisa la rappresaglia, tredici furono i prigionieri politici del carcere di Santa Maria Maggiore che vennero giustiziati, quasi tutti erano sandonatesi. Racconta Morena Biason nel suo libro (1): « La sera del 27 un gruppo di militi della Gnr si era portato presso la sede dei carabinieri di San Zaccaria, da dove aveva ordinato il trasferimento presso di loro, dalle carceri di Santa Maria Maggiore, dei tredici prigionieri scelti per la rappresaglia. I tredici, che credevano di andare incontro ad un processo, furono subito inviati a San Zaccaria, dove trascorsero solo una parte della notte, perchè prestissimo in sette, legati con una fune, vennero portati con un motoscafo sulle macerie di Cà Giustinian e, alle 5 del mattino, uccisi a colpi di mitra e di pistola. Le altre sei vittime, anch’esse legate, erano state fatte giungere sul posto a piedi, dalla parte di San Moisè. Solo alle 9 del giorno successivo le salme furono rimosse e trasportate con una peata al cimitero, senza che fosse possibile rivolger loro qualsiasi tipo di onoranza funebre. Avevano lasciato Santa Maria Maggiore intorno alla mezzanotte e, verso le 6, racconta Giuseppe Gaddi, in carcere all’epoca con i Tredici, la guardia addetta al magazzino già si recava a ritirare gli oggetti che avevano lasciato in cella. Il plotone di esecuzione era comandato dal capitano della Gnr Waifro Zani che aveva fatto di tutto per trattenere i tredici in carcere e non farli partire per la Germania, nonostante fossero già ingaggiati con regolare contratto per recarvisi a lavorare. Il capitano dopo che il plotone di esecuzione aveva già eseguito l’ordine impartitogli, avrebbe sparato un colpo di rivoltella contro ciascuno dei primi sette martiri… »

Gli altri martiri presenti nel cimitero sandonatese

La tomba dei Martiri della Libertà presente nel cimitero sandonatese

Accanto ai Tredici Martiri sandonatesi, nel cimitero cittadino vi è una seconda tomba che accoglie altre vittime sandonatesi di quel cruento periodo che vide gli uni contro gli altri, talvolta con divisioni profonde nelle proprie stesse famiglie. Un periodo nel quale morire era un attimo e anche quando si pensava di essere nel giusto, il destino decideva altrimenti. E’ il caso di Verino Zanutto al quale il solo perorare la causa di alcuni conoscenti catturati da un gruppo di partigiani trevigiani costò la vita seguendo così lo stesso destino di coloro che avrebbe voluto salvare in quanto egli stesso partigiano. Con Zanutto morì impiccato anche Primo Biancotto che lo accompagnava, fratello del Francesco che fu fucilato qualche mese dopo a Cà Giustinian. Flavio Stefani, Zanin Casimiro e Giodo Bortolazzi, tutti di Calvecchia, nel fiore dei loro anni morirono nei pressi di Pramaggiore. Caddero prigionieri dei nazisti comandanti dal tenente Bloch durante un rastrellamento a Blessaglia a seguito di alcuni sabotaggi alla linea ferroviaria. Dopo essere stati torturati furono fatti passare in rassegna alla popolazione locale per segnalare qualche loro fiancheggiatore, rimasti in silenzio furono impiccati agli alberi che costeggiavano la via Postumia il 27 novembre 1944. Al Zanin cedette la corda, lo stesso Bloch lo giustiziò a colpi di pistola dopo che una prima pistola si inceppò. Per tre giorni vennero lasciati lì a monito della popolazione locale. Padre e figlia sono invece Carozzani Luigi e Carozzani Cesira. Il padre trasferitosi in Friuli riforniva di viveri le formazioni partigiane entrando nelle mire dei tedeschi, anche i figli ben presto seguirono la stessa sorte tanto che le figlie Elvira e Cesira vennero catturate e inviate in Germania. Quando riuscirono a rientrare a San Donà il padre era già caduto in un conflitto a fuoco con i tedeschi in Friuli mentre Cesira non sopravvisse alla tubercolosi. Carlo Vizzotto fu uno di quei ragazzi che vennero arruolati forzosamente nelle fila dell’esercito di Salò. Inviato in Germania, al suo ritorno disertò e si aggregò ai gruppi partigiani liguri dove si distinse particolarmente prima di cadere in combattimento. Guerrato Luigi mori invece durante un attacco al presidio tedesco di Noventa il 28 aprile 1945.

I martiri della stazione

Villa Amelia, sede del comando delle SS durante l’occupazione nazista

All’ultimo dei sandonatesi presenti nella tomba dei Martiri della Libertà, Bruno Balliana, è legato uno degli episodi che sono rimasti nella triste storia di San Donà di quegli anni. «… La sera del 10 dicembre la squadra del Curasì, il comandante del presidio delle Brigate Nere di San Donà di Piave, prelevò dalle carceri mandamentali di San Donà Bonfante Angelo, Bonfante Bruno, Scardellato Giuseppe e Balliana Bruno, che vi erano stati in precedenza ristretti per renitenza alla leva o attività antifascista, e li condusse alla sede delle SS Germaniche, dove si trovava detenuto il conte Gustavo Badini, anch’egli arrestato per attività partigiana. A notte i cinque detenuti furono fatti uscire da Villa Amelia, sede delle SS e instradati per Noventa di Piave. La scorta era costituita da un reparto, forse di 60 uomini, al comando del tenente Haupt, e da un plotone comandato da Curasì. Questi diede in seguito ordine di mutare la formazione, e cioè fece disporre i detenuti in linea di fronte, l’uno affianco all’altro: seguiva immediatamente, a una decina di passi, il plotone anzidetto. Era stato percorso circa mezzo chilometro fuori dell’abitato, quando il Curasì, dato l’alt, diede ordine ai detenuti di voltarsi e intimò ai suoi uomini: fuoco! Seguì una violenta raffica da parte del plotone, che cagionò la morte immediata del Baldini, del Scardellato, del Balliana, e di Bonfante Angelo: il fratello di quest’ultimo, Bonfante Bruno, rimase invece miracolosamente ferito alle natiche ed ebbe il consapevole ardimento di buttarsi subito fuori della strada e darsi alla fuga, riuscendo, benchè inseguito, a sottrarsi all’eccidio e alla detenzione. Processato a fine guerra, Curasì venne condannato alla fucilazione alla schiena, il suo secondo Fenzo all’ergastolo, a trent’anni i sei componenti del plotone. »

La folla assiepata di fronte al duomo di San Donà in occasione dei funerali dei Tredici Martiri sandonatesi

Per approfondimenti sui Tredici Martiri e la resistenza sandonatese: (1) « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007)

25 aprile, Festa della Liberazione: un ricordo del 1944

25 aprile, Festa della Liberazione: un ricordo del 1944

San Donà di Piave, medaglia d’argento al Valor Militare per la guerra di Liberazione: «Fiera Città di prima linea già duramente provata dalla guerra, subito dopo l’armistizio sosteneva con decisione la lotta di liberazione, dando centinaia di valorosi combattenti alle formazioni partigiane e pagando sanguinoso tributo di vittime alla repressione tedesca. Duramente colpita anche da bombardamenti aerei non piegava la decisa volontà di resistenza. Insorgeva in presenza di ben seimila soldati tedeschi, liberava il suo territorio tre giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate, dopo aver catturati tremilacinquecento prigionieri. San Donà di Piave, 19431945»
— 12 dicembre 1952

Racconta Domenico Savio Teker nel suo libro “Storia cristiana di un popolo”: « Il 9 agosto il conteggio dei morti aumenta. Due partigiani vengono uccisi dai tedeschi dietro il Municipio, vengono fucilati senza dar loro il conforto di un prete. Lo stesso giorno il paese è attraversato da un camioncino che scarica davanti alla sede del fascio il corpo di un “disertore” di Musile. Il giorno dopo alle cinque di mattina i tre vengono sepolti “senza corteo e senza pompe”. Il sacerdote insieme a loro benedice anche la salma di un partigiano di Chioggia che era stato ferito a morte in uno dei rastrellamenti della settimana. ».

I due partigiani fucilati all’alba
Piazza Indipendenza su cui si affaccia il Municipio di San Donà di Piave (anni Quaranta)

Nei pressi del Municipio alle prime luci dell’alba furono fucilati Agostino Visentin, di Musile di Piave e Matteo Corridore, di San Giovanni Rotondo. Preziosi dettagli si desumono dal libro di Morena Biason “Un soffio di libertà”. In una relazione della brigata “Piave” viene segnalata la perdita di un elemento del gruppo, Agostino Visentin (tra parentesi le correzioni dell’autrice al documento dell’epoca) « In data 5 [ma forse 7] agosto 1944 in uno scontro sostenuto da alcuni compagni in località San Michele del 4°, contro due camion di SS e g.n.r. si lamenta la cattura in seguito a ferimento del compagno Visentin Augusto [ma Agostino] successivamente seviziato in ripetuti interrogatori e conseguentemente fucilato all’alba del giorno 11/8/1944 [ma 9/8/1944] dalle SS nel cortile delle scuole di S. Donà di Piave. [pare che il 9 luglio 1944] avendo trovato armi nascoste elementi del btg. San Marco – X Mas [abbiano] incendiato la baracca dei Visentin, adibita ad uso abitazione e magazzino, bruciando effetti di vestiario, letti grano vino botti e materiale agricolo. Asportarono inoltre n. 16 coperte, L. 25000 in contanti e banchettarono per una settimana nella casa di abitazione del Visentin fino ad esaurimento delle provviste del maiale.»

L’azione che portò alla cattura

Un altro partigiano che si trovava con loro, Pino Rossi, riuscì a salvarsi dal plotone di esecuzione. Pino Rossi, Agostino Visentin e Matteo Corridore erano stati catturati nella stessa circostanza, nel corso di un’azione, a cui aveva partecipato tra gli altri anche Luigi Amedeo Biason, svoltasi nei primi giorni di agosto, con tutta probabilità il 7.

Nella versione dei fatti fornita da Biason e Rossi si specifica anche il motivo dell’attacco ai partigiani, dicendo che l’azione in seguito alla quale era avvenuta la loro cattura si era verificata dopo circa un’ora dal disarmo di un piccolo gruppo di militari del battaglione San Marco, effettuato dai partigiani in località Musile di Piave. Entrambe le testimonianze riportano la notizia della morte di due partigiani durante lo scontro, ma nessuna delle due ne specifica i nomi.

Matteo Corridore da San Giovanni Rotondo
Matteo Corridore

Il soldato Matteo Corridore, che dopo l’armistizio non aderì alla Repubblica di Salò passando tra le fila partigiane, venne dunque fucilato nell’agosto 1944 a San Donà di Piave. Di lui vennero chieste informazioni dal suo paese natale sin dal 14 agosto 1945. Esiste documentazione, citata nelle note del libro di Morena Biason, di una richiesta di informazioni del sindaco del paese pugliese a quello omologo di San Donà con relativa risposta controfirmata anche dall’Ufficiale sanitario. Le vicende del soldato Corridore sono salite agli onori della cronaca in questi giorni quando finalmente si è risaliti al luogo dove erano sepolti i suoi poveri resti. Con una cerimonia ufficiale al Comune di San Donà di Piave gli stessi sono stati raccolti in un urna e consegnati al sindaco di San Giovanni Rotondo e ai famigliari del Corridore, così da riportarli in Puglia per festeggiare nel migliore dei modi il 25 aprile anche nel ricordo del sacrificio di questo loro compaesano.

La consegna dell’urna da parte del Sindaco di San Donà di Piave Alberto Teso al Sindaco di San Giovanni Rotondo Michele Crisetti. Presente anche l’ex sindaco pugliese Salvatore Mangiacotti che tanto si è adoperato per recuperare i resti di Matteo Corridore, per restiturli ai famigliari, pure presenti.
In un triste manifesto del 1944 la fucilazione dei due partigiani

Di quell’episodio esiste anche la documentazione del manifesto che le forze di occupazione erano solite affiggere nelle varie città a monito della sorte che riservavano a coloro che a loro si opponevano. Il testo in italiano e in tedesco così recitava:

COMANDO PIAZZA

S. Donà di P. – Noventa di P. – Musile di P.

AVVISO

Manifesto del comando tedesco di occupazione, tratto dal libro “San Donà di Piave” di Dino Cagnazzi (1995)

Il 7 agosto 1944 – XXII, nel pomeriggio sulla strada Mestre – San Donà di Piave auto dell’Esercito Tedesco e Italiane, furono assalite e prese a fucilate da terroristi.

I prigionieri presi sono di nazionalità italiana:

1. – Visentin Agostino da Musile di Piave

2. – Corridore Matteo da S. Giovanni Rotondo (Foggia)

E sono stati fucilati stamane all’alba.

Il popolo viene ancora avvisato che chi darà aiuti od ospitalità ai terroristi – consegna di generi alimentari, denaro, armi e alloggio – verrà punito severamente.

Le case nelle quali i terroristi saranno trovati e avranno ricevuti aiuti verranno bruciate. Gli abitanti verranno portati in campi di concentramento di lavoro in Germania.

IL COMANDANTE LA PIAZZA

Targa posta sul luogo della fucilazione

ORTSKOMMANDANTUR      S. Donà, 9-8

S. Donà – Noventa di Piave

Am 7-8-44 nachmittags wurden auf der Strasse Mestre – S. Donà Fahrzeuge der deutschen und italienischen Wehrmacht durch Terroristen beschossen.

Die gefangen genommenen italienischem Staatsangehoringen

1. – Visentin, Augustino aus Musile di Piave

2. – Corridore, Matteo aus S. Giovanni Rotondo (Foggia)

Wurden heute in fruhen Morgenstunden erschossen.

Die Bevolkerung wird nochmals darauf hingewiesen, der Terroristen, Lieferung von Lebensmittel, Geld und Waffen sowie Unterbringung aufs scharfste bestraft warden.

Gehofte, in denen Terroristen aufgenommen und Unterstutzung finden, warden niedergebrannt. Die Bewohner in Zwrangsarbeifslager abtransportiert.

DER ORTSKOMMANDANT

Per ulteriori approfondimenti: 1. “Un soffio di libertà” di Morena Biason (Nuova Dimensione, Portogruaro, 2007); 2. “Storia cristiana di un popolo – San Donà di Piave” di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. “San Donà di Piave” di Dino Cagnazzi (Centro Stampa, Oderzo, 1995).

Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944

Una vista panoramica del secondo dopoguerra, presenti ancora delle macerie del vecchio Teatro Verdi dove poi verrà costruito il cinema teatro Astra (Archivio Luciano Pavan)

Una storia che ne incrocia un’altra e che poi tutte assieme si agganciano all’ultima raccontata.…..

Nel mentre cerchi del materiale per un nuovo post ecco che incroci un atto che si potrebbe pure riassumere ma che in fondo merita di esser riportato per intero giusto per esemplificare di come quei moderni scribi comunali impiegavano lungamente il loro tempo trascrivendo penna inchiostro e calamaio i tanti atti sui vari registri. Nel 1913 avevano già dei registri prestampati ma in questo caso la trascrizione essendo inserita in appendice è stata scritta per intero a mano come accadeva tanti anni addietro.

Dal Registro dei matrimoni del 1913 (Comune di San Donà di Piave)
Comune di San Donà di Piave – Registro degli Atti di Matrimonio del 1913
La trascrizione nel registro dell’atto di matrimonio fra Giuseppe Ferrarese e Silvia Maddalena Bastianetto (1913)

« L’anno millenovecentotredici e questo giorno di lunedì otto del mese di dicembre alle ore antimeridiane undici e mezza nella Casa posta in via Sabbioni Numero ventotto.

Io sottoscritto, Bertoldi Dottor Ugo Commissario Prefettizio, nominato con decreto ventiquattro novembre anno corrente, ufficiale dello Stato Civile del Comune di San Donà di Piave accompagnato dal Segretario municipale Signor Gnudi Odoardo.

Sulla richiesta fatta dal Signor Nardini Carlo, mi sono trasferito in questa Casa per la celebrazione del matrimonio tra i signori: Ferrarese Giuseppe di anni trentacinque, industriante, nato e residente a San Donà di Piave, figlio di fu Antonio, era sarto, residente in vita a San Donà di Piave, e di Paquola Domenica residente in San Donà di Piave, celibe; Bastianetto Silvia Maddalena di anni trentatre, casalinga, nata e residente in San Donà di Piave, figlia dei furono Giambattista, era carpentiere, e Bernardi Teresa casalinga, residenti in vita a San Donà di Piave, nubile, e per motivo giustificato dal certificato medico del Dottor Perin presentatami dallo stesso richiedente di essere lo sposo per la grave infermità nella impossibilità di recarsi alla Casa comunale. Quindi assistito dallo stesso Segretario ho trovato presenti i sunnominati Signori Ferrarese Giuseppe e Bastianetto Silvia Maddalena, il primo giacente a letto, i quali mi hanno dichiarato essere nell’intendimento di voler procedere alla celebrazione del loro matrimonio, e a tale effetto mi hanno presentato la copia degli atti della loro nascita rilasciate da questo ufficiale in data odierna, e mi hanno dichiarato non aver padre né madre adottivi né ostare al loro matrimonio alcun impedimento di parentela o affinità né altro impedimento stabilito dalla legge. Le dichiarazioni fatte dagli sposi sono state davanti a me confermate con giuramento da Fontana Mario fu Casimiro, di anni ventisei, maestro comunale, Sepulcri Giuseppe fu Pietro, di anni cinquantanove, impiegato comunale; Costantin Augusto di Luigi, di anni quarantadue, mastro muratore e Nardini Carlo fu Luigi di anni sessantasei, mediatore, testimoni presenti all’atto e residenti tutti in questo Comune, i quali hanno specialmente accertato non esistere fra gli sposi impedimento di parentela, di affinità e di stato.

Ho quindi letto agli sposi gli articoli 130, 131, 132 del Codice Civile e quindi ho domandato allo sposo se intenda prendere in moglie la qui presente Bastianetto Silvia Maddalena e a questa se intende prendere in marito il qui presente Ferrarese Giuseppe ed avendomi ciascuno risposto affermativamente a piena intelligenza anche dei testimoni sopra indicati ho pronunciato in nome della legge che i medesimi sono uniti in matrimonio.

Dopo di ciò gli sposi suddetti alla presenza degli stessi testimoni mi hanno esposto che dalla loro unione naturale nacquero quattro figli: il primo nel ventidue febbraio milleottocentonovantotto denunziato a questo ufficio dalla levatrice Pravato Teodolinda, iscritto al numero cinquantotto, appellato Cestini Giovanni Battista; il secondo nel ventuno luglio millenovecentodue, iscritto al numero duecentosessantasei, appellato Ferrarese Antonio; il terzo nel tredici ottobre millenovecentocinque, iscritto al numero quattrocentodiciassette, appellato Ferrarese Silvio Giacomo; ed il quarto nel diciotto Giugno millenovecentoundici, iscritto al numero duecentottantanove, appellato Ferrarese Giuseppe, e col presente atto dichiarano di riconoscerli per propri figli all’affetto della loro legittimazione.

I documenti presentati sono le copie degli atti di nascita dei suddetti e il certificato medico del Dottor Perin Pietro, i quali uniti del mio visto sono inseriti nel volume degli allegati a questo registro.

Letto il presente atto agli intervenuti li hanno essi meco firmati.

Atto di matrimonio nr. 2 Parte II serie B, Anno 1913
A quell’atto ne segui a breve un altro

In quell’otto dicembre 1913 venne legalizzata l’unione di fatto di Ferrarese Giovanni con Bastianetto Silvia Maddalena e legittimati i quattro figli Giovanni Battista, Antonio, Silvio Giacomo e Giuseppe, che da quella unione erano nati. Giovanni Ferrarese in quella casa posta in via Sabbioni era nel suo letto di morte, due giorni dopo alle ore sei e trenta del pomeriggio spirò, come attestato dal registro degli atti di morte di quello stesso anno.

Da un ricordo ne nasce un altro
Viale Margherita, sulls destra il Monumento ai caduti, sullo sfondo l’Ospedale civile “Umberto I”, subito dopo iniziava via Sabbioni

Via Sabbioni è tra le strade più vecchie di San Donà, dalla parte terminale di viale Margherita (l’odierna Viale Libertà) vicino l’ospedale Umberto I si arrivava sino alla stazione ferroviaria, allora come oggi. Ed è incredibile come questo episodio abbia un seguito. Raccontato ad una vecchia zia, Stefania, che ha vissuto in via Sabbioni decenni dopo quel matrimonio un filo del ricordo si è riacceso, un filo che dall’oggi è arrivato sino al 10 ottobre 1944.

La San Donà degli anni Quaranta

In via Sabbioni abitavano tantissime persone, chi in case, chi in abitazioni dove il legno era l’elemento principale, baracche più o meno ampie dove le numerose famiglie dell’epoca, portavano avanti la loro esistenza tra le ristrettezze dell’economia di guerra. Ovviamente la zia non conosceva la coppia che si è sposata ma nel sentir i nomi dei figli legittimati in quel 1913 subito ha riconosciuto quello più vecchio. Lei bambina la figura di Titta Ferrarese (Giovanni Battista), lo ricorda bene. Quella nascita nel 1898 lo consegnò alla guerra e ad una ferita che gli segnò la vita successiva e che agli occhi di quella bambina dell’epoca era un segno ben distintivo. In quella via Sabbioni, abitavano diverse famiglie Ferrarese, i Turchetto, i Biancotto ecc.. Mia zia viveva nella famiglia allargata della nonna Marianna Lunardelli che rimasta vedova del marito Giovanni Guiotto si era risposata con Giuseppe Biancotto anche lui vedovo, con figli dell’uno come dell’altro matrimonio a cui si aggiunsero altre tre figlie. In quella via Sabbioni le famiglie spesso avevano parentele trasversali e tutti si conoscevano talvolta più per soprannome che per nome. Questi fattori nella buona come nella cattiva sorte hanno sempre portato ad una piena solidarietà nonostante i tempi di guerra e quel crudo periodo terminale della dittatura fascista che ancor più di prima ti metteva spesso da una parte o dall’altra della barricata.

I bombardamenti del 1944
Uno dei rifugi per fronteggiare i bombardamenti del 1944 (Archivio Giovanni Striuli)

In quel 1944 la guerra aveva toccato concretamente la città. Al risuonar dell’allarme la popolazione cercava un riparo e molti avevano pensato a costruirsi dei rifugi lontano dalle case. Così qua e là erano state predisposti dei ripari scavati nel terreno coperti alla bene e meglio che offrivano un riparo sperabilmente distante dagli obiettivi dei bombardamenti e anche da eventuali schegge che potevano venire dalle bombe che cadevano in prossimità. Senonché in quel 10 ottobre tra gli obiettivi vi fu anche l’ospedale civile. Tante furono le bombe che caddero sul centro cittadino. Oltre all’ospedale numerosi edifici pubblici vennero colpiti, il teatro Verdi fu distrutto, una settantina alla fine saranno le case che subirono gravi conseguenze, altrettante quelle danneggiate.

Quel giorno in via Sabbioni
Le macerie dell’ospedale, sullo sfondo s’intravedono alcune delle case di via Sabbioni

Come detto nelle vicinanze dell’ospedale vi era anche via Sabbioni e dal racconto della zia nei pressi delle case dei Ferrarese vi era sito un rifugio nel quale erano soliti mettersi al riparo in tanti, specialmente donne, bambini, ragazzi. Quel bombardamento del 10 ottobre 1944 sarà un qualcosa che difficilmente coloro che lì si rifugiarono hanno poi dimenticato. In quell’inferno di fuoco che prese di mira l’ospedale inevitabilmente molti ordigni colpirono i dintorni, alcuni caddero anche in prossimità del rifugio. Momenti interminabili seguirono, tra urla e pianti, dai ricordi della zia gli aiuti tardarono ad arrivare e l’uscita bloccata tenne imprigionati i superstiti per infinite ore senza saper bene cosa fosse accaduto fuori. Momenti interminabili che nel ricordo arriva sino ai due giorni, tanto è stato lungo e complicato il farli uscire dal rifugio. Alla fine “Cet” Ferrarese dall’esterno riuscì ad aprire un varco e aiutato dalla moglie vennero fatti uscire tutti uno alla volta. Gli occhi di quei bambini trasformarono la loro paura in sollievo per poi rimanere impietriti dalla distruzione che attorniava l’ospedale ed il tratto di via Sabbioni più prossimo.

Un nome da aggiungere alla triste lista
Via Sabbioni negli anni cinquanta

Nel resoconto presente sul libro “Un soffio di Libertà” tra i caduti di quel bombardamento vi è il nome di Pasquale Turchetto (18 anni), in realtà le perdite per la famiglia Turchetto furono due perché anche una coetanea della zia (8 anni) perse la vita. Il suo nome era Silvana e questo consegnò  ancor più tragicità al ricordo di questo bombardamento mai dimenticato dalla sorella Elsa Turchetto, amica di mia mamma e di mia zia, Elsa in seguito si sposerà con un Ferrarese. Nessuno dimenticò quel bombardamento, spettrale fu la vista che si appalesò agli occhi dei sopravvissuti quando furono riportati alla luce del sole. Attoniti, videro distruzioni in ogni dove e con molti soccorritori ancora all’opera nonostante le tante ore trascorse. Una esperienza che non si può dimenticare e forse è anche per questo che la si è raccontata poco alle generazioni successive, quasi a esorcizzarla per attenuare l’effetto di quel ricordo. Quella ragazzina di 8 anni trovò l’abitazione distrutta nel bombardamento, poco rimaneva in piedi e ci vollero mesi per riuscire a ridare a quei cumuli di rovine una parvenza di casa. Rivedere i propri cari scampati ad infausta sorte fu comunque un sollievo, ed in fondo il vantaggio delle famiglie allargate è che una soluzione si poteva sempre trovare presso parenti e amici…..meno sfortunati.

Quei rami familiari scampati ad un bombardamento
Bombardamento di Treviso del 7 aprile 1944

E giusto perché in famiglia non ci siamo fatti mancare nulla, anche nel bombardamento di Treviso dell’aprile 1944 quel che poi diverrà il ramo paterno rischiò di fare una brutta fine. Durissimo fu il bombardamento che colpì il capoluogo trevigiano, furono quasi mille e cinquecento i morti, infinita la distruzione che subì la città. Con mio padre in guerra da anni, fatalmente armiere aviere in quella Puglia da dove avevano iniziato a partire i caccia bombardardieri , la sua famiglia allora abitava nel quartiere di San Antonino e durante quel bombardamento la loro casa fu completamente distrutta. All’arrivo degli aerei mio zio Luigi si accorse subito che quei bombardieri non portavano nulla di buono, giusto il tempo di avvisar la madre, nonna Italia, e la distruzione si abbattè sulle case del quartiere, solo l’essersi rannicchiati vicino a dei muri portanti lì salvò. Macerie in ogni dove e muri squarciati tanto che tra la polvere si poteva intravedere l’esterno, la nonna sotto shock caricò il figlio più giovane su di una cariola, raccolse poche cose e con i figli arrivò quasi senza rendersene conto sino a Breda dove abitavano dei parenti. Anni dopo quel figlio più giovane di nome Dino, sposò la zia stabilendosi a San Donà. Come del resto mio padre Umberto prima aveva sposato mia madre Anna, che della zia era anche cugina. Gli intrecci della vita come sempre sono infiniti.

L’importanza del ricordo

Piccole storie, ricordi perduti che difficilmente potrebbero lasciar traccia se non li si legasse ad un filo utile per risalirvi. Prigionieri del presente, ci stiamo scordando del passato che granello dopo granello, in questi anni più dei precedenti, sta perdendo un numero sempre maggiore di testimoni viventi. Sono infiniti i compiti nella società attuale che vengono affidati ai nonni, il meno praticato rimane sempre quello del ricordo quasi fosse inutile ed invece costituisce uno strumento prezioso sia per chi lo porge che per chi lo riceve, perchè il ricordo non ha futuro se non ha un testimone in grado di tenerlo acceso.

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

(1 – Prima parte « Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti »); (2 – Seconda parte « Morte e distruzione nel tragico autunno 1944 »); (3 – Terza parte)

Morte e distruzione nel tragico autunno 1944

Il ponte stradale distrutto dopo essere stato numerose volte obiettivo dei bombardamenti del 1944

L’estate non era destinata a lasciare tranquilla la popolazione sandonatese. L’oppressione germanica si faceva sempre più stringente, a cui si contrapponevano sempre più apertamente le formazioni partigiane le cui fila si erano rinfoltite dei tanti militari che tornavano dal fronte e ai quali l’armistizio aveva imposto l’adesione alla Repubblica di Salò o in alternativa la prigionia o la clandestinità. E in tutto questo contesto vi era anche la variante di quanti fedeli prima al fascismo ora lo erano alla Repubblica di Salò con divisioni insite nelle stesse famiglie e nelle tante amicizie cui le notizie che arrivavano degli sviluppi della guerra regalavano speranze e disillusioni di una fine prossima. Mesi nei quali si moltiplicarono anche gli arresti e con essi le esecuzioni e le deportazioni. Tra queste anche quella di Attilio Rizzo, grande collaboratore di Monsignor Saretta, che divenne un importante esponente della Resistenza sandonatese prima di venire arrestato a metà agosto e deportato in Germania, dove morì nel gennaio del 1945. Tra i ricordi tristi ovviamente anche quello legato ai Tredici Martiri, la gran parte originaria del sandonatese e uccisi come rappresaglia ad un attentato avvenuto a Venezia.

Il bombardamento del 23 settembre 1944
Il ponte ferroviario distrutto nel 1944

A fine agosto i bombardamenti alleati colpirono il ponte della ferrovia, un obiettivo ricorrente nelle incursioni aeree di quelle settimane. Le vie di comunicazione stradali e ferroviarie erano un obiettivo importante alla pari di quelle telefoniche e telegrafiche. Ma bombardamenti ben più duri erano all’orizzonte. Il 23 settembre 1944 in diverse ondate successive gli aerei alleati sganciarono su San Donà circa 200 bombe. Sia il ponte stradale che quello ferroviario vennero colpiti e si registrarono numerose vittime, ben cinque di una sola famiglia poi salite a sei. Del ponte ferroviario venne distrutta la prima campata, mentre di quello stradale ad essere colpita fu l’ultimo tratto verso Musile. Danni riportarono la conduttura elettrica e quella dell’acquedotto e le stesse linee telefoniche vennero danneggiate. Danni importanti anche alle strade arginali, colpite anche Isiata e Mussetta di Sotto. Un giorno triste per i sandonatesi, quello seguente avrebbe dovuto essere come da tradizione dedicato alla Madonna del Colera con le cresime officiate dal Vescovo ma il tutto venne rinviato proprio per il pericolo incombente dei bombardamenti.

I nomi dei caduti del 23 settembre 1944

Sul libro di Morena Biason “Un Soffio di Libertà” vengono riportati i nominativi dei morti di quel cruento bombardamento. In una casa di via Code distrutta dalle bombe morirono cinque componenti della famiglia Ongaretto: il padre Luigi (35 anni), la moglie Vallese Germana (29 anni), la suocera Orlando Caterina (52 anni) e le figlie Giselda e Vittorina (4 anni), quest’ultima morì in ospedale e sempre in ospedale erano stati ricoverati i figli Diego (7 anni) e Angelo (10 anni), come la sorellina anche Angelo morì giorni dopo portando a sei componenti il tributo di sangue della famiglia Ongaretto. Gli altri caduti furono il marinaio Cigar Carlo (25 anni, di stanza alla Caserma San Marco di San Donà), il commerciante Luigi Marigonda (51 anni), il tipografo Davide Armellin (28 anni) e l’operaia dello jutificio Brussolo Orietta (30 anni). Qualche giorno dopo tra i feriti morirà anche Caterina Zanchetta (56 anni), per cui le vittime di quel bombardamento dalle iniziali nove passarono a undici.

4 ottobre 1944 nuovamente colpito il ponte della ferrovia

I bombardamenti divennero continui nei giorni successivi e nemmeno la Fiera d’Ottobre trovò spazio nei pensieri dei sandonatesi. Il 4 ottobre un nuovo pesante bombardamento subì il ponte della ferrovia, anche gli argini vennero duramente danneggiati e compromessi i lavori di ripristino iniziati dopo il precedente bombardamento. A finire sotto il fuoco alleato anche un barcone di ghiaia transitante lungo il Piave, miracolosamente furono solo feriti i due componenti l’equipaggio, padre e figlio.

10 ottobre 1944 pioggia di fuoco su San Donà
L’Ospedale civile “Umberto I” di San Donà di Piave

E’ il 10 ottobre 1944 la data che rimarrà indelebile nei ricordi dei sandonatesi. In quella grigia giornata di ottobre non fu bombardata solo San Donà di Piave ma lo furono anche Porto Marghera e Treviso. Oltre cento bombardieri mossero in direzione del Veneto, molti furono quelli che puntarono verso quella città lungo il Piave i cui ponti erano stati colpiti ripetutamente nelle settimane precedenti di nome San Donà. Sembrava una giornata di ordinario bombardamento invece questa volta non furono i ponti il vero obiettivo della missione. Quei primi bombardieri che si calarono tra le basse nuvole sganciarono le loro bombe sul centro cittadino quasi a marcare l’obiettivo principale. Seguì una lunga scia di fuoco che cinse le vie del centro concentrandosi particolarmente sull’ospedale civile e gli edifici in Viale Margherita. Ancora una volta l’ospedale sandonatese pagò un caro prezzo come già era successo durante la prima guerra mondiale. Da poco non si fregiava più del nome di “Umberto I”, quel legame con i Savoia non era più gradito dalle autorità fasciste dopo l’armistizio firmato da Vittorio Emanuele III e la susseguente fuga oltre le linee alleate. L’ospedale divenne un grande cumulo di macerie, sia l’artistica struttura verso viale Margherita che i padiglioni ad un solo piano posti dietro furono duramente colpiti. Delle 85 persone presenti all’interno dell’ospedale tra pazienti e personale, furono 24 i morti e 45 i feriti.

Alcune testimonianze di quel giorno
L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

Sul libro dedicato al centenario dell’ospedale “L’ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000” vengono riportate due testimonianze di quel giorno. Il segretario-economo Filiputti: « […] appena ho sentito il rumore degli aerei che si avvicinavano ho detto a Bepi Da Villa che andasse ad avvertire suor Carla e poi, appena il pericolo è diventato incombente, ho visto tanta gente che correva verso il campanile e la chiesa, ed alle spalle sentivo già il fruscio delle bombe che arrivavano e colpivano l’Ospedale. Tra le vittime ricordo la figlia di Centioli, che frequentava l’Ospedale come volontaria e tra le suore, suor Ildefonda Lupi e suor Angiolina Giusto. Ricordo che al momento di rifugiarmi nel campanile ho incontrato il dottor Bruno Nardini. Ma alla tragedia si è cercato subito di rispondere con provvedimenti per gli ammalati e i feriti. Particolarmente incisiva è stata l’azione del Comm. Giovanni Ronchi che ha fatto portare quanto possibile, ricordo in particolare anche della paglia, per predisporre dei giacigli nella caserma come primo improvvisato ricovero per i feriti e gli ammalati che non era possibile trasportare, con mezzi militari, agli ospedali di Oderzo o di Motta di Livenza… ». La seconda testimonianza è del prof. Arnaldo Balbi Guarinoni che all’epoca dei bombardamento era uno studente di medicina che lavorava all’Ospedale civile: « San Donà era una zona piuttosto calda ed era da qualche giorno sorvolata di continuo da delle fortezze volanti, quella mattina volavano più basso del solito. Qualche attimo prima delle 11 avevamo intuito il pericolo e con alcuni pazienti ho abbandonato l’ospedale trovando rifugio sotto le mura di cinta. Ho visto le fortezze volanti sopra di me, ho gridato « semo morti ». Poco dopo siamo stati avvolti da palle di fuoco, colpi tremendi, sembrava la fine del mondo. Quando mi sono rialzato, quelli che erano con me non c’erano più, nemmeno il bambino che avevo sotto il braccio e del quale non sapevo nemmeno il nome. L’ospedale era completamente distrutto…. ».

Ovunque macerie fumanti a invadere le strade
La casa Girardi in Viale Margherita

In viale Margherita oltre all’ospedale furono colpite anche le carceri e il panificio Fasan. Danni anche al Palazzo Comunale, alla Centrale dei telefoni di Stato, alla scuola elementare del centro. In via Ancillotto venne distrutto anche il teatro Verdi, con la vicina tipografia SPES, il panificio Trivellini. Ingenti danni subì anche il Piccolo Rifugio. Come racconta Savio Teker nel suo libro (1), Lucia Schiavinato alle prime avvisaglie aveva fatto uscire quanti più ospiti fosse possibile mettendoli al riparo di un vicino fossato. Le bombe colpirono l’edificio, quando fu tornata la calma immaginando quel che avrebbe trovato all’interno cercò di correre verso il vicino ospedale per chiamare un medico, ma fece solo pochi passi l’ospedale non esisteva più. Al Piccolo Rifugio saranno sei le vittime. Molti saranno comunque i medici che miracolosamente si salvarono dalla distruzione dell’ospedale e che subito si prodigarono nel soccorrere i feriti. A decine furono i feriti curati sul posto, tanti quelli trasportati con mezzi di fortuna verso altri ospedali. Ovunque un panorama di case danneggiate e di sopravvissuti alla strenua ricerca dei propri cari e delle loro povere cose da salvare tra le macerie. Per molti anche quel poco era ben poca cosa perchè il tutto era racchiuso in baracche che niente potevano opporre all’impeto delle esplosioni di un bombardamento. Una settantina furono le case distrutte, altrettante quelle danneggiate. Ai tanti sfollati delle settimane precedenti che avevano lasciato San Donà si aggiunsero ora i tanti che la loro casa l’avevano perduta, o che abbandonata momentaneamente la ritrovarono distrutta. Un’emergenza che San Donà visse per molti anni a venire di un dopoguerra non troppo lontano, ma che per chi stava vivendo quelle tragedie era ancora solo una speranza.

Articolo del Gazzettino del 12 ottobre 1944
L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

Nel libro di Morena Biason “Un soffio di Libertà” vengono riportati ampi stralci dell’articolo del Gazzettino del 12 ottobre scritti dall’inviato Alfonso Comaschi:

Chi entra in Paese dalla strada di Venezia intuisce la gravità della tragedia a destra e a sinistra dell’arteria principale infatti i maggiori edifici appaiono irrimediabilmente distrutti. Un cratere immenso sbarra la via nel fondo di essa : una sedia in frantumi e una bottiglia intera. Poco più avanti le macerie della Pretura e dell’edificio delle Assicurazioni «La Cattolica», che le sorgeva di fronte, si sono quasi riunite attraverso la via. Anche l’albergo del «Leon Bianco» mostra tra le imposte sconnesse e tra le larghe fenditure dei muri le rovine dell’interno.

Via Giannino Ancillotto presenta un aspetto se è possibile ancora più desolato sulla destra il grandioso edificio del teatro Verdi e altri minori immobili sono completamente rasi al suolo fra le innumerevoli voragini aperte da altre bombe che sono cadute nelle vicinanze: anche Piazza Margherita così aggraziata nella sua cintura di verde, denuncia subito le sue ferite di guerra e più avanti tutta Via Dante è un solo ammasso di macerie.

La Pianta dell’ospedale con i vari padiglioni a solo piano terra

Così pure il Piccolo Rifugio appare irrimediabilmente colpito. Era quest’ultimo un ricoveri di vecchi […]   E’ il primo dei luoghi più colpiti, ed è quello che ha subito i danni minori; pure tra le sue macerie rinserra ancora delle vittime. Infatti all’angolo di Viale Margherita la Casa di Ricovero, che fu dedicata ai Caduti della guerra scorsa, pur mantenendo un aspetto non molto dissimile dall’ordinario nelle sue linee esterne, sembra stranamente vuotata dall’interno e rivela gli irreparabili guasti dell’edificio la cui rovina suona doppiamente sacrilegio e per lo scopo cui esso era destinato, in quanto raccoglieva quasi un centinaio di vecchi e per l’affronto fatto alla memoria dei Caduti in onore dei quali era stato innalzato.

Di fronte un gruppo di case è irreparabilmente danneggiato e, accanto un’abitazione civile è stata quasi fatta scomparire dalla violenza dell’esplosione. In questa zona è caduto il maggior numero di bombe in quanto costituisce evidentemente il nucleo dell’obbiettivo. Sembrerebbe impossibile perché proprio qui sorgeva l’Ospedale Civile, ma il centinaio di bombe che vi sono state sganciate non lascia dubbi in proposito.

Gli aerei nemici erano apparsi sul cielo di San Donà verso le 11; erano chiaramente distinguibili dato che a causa del soffitto di nubi molto basso, volavano a quota inferiore alla solita, poco più di un migliaio di metri; anzi, prima che il grosso, a varie ondate si avvicendasse con larghi e lenti giri sull’obbiettivo, un primo gruppo di aerei, da minor altezza sganciava le prime bombe, verosimilmente per circoscrivere il bersaglio. E il bersaglio non poteva essere che l’Ospedale civile malgrado fosse chiaramente distinguibile come tale anche per la pianta a corpo centrale e dai padiglioni, caratteristica di tali tipi di moderni edifici, oltre che per il fatto di essere in maniera inequivocabile contrassegnato dagli emblemi della Croce Rossa.

L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

L’ospedale era un edificio a tre piani e di vari padiglioni; bisogna dire era, perché oggi non si può assolutamente dare neppure il nome di edificio a questo misero ammasso di mattoni e di solette di cemento, di tralicci e di architravi che ingombravano il terreno una volta coperto dalla raccolta ombra dei pini marittimi, ruderi sparsi a ricolmare le voragini delle esplosioni.

Dei tre piani della costruzione centrale sono rimaste in piedi tre colonne; della Cappella un muro che minaccia di crollare, alla base di questo si intravvede, sotto il velo di polvere, presso un angelo decapitato d’alabastro la tovaglia dell’altare. Passando di qua, qualche secondo dopo la rovina, col cuore stretto, nel tentativo di portare aiuto a chi aiuto potesse ancora ricevere, il primario prof. Binotto, ancora stordito dallo scroscio della rovina, si sentiva chiamare per nome; era Don Carlo il Cappellano che era rimasto seppellito, vivo fortunatamente, sotto le macerie della Chiesetta dedicata a Sant’Antonio.

Il primario del resto, come tutti gli altri medici possono veramente dirsi salvi per miracolo, in quanto tutti, si trovavano sul posto, che naturalmente non abbandonarono durante l’incursione. Anche il Commissario Prefettizio Ronchi che pure si trovava in sede e vi rimase durante la distruzione, si prodigò per i primi soccorsi. Purtroppo due suore hanno trovato la morte accanto ai loro malati; una gravemente ferita; un’altra, che è stata dissepolta dopo cinque ore, versa pure in gravissime condizioni. Anche un’assistente sanitaria è morta al suo posto; era la figlia del dott. Veronese, l’odontoiatra della cittadina.

L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

E’ forse impossibile descrivere lo stato dei padiglioni; quello più intatto – ma si può dire così di questa vasta sala dal soffitto completamente sforacchiato? – è il reparto maschile di chirurgia ed è forse più squallido di quello che non siano le sale totalmente rase al suolo. I letti hanno ancora le lenzuola tese, i comodini sono in parte arrovesciati dalla violenza dello spostamento d’aria e hanno sparso le poche suppellettili dei ricoverati; la fotografia di un bambino o un libro, l’immagine di un Santo o «parole incrociate» lasciate interrotte. Sopra un letto c’è ancora un cartoccio d’uva, su tutto pesa, come un incubo, il velo di polvere sollevato dallo scoppio, che traveste di una nevicata macabra i poveri oggetti che popolano le corsie degli ospedali. Più avanti nella sala operatoria, la lampada «sineumbra», miracolosamente intatta, oscilla, appesa ai fili della sospensione; sotto, nella devastazione, la stanza rivela l’aspetto tipico di un’operazione appena terminata. Il paziente, appena finito di operare, strappato si può dire alla morte dalla mano fraterna del chirurgo, è stato travolto e ucciso dal crollo della sala, dove era stato riportato. Ma le perdite più gravi si sono avite nel padiglione ostetrico. Tutte le puerpere vi hanno trovato un’orribile morte; meno una: questa però ha avuto lo strazio di vedersi orbata della creatura appena nata.

Fuori del recinto dell’ospedale, poco più avanti, fuori del viale Margherita, gli abitanti del popolare quartiere dei «Sabbioni» cercano fra le rovine delle loro modeste casette le poche suppellettili che si son salvate o la reliquia di qualche oggetto caro. Sono dei lavoratori che, per la maggior parte avevano costruito la casa con i loro risparmi; qualcuno materialmente con le sue mani; una vecchia rialza dalle rovine in cui sta frugando il volto sbigottito dall’orrore e dall’amarezza e chiede meccanicamente: «Perché?»; e il silenzio della città deserta sembra riempirsi di questa vana interrogazione senza risposta.

I morti del bombardamento del 10 ottobre 1944
I funerali dei bombardamenti di ottobre 1944 (archivio Giovanni Striuli)

Sul libro di Morena Biason “Un Soffio di Libertà” vengono riportati i nominativi dei 45 caduti del tragico bombardamento del 10 ottobre 1944: i fratelli Gonellotto Angelino (23 anni) e Silvio (18), braccianti, sulla pubblica via; Ianna Sofia (40 anni), casalinga, sulla pubblica via; Boccato Angelo (60 anni), fruttivendolo, abitazione; i soldati Crespi Francesco (20 anni) e Nardo Luigi (28 anni) pubblica via; il soldato Raccanelli Isidoro (37 anni), abitazione; Turchetto Pasquale (18 anni), bracciante, abitazione; il possidente Bortolotto Giuseppe (68 anni) e la moglie Bertoncello Elena (65 anni), abitazione; Cecchetto Regina (78 anni), casalinga, abitazione; Centioli Teresa (19 anni), casalinga, abitazione; Stefani Teresa Jolanda (28 anni), casalinga, abitazione; Vallese Irma (39 anni), casalinga, abitazione; Biancotto Antonio (50 anni), manovale, ospedale; Fantin Antonio (63 anni) bracciante, ospedale; Segato Venanzio (15 anni), mezzadro, ospedale; Penso Paolo (55 anni), impiegato, ospedale e la moglie Vescovo Clorinda (52 anni), casalinga pubblica via; Bizzaro Anna (48 anni), casalinga, ospedale; Perissinotto Angela (35 anni), casalinga, ospedale; Tonon Maria (40 anni), casalinga, ospedale; Bottan Anna (59 anni), lavandaia presso ospedale, ospedale; Veronese Lucia (16 anni), studentessa, ospedale; Contarin Veronica (40 anni), infermiera, ospedale; Rovere Rina (25 anni), infermiera, ospedale; Luppi Giuseppina “suor Ildefonsa” (40 anni), suora, ospedale; Giusto Maria ” suor Angiolina” (33 anni), suora, ospedale; Badanai Santa (41 anni), casalinga, ospedale; Bonora Iolanda (30 anni), casalinga e il figlio Fusaro Dante (15 giorni), ospedale; Bortoluzzi Luigia (40 anni), casalinga, ospedale; Cappelletto Gina (19 anni), casalinga, ospedale; Gaiotto Maria (67 anni), casalinga, ospedale; Bobbo Maria (25 anni), casalina, e la figlia Merani Rita (3 giorni), ospedale; Ongaro Giuseppe (35 anni), bracciante, ospedale; Tolon Giuseppe (12 anni), ospedale; Cupresi Casimira (6 giorni), ospedale; Sari Jolanda (25 anni), ospedale, di lei furono trovati solo dei resti umani che solo in secondo tempo si pensa possano essere associati al suo nome; Bellese Maria (3 anni), Piccolo Rifugio; Orlando Maria (81 anni), invalida, Piccolo Rifugio; Fingolo Maria (77 anni), invalida, Piccolo Rifugio; Trevisiol Giovanna (8 anni), Piccolo Rifugio; Maschietto Antonio (76 anni), invalido, Piccolo Rifugio.

Il peggior bombardamento, non l’ultimo
L’interno della chiesetta dell’Ospedale “Umberto I” distrutta nel 1944

La distruzione dell’ospedale diffuse ancor più terrore nella popolazione civile e molti scelsero di abbandonare il centro cittadino, tanto più che quello non fu l’ultimo bombardamento. Molti altri ne seguirono seppur non con quelle stesse tragiche conseguenze. Tra tutti si ricorda quello del 22 novembre che distrusse ancor di più il ponte della ferrovia. Ricorda Savio Taker nel suo libro (2) il numero delle famiglie sfollate e i paesi dei dintorni nei quali erano state accolte. Con scrupolo all’epoca Monsignor Saretta tenne aggiornato questo elenco con tanto di pubblicazione nel foglietto parrocchiale e a turno si recava nei vari paesi a visitare le famiglie sfollate, l’arciprete non aveva dimenticato della perigliosa profuganza a cui lui e tanti sandonatesi erano stati costretti durante la prima guerra mondiale. Tanti mesi mancavano prima di arrivare alla fine della guerra e le tragedie non erano ancora terminate. L’emergenza principale dopo quel tragico bombardamento fu sostituire l’ospedale che da allora venne trasferito provvisoriamente presso Villa Ancillotto. Solo nel dopoguerra venne iniziata la costruzione del nuovo Ospedale Civile dove ancor oggi si trova, nemmeno quella fu impresa facile e ci vollero parecchi anni prima di vederlo inaugurato nel 1953, ma questa è un’altra storia.

(1 – Prima parte « Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti »); (2 – Seconda parte); (3 – Terza parte « Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944 »)

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti

Nel 1940 l’Italia entra in guerra a fianco della Germania, l’esercito italiano verrà impegnato in tanti fronti ma alla fine sarà la popolazione italiana tutta a ritrovarsi al fronte stretta tra eserciti stranieri, italiani contro e distruttivi bombardamenti. Il peggior flagello che l’Italia ricordi e anche San Donà ne pagò un prezzo.

Il Monumento ai Caduti di San Donà di Piave

L’Italia in guerra vi entrò nel 1940 ma già dagli anni Trenta i soldati italiani stavano combattendo in molti fronti, presenti in Libia e in Somalia gli italiani conquistarono l’Etiopia nel 1936 occupando poi l’Albania nel 1939. Conflitti che dal punto di vista economico avevano minato le finanze italiche, tanto più che l’autarchia di regime contrapposta alle sanzioni internazionali non avevano regalato prospettive dorate alla popolazione italiana sempre più alle prese con pesanti ristrettezze. Con il 10 giugno 1940 l’entrata in guerra a fianco della Germania contro Francia ed Inghilterra non fa che acuire i problemi ma al tempo stesso rende esplicito quel prezzo che si dovrà pagare alla guerra. Se da un lato continuano i tanti arruolamenti degli elementi più e meno giovani della popolazione dall’altro già nella notte tra il 10 e l’11 giugno Torino e Genova subirono il primo bombardamento da parte della RAF inglese. Il settore industriale di Liguria, Piemonte e Lombardia divenne un obiettivo delle incursioni aeree notturne inglesi e francesi, ma anche le raffinerie di Porto Marghera subirono il loro primo attacco aereo francese nella notte tra il 13 e il 14 giugno. Francesi che di lì a poco saranno costretti alla resa dall’invasione nazista e contro cui solo poco prima della resa l’esercito italiano aveva iniziato ad avanzare da sud. Se la minaccia francese venne meno grazie al governo collaborazionista di Vichy, i bombardamenti continuarono negli anni a venire da parte di inglesi e alleati: inizialmente ebbero obiettivi economici e bellici, ma che nel proseguo del conflitto mondiale videro sempre più colpita la popolazione civile e lo stesso patrimonio artistico italiano ne pagò un caro prezzo.

In guerra anche contro gli Stati Uniti

Nel dicembre 1941 gli Stati Uniti subirono l’attacco giapponese a Pearl Harbour e la loro neutralità venne meno, subito dopo la Germania e l’Italia dichiararono guerra agli Stati Uniti in nome dell’alleanza instaurata con il Giappone. Se inizialmente le forze dell’Asse trassero beneficio dal tener impegnato il nemico americano da parte dell’alleato giapponese, poi le sorti del conflitto cambiarono quando un anno dopo gli Stati Uniti rinforzarono gli inglesi in Africa dove gli italiani prima e i tedeschi poi avevano attaccato l’Egitto controllato dagli inglesi. Nel mezzo vi era stata la rovinosa invasione della Russia da parte delle truppe dell’Asse, che costò carissimo alla Germania e ai suoi alleati. Tra offensive e controffensive furono soprattutto i due inverni russi a mietere migliaia di morti. Un’Italia in guerra su infiniti fronti ma che già prima del 1939 era conscia della propria impreparazione militare e che suo malgrado ora vedeva le sue truppe impegnate in Etiopia, nel Nord Africa, in Russia, in Grecia, in Jugoslavia.

La guerra alle porte di casa
19 luglio 1943 il bombardamento di Roma, 3mila morti e 11mila feriti

Con la sconfitta in Nord-Africa, per l’Italia le prospettive si fecero rapidamente cupe. Gli angloamericani sbarcarono il 10 luglio 1943 in Sicilia, nel giro di poche settimane arrivarono a controllare l’isola. Un incontro di Mussolini con Hitler nei pressi di Feltre non offrì vie d’uscita all’Italia tanto che in quelle stesse ore un pesante bombardamento aereo alleato colpì per la prima volta Roma. Lo stesso Mussolini venne messo in minoranza il 25 luglio dal Gran Consiglio del Fascismo e successivamente fu dimissionato da Vittorio Emanuele III, imprigionato, e sostituito con Badoglio. Quella via d’uscita la monarchia pensò di trovarla firmando un armistizio con gli alleati, e reso pubblico l’8 settembre, il re e il governo italiano presero la via prima di Pescara e poi di Brindisi. La reazione tedesca fu violenta tanto che liberarono Mussolini il 12 settembre e attuarono quello che avevano sempre fatto in ogni altro paese dell’Asse ribelle: controllo militare tedesco e costituzione di un governo amico, in questo caso la Repubblica di Salò con a capo nuovamente Mussolini. Con l’esercito italiano in rotta e i comandi senza ordini, per i tedeschi fu gioco facile prendere il sopravvento e requisire armamenti e rifornimenti. Tra l’altro il comando tedesco aveva già previsto un passo indietro italiano e si era quindi preparato ridispiegando e rinforzando le truppe nella penisola. Pesanti furono i bombardamenti che colpirono le città meridionali, gli alleati si preparavano a sbarcare in Puglia, in Calabria e in Campania. Con l’operazione “Slapstick” gli alleati sbarcarono a Taranto e l’armistizio fu una chiave per farlo con il minimo danno, nel giro di qualche settimana riuscirono a controllare l’intera Puglia. Dal punto di vista strategico l’occupazione del Salento permise agli alleati di ripristinare le numerose basi aeree italiane, funzionali sia per l’avanzata nel meridione che per colpire il Nord Italia. E proprio dalla Puglia partirono gli aerei della 15° USAAF che colpirono anche le nostre zone.

Dopo l’armistizio s’intensificano i bombardamenti
7 aprile 1944 bombardamento di Treviso, 1470 morti – “Palazzo dei Trecento”

Se nel settembre 1943 l’Italia cercò una via d’uscita firmando l’armistizio, la massiccia presenza tedesca non rese meno tenace la guerra. Anzi il conflitto divenne più crudo con un ruolo sempre più subalterno dei fascisti della Repubblica di Salò nei confronti dell’esercito germanico divenuto ancor più d’occupazione agli occhi di una popolazione stanca e insofferente. Se da un lato oramai la popolazione italiana a fronte dei tanti bombardamenti aveva per la gran parte abbandonato le città e cercava di tenersi lontano dai possibili obiettivi militari, dall’altro le distruzioni di interi quartieri di una guerra tutt’altro che selettiva fece registrare tante perdite tra la popolazione civile. Uno dei bombardamenti più duri nello scenario veneto fu quello che subì Treviso il 7 aprile 1944 che costò 1470 morti ed una distruzione generalizzata del centro cittadino, ne fece le spese anche il Palazzo dei Trecento, uno dei simboli artistici della città.

La guerra alle porte di casa
Il ponte stradale negli anni trenta

In quei primi mesi del 1944 i bombardamenti di Treviso e quelli continui di Mestre e di Porto Marghera avevano prodotto un alto numero di sfollati che cercarono scampo nelle zone circostanti, non ultima San Donà di Piave che accolse numerose famiglie e riuscì a raccogliere per la diocesi ferita ben cento mila lire di offerte. Ma le stesse autorità di San Donà incominciarono in quella primavera del 1944 ad invitare la popolazione ad abbandonare il centro cittadino e soprattutto a tenersi a distanza da quegli obiettivi militari come potevano essere il ponte stradale e quello ferroviario, sottolineandone le zone e le vie da cui era consigliata l’evacuazione specie di chi non sarebbe stato in grado di farlo celermente in caso di pericolo. Ed in particolare di notte ad osservare gli orari del coprifuoco per non offrire il fianco ai sorvoli dei caccia alleati notturni.

Le prime bombe cadono sul sandonatese

Con il fronte che si avvicinava alla Romagna si intensificarono nell’estate i bombardamenti delle città, particolarmente cruenti quelli intorno a Bologna, ma non di meno le incursioni imperversarono verso i porti di Venezia e Trieste. Inutile dire che la direttrice degli aerei portava al sorvolo continuo dei cieli sandonatesi, una minaccia costante e pur se molte missioni prendevano la direzione della Germania tra gli obiettivi multipli che avevano, anche le nostre zone entrarono spesso nel mirino degli attacchi alleati. I timori dei tanti sandonatesi che scrutavano i cieli solcati dagli aerei alleati presto si materializzarono. Le prime bombe caddero nella zona della Casa Paterna in via Calnova e a Chiesanuova il 18 luglio, mentre particolarmente importanti furono i danni subiti da Musile il 21 luglio con le prime vittime, danni anche dal lato sandonatese subì la strada arginale verso Grisolera.

Le truppe tedesche prendono possesso di San Donà
Il ponte della ferrovia colpito dai bombardamenti alleati

A fine luglio le truppe tedesche rafforzarono la loro presenza a San Donà occupando in modo stringente molte zone della città e requisendo numerose abitazioni, lo stesso Oratorio Don Bosco era pieno di soldati tedeschi con cui i salesiani furono costretti ad una scomoda convivenza. Una presenza tedesca che si manifestava in tutto il sandonatese con continue retate nelle quali i tedeschi si alternavano ai fascisti alla ricerca di partigiani, disertori del regio esercito e sempre più di militari alleati sopravvissuti agli abbattimenti degli aerei che sorvolano i cieli sandonatesi e non. Il 3 agosto di un nuovo pesante bombardamento fu fatto oggetto Musile dove caddero un centinaio di bombe, un’altra ventina caddero su San Donà. L’obiettivo palese erano sempre i ponti sul Piave ma è inevitabile che a farne le spese furono i centri cittadini. Alla fine di agosto a finire sotto le bombe fu il ponte della ferrovia pesantemente danneggiato.

Quella sirena divenuta incubo
Le sirene antiaeree ancora esistenti sui tetti di Roma

Numerosi erano gli allarmi aerei che risuonavano ogni giorno a San Donà e la tarda mattinata era l’orario solito in cui tutti erano costretti a cercare di sfuggire alle possibili esplosioni, chi in rifugi predisposti chi in ripari di fortuna. Decisamente più scomodi quando a risuonare erano le sirene di notte con uno stato di apprensione perenne della popolazione che aveva deciso di rimanere in città. Come racconta Savio Teker nel suo libro (2.): « I segnali d’allarmi erano tre: Limitato pericolo (tre segnali da 10 secondi con intervalli di 10 secondi); Pericolo (dieci segnali di 3 secondi con intervalli di 3); Cessato allarme (un segnale di 60 secondi) ». Gli inviti all’evacuazione della città verso le zone di campagna divennero sempre più assillanti e numerose erano oramai le famiglie che ingrossarono le fila degli sfollati.

Il campanile come rifugio notturno
Immagine aerea del centro di San Donà di Piave del 1930

Tra i simboli di quel periodo fatto di continue minacce aeree diurne e notturne a sorpresa vi è stato il Campanile. Ne dà conto Savio Teker inserendo nel suo libro (2.) un racconto pubblicato su un foglietto parrocchiale e scritto dallo stesso Monsignor Saretta a Liberazione di San Donà avvenuta: « Ci sono dei cittadini che hanno proprio chiesto ospitalità al campanile per fare i loro sonni tranquilli, e su per le scale, in tutti i piani del grattacielo, fino alla cella campanaria, ogni notte si dispone con mezzi di fortuna una folla silenziosa e trepidante per sottrarsi ai colpi micidiali di “Pippo” tenebroso. Tutto lo spazio disponibile è utilizzato. Non cadrebbe per terra un grano di miglio. Vi sono i “sediari” pigiati l’uno vicino all’altro, diritti, avvolti nelle ampie coperte per ripararsi dal freddo che entra col vento dalle finestre senza vetrate. Stanno immobili, rigidi, per tutta la notte, come pietrificati. Più disgraziati sono quelli che devono accomodarsi in qualche modo su per la scala. Ciascuno ha il suo gradino, e guai a chi osasse toccarla! Il diritto del primo occupante è riconosciuto in pieno. Qualche fortunato, di proporzioni più abbondanti, si è assicurato l’uso anche di due o tre gradini. E se durante la notte si potesse far luce su quella folla di accoccolati, sarebbe uno spettacolo strano, macabro, pietoso quello che si presenterebbe al nostro sguardo. Poi ci sono i privilegiati, che hanno imbastito un letto di fortuna, con reti metalliche, con materassi. Devono però essere puntuali, all’ora fissata, perché non v’è spazio fra letto e letto e chi arriva in ritardo deve passare sopra i malcapitati, che già riposano sotto le coperte, con pericolo di sentirsi mettere il piede,,,,in fallo. Non mancano le sentinelle, s’intende, senz’armi: sono i ricoverati sporadici, che nel momento del pericolo cercano rifugio in campanile e vi si introducono a furia di spintoni, e vi restano per ore e ore, nelle posizioni più incomode, ma sempre in piedi, a disagio, in attesa di…. Riveder le stelle. Piccole fiammelle a olio, accese davanti al Crocefisso, illuminano la strana catacomba (in senso verticale), quel tanto che è indispensabile per evitare pericoli e disordini, e rendono il soggiorno anche più tetro e misterioso. Così per settimane, per mesi, per tutte le notti, da quando gli aerei notturni vanno spargendo il terrore e la morte ».

(1 – Prima parte); (2 – Seconda parte « Morte e distruzione nel tragico autunno 1944 »); (3 – Terza parte « Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944 »)

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

Quel terribile inverno russo del ’42

« Mannaggio u freddu ca fa » (cit. Alessandro Marini, 277° Regg. Fanteria – Divisione Vicenza)

Cartolina viaggiata di San Donà di Piave (Chiesa – Interno). La cartolina porta nell’immagine un’imperfezione, è sporcata dall’inchiostro di un timbro particolarmente grande.

Ci sono cartoline sulle cui immagini ci soffermiamo incuriosendoci sui soggetti, i dettagli, i ricordi. Spesso questi ultimi nemmeno ci appartengono essendo legati ad un altro tempo, ad un’altra generazione. Eppure lì ci soffermiamo pensando se e dove abbiamo visto questa stessa immagine. In questo caso l’interno del Duomo è una di quelle immagini che sono state riproposte più volte nelle cartoline dedicate a San Donà di Piave. La stessa immagine la possiamo trovare sia negli anni trenta-quaranta che successivamente, magari in edizioni sgranate per le prime e patinate per le seconde. La storia che ci viene da questa cartolina è però un’altra e la scelta di quell’interno chiesa non era che una preghiera, una speranza.

La Storia nascosta nel retro

Come talvolta accade è il retro della cartolina che ti spinge ad approfondire, a vedere chi la scrive e chi ne era il destinatario regalandoti un vissuto vero. Siamo negli anni Quaranta, quelli terribili della seconda guerra mondiale, quelli conclusivi del ventennio fascista. L’Italia ormai in guerra vedeva le proprie migliori generazioni partire per i vari fronti, poco prima che l’Italia divenisse essa stessa oggetto del contendere. Quei giovani che avevano attraversato il periodo della grande guerra e che magari avevano vissuto le privazioni e la fame di quel crudo primo dopoguerra, erano lì zaino in spalla a ripercorrere lo stesso destino attraversato dai loro padri.

La madre, mittente della cartolina spediata il 27 dicembre 1942

A scrivere la cartolina è una madre il cui figlio era stato arruolato in un reggimento di fanteria. Lucia Marini, questo il suo nome, la inviava al figlio Alessandro spedendola ad uno di quegli indirizzi speciali che poi l’avrebbero smistata ai vari reggimenti. E’ questo un dettaglio importante perché ci racconta chiaramente lo scenario lungo il quale questa cartolina ha iniziato il suo viaggio.

La posta militare
Timbro « 156 »

Pur non essendo indicata la destinazione, quel numero accanto alla posta militare segnala la divisione a cui è stata inviata la cartolina. Erano molti all’epoca gli indirizzi di questo tipo, nel caso della spedizione in Russia erano addirittura 28. Dei semplici uffici postali dedicati operanti inizialmente presso il comando di Divisione e che poi iniziarono a spostarsi al seguito delle truppe. Una presenza importante quella di questi uffici postali itineranti che dava modo alla truppa di mantenere un contatto con le famiglie in Patria in epoche dove la lettera e lo scritto erano l’unico modo per comunicare. La posta militare 156 in particolare era stata assegnata alla « Divisione Vicenza ».

Posta militare 156, Divisione « Vicenza »
La posta militare delle truppe nella campagna di Russia

La Divisione “Vicenza” era stata ricostituita nella primavera del 1942 dopo le glorie conquistate nella prima guerra mondiale e il successivo scioglimento nel 1919. A farne parte vennero chiamati il 277° e il 278° Reggimento di Fanteria e il 156° Reggimento di Artiglieria. A fine settembre la Divisione “Vicenza” iniziò il suo trasferimento in Russia. Ad affiancare la Divisione anche il servizio postale denominato posta militare 156. Inizialmente il servizio operava da Brescia poi dal 10 ottobre al seguito delle truppe si insediò a Kupjansk, in Ucraina. A metà dicembre gli attacchi russi furono particolarmente cruenti e anche Divisione “Vicenza” venne trasferita a Rossoš. Dopo il lungo trasferimento il 277* Reggimento venne subito schierato in prima linea con le truppe alpine. Gennaio fu un mese terribile per l’esercito italiano attestato sulla linea del Don. I nomi di Nikitowka, Nikolajevka e Valniki divennero presto sinonimi di sofferenza e tragedia. A metà gennaio alla pari delle truppe alpine la Divisione Vicenza venne travolta dall’avanzata dell’Armata Rossa, pesanti furono le perdite ancor più accresciute dalla successiva rovinosa ritirata dove la fanteria pagò a caro prezzo l’inadeguatezza del proprio equipaggiamento. Il 17 gennaio 1943 la posta Militare 156 cessò di esistere, con essa la 108 (Corpo Alpino), la 201 (Divisione Tridentina), la 202 (Divisione Julia) e la 203 (Divisione Cuneense). Altre resistettero sino a marzo, poche altre fino a maggio quando il destino della spedizione in Russia era oramai segnato.

Una speranzosa attesa affidata ad una cartolina

Tornando alla cartolina in questione, questa era solo parte di una fitta corrispondenza tra madre e figlio, tipica di quei tempi di guerra. Talune volte a scrivere e a leggere questi scritti era un sacerdote perchè non sempre le generazioni nate a cavallo del secolo avevano potuto usufruire di un’adeguata istruzione. La scarsa puntualità della consegna portava a ricevere più lettere assieme con delle risposte che si accavallavano. Marini Alessandro che la madre nello scritto chiama Dino apparteneva al 277° Reggimento Fanteria, inquadrato nella Compagnia Comando con incarico telefonista.

Cartolina scritta da Lucia Marini il 27 dicembre 1942

Caro Dino,

ieri ho ricevuto due cartoline in data 5 e 7 corr. e lettera in data 11 corr. dove mi dici che sei in viaggio. Coraggio, caro Dino, speriamo sempre nel Signore. Noi stiamo bene augurando a te. Spero che almeno il secondo telegramma ti sia giunto, ad ogni modo ti mando tanti auguri e ti raccomando di continuare a scrivermi sempre. Ti scriverò presto lettera, intanto ti mando tanti baci.

Tua mamma

Saluti auguri per il nuovo anno. (scritta alla rovescia)

Il triste epilogo

Spedita subito dopo il Natale del 1942 questa cartolina si incamminò verso la Russia ma non è dato sapere fin dove arrivò, di certo non tra le mani del figlio. Come detto la posta militare 156 cessò di esistere il 17 gennaio 1943 quando il fronte cedette. Quale sia stato il destino di Alessandro ce lo indica l’albo dei caduti della seconda guerra mondiale dove il suo nome è incluso e che particolarmente nel caso della Russia unisce accanto ai caduti anche i dispersi. Il soldato Alessandro Marini viene segnalato in questo elenco dal 31 marzo 1943, sul database del sito della Divisione Vicenza viene inserita un’ulteriore informazione relativa al luogo della morte identificato nel campo di prigionia 56 di Uciostoje, nella regione russa di Tambov. Era nato il 10 ottobre 1920 a Cessalto, poco più che maggiorenne morì sul fronte russo.

L’incredibile opera del fato

Il ricordo è un qualcosa di vivo che talvolta è capace di sorprendere quando meno te lo aspetti. E allora può capitare che un documento recuperato tanti anni fa si possa infilare nel mezzo di un altro ricordo che stai sfogliando pretendendo giustamente di esserne parte. Quasi nello stesso momento in cui sua madre scriveva la cartolina, Alessandro Marini scriveva una « cartolina postale per le forze armate » inviando i migliori auguri di buone feste ai funzionari dei Consorzi di Bonifica di San Donà di Piave presso cui evidentemente lavorava aggiungendo uno speciale saluto a Berto Maschietto presumibilmente suo collega. Anche in questo caso l’uso dei nomi è importante Alessandro è il suo nome ufficiale, che lui riduceva a Sandro ma tutti compresa sua madre lo chiamavano Dino. E così si firma per l’amico-collega scrivendogli: “Mannaggio u freddu ca fa”. Dalla stessa si evince che faceva parte della Compagnia Comando del 277° Reggimento Fanteria, 1° Battaglione, ovvero lo stesso reparto che nell’offensiva russa di metà gennaio schierato in supporto alle truppe alpine nel coprire il fronte, venne praticamente decimato. Queste le parole scritte nelle sue memorie dal Col. Giulio Cesare Salvi, comandante del 277° Reggimento: « La situazione peggiora. Il 15 gennaio 1943 il 1/277° dislocato alla difesa di Rossoch, viene travolto dai carri armati russi e pochissimi Ufficiali e soldati riescono a sfuggire…. »

La cartolina postale scritta da Alessandro Marini il 26 dicembre 1942, timbro postale posta militare 156 del 1 gennaio 1943
Il ritorno al mittente
Il destinatario della cartolina e il timbro del mancato recapito

Quella cartolina spedita da Lucia Marini da San Donà di Piave il 27 dicembre 1942 con il timbro « Al mittente, non potuto recapitare per eventi bellici » tornò il 26 agosto 1943. L’immagine rovinata dell’interno del duomo dall’inchiostro di un timbro altro non era che la sovrapposizione successiva di più cartoline che non era stato possibile recapitare. Centinaia, migliaia di missive che tornavano in Patria con tutti i loro irrisolti desideri e le perdute speranze, solo pochi vedranno poi tornare i loro cari. Un triste epilogo che trovò una San Donà su cui gli echi della guerra si materializzarono con il rombo degli aerei in cielo e i successivi bombardamenti. Come molte città venete anche San Donà di Piave ne pagò un prezzo. Ma questa per il momento è un’altra storia.

Per approfondimenti:

1. Divisione Vicenza ; 2. Memoriale del Col. Giulio Cesare Salvi (comandante del 277° Reggimento Fanteria); 3. Posta Militare 156 – La Divisione “Fantasma”; 4. L’elenco dei caduti della Divisione “Vicenza” (Marini); 5. Campagna italiana in Russia (agosto 1941-20 gennaio 1943); 6. Prima battaglia sul Don (20 agosto-1° settembre 1942); 7. Seconda battaglia sul Don (11 dicembre 1942 -31 gennaio 1943); 8. Offensiva Ostrogožsk-Rossoš’ (12 gennaio-27 gennaio 1943); 9. U.N.I.R.R. (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia);