« Verso la mezzanotte del 27 luglio, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 4 giugno 1945, essi venivano bruscamente svegliati nelle loro celle, invitati a vestirsi e a partire. Partirono per non più ritornare. Alla soglia del carcere, gli assassini li attendevano, quaranta uomini armati di tutto punto contro tredici uomini inermi e legati mani e piedi.
Per giustificare l’eccidio, un simulacro di processo venne tenuto, clandestinamente, in qualche luogo. La sentenza, già preparata in anticipo, venne letta ai morituri nei pressi del luogo dell’esecuzione. E quando l’alba stava per spuntare, ripetute scariche di mitra falciavano i loro poveri corpi, dai quali, come ultima manifestazione di una vita spesa per il bene della Patria, uscì un sol grido: « Viva l’Italia ».
Da quel mattino in cui i Caduti cessarono di essere degli esseri viventi, essi diventarono un simbolo di dedizione al dovere, della volontà di lotta, delle sofferenze e del martirio di tutto un popolo e presero un nome comune: i Tredici Martiri di Cà Giustinian ».
La commemorazione solenne in occasione del ventesimo anniversario
Il libretto che contiene il testo dell’incip è stato editato dal Comune di San Donà di Piave in occasione di una commemorazione solenne che si tenne il 6 settembre 1964 in occasione del ventesimo anniversario. Ai Tredici Martiri e a quel libretto abbiamo già dedicato un post « San Donà di Piave, il sacrificio dei Tredici Martiri », con la possibilità di scaricare il libretto stesso a questo link: « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° anniversario della Resistenza ». A seguire invece l’invito spedito alle autorità per la manifestazione del 6 settembre 1964:
L’attentato di Cà Giustinian
L’attentato che poi portò alla rappresaglia e all’uccisione dei Tredici Martiri avvenne il 26 luglio 1944. L’obiettivo a Venezia era la sede del Comando provinciale della Guardia nazionale repubblicana (Gnr). In quel palazzo aveva sede anche la polizia segreta del Partito fascista (Upi), oltre che un ufficio di propaganda tedesco, che risulterà l’anello debole che permise il successo dell’azione. Un obiettivo altamente simbolico che vide il crollo dei cinque piani del palazzo con numerose vittime, tra cui due militari tedeschi. Racconta Morena Biason nel suo libro (1): « …fu acquistato il baule che doveva servire allo scopo, predisposto il congegno di accensione, preparata la bomba dentro la cassa e, la mattina del 26, Varisco si recò presso l’abitazione in cui la cassa era custodita, lo studio dello scultore Velluti, e mise in funzione il congegno, dopodichè Velluti scrisse l’indirizzo tedesco sul coperchio della cassa che venne caricata sulla barca che la doveva portare a destinazione: la portarono “Kim” e un altro. I due si erano presentati al corpo di guardia del Comando provinciale della Gnr di Venezia preceduti da tre soldati tedeschi insieme ai quali, dopo aver dichiarato di dover consegnare il baule all’ufficio propaganda tedesco, avevano esibito i loro documenti personali ed erano stati fatti entrare nello stabile. Dato che l’ufficio non era ancora aperto, la cassa era stata lasciata in custodia al corpo di guardia e i due portatori se ne erano andati dicendo che sarebbero tornati poco dopo. Lo scoppio della bomba aveva provocato il crollo completo dei cinque piani dell’edificio, come voleva Varisco, solo nella parte posteriore. In seguito erano stati individuati i tre soldati tedeschi che avevano accompagnato Kim e il suo compagno all’interno del palazzo ed era stato appurato che erano stati sorpresi nella loro buona fede….»
L’alba del 28 luglio 1944
Il giorno ventisette venne decisa la rappresaglia, tredici furono i prigionieri politici del carcere di Santa Maria Maggiore che vennero giustiziati, quasi tutti erano sandonatesi. Racconta Morena Biason nel suo libro (1): « La sera del 27 un gruppo di militi della Gnr si era portato presso la sede dei carabinieri di San Zaccaria, da dove aveva ordinato il trasferimento presso di loro, dalle carceri di Santa Maria Maggiore, dei tredici prigionieri scelti per la rappresaglia. I tredici, che credevano di andare incontro ad un processo, furono subito inviati a San Zaccaria, dove trascorsero solo una parte della notte, perchè prestissimo in sette, legati con una fune, vennero portati con un motoscafo sulle macerie di Cà Giustinian e, alle 5 del mattino, uccisi a colpi di mitra e di pistola. Le altre sei vittime, anch’esse legate, erano state fatte giungere sul posto a piedi, dalla parte di San Moisè. Solo alle 9 del giorno successivo le salme furono rimosse e trasportate con una peata al cimitero, senza che fosse possibile rivolger loro qualsiasi tipo di onoranza funebre. Avevano lasciato Santa Maria Maggiore intorno alla mezzanotte e, verso le 6, racconta Giuseppe Gaddi, in carcere all’epoca con i Tredici, la guardia addetta al magazzino già si recava a ritirare gli oggetti che avevano lasciato in cella. Il plotone di esecuzione era comandato dal capitano della Gnr Waifro Zani che aveva fatto di tutto per trattenere i tredici in carcere e non farli partire per la Germania, nonostante fossero già ingaggiati con regolare contratto per recarvisi a lavorare. Il capitano dopo che il plotone di esecuzione aveva già eseguito l’ordine impartitogli, avrebbe sparato un colpo di rivoltella contro ciascuno dei primi sette martiri… »
Gli altri martiri presenti nel cimitero sandonatese
Accanto ai Tredici Martiri sandonatesi, nel cimitero cittadino vi è una seconda tomba che accoglie altre vittime sandonatesi di quel cruento periodo che vide gli uni contro gli altri, talvolta con divisioni profonde nelle proprie stesse famiglie. Un periodo nel quale morire era un attimo e anche quando si pensava di essere nel giusto, il destino decideva altrimenti. E’ il caso di Verino Zanutto al quale il solo perorare la causa di alcuni conoscenti catturati da un gruppo di partigiani trevigiani costò la vita seguendo così lo stesso destino di coloro che avrebbe voluto salvare in quanto egli stesso partigiano. Con Zanutto morì impiccato anche Primo Biancotto che lo accompagnava, fratello del Francesco che fu fucilato qualche mese dopo a Cà Giustinian. Flavio Stefani, Zanin Casimiro e Giodo Bortolazzi, tutti di Calvecchia, nel fiore dei loro anni morirono nei pressi di Pramaggiore. Caddero prigionieri dei nazisti comandanti dal tenente Bloch durante un rastrellamento a Blessaglia a seguito di alcuni sabotaggi alla linea ferroviaria. Dopo essere stati torturati furono fatti passare in rassegna alla popolazione locale per segnalare qualche loro fiancheggiatore, rimasti in silenzio furono impiccati agli alberi che costeggiavano la via Postumia il 27 novembre 1944. Al Zanin cedette la corda, lo stesso Bloch lo giustiziò a colpi di pistola dopo che una prima pistola si inceppò. Per tre giorni vennero lasciati lì a monito della popolazione locale. Padre e figlia sono invece Carozzani Luigi e Carozzani Cesira. Il padre trasferitosi in Friuli riforniva di viveri le formazioni partigiane entrando nelle mire dei tedeschi, anche i figli ben presto seguirono la stessa sorte tanto che le figlie Elvira e Cesira vennero catturate e inviate in Germania. Quando riuscirono a rientrare a San Donà il padre era già caduto in un conflitto a fuoco con i tedeschi in Friuli mentre Cesira non sopravvisse alla tubercolosi. Carlo Vizzotto fu uno di quei ragazzi che vennero arruolati forzosamente nelle fila dell’esercito di Salò. Inviato in Germania, al suo ritorno disertò e si aggregò ai gruppi partigiani liguri dove si distinse particolarmente prima di cadere in combattimento. Guerrato Luigi mori invece durante un attacco al presidio tedesco di Noventa il 28 aprile 1945.
I martiri della stazione
All’ultimo dei sandonatesi presenti nella tomba dei Martiri della Libertà, Bruno Balliana, è legato uno degli episodi che sono rimasti nella triste storia di San Donà di quegli anni. «… La sera del 10 dicembre la squadra del Curasì, il comandante del presidio delle Brigate Nere di San Donà di Piave, prelevò dalle carceri mandamentali di San Donà Bonfante Angelo, Bonfante Bruno, Scardellato Giuseppe e Balliana Bruno, che vi erano stati in precedenza ristretti per renitenza alla leva o attività antifascista, e li condusse alla sede delle SS Germaniche, dove si trovava detenuto il conte Gustavo Badini, anch’egli arrestato per attività partigiana. A notte i cinque detenuti furono fatti uscire da Villa Amelia, sede delle SS e instradati per Noventa di Piave. La scorta era costituita da un reparto, forse di 60 uomini, al comando del tenente Haupt, e da un plotone comandato da Curasì. Questi diede in seguito ordine di mutare la formazione, e cioè fece disporre i detenuti in linea di fronte, l’uno affianco all’altro: seguiva immediatamente, a una decina di passi, il plotone anzidetto. Era stato percorso circa mezzo chilometro fuori dell’abitato, quando il Curasì, dato l’alt, diede ordine ai detenuti di voltarsi e intimò ai suoi uomini: fuoco! Seguì una violenta raffica da parte del plotone, che cagionò la morte immediata del Baldini, del Scardellato, del Balliana, e di Bonfante Angelo: il fratello di quest’ultimo, Bonfante Bruno, rimase invece miracolosamente ferito alle natiche ed ebbe il consapevole ardimento di buttarsi subito fuori della strada e darsi alla fuga, riuscendo, benchè inseguito, a sottrarsi all’eccidio e alla detenzione. Processato a fine guerra, Curasì venne condannato alla fucilazione alla schiena, il suo secondo Fenzo all’ergastolo, a trent’anni i sei componenti del plotone. »
Per approfondimenti sui Tredici Martiri e la resistenza sandonatese: (1) « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007)