L’incidente del Simplon Orient-Express a San Donà di Piave

L’incidente del Simplon Orient-Express a San Donà di Piave

Il ponte ferroviario distrutto dagli italiani il 9 novembre 1917

Come racconta il ten. Ing. Leonardo Trevisiol, della 20^ Comp. Minatori, nelle sue memorie: « Campanile di San Donà, demolito il 7 novembre, ore 23, dal cap. Borghi; camino dell’Jutificio e campanile di Noventa, demoliti l’8 novembre, dal ten. Trevisiol; ponte della ferrovia, fatto brillare il 9 novembre, ore 4 antimeridiane, e ponte carrozzabile, lo stesso giorno, ore 11, dal cap. Borghi e ten. Trevisiol della 20^ Comp. Minatori.» La guerra arrivò a San Donà in quel novembre 1917 e le vie di comunicazione per oltre un anno cessarono di collegare il territorio cittadino con l’altra sponda del Piave dove si attestarono le truppe italiane. Fin quando, dopo dodici cruenti mesi, le truppe italiane poterono riconquistare i tanti territori perduti sconfiggendo l’esercito austroungarico.

La lenta ricostruzione iniziò dai ponti
La linee ferroviarie italiane nella prima guerra mondiale

La rinascita di San Donà iniziò con la ricostruzione dei ponti. Quello pedonale inizialmente era costituito da un ponte di barche per poi lasciare il passo ad uno di legno. Quindi molti mesi dopo, il 12 novembre 1922 venne inaugurato il nuovo ponte sul Piave. Diversa la situazione di quello ferroviario la cui urgenza era di gran lunga maggiore per la sua utilità nel trasporto merci. Dal 1885 la ferrovia collegava San Donà a Venezia, cui seguì l’anno dopo il collegamento con Portogruaro. Linea che proseguì sino all’estremo limite del confine italiano dell’epoca rappresentato da San Giorgio di Nogaro per poi congiungersi con la ferrovia austriaca in direzione Trieste. Una linea ferroviaria che divenne interamente italiana dopo il primo conflitto mondiale, da qui l’esigenza di ripristinare sia i binari che i molti ponti per garantite lo spostamento veloce di persone e merci.

Il ponte della ferrovia in costruzione dopo la grande guerra (Immagine tratta da “Il Mondo”, 2 marzo 1919)
Il ponte della ferrovia
Il ponte provvisorio ricostruito nel febbraio 1919

Tante le risorse profuse per il ripristino dei molti ponti ferroviari da ricostruire, con l’impiego di molte maestranze militari e civili e con materiali che arrivarono da tutta Italia. Il ponte sul Piave riuscì a sfruttare in parte la struttura danneggiata e già nei primi mesi del 1919 potè essere utilizzato per il passaggio dei primi treni. In attesa del ponte definitivo quello costruito dal Genio Militare aveva la provvisorietà dell’unico binario che lo attraversava. Se i lavori sulla linea procedettero poi con celerità, il ponte ferroviario definitivo solo nel febbraio 1927 divenne operativo con i suoi doppi binari. Nel mezzo una tragedia le cui dimensioni fortunatamente furono ridotte, ma le conseguenze in quel dicembre 1921 avrebbero potuto essere ben più gravi.

21 dicembre 1921, il grave incidente ferroviario

La ferrovia nei pressi della stazione di San Donà dopo la guerra

L’incidente ferroviario nei pressi del Ponte di San Donà di Piave riempì le pagine dei giornali dell’epoca, ad essere coinvolti furono un direttissimo che da Trieste doveva arrivare a Roma e il Simplon Orient-Express, un treno lusso che aveva affiancato il famoso Orient-Express che da decenni attraversava l’Europa collegando Londra ad Istanbul. Dopo la costruzione del Passo del Sempione il Simplon seguiva un diverso percorso, il treno lusso scendeva verso l’Italia e, dopo le prestigiose fermate di Milano, Venezia e Trieste, riprendeva il percorso tradizionale dell’Orient Express a Belgrado.
Sulla Gazzetta di Venezia apparve un lungo articolo che raccontava con dovizia di particolari le ore successive all’incidente, i primi soccorsi giunti dall’ospedale di San Donà di Piave e la rapida inchiesta per individuare i responsabili. Questo ci dà anche un quadro di quali fossero le procedure non semplici che il singolo binario di attraversamento del ponte comportava, specie in orari serali e con una visibilità non ottimale.

« Il direttissimo 49 Trieste-Roma era arrivato a S. Donà di Piave l’altra sera alle 21.29 e dopo essersi fermato circa un minuto in quella stazione aveva ripreso la sua corsa verso Venezia con una andatura non troppo veloce, circa 40 km all’ora; giunto vicino al Ponte sul Piave, il direttissimo, trovata sgombra la via, si era avviato per l’unico binario che in quel punto si trova, e aveva di poco oltrepassato il ponte e stava per lasciare il binario unico, che dopo il ponte torna a biforcarsi, quando venne investito di traverso dal treno lusso Simplon Orient Express che proveniva da Venezia. L’urto fu violentissimo; tre carrozzoni del treno investito furono sfondati, mentre la macchina e il tender del treno investitore si rovesciavano lungo la scarpata.
Urla di dolore e di spavento seguirono al cozzo tremendo. Tutti i viaggiatori pazzi dal terrore si slanciarono fuori dagli scompartimenti mentre dalle macerie delle tre vetture sventrate si alzavano gemiti e lamenti strazianti. Il nebbione che forse fu la causa dello scontro si era nel quel mentre un po’ diradato e uno squallido raggio di luna venne ad illuminare il terribile spettacolo. I passeggieri rimasti incolumi e riavutosi dalla terribile paura cercarono di portare aiuto ai disgraziati che si trovavano sotto le macerie. In fondo, una guardia regia era incastrata tra il terreno e il tetto di un carrozzone e si lamentava debolmente chiamando aiuto, più in là una signora francese chiamava con voce straziante il figlioletto che non trovava più.
Giungevano intanto i primi soccorsi; alcuni manovali col capo stazione di San Donà, Dall’Acqua Cristoforo, e poco dopo alcuni infermieri dell’ospedale Umberto I con barelle che provvidero al trasporto dei feriti più gravi e alla medicazione dei più leggeri.

La stazione ferroviaria prima della grande guerra

I morti e i feriti
E cominciò la ricerca delle vittime: venne estratto il cadavere di un giovane signore da un cumulo di sedili che lo seppellivano completamente; poco dopo più avanti un colonnello del 48. Fanteria ferito piuttosto gravemente alle gambe, nel vagone letto fu trovata una signora pur essa ferita alle gambe: tutti furono adagiati su delle barelle e condotti allo spedale di S. Donà dove furono ricevuti e curati amorevolmente dal direttore Alessandro Girardi. Per fortuna il numero delle vittime, che data la violenza dell’urto e l’affollamento del direttissimo, lasciava a prevedere fosse molto ingente, non si riduceva che a due morti e ad una quarantina di feriti dei quali 15 soli furono ricoverati allo spedale di San Donà, mentre gli altri appena medicati, sono subito ripartiti.
Intanto la metà del treno 49 proseguiva col resto dei passeggieri per Mestre.
I soccorsi e le autorità
Verso la mezzanotte giungeva sul posto del disastro un treno di soccorso che portava le autorità: il sotto prefetto commendatore Sorge, il questore Tarantola, il Ten. Colonnello dei carabinieri Profili, il maggiore delle guardie regie Fulgenzi, il comm. Campello capo divisione movimento F.S., l’ing. Olper, comm. Sottili capo dei lavori, il comm. Vittori capo trazione, l’ing. De Simiane, e numerose guardie regie che pintonarono il luogo del disastro. Venne scaricato abbondante materiale per lo sgombero della linea.
Subito dopo ne giungeva un altro che portava il cav. Chiancone sostituto procuratore del Re, cav. Lo Mosco della Compartimentale, una quarantina di guardie regie al comando dei tenenti Fondelli e Del Vecchio, il cav. Arrighi ispettore capo sanitario delle F.S., il dr. Groviglio pure delle F.S.; 14 marinai con barelle al comando del maggiore medico Cantamessa, una quindicina di pompieri con l’ing. Gajanni, l’ispettore Fringuelli, ecc. Anche noi siamo sul posto e il disastro ci appare in tutta la sua gravità.
La visione del disastro
I tre vagoni del treno investito sono tutti rovesciati sulle rotaie; il vagone letto ha la parete destra completamente squarciata; è un ammasso di ferro contorto, di cuscini, di materassi, di lenzuola. Valigie sventrate; seguono due carrozzoni del Roma-Trieste con scompartimenti di I e II classe anche questi sventrati e sconquassati: sembra che sia stata tagliata via con un gigantesco coltello una parete, tanto è netto il taglio. Una veilleuse ancora accesa, Dio sa come, fra tanto disordine, spande una debole luce bleu; più in là l’ultimo carrozzone ha ancora le sue lampadine accese.
La scena è fantastica. Torce al vento e falò di legna rischiarano sinistramente la scena; sul cielo nebbioso si disegnano lugubri i contorni fantomatici dei carrozzoni squassati. La locomotiva del treno di lusso è distesa lungo la scarpata con i carrelli in aria, simile ad un enorme pachiderma rovesciato.
Quando giungiamo i feriti ed i due morti sono già trasportati allo spedale e sono già iniziati i lavori di sgombero: vengono installati due potenti riflettori ad acetilene per poter continuare il lavoro per la riattivazione della linea.
L’inchiesta delle Autorità

La stazione ferroviaria di San Donà nel 1921

Ci rechiamo alla stazione di San Donà dove troviamo già il cav. Chiancone coadiuvato dal cav. Lo Mosco che ha già iniziato l’interrogatorio dei testimoni. Possiamo parlare coll’ing. Giovanni Breda, consigliere delle F.S. il quale era uno dei viaggiatori del treno investito e ci dà molto cortesemente delle spiegazioni tecniche sul sistema di segnalazione all’imbocco del ponte.
Subito dopo la stazione di San Donà egli ci spiega, ad un centinaio di metri dal ponte, il doppio binario si riunisce dovendo passare per esso e torna poi a biforcarsi ad un altro centinaio di metri più in là. A sorveglianza di questo importante scambio c’è la cabina A che è in comunicazione colla stazione di San Donà, e che ha l’ufficio di far funzionare i segnali di arresto per i treni provenienti da Venezia, qualora la via sia ingombra da un treno proveniente da San Donà. Il sistema di segnalazione è costituito da un segnale di avviso a luce gialla distante un 500 metri dallo scambio e da un segnale di prima categoria a luce rossa posto vicino lo scambio. Inoltre, in tempo di nebbia, come ieri sera, lungo la linea vengono posti tre petardi che hanno l’ufficio di avvisare il capotreno qualora questo per la nebbia non scorgesse il fanale giallo indicante che la via è impedita. Ora con ciò, conclude il nostro interlocutore, non possiamo ammettere che una causa del disastro: la nebbia che ha impedito al capotreno del S.O.E. di scorgere il segnale di avviso e udire a tempo lo scoppio dei petardi, per cui si è trovato sotto il fanale rosso improvvisamente e quando ormai era troppo tardi per frenare il treno.
Le impressioni di un viaggiatore

Il Simplon Orient-Express nei pressi del Passo del Sempione in una immagine degli inizi del ‘900

Preghiamo ancora, incoraggiati dalla sua gentilezza, l’ing. Breda di riferirci la sua impressione al momento del disastro ed egli di buon grado ci dice: “Mi trovavo nel treno 49 che era partito da San Donà di Piave alle 21.30 diretto a Venezia, e avevamo appena oltrepassato il ponte sul Piave verso Fossalta, quando improvvisamente avvertii prima un urto lieve seguito subito da uno fortissimo che rovesciò la vettura nella quale mi trovavo; un signore che era in mia compagnia fu sbalzato di colpo fuori dallo sportello che si era sfasciato e pure una signora che si trovava anch’essa nel mio scompartimento avrebbe seguita la stessa sorte se non fossi riuscito a tempo ad afferrarla. Riavutomi subito dal colpo uscii dal treno e constatai che la vettura che si trovava davanti alla mia era anch’essa rovesciata su di un fianco e che anche la vettura letto si era inclinata e aveva una parete completamente asportata, mentre la locomotiva del treno investitore che poi capii essere il S.O. giaceva rovesciata col tender lungo la scarpata. Le altre vetture invece del mio treno si erano staccate senza riportarne danni. Allora feci immediatamente ricerca del macchinista e del fuochista del treno lusso senza poterli trovare, poiché essi s’erano allontanati tosto portandosi alla stazione di San Donà. Invece il capo treno del S.O. continua l’ing. Breda, mi ha detto che il segnale di avviso era chiuso e che aveva inteso pure i tre petardi di segnale.
Dopo una mezz’ora, spesa per soccorrere i feriti, mi recai alla cabina A che dista una quarantina di metri dal bivio e constatai che le leve per il segnale di protezione o di avviso erano disposte per l’arresto del treno S.O. e che lo scambio per il direttissimo 49 era invece aperto, quindi a piedi raggiunsi la stazione.
Ringraziammo l’ing. Breda per la sua cortesia e grazie a quella del cav. Chianconi possiamo legger le dichiarazioni che hanno fatto il cantoniere della cabina A, il macchinista del treno S.O., del capotreno pure del S.O. e infine del frenatore di coda.

Le dichiarazioni del personale
Il cantoniere della cabina A certo Frasson Gaetano dichiara che comandato dal dirigente della stazione di San Donà di aprire la via al treno 49 eseguì la manovra e che non potè scorgere, data la nebbia fitta, l’avanzarsi del lusso che entrò nel binario a semaforo chiuso andando ad investire il 49. Egli aggiunge inoltre che dato il rumore che faceva il 49 passando sul ponte, non gli fu possibile udire lo sparo dei petardi.
Il capotreno del lusso certo Veronese Equiziano dice che mentre egli era intento a riportare in 2. copia l’unico collo ch’egli avesse in consegna nel bagagliaio udì lo scoppio dei tre petardi: egli corse subito a guardare e stante la nebbia e il fumo che la macchina faceva non gli riuscì di scorgere il segnale di avviso e che invece poco dopo scorse il segnale rosso a via impedita. Egli diede subito mano al freno Westinghouse, ma troppo tardi poiché subito dopo egli ricevette un colpo sì violento da farlo cadere a terra mezzo intontito.
Il macchinista Morini fa anche lui una dichiarazione consimile a quella del Veronese, disse che anch’egli non riuscì a frenare in tempo.
Analoga dichiarazione ha fatto il frenatore di coda certo Pin Vittorio. Il Veronese, il Morini e il Pin subito dopo il disastro sono corsi in stazione dove hanno fatto le loro dichiarazioni e poi si sono allontanati e non hanno più fatto ritorno.
Le responsabilità
Non sappiamo ancora quali siano state le conclusioni dell’inchiesta aperta dal cav. Chiancone, ma dalle deposizioni dei testimoni e del cantoniere Frasson, risulta ben chiaro che la colpa del disastro deve attribuirsi al personale del treno lusso che non doveva essere troppo attento alle segnalazioni, che appunto perché rese meno visibili dalla nebbia, dovevano con maggior cautela esser avvistate. In ogni modo se il capotreno Veronese potè scorgere il segnale rosso, quando ormai non c’era più tempo, o perché non poteva scorgere anche il segnale di preavviso giallo? E perché il capotreno e il macchinista non appena percepirono il primo petardo non chiusero immediatamente i freni? Noi non vogliamo con questo accusare il personale del treno lusso di incuria, ma d’altra parte siamo convinti che, sia il capotreno, sia il macchinista, sia il frenatore avessero posta più attenzione il disastro che è costato la vita a due persone di sarebbe potuto evitare.
I lavori di sgombero

Immagine pubblicitaria del Simplon Orient-Express

I lavori di sgombero della linea sono già stati iniziati sin dalle 2 di ieri notte sotto la direzione del comm. Campello e dell’ing. Veslarini.
Diamo i nomi dei due morti e dei quindici feriti ricoverati all’ospedale Umberto I di San Donà:
I morti
Dott. Dorini Giuseppe di Pasquale di Pasquale, d’anni 36, ex questore di Fiume.
Dott. Scarlini Spiro fu Carlo, d’anni 50, da Panerai (Firenze), ispettore capo reparto ferrovie. La morte deve esser stata istantanea per il colpo violentissimo.
I feriti
I feriti, feriti quasi tutti alle gambe e alle braccia, sono tutti fuori di pericolo:
Fissarella Ginevra fu Marcantonio, da Roma.
Barone Niccolò Serena di Lapigio, da Roma.
Dott. Mayer Aldo, figlio del sen. Mayer, e redattore del “Piccolo” di Trieste. Dalle pagine de Il Piccolo si legge che con la moglie e la figlia di stava recando a Roma. Erano tutti nel wagon lit colpito dal treno lusso. Al momento del terribile urto il Mayer perse conoscenza. Quando rinvenne vide attorno al suo letto ospedaliero la moglie e la figlia, le quali avevano dovuto indossare gli abiti offerti dalla pietà delle suore del pio luogo perché al momento dello scontro erano coricate e le loro vesti, nel tumulto, si erano smarrite. Egli ha diverse abrasioni al volto e il braccio fratturato, anche una delle tibie è gravemente offesa.
Cotromano Giuseppe di Felice, da Bologna.
Bertini Luigi, da Roma, consigliere di emigrazione.
Mencucci Giovanni di Francesco, da Porto Salve (Calabria), tenente dei carabinieri in servizio a Fiume, sulle pagine del Piccolo era tra i feriti più gravi.
Mencucci Sante di Francesco, da Porto Salve (Calabria).
De Zito Alfonso di Pasquale, primo capitano della R. Marina, di Salerno
Focacci Ruggero di Pietro, da Santofiore (Grosseto).
Lenise Geriola, da Algeri, anche nel suo caso si legge dalle pagine del Piccolo che si trattava di uno dei feriti più gravi a causa di una grave commozione celebrale.
Maillar Luigi, da Algeri.
Testolina Gennaro, guardia regia, da Trieste.
Cecchin Mario, macchinista Deposito di Fiume, da Firenze.
Mariottini Ottavio, agente agrario del conte Revedin, Gorgo al Monticano (Oderzo).
Cav. Elia Luigi, colonello comandante del 48. Fanteria di stanza ad Abbazia, anche lui tra i feriti più gravi.
Sono stati ricoverati poi all’Ospedale di Mestre due feriti fortunatamente leggeri.
Lucio Mariucci, commerciante di Trieste per contusione al piede, d’anni 29.
Agnoluzzo Raffaello, istriano, d’anni 30, ferito leggermente alla testa. L’Agnoluzzo è uscito dall’Ospedale nella giornata di ieri.
Sono stati ricevuti poi al nostro Ospitale Civile certo Abbolito Luigi applicato alle ferrovie di Triste.
Pamol Antonio d’anni 16 da Pisino, domestico
Scazzafava Glesia, maritata De Carolis, di Reni, d’anni 25.
Ciampi Adele, d’anni 35, nata a Milano proveniente da Trieste.
Tutti e quattro sono feriti alla testa e alle gambe, e se la caveranno in circa una ventina di giorni.
L’arresto del macchinista del treno investitore
L’inchiesta ordinata dal sostituto procuratore del Re cav. Chiancone ed eseguita dal giudice istruttore Cattaneo è finita nella mattinata di ieri. Dalle varie deposizioni dei testimoni è apparsa chiaramente la responsabilità del macchinista del treno di lusso Morini Carlo, che, per ordine del Commissario Compartimentale venne tratto in arresto nelle prime ore pomeridiane di ieri.
Nella giornata seguente il ripristino della linea e la morte di un terzo passeggero
Per tutta la giornata di ieri sono continuati i lavori di sgombero della linea: si è potuto fare un raccordo e fu possibile far inoltrare i treni per questa linea provvisoria. Il colonello Elia del 48 Fanteria che era tra i feriti più gravi è morto in seguito a commozione celebrale sopraggiuntagli in causa al terribile colpo ricevuto alla testa.
La Gazzetta di Venezia si mantenne sul vago sulle reali cause della morte del colonnello Luigi Elia del 48° Fanteria di stanza ad Abbazia, più cruda la spiegazione che apparve sulle pagine del Popolo d’Italia: “Egli sopportò stoicamente prima l’amputazione di un arto superiore poi di un arto inferiore, ma dopo due operazioni cessò di vivere.”.

Il nuovo ponte ferroviario venne inaugurato nel 1927

Il tragico incidente della settimana precedente il Natale del 1921 accelerò l’iter per il raddoppio del binario di attraversamento del ponte ferroviario di San Donà di Piave. Le periodiche piene del Piave che avevano accompagnato anche la costruzione del ponte provvisorio, non mancarono nel rallentare i lavori, ma alla fine nel febbraio 1927 il ponte ferroviario definitivo poté finalmente essere inaugurato. Quello stesso ponte divenne poi suo malgrado protagonista anche nel secondo conflitto mondiale quando fu colpito durante i bombardamenti alleati del 1944.

Per ulteriori approfondimenti: 1. “Il ponte della vittoria diventa storia: 1922-2022 – passi barca, ponti e vie d’acqua a Musile e dintorni (di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto – Tipolitografia Biennegrafica – Musile di Piave – 2022); 2. “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Mons. Costante Chimenton, Tipografia Editrice Trevigiana, 1928); 3. Archivio storico “Gazzetta di Venezia”, venerdì 23 dicembre 1921; 4. Archivio storico “Il Piccolo” di Trieste, venerdì 23 dicembre 1921; 5. « Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti », il periodo dei bombardamenti aerei alleati trattati nel Blog in tre post successivi.

Nel lontano 1938 nacque l’associazione “Amici Moto Ombra”

Nel lontano 1938 nacque l’associazione “Amici Moto Ombra”

In un articolo del periodico “Il Piave”, edito dall’amministrazione comunale di San Donà di Piave, nel gennaio 1973 si poteva leggere qualche cenno storico dell’associazione “Amici Moto Ombra”

Una cartolina degli “Amici Moto Ombra” con la loro classica moto stilizzata

Uno dei motti dell’associazione “Amici Moto Ombra” recitava così « Empi il Bicchier che vuoto – vuota il bicchier che pieno – non lo lasciar mai vuoto – non lo lasciar mai pieno ». Nata nel 1938 per iniziativa di quindici amici fondatori in un periodo di grandi ristrettezze e con un Paese oramai prossimo alla guerra e alle distruzioni che questa portò, ebbe il merito di continuare la sua opera per un periodo lunghissimo tanto che l’articolo apparso su “Il Piave” festeggiava il suo trentacinquesimo anniversario.

I Soci fondatori degli « Amici Moto Ombra »

Da Sinistra in alto: Zorzi Vittorio, Tronco Giovanni, Brollo Libero, Pasini Nino (primo presidente), Bello Oreste, Pasini Luigi; in mezzo: Bincoletto Luigi, Momesso Giuseppe, Giacobbi Giuseppe, Caramel Alfredo, Boccato Luigi; in basso: Frara Luigi, Bergamo Mario, Murer Bruno, Carlesso Giulio.

Da “Il Piave” – Ricorre quest’anno il 35° anniversario della «Amici Moto Ombra – G. Tronco »

Ricorre quest’anno il 35° anniversario della fondazione del decano dei sodalizi cittadini la « AMICI MOTO OMBRA – Giovanni Tronco ».
Da queste colonne ci proponiamo di far conoscere che cosa è la AMICI MOTO OMBRA, il perché della sua fondazione e le finalità che l’hanno fatta nascere e sin qui progredire per assumere adesioni innumerevoli.

Una foto di gruppo con sullo sfondo la moto modello « Amici Moto Ombra », la vista è su via Trecidi Martiri dove si nota anche l’Oratorio Don Bosco

Nel lontano 1938, nel mese di febbraio, un gruppo di quindici operai spinti da profondi sentimenti di amicizia dettero vita alla AMICI MOTO OMBRA come fini ricreativi ma soprattutto spinti da un più nobile ideale che si identificava nel motto « uno per tutti e tutti per uno – Agire nell’ombra » e cioè intervenire con l’aiuto morale e finanziario per quegli amici che si venivano a trovare in ristrettezze e difficoltà economiche. Sta di fatto che le quote che settimanalmente ogni amico versa, a fondo perduto, vanno ad aumentare il fondo cassa creando la potenzialità degli interventi nei confronti di chi può averne bisogno. Dunque lo scopo primo è aiutare gli amici e dopo il divertimento.

Tra la folla un carro allegorico degli « Amici Moto Ombra » trainato dai buoi


La « Amici Moto Ombra », però, non soltanto si ricorda degli amici iscritti, ma in occasione delle festività più care a tutti interviene verso chi soffre, distribuendo pacchi dono ai vari Enti morali del paese,
Fra le manifestazioni sociali, trattandosi di operai, una delle più sentite è la consumazione di un pranzetto spuntino in occasione della festa del Lavoro. Nei primi anni di vita del sodalizio durante tale manifestazione veniva assegnato un diploma alla più bella sbornia tra i partecipanti allo spuntino; questo non per incitamento al vizio del bere ma soltanto perché il ritrovarsi uniti per lo spuntino creava l’occasione di un pomeriggio pieno di allegria per tutti e colmo di libagioni fra amici cari.

Un classico “spuntino” degli « Amici Moto Ombra »


Ferma e basata su questi principi la AMICI MOTO OMBRA è fiorita aumentando sempre più il numero degli iscritti. Dai 15 amici fondatori attualmente contra n. 107 soci amici.
Attualmente a far parte del sodalizio sono rimasti soltanto due dei fondatori; gli amici BERGAMO MARIO e CARAMEL ALFREDO.
Il sodalizio nell’immediato dopoguerra è stato intitolato alla memoria di Giovanni Tronco, socio fondatore, fucilato dai nazisti nell’eccidio di Cà Giustiniani con altri 12 Martiri della resistenza.
Tradizionalmente, durante il carnevale, il sodalizio organizza una veglia danzante che quest’anno avrà luogo il 10 febbraio p.v. all’Hotel Vienna. La serata sarà allietata da un noto complesso musicale.

Torpedoni in colonna in una gita degli anni Cinquanta

Giovanni Tronco, tra i fondatori degli «Amici Moto Ombra» fu uno dei Tredici Martiri

Come ricorda anche l’articolo de “Il Piave” tra i soci fondatori degli « Amici Moto Ombra » vi era anche Giovanni Tronco che il 28 aprile 1944 venne fucilato per rappresaglia dai nazifascisti assieme ad altri dodici compagni di cella nei pressi di Cà Giustinian a Venezia, in quello che ancor oggi viene ricordato come il sacrificio dei Tredici Martiri. Abbiamo trattato quell’episodio a questo link http://bluestenyeyes.altervista.org/san-dona-di-piave-il-sacrificio-dei-13-martiri/, dove tra l’altro è anche possibile scaricare il libretto che l’amministrazione comunale di San Donà di Piave (Medaglia d’argento al Valor Militare per la Guerra di Liberazione) ha pubblicato nel 1964 in occasione del ventennale. Per ricordarlo gli Amici vollero associare il suo nome a quello degli « Amici Moto Ombra ».

L’addio autografo alla famiglia di Giovanni Tronco, tratto dal libretto edito dal Comune di San Donà di Piave (1964)

Gli Ottanta anni degli « Amici Moto Ombra »

Nel 2018 l’associazione ha festeggiato gli Ottanta anni dalla fondazione. Evento che è stato ricordato in un articolo de La Nuova Venezia a firma Giovanni Monforte: «… Il sodalizio è formato da un gruppo di amici che si ritrovano ancora oggi settimanalmente per promuovere iniziative benefiche agendo soprattutto nell’ombra, intervenendo con l’aiuto morale e finanziario non solo verso i soci in caso di difficoltà, ma anche verso enti morali. «Rispetto al 1938 i tempi sono cambiati, meno difficili però con maggiori esigenze, ma gli obiettivi e lo spirito di carattere sociale e benefico sono sempre quelli che hanno animato i soci fin dall’inizio», spiegano. Il gruppo trae il nome dal simbolo: una moto con due ruote di bicchieri, motore e serbatoio raffigurati da una damigiana e una botticella. »

Per approfondimenti: 1. « Il Piave » del 5 febbraio 1973 periodico amministrazione comunale San Donà di Piave; 2. articolo « La Nuova Venezia » del 17 febbraio 2018.

Il Martirio e la Resurrezione di San Donà di Piave

Nel giugno 1929, in contemporanea con l’uscita del libro di Monsignor Dottor Costante Chimenton “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella”, sulla rivista edita del Touring Club Italia “Le vie d’Italia e dell’America Latina” uscì un lungo articolo a firma Giorgio Paoli che da quel libro trasse ispirazione. A corredo dell’articolo furono inserite molte fotografie di Alfredo Batacchi, molte delle quali divenute nel frattempo cartoline di San Donà di Piave.

Rivista mensile del Touring Club Italiano, Anno XXXV – giugno 1929

di Giorgio Paoli

Fra i tanti paesi italiani che, per essersi trovati sulla ardente fronte della grande guerra, ebbero a condividerne le alterne vicende, a partirne le dure violenze, a supportarne i terribili sacrifici, a viverne la crudele angoscia e la vermiglia gloria, San Donà di Piave fu dei più martoriati e dei più eroici. Non solo una folta schiera dei suoi giovani figli – quattrocentoventi – immolarono la balda esistenza combattendo per la Patria, ma il paese stesso fu tutto travolto e sconquassato dalla tremenda bufera e, dopo il rovescio di Caporetto, invaso dal tracotante nemico, soffrì per un anno l’amarezza del selvaggio e nella lotta per la liberazione fu bersaglio di spietati colpi e vittima di innumeri ferite. Ridotto a uno spaventoso cumulo di macerie, sembrava, nel vittorioso termine del conflitto, ch’esso non potesse più risollevarsi dalla triste polvere in cui giaceva. Invece – miracolo d’energia e di fede – chi lo vede oggi lo trova risorto, lo saluta più bello di prima, risanato e forte, in piena maturazione di sviluppo, in una consolante ripresa di attività, in un sicuro ritmo di lavoro: esempio anch’esso, con mille altri, dell’inestinguibile gagliardia di nostra stirpe e, in particolare, del virile e fattivo ardore della gente veneta.

Un figlio di questa terra, Monsignor Dottor Costante Chimenton, professore del seminario di Treviso, ha amorosamente tracciato la storia di San Donà di Piave in un’interessante volume di 900 pagine, copiosamente documentato ed illustrato; ed è sulla sua scorta che vogliamo qui richiamare gli eventi connessi con la guerra e compendiare l’opera di restaurazione che, per virtù di Governo e di popolo, ha doppiamente redento il gentil paese.

Il Santo Patrono

Son dodici i santi che portano il nome di Donato, per cui si può comprendere come sia stata lunga la controversia storica, non peranco risolta, per decidere quali di essi fosse l’autentico patrono di San Donà. La chiesa, a tagliar corto stabilì che l’onore spettasse a San Donato Vescovo martire, ma il curioso è che nel paese il tempio principale fu invece sempre dedicato alla Madonna delle Grazie, alla quale si aggiunse San Donato soltanto quando, nella prima metà del secolo scorso, il tempio in questione, ormai cadente e ad ogni modo inadeguato per la cresciuta popolazione venne ricostruito tra un devoto entusiasmo popolare in un nuovo edificio arcipretale che ricevette poi, a grado a grado, gli abbellimenti che lo resero particolarmente pregevole e venerato.

Era esso, come naturale, il fulcro del paese, per antica tradizione religiosissimo, e, intorno, l’abitato schierava la guardia delle sue case, nella cui massa, dalle apparenze modeste, spiccavano parecchi edifici ragguardevoli e sobriamente eleganti, quali il Municipio, le sedi di alcune banche e aziende diverse e varie palazzine e ville private, così che San Donà aveva aspetto e sostanza di vera cittadina, e il suo territorio – sanato dalle ardite bonifiche che avevano regolato il corso delle acque – si dispiegava ubertoso florido, presso il margine del lido adriatico.

L’arrivo della guerra
Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

La guerra turbò la questa quieta armonia delle opere, ma trovò il popolo di San Donà pronto a qualunque sacrificio, come ben si vide allorché il nembo tragico avvolse il paese. Dopo Caporetto, San Donà di Piave divenne uno dei punti strategici contro cui si sferrò l’azione dei belligeranti. Quasi tutti i giorni, nei suoi bollettini ufficiali, il Comando Supremo ebbe a registrare il nome di San Donà o delle sue frazioni; le vittime immolate sul suo suolo furono innumerevoli; le sue campagne furono allagate di sangue. Le prime avvisaglie della lotta vi si sparsero il 29 ottobre del 1917, allorché il paese fu invaso dal nostro esercito in ritirata. Seguirono gli esodi degli abitanti, le depredazioni e i saccheggi, le vessazioni e le brutalità dell’orta nemica, i bombardamenti senza tregua, i combattimenti sulle rive del Piave, ove i nostri si erano arrestati ed aggrappati, e quindi la rovina dello sciagurato borgo, flagellato da ogni parte. I profughi dovettero sparpagliarsi in tutte le regioni d’Italia, persino in Sicilia, mentre l’autorità municipale, capeggiata dal sindaco, Giuseppe Bortolotto, trovava asilo in Firenze, ove organizzava l’opera di tutela e di esistenza morale riannodando con pazienti ricerche le disperse fila della comunità. Il paese rimane, fin dove poté, l’arciprete monsignor Saretta, che si adoperò a favore degli infelici parrocchiani con uno zelo così caldo e coraggioso che gli austriaci, sospettosi e urtati, finirono per trasferirlo a Portogruaro.

Nel settore di San Donà-Caposile la lotta non ebbe mai respiro. In quegli acquitrini si mantennero tenacemente abbarbicati di avversari, e con pari tenacia i nostri sforzarono di snidarli, sfidando i covi di mitragliatrici di cui era cosparso tutto il margine del Piave, mentre altre stavano appiattite tra i ruderi delle case, di guisa che tutto il territorio era un feroce agguato di distruzione e di morte e dovunque s’accumulavano le rovine e giacevano al sole e alle intemperie le salme insepolte.

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Specialmente furiosa si scatenò la battaglia, nell’estate del 1918, all’allorchè da una parte e dall’altra si giocò la carta decisiva, e il nemico ributtato dal fiume, comprese che la sua ora disperata, la sua perdita definitiva,  stavano per arrivare. Invano s’irrigidì, invano si esasperò nella spietata violenza, invano eresse le forche sui pioppi e sugli ippocastani, per impiccarvi legionari cecoslovacchi ch’erano passati a combattere con noi; il monito crudele non valse a rianimare l’esercito prostrato e tantomeno propiziargli il sognato trionfo. L’autunno successivo, a un anno dall’invasione, quella sciagura era vendicata, il paese redento, il nemico ricacciato e rotto, la guerra vinta dal valore delle nostre armi, dall’ardimento dei nostri magnifici soldati; e dall’avversario null’altro rimase, tristo conforto, se non lo sfogo codardo delle ultime prepotenze sugli inermi, delle ultime brutalità sui vecchi, sulle donne, sui fanciulli, degli ultimi vandalismi sulle cose, delle ultime razzie nella desolata contrada ch’era costretto ad abbandonare.

I sandonatesi avevano però già ricevuto il premio del loro sacrificio nella liberazione, alla quale tanti dei loro avevano valorosamente contribuito, così che il nucleo di questi combattenti seppe meritarsi otto medaglie di bronzo, dieci d’argento e una medaglia d’oro, quella che frigiò il petto di Giannino Ancillotto, l’aquila eroica, il prodigioso bombardatore aereo che non esitò a distruggere anche la propria villa, pur di colpire il nemico che la profanava, nella sua diletta San Donà.

Dopo la guerra, solo distruzione

Il primo cittadino che entrò in quella terra redenta fu l’antico sindaco, divenuto Commissario Prefettizio, il commendatore Giuseppe Bortolotto, che vi giunse il primo novembre 1918 con un autocarro militare, attraversò il Piave con le sue truppe, visse quel giorno e il successivo in mezzo ai soldati e passò la notte tra i carriaggi dell’esercito, nutrendosi del rancio comune. Subito egli si accinse all’opera della ricostruzione, ma la situazione, nel paese deserto, era spaventosa.

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Il centro dell’abitato era completamente distrutto. Il nucleo principale, nella zona immediatamente vicina al Piave e nei dintorni della chiesa, era ridotto a un mucchio di rovine. Del pari gli stabili, sulle principali vie d’accesso al paese e al fiume, erano quasi tutti a terra e soltanto qualche casa colonica era rimasta in piedi. In pochi giorni la popolazione giunse a cinquemila anime e via via s’accrebbe col ritorno dei profughi privi di tutto, in un luogo in cui c’era più nulla e ogni cosa era da improvvisare, da rifare di sana pianta.

Un compito immane fu affrontato, tra comprensibili malumori, in un disordine caotico, aggravato dagli intralci burocratici e dall’incomprensione delle autorità superiori e dello stesso Governo di quel tempo, mentre le tristi condizioni divenivano minacciose per il dilagare delle acque dalle rovinate bonifiche e per il diffondersi delle malattie. La stessa Croce Rossa americana, sollecitata a porgere il suo aiuto giudicava che San Donà fosse ormai un paese morto e che non mettesse conto di spender tempo e fatiche per farlo risorgere.

Eppure, per l’ammirevole tenacia del Commissario, che seppe moltiplicarsi riverberando il proprio entusiasmo in chi lo attorniava, piano piano San Donà risorse. Nel duro lavoro molto giovò anche l’ausilio del clero, con la alla testa il bravo arciprete, monsignor Saretta, che indefessamente ed efficacemente si prodigò per lenire tante miserie e far tornare negli spiriti la calma e la fede, a cominciare dalla fede religiosa, per la quale egli provvide subito a riattivare le pratiche del culto, officiando tra le macerie del tempio, dapprima, poi in una baracca provvisoria, mentre si dava mano alla demolizione del Duomo pericolante per ricostruirlo.

La ricostruzione del Duomo e dei luoghi di culto

Si ricostruirono infatti il Duomo e il suo campanile, su progetto del professor Giuseppe Torres di Venezia. La chiesa, ad unica navata, con cinque porte, è fronteggiata da una maestoso pronao, adorno di sei colonne di pietra artificiale e di un timpano a finte bugne. Il campanile, che le sorge a fianco, è alto 76 metri, quadrangolare, massiccio, sormontato da una cuspide sulla quale si libra un angelo rivestito di rame. La spesa s’aggirò sui tre milioni e l’edificio sacro fu aperto al culto nel marzo del 1923.

Si ricostruirono pure le chiese di Passarella e di Chiesanuova e le case canoniche di quelle frazioni del Comune, oltre quella di San Donà; come pure vennero ricostruite altre chiese ed oratori ed edifici di carattere religioso, per cui la cattolicissima plaga potè a poco a poco vedere rimosso ha rimesso a sesto e notevolmente migliorato il proprio patrimonio di pratica cristiana.

Il nuovo ponte

E a poco a poco anche l’opera della ricostruzione civile ebbe il suo coraggioso e mirabile sviluppo. Una di quelle che trovarono per prime le solerti cure dell’amministrazione provinciale e comunale fu l’opera del ponte sul Piave, per ristabilire le normali comunicazioni tra San Donà e la frazione di Musile, essendo stato distrutto dalla guerra il robusto ponte di legno che da trent’anni allacciava le due località (ndr in realtà il ponte di legno venne distrutto molti anni prima da una piena del Piave, quello distrutto nel 1917 era in muratura e ferro). Il nuovo ponte fu costruito in poco più di un anno, tra il maggio del 1921 e il luglio del 1922. Composto di quattro travate di di ferro e lungo 210 metri, esso venne inaugurato dal Duca d’Aosta e, in omaggio all’augusto Condottiero ebbe il nome di Emanuele Filiberto di Savoia. Anche sulla linea ferroviaria, transitante sul Piave, si dovettero ristabilire le comunicazioni, e ciò fu fatto dapprima con un ponte in ferro ad unico binario, che venne poi sistemato a binario doppio.

L’aquedotto

Il paese ritrovava così i suoi sbocchi, mentre si lavorava riorganizzare il nucleo urbano in base a un piano regolatore che, tra l’altro, contemplava l’apertura di cinque grandi strade e la formazione d’una piazza davanti alla chiesa, là dove in passato si aggruppavano vecchie e modeste abitazioni. Si diede pur mano a ripristinare l’acquedotto, unico mezzo per il rifornimento dell’acqua potabile, e quindi opera vitalissima per il Comune. L’impianto preesistente, posto presso il fiume da cui prendeva l’acqua per passarla alle vasche di decantazione e di filtraggio e alla cabina di organizzazione, era a un mucchio di rovine; per ciò si dovete ricostruirlo di sana pianta e si dispose poi l’ampliamento della vecchia rete portando a sette chilometri la lunghezza complessiva delle condutture stradali.

La sistemazione è tuttavia provvisoria, essendo già in corso di studio l’opera grandiosa dell’acquedotto del Basso Piave, che dovrà risolvere in modo assai più degno il problema dell’alimentazione idrica per tutta quella plaga, costretta ancora ad accontentarsi di un’acqua non sempre esente da salsedine e da altri sgradevoli sapori.

Il Municipio

Anche il Municipio di San Donà era divenuto alla fine della guerra un incomposto ammasso di macerie, per cui si imponeva la completa ricostruzione. E la nuova opera riuscì tale da non far rimpiangere l’antica. Si eresse, infatti, un edificio dignitosissimo, ricco di fasto plastico in cemento, di sfarzo decorativo di colonne abbinate, balaustre e trabeazioni, arioso ed elegante per la presenza di un portico che ne snellisce la massa architettonica e in pari tempo l’adorna efficacemente.

La superba sede municipale vanta un ampio scalone a tenaglia, con gli scalini di marmo e la ringhiera in ferro battuto, ritorta a volute capricciose, illuminata da una trifora che forma un grandioso elemento ornamentale della facciata posteriore. Pregevolissima è la decorazione in affreschi e stucchi nel salone del Consiglio, ove attira lo sguardo una gran carta geografica – sistemata in ricca cornice – riproducente il campo di battaglia del Basso Piave dal 1917 al 1918: ricordo e monito ai presenti e ai venturi. Mobili e lampadari artistici compongono un adeguato corredo per questa e le altre sale del palazzo, nonché per gli edifici, i quali appaiono tutti quanto mai confortevoli nella loro sobria eleganza.

Si provvide pure a riparare, riattare e ricostruire gli edifici scolastici del Comune che, a vero dire, non avevano neanche prima della guerra alcuna impronta artistica, così che nel campo intellettuale di San Donà è tuttora desto il desiderio di un edificio più contemporaneo alle aspirazioni dell’ambiente.

L’Ospedale

Per la sua stessa ubicazione poco discosta dal centro del Paese, l’ospedale Umberto I di San Donà, ch’era stato eretto nel 1913, fu esposto al tiro diretto delle artiglierie, di guisa che il vasto fabbricato principale, come pur quello del locale d’isolamento, fu interamente distrutto e si dovette, all’immediato dopoguerra, provvedere alla sua radicale ricostruzione. I fabbricati vennero pertanto ricostruiti secondo tutte le esigenze moderne, riforniti di ottimo materiale medico e chirurgico e dotati d’una cappella sacra.

Il Cimitero
Foto originale italiana, non presente nell’articolo

Il cimitero comunale di San Donà di Piave fu pur devastato e sconvolto dalla guerra: lo si riparò nel miglior modo possibile, ma, risultando esso oramai insufficiente, se ne preparò poi un altro, più grande, a qualche distanza dall’abitato. Anche un nuovo macello è venuto a sostituire quello insufficiente dell’anteguerra che fu tra i pochi edifici della città e risparmiati dal furore delle artiglierie: il complesso dei nuovi fabbricati, semplice decoroso e con un perfetto impianto di macchinari, assicura la praticità e rapidità dell’importante servizio.

L’Orfanotrofio

Un’altra opera, di carattere sociale, s’imponeva a lenire lo strazio che la guerra aveva portato nella popolazione distruggendo tante famiglie. V’erano più di cinquecento orfani di tutti due i genitori e trecento  orfani di padre o di madre, e queste cifre, già impressionanti, risultarono poi inferiori alla realtà. Occorreva dunque un Orfanotrofio e si provvide anche a questo. Nel 1921 esso iniziò il suo funzionamento; ampliato poi con le officine, esso rappresenta oggi il primo nobilissimo monumento eretto alla memoria dei prodi che sacrificarono la vita per il loro paese, mentre è in via di attuazione un degno monumento ai Caduti in guerra che riceverà la sua espressione patriottica ed artistica nell’edificio della Casa di Ricovero, ove troveranno posto, sulla severa facciata, le lapidi coi nomi degli Eroi.

Poiché per l’Orfanotrofio si dovette utilizzare un fabbricato incompiuto ch’era destinato ad Asilo, si provvide poi a costruire un Asilo nuovo nel centro del paese, Esso fu costruito nel 1921 e più tardi lo si ingrandì aggiungendovi due ali per le suore, per le scuole, i laboratori e le verande. Fornito di ampi locali, di un cortile per la ricreazione, di un teatrino, in una di una cappellina, esso formicola ora di bambini e di bambine. Nel medesimo ambiente sono sistemati un istituto per l’educazione religiosa delle fanciulle, la scuola di lavoro per le orfanelle, con laboratori di maglieria, di calze, di camicie e di ricamo; la scuola di lavoro per le fanciulle esterne, la cucina economica per i poveri, l’unione missionaria parrocchiale con il suo laboratorio speciale, le scuole elementari private, la biblioteca circolante, il ricreatorio festivo per le ragazze, la scuola di piano e varie altre istituzioni cattoliche femminili, mentre per quelle maschili è sorto un apposito fabbricato al posto della vecchia chiesa provvisoria. E intanto si prepara, su linee grandiose, la l’attuazione in San Donà della benemerita Opera Don Bosco che troverà sede in una serie di edifici ora in corso di costruzione.

Il Consorzio delle Bonifiche

Sulla piazza principale di San Donà – la Piazza Indipendenza – è sorto il Palazzo del Consorzio delle Bonifiche del Piave. Con tale nome i Consorzi Idraulici Uniti, che si propongono la bonifica di 400 chilometri quadrati di terreno, hanno fuse le direttive e le forze costituendo un ente dal quale la complessa opera redentrice dello storico agro di Jesolo ed Eraclea verrà studiata e disciplinata da tecnici di profonda competenza idraulica e da provetti agricoltori.

E’ un’impresa gigantesca, che prosegue nel tempo e nello spazio quella degli avi per riscattare la terra regalando il corso delle acque, e che, iniziata, nella sua nuova impresa, al principio del secolo, aveva già compiuto grandi passi e raggiunto risultati superbi, quando la guerra non solo l’arrestò, ma tutto distrusse, così che ci dovette poi ricostruire, rifare e riparare, per ricomporre il patrimonio dei vetisette stabilimenti idrovori, dei canali e delle strade, delle conche e dei pozzi, dei motori e delle pompe: fatica imponente che onora il paese e la stirpe.

Il palazzo, in cui ha stanza dello Stato maggiore di quella che può considerarsi come una incruenta ma ardua guerra, per redimere le basse valli e le paludi, si presenta nell’autorità di linee d’un tardo Rinascimento italiano, con poche sovrastrutture decorative nel corpo centrale, in tre piani, con sovrastante frontone triangolare, fra larghe pilastrate, e con due ali laterali a semplice finestre architravate. Per tutta la lunghezza dell’edificio si rincorrono quindici archi, in modo da seguire la teoria armonica dei porticati che adornano gli altri edifici sulla piazza, il vasto rettangolo della quale sarà completato con la costruzione del Palazzo del Littorio.

Le banche e gli stabilimenti industriali

Un altro porticato si profila di là per strada maggiore per che pur delimita la piazza medesima:  quello che fornisce elegante base al nuovo palazzo della Banca Mutua Popolare Cooperativa, l’istituto che in mezzo secolo di laboriosa attività, ha tanto contribuito alla prosperità del paese. Ad esso si sono aggiunte nel dopoguerra, in decorose sedi, le succursali della Cassa di Risparmio di Venezia, del Credito Veneto, di Padova, e della Banca Cattolica di Treviso. Si sono pur riattivati gli stabilimenti industriali, a cominciare da quello della Juta, che esisteva da un decennio, dava lavoro a 650 persone ed era guarnito di un poderoso macchinario di cui durante l’invasione una parte andò rovinata ed il resto depredato, per guisa che non fu facile compito la restaurazione. Analoga sorte toccò la Distilleria, i fabbricati e gli impianti della quale andarono distrutti: ricostruita e riattivata, questa industria ha poi saputo espandersi con l’aggiunta di un liquorificio e di un oleificio. Anche la Segheria fu distrutta dalle fondamenta, ma non tardò a rinascere, come tante altre attività dell’operosa cittadina che ora s’accinge ad accogliere nuove imprese industriali, come quella d’uno zuccherificio.

Il Teatro Verdi

Con la reintegrazione delle fonti e degli strumenti del quotidiano lavoro, San Donà si è pur rifornita dei rifugi per l’onesto svago. I sandonatesi furono sempre appassionati per il teatro e, possedendo un piccolo ma grazioso Teatro Sociale, lo resero capace di sostenere la rappresentazione di commedie e di operette, e anche d’opere con la partecipazione di insigni artisti. Distrutto dalla guerra in modo totale, si è preferito lasciarlo nella polvere delle care memorie per dargli un successore del tutto nuovo, che ha preso il nome augurale di Giuseppe Verdi. L’edificio, di stile rinascimento, contiene una sala capace di ospitare mille spettatori. Esso iniziò nel 1921 la sua missione consolatrice, nella quale pur si adoperò, manco a dirlo, il cinematografo, croce e delizia del nostro vertiginoso tempo.

San Donà lavora e ha quindi il pieno diritto di distrarsi un poco, di divertirsi, di ridere, finalmente, dopo aver pianto tanto. Essa deve e vuole obliare nella serenità attuale le sciagure di cui fu vittima e delle quali ogni traccia esteriore è ormai scomparsa nel suo volto, rifatto più fresco e più bello. Chi passa oggi per le lunghe larghe strade luminose, fiancheggiate da gentili case nuove, da palazzi pomposi, da leggiadre ville, da negozi e magazzini colmi d’ogni ben di Dio, più non pensa all’ieri che sembra ormai lontano lontano, ma, nella gaiezza del luogo e del ritmo gagliardo delle sue opere, indovina le più liete promesse del domani.

Quella storica vittoria del San Donà contro il Vicenza

Quella storica vittoria del San Donà contro il Vicenza

Nel febbraio 1940 il San Donà stava disputando per la prima volta nella sua Storia il campionato di Serie C nazionale. Allo Stadio del Littorio era in programma la ventesima giornata, ospite dei biancocelesti l’imbattuta capolista Vicenza. La classifica era guidata dal Vicenza con otto punti di vantaggio sul Mestre, quattordici su Marzotto, Grion, San Donà e Ponziana. Un dominio vicentino in quel campionato, ma nella domenica del 25 febbraio 1940 il San Donà compì l’impresa infliggendo la prima sconfitta in campionato al Vicenza, in quella che sarà anche l’unica occasione in cui i biancorossi giocarono in campionato nello stadio sandonatese. I racconti della gara negli articoli del Gazzettino e della Gazzetta di Venezia.

SAN DONA’: In piedi da sinistra: Prendato, Babetto, Pavan, Franco, Magrini, Bergamini, Zambon, Gavagnin. Accosciati: Silvestri, Guerrino Striuli, Fantin

SAN DONA’ – VICENZA ……… 1 – 0 (0-0)

RETI – secondo tempo: Babetto (SD) 13′

RISULTATI E CLASSIFICA SERIE C GITONE A

SAN DONA’: Striuli; Silvestri, Fantin; Pavan, Zambon, Bergamini; Prendato, Babetto, Franco, Magrini, Gavagnin. All. Gastone Prendato

VICENZA: Comar; Greselin, De Boni; Chiodi, Bedendo, Campana; Suppi, Rossi, Salvadori, Zanollo, Chiesa. All. Eraldo Bedendo

ARBITRO: Ghetti Medardo di Modena

NOTE – Pubblico: 3000 persone – Incasso: 6000 lire.

di Walter Ravazzolo

S. Donà di Piave, 26 febbraio. Il nostro sarà forse un punto di vista discutibile, ma mi sembra che ieri il Vicenza si sia liberato di un grosso peso sullo stomaco. Il mito dell’imbattibilità (nel calcio l’invincibilità è soltanto un mito) era ormai diventato per i biancorossi un pauroso fantasma, una persecuzione ossessionante quasicche Il Vicenza si battesse solo per sfuggire a continui e diabolici trabocchetti seminati dal calendario sulla sua strada.

S’è levato un grosso peso. Oseremo dire che dopo la sconfitta di ieri il Vicenza ci appare sotto un aspetto più reale, un organismo fatto di sangue e di nervi che ha i suoi momenti di debolezza ma anche i suoi scatti e le sue reazioni.

GUERRINO STRIULI protagonista assoluto di quella stagione, l’anno dopo venne ceduto alla Triestina in serie A

Abbiamo visto altra volta il Vicenza sbandarsi e perdersi sotto la decisa offensiva avversaria, disunirsi in meno che non si dica, e faticare per non farsi travolgere. Questa bella squadra di giovani non ha potuto sempre nascondere i suoi punti deboli. Ma poi, sulla spinta improvvisa o fortuita di un’occasione favorevole, tutta la squadra aveva saputo ritrovare se stessa, riorganizzarsi, trasformarsi.

ieri invece non ha trovato la pedana da cui prendere la rincorsa e il campo sandonatese gli è riuscito fatale. A noi è parso tuttavia che l’undici berico sia sceso in campo troppo preoccupato della minaccia imminente, come sotto l’incubo di una congiura tramata un pò da tutte le squadre del girone e della quale il San Donà non era che il mandatario.

In effetti il San Donà aveva invece seriamente da pensare ai casi propri essendogli venuto a mancare all’ultimo momento il bravo Lombardi, considerato qui il deus ex machina dei movimenti solenni. Avvenne così che l’inizio dell’ostilità fu nei due fronti per diverse ragioni circospetto e tremebondo. Il Vicenza riuscì ugualmente ad imporre una chiara superiorità territoriale che obbligò difesa e mediana azzurre ad un lavoro continuo, tempestivo e sbrigativo. Ma della prima linea sandonatese neanche l’ombra. Prendato, soprattutto sul finire del primo tempo, tentò di raccogliere un pò le file del reparto, ma sia che Babetto e Magrini tenessero una posizione prudenzialmente arretrata, sia che Franco non fosse al centro che una crisalide, sia infine che Gavagnin, eternamente bizzoso e insolente, non riuscisse a convincersi che le cose peggiori le combinava proprio lui, Comar rimase del tutto inattivo.

Nell’altra porta l’ottimo Striuli si disimpegno con bravura e fortuna per quanto l’azione dei vicentini, tarpata nelle ali per la disarmante guardia di Pavan e Bergamini a Chiesa e Suppi, si riducesse ad un accademica dimostrazione di non sappiamo quanti schemi d’attacco tutti chiaramente impostati e svolti e tutti pessimamente conclusi. Nel primo tempo vanno sottolineati due interventi in extremis di Striuli su Chiesa (3’) e sul Salvadori (33’).

Al riposo parve ai più che il Vicenza fosse rimasto sino allora alla finestra, tant’è vero che in tribuna i tifosi locali si dimostravano poco o niente tranquilli sull’esito della ripresa.

Invece la ripresa doveva riservare ben diverse emozioni. Gli ospiti partirono di scatto, letteralmente rovesciandosi in area sandonatese. Questo non è lo stile del Vicenza e lo capirono subito coloro che lo conoscono e lo apprezzano. Il Vicenza, che rifugge dalla confusione si gettò a capofitto nella mischia, quasi che la resistenza avversaria lo indispettisse. Nel caravanserraglio in area di rigore molte squadre talora pescano con fortuna; e difatti poco è mancato che anche il Vicenza, improvvisamente trascinato fuori di strada, potesse trovare nel sentiero traverso il suo ferro di cavallo. Fu al 5’: Chiesa, fuggito finalmente a Pavan e spiccando dalla stretta di Bergamini e Silvestri da 3 metri dal portiere sparò a mezz’altezza verso l’angolo destro. In questi frangenti conosci i cronisti dicono: beh vediamo a che minuto dobbiamo segnare questo gol; e manco più guardano come va a finire.

Ma Striuli sfonderò a questa critica svolta la migliore parata che ci sia stato dato di ammirare quest’anno in partite di Divisione Nazionale. Il tiro fu neutralizzato, e il San Donà di lì a poco colse la vittoria. Questi colpi a retrocarica dominano il destino delle partite.

Su una incursione bene impostata da Zambon, Greselin commise un fallo a circa 3 metri dal limite dell’area di rigore (13’). Gavagnin battè la palla che, picchiando sul fianco di un offensore schierato a protezione della rete, pervenne burro e formaggio a Babetto. Due passi, tiro secco e preciso, addio verginità vicentina !

IL SAN DONA’ A FINE GARA: In piedi: Magrini, dirigente X, Babetto, il segretario Fiorentino, Pavan, Alessandro Alfier, Silvestri, Nino Bincoletto, Zambon, Gavagnin, X, Prendato, X. Accosciati: X, Guerrino Striuli, presidente Pietropoli, X, militare Farnia. Distesi a terra: Fantin, Caramel, Franco, Bergamini

Subito il Vicenza non credette all’irrimediabile, ma quando Chiesa (22’) colse lo spigolo interno del montante e il pallone traversò indisturbato, malgrado il mischione, tutta la luce della porta, capi che le cose potevano mettersi veramente te male.

L’undici vincente store è apparso semplicemente superbo nel sestetto difensivo: tanti gladiatori ad oltranza per la vittoria a tutti i costi. La prima linea ha fatto invece molto meno.

Il pubblico, in delirio per l’impresa dei beniamini, è stato il terzo protagonista dell’incontro. Giustamente, quindi, alcuni sostenitori hanno voluto entrare di prepotenza nel gruppo fotografico seguito da fine. Abbiamo visto qualcuno, giunto mentre scattava l’obiettivo, slanciarsi a pezzi nel mezzo, certo per l’orgoglio di dire un giorno: quella volta c’ero anch’io.

Quando si dice le date storiche !

GAZZETTA DI VENEZIA di lunedì 26 febbraio 1940

S.DONA’ DI PIAVE, 26. – Il Vicenza è caduto. Viva il Vicenza. la straordinaria squadra biancorossa ha perduto la sua aureola di imbattibilità sul campo di San Donà, dopo che era riuscita a mantenerla intatta su altri campi non meno difficili. Maggior valore acquista perciò la vittoria dei sandonatesi che possono così vantarsi di essere stati i primi a fermare l’irresistibile marcia dei vicentini. Vittoria meritata senza dubbio quella dei locali, della quale il merito maggiore spetta ai reparti di retroguardia, mediana e difesa, che ieri hanno disputato la loro più bella partita ed hanno saputo imbrigliare e neutralizzare il famoso attacco biancorosso non solo, ma il sestetto sandonatese ha superato in bravura quello vicentino e Striuli ha il merito di aver evitato con la sua prodezza, il pareggio parando un pallone che tutti ormai ritenevano finisse in fondo alla rete. La linea d’attacco invece non è stata all’altezza del compito che ieri le si richiedeva e a nulla valsero gli stimoli del sempre ottimo Prendato per dare mordente e continuità al gioco del quintetto. Più che l’essere il Vicenza incappato in una giornata nera si deve ritenere che la squadra berica abbia giocato con eccessiva preoccupazione di non perdere. Gli ospiti, infatti, apparivano restii a scoprirsi alle spalle e di conseguenza le loro azioni d’attacco non erano validamente sostenute come invece avrebbe necessitato ieri contro la vigilissima guardia sandonatese.

La Rosa del San Donà nella stagione 1939-40 tratta dall’Agendina del calcio Barlassina

Un pubblicone ieri al campo sportivo: 3000 persone e, naturalmente, incasso da primato. Una cornice quindi eccezionale di folla, tra la quale moltissimi erano i vicentini. Il San Donà schiera Franco al centro della prima linea in sostituzione di Lombardi indisposto; il Vicenza sostituisce il terzino squalificato, Foscarini, con De Boni. Il gioco è subito vivace; con la sua migliore abilità di manovra il Vicenza prevale, ma senza rendersi eccessivamente pericoloso per la salda tenuta della mediana e difesa sandonatese a cui però non corrisponde l’azione dell’attacco che, spesso impostata, muore troppo presto, appena si affaccia nell’area degli ospiti. E così nell’alternativa di azioni da un’area all’altra, come si è detto con prevalenza vicentina, trascorre il primo tempo e si giunge al riposo a reti inviolate.

Più decisi appaiono i biancorossi nella ripresa giacche al 5’ Chiesa tira verso la porta un pallone destinato ad insaccarsi, ma Striuli con una parata spettacolosa evita il sicuro punto. Come risposta dello scampato pericolo il San Donà realizza la sua più bella vittoria perché il punto che Babetto segna al 13’ rimane l’unico della giornata: il San Donà ottiene una punizione quasi dal limite dell’area vicentina; tira Gavagnin ed il pallone rimbalza sul « muro » dei giocatori giungendo a Babetto, il quale non esita a metterlo dentro. C’è naturalmente la vivace reazione degli ospiti è dal 22’ Chiesa manda il pallone sullo spigolo del montante. Qualche minuto dopo, forse per cercare di sfondare l’ermetica difesa locale, Salvadori e Suppì si scambiano i posti ma l’esito è ugualmente negativo. Era destino che il Vicenza dovesse perdere la sua imbattibilità a San Donà.

Il campo sportivo di San Donà di Piave in una immagine panoramica del secondo dopoguerra, quando venne intitolato a Verino Zanutto, giocatore del San Donà nella stagione 1939-40.

Per ulteriori approfondimenti: 1. “A.C. San Donà: 90 anni di Calcio Biancoceleste di Giovanni Monforte e Stefano Pasqualato (Geo Edizioni – Empoli, 2012); 2. “Enciclopedia Almanacco Illustrato del calcio italiano 1940” di Leone Boccali (Ed, del “Calcio Illustrato” – Milano, 1939); 3. “Agendina del Calcio – 1939-1940” di Rinaldo Barlassina (Tip. “La Gazzetta dello Sport”, Milano, 1939); 4. Archivio storico “Gazzetta di Venezia”, 26 febbraio 1940

Il nuovo ponte sul fiume Piave, in quel 12 novembre di cento anni fa

Il nuovo ponte sul fiume Piave, in quel 12 novembre di cento anni fa

Il 12 novembre 1922 venne inaugurato il nuovo ponte sul fiume Piave tra San Donà e Musile. Un evento di grande rilevanza e nel dettaglio raccontato dalle pagine de “La Gazzetta di Venezia” di martedì 14 novembre 1922. Lo stesso è stato riportato per intero anche dal libro di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto « Il ponte della vittoria diventa storia 1922-2022 » edito in occasione del centenario dall’inaugurazione e parte di una minuziosa ricerca storica dei collegamenti fluviali in questo tratto del fiume nel corso dei secoli.

Il nuovo ponte di S. Donà di Piave

San Donà di Piave s’è svegliata domenica mattina per tempo, per fare una grande toilette di festa. Non sono frequenti le feste in questa ricca e vigorosa città di agricoltori gagliardi. Non son frequenti le feste, quantunque, da quattro anni in qua, questo cospicuo centro di bonifiche e di lavoro sia la meta venerata non di poetici pellegrinaggi commemorativi, ma di convegni e adunate fecondi, per l’economia nazionale di ricostruttori, di agricoltori, di bonificatori.

Ma era pur necessario che un giorno fosse conclamata e celebrata con particolare solennità la gloria di questa piccola città distrutta completamente dalla guerra, avvilita dall’invasione, e risorta più grande, più bella, più nobile che mai, per la silenziosa e tenace operosità dei suoi cittadini più atti all’azione che alle chiacchere, più alla ricostruzione effettiva sollecita e miracolosa della loro città che allo studio dei sistemi, per arrivarvi…

Il Vecchio ponte in una immagine dei primi del Novecento

Nella città imbandierata in ogni casa e ad ogni finestra, arrivano per prime le squadre nazionaliste e fasciste parte col primo treno del mattino, parte con un convoglio di automobili. Le squadre, nelle loro caratteristiche divise nere ed azzurre, che occupano gran parte, insieme ai loro numerosissimi gagliardetti. E poi arrivano i soldati, i fanti grigio-verdi del 71° fanteria, una compagnia, al comando del capitano Corner, con la musica del reggimento. Vi sono poi alcuni plotoni di guardie regie, e i carabinieri, magnifici come sempre, nell’imponenza della loro uniforme 1830.

Ma San Donà che ha visto sfilare nelle sue strade tutti i più autorevoli rappresentanti della metropoli lagunare, deve aver compreso che alla cerimonia di inaugurazione del nuovo ponte, cui essi venivano a presenziare, Venezia tutta aveva voluto dare un significato specialissimo: la riconoscenza della antica Dominante che a San Donà e sul suo fiume era stata salvata dall’onta di una terza invasione straniera, l’omaggio alla città operosa e fedele che, con il sacrificio rovinoso, di tutta sé stessa, aveva preservata l’antica madre dalla rovina e forse dalla distruzione.

L’arrivo del Duca d’Aosta
Il ponte distrutto durante la guerra

Il Duca d’Aosta, ricevuto dal presidente del Consiglio provinciale comm. Picchini, dal presidente della Deputazione comm. Saccardo, da S.E. il sottosegretario ai Lavri pubblici on. Sardi, e da S.E. il generale Sani comandante il corpo d’armata di Bologna, che rappresentava anche il Ministero della Guerra, era giunto a Mestre verso le 8, ed aveva poi subito in automobile proseguito per San Donà. Quando vi giunse, al saluto della popolazione si aggiunse quello delle squadre fasciste.

Il Principe di recò subito al Teatro Moderno, dove gli venne offerto un vermouth d’onore, S.A.R. si compiacque di tener quivi circolo. Gli furono presentate successivamente tutte le autorità sandonatesi con a capo il sindaco cav. Guarinoni, e quelle veneziane. Poi sfilata dei gloriosi mutilati dei combattenti della grande guerra, dei gregari della III Armata, dei devorati al valore. Per tutti il Principe ha una parola di lode, di compiacimento, di simpatia.

La cerimonia inaugurale

Poco prima delle 10, annunciato dalle agili note della fanfara reale e dai tre attenti di rigore, il Principe della Terza Armata esce dal Teatro Moderno.

Il console della Legione di San Marco, avv. Iginio Magrini, presenta al Duca le squadre fasciste. Ed esse sfilano in perfetto ordine, mentre la musica del 71° fanteria suona l’Inno del Piave.

Il palco delle autorità (da “San Donà di Piave” di C. Polita, 2016)

Nel silenzio profondo della folla, che si accalca numerosissima e reverente, sotto il sole chiaro e freddo, le note nostalgiche risuonano altissime, con effetto indimenticabile e di commozione.

Le squadre nazionaliste e fasciste, ad un comando, si mettono in marcia. Esse, sventolando al vento i loro gagliardetti neri, azzurri e tricolori, formano la testa del corteo, che si avvia al Ponte nuovo. Poi, a piedi attorniato e seguito dalle autorità e dagli ufficiali della sua Casa, preceduto da un drappello di RR. Carabinieri, di Regie guardie e di valletti della Provincia di Venezia in tenuta di gala, si avvia il Duca d’Aosta. Sul suo passaggio crepitano gli applausi della popolazione, mentre dalle finestre mani gentili gettano fiori sul passi del Duce invitto della III Armata.

Sulla riva del Piave l’imponente architettura ferrea del nuovo ponte appare inghirlandata di lauri, di ori e di nastri dai colori nazionali e della Provincia di Venezia. L’accesso al ponte è chiuso dal simbolico nastro tricolore.

Alla destra del ponte è eretta un’ampia ed elegante tribuna. L’Eminentissimo Pietro La Fontaine, Cardinale Patriarca di Venezia, vi attende il Duca. Fra il Principe del sangue e il Principe della Chiesa l’incontro è cordialissimo. Il Duca rimane in piedi nel mezzo della tribuna, mentre intorno gli si affollato le autorità. Davanti alla tribuna sono schierati i fanti del 71°, i fascisti ed i nazionalisti coi loro gagliardetti.

La benedizione
La copertina della Domenica del Corriere dedicata alla cerimonia di inaugurazione del Ponte (26 novembre 1922)

Il Cardinale Patriarca tra il religioso silenzio dell’imponente adunata incomincia a parlare. Dice che al pensiero di dover benedire il ponte rinnovellato si riaccese in lui in memoria del celebre sogno di Mardocheo il quale in un giorno di pericolo per la sua nazione vide torbido e minaccioso il cielo, e intese scuotersi la terra, mentre due dragoni venivano a combattimento. Allora varie altre nazioni congiuravano alla rovina di una nazione innocua, tanto che per quella nazione sorse un giorno di tribolazione e di pericolo e di timore, ma levando questa nazione le grida al Signore fu esaudita e un picciol fonte crebbe in forma regale e un picciol lume addivenne sole e l’umile nazione insidiata fu esaltata e i forti che volevano sterminarla furono umiliati.

Il Patriarca continua dicendo che quando l’Austria mosse guerra alla Serbia il cielo d’Europa fu turbato e la terra fu veramente scossa non sapendo dove di sarebbe andati a parare. Nei due dragoni vede la Germania e la Francia che vengono a combattimento e sente le voci delle due parti che ciascuna vuol trarre a sé le due parti che ciascuna vuol trarre a sé l’Italia minacciandole chissà quale triste condizione, qualora rifiutandosi all’una o all’altra parte, questa riuscisse vincitrice.

Gli uomini che governavano allora giudicarono che l’Italia entrasse in guerra, come è noto. Allora varie nazioni si strinsero insieme dicendo di voler infliggere grave sconfitta a questa Italia e venne inopinatamente il momento di quella dolorosa sciagura a cagione della quale l’antico ponte sul Piave fu fatto saltare.

Il cardinale La Fontaine durante il suo lungo discorso in una immagine apparsa sulla copertina de “L’illustrazione Italiana” (19 novembre 1922)

L’oratore soggiunge che quello fu veramente giorno di tribolazione, di affanno e di pericolo. Che da tutte le parti si levarono le grida al Signore e che a Venezia autorità e popolo davanti alla Nicopeia in San Marco chiedevano coraggio e salvezza. Le preci furono esaudite e il piccolo Piave addivenne fiume regale che gareggiò col Po, dove tanti volevano la linea di difesa non per la massa delle acque, ma per l’opportunità che dette al coraggio dei soldati della difesa.

E un piccolo lume, cioè il nucleo dei torti che ripresero ardire, crebbe in grande mole, quando aggiungendosi ad esso innumerevoli valorosi, sotto la guida del Sovrano, del generale in capo e degli altri Duci, si oppose al nemico con tale resistenza che culminò nel fatto di Vittorio Veneto: e gli umili furono esaltati e quelli che si reputavano potenti furono debellati. Il ponte rinnovellato che oggi s’inaugura colla benedizione di Dio, dice quanto sia grande questa esaltazione.

Qui il Patriarca si volge a S.A. il Duca d’Aosta, dicendo:

« Permettete Altezza, che io qui pubblicamente vi esprima la mia ammirazione e la mia gratitudine perché voi, l’intelletto d’amore più che comandante foste padre dei vostri soldati; con l’affetto per voi, sapeste avvivare l’amor della patria e il coraggio per cui i soldati vi seguivano lieti al cimento, come ad opera meritoria. Vi ringrazio non in nome dell’Italia, chè qui io non rappresento l’Italia, ma in nome del martoriato Veneto nostro del quale fui costituito primo pastore. Che Dio vi rimeriti e benedica, come benedica i cari che lasciarono la vita su queste sponde per la salvezza e la grandezza della patria ».

Il felice e commosso accento dell’Eminente Pastore è salutato da una calorosa irrefrenabile acclamazione. Il Patriarca indossa quindi i sacri paramenti e, con mitria e pastorale, si avvia a compiere il rito della benedizione del ponte, assistito dal Vescovo della Diocesi mons. Longhin, di Treviso. Mentre il rito si compie, un coro di fanciulli canta soavemente la Canzone del Piave.

I discorsi
Il Duca d’Aosta Emanuele Filiberto, con dietro il cardinale La Fontaine, sulla destra la signora Corinna Ancillotto (da “San Donà di Piave” di C. Polita, 2016)

Il comm.Saccardo presidente della Deputazione provinciale, dà inizio alla serie dei discordi. Dopo aver reso omaggio alla Maestà del Re, presente in ispirito, e qui fulgidamente rappresentato dalla Altezza Reale del Duca d’Aosta, e aver ricordato che fu la concordia dei cuori che, sulle sponde di questo sacro fume eresse un muro infrangibile di petti umani, l’oratore scioglie un inno al valore dei nostri eroi, che resistettero sul Piave.

Del nuovo ponte il comm. Saccardo fa quindi una breve storia: ricorda i nomi dell’on. Giovanni Chiggiato, che l’iniziò, del Gr. Uff. Carlo Allegri che lo proseguì, dell’’ing. Ippolito Radaelli che tracciò il programma e ne diresse l’esecuzione, coadiuvato dall’ing. Rossi, dal segretario generale cav. uff. Settimio Magrini e dal rag. Giorgiutti che espletarono le pratiche amministrative, l’ing. Raimondo Ravà, che vi concorse colla sua duplice qualità di presidente del Magistrato alle Acque e di presidente della Commissione per le riparazioni dei danni di guerra ecc.

E l’oratore così conclude:

« Sia nell’invocazione dei nostri morti l’auspicio di ogni nostra impresa. E su questo ponte che nuovamente cavalca le acque del fiume sacro, ponte benedetto in nome di Dio, dalla mano veneranda del Cardinale Patriarca di Venezia, non un semplice corteo di autorità ufficiali, non soltanto un’onda di popolo entusiasta, ma qualche cosa di ben più alto s’avanzi. Voi Donna Corinna Ancilotto, madre di una medaglia d’oro, esempio di fulgente eroismo, vogliate voi infrangere sulle spalle del ponte la tradizionale bottiglia, augurio festoso di lunga resistenza.

E Voi, Altezza Reale, rappresentante del Re e mirabile soldato d’Italia, Voi, generale della III Armata che fra l’immensa gratitudine delle anime nostre, avete voluto accogliere il nostro invito e partecipare a questa festa, di cui siete il genio tutelare, degnatevi gradire la mia preghiera e incedere primo sulla nuova via così intimamente legata al culto delle memorie patrie. Sentiranno i nostri cuori che nella Vostra persona, è veramente l’Italia che passa! ».

L’oratore è vivamente applaudito.

Prende poi la parola il sindaco di San Donà cav. Guarinoni, che pronuncia un breve, commosso ed efficacissimo discorso. S.E. l’on. Sardi, poi, con voce squillante porta il saluto del nuovo governo di Vittorio Veneto, che intende valorizzare veramente la vittoria strappata al nemico sulle rive di questo fiume sacro al quale, come a tutte le terre venete, guarda l’Italia tutta con sentimento di viva riconoscenza e di profondo affetto. Da ultimo parla brevemente il sindaco di Cavazuccherina.

Il battesimo
Le autorità attraversano il ponte durante la cerimonia di inaugurazione (da “San Donà di Piave” di C. Polita, 2016)

I discorsi sono finiti. Il Duca s’avvia alla testata del ponte, dove, sopra un tavolo, è spiegata la pergamena che costituisce l’atto di nascita del ponte. L’atto è così concepito:

« Da Sua Altezza Reale il Principe Emanuele di Savoia Duca d’Aosta, in rappresentanza di S.M. il Re d’Italia, viene oggi 12 novembre 1922 inaugurato il nuovo ponte sul Piave tra Musile e San Donà, benedetto da S.E. il Patriarca di Venezia Cardinale Pietro La Fontaine, costruito in sostituzione di quello distrutto per fatto bellico il 10 novembre 1917.

« Nel fervore delle opere che tendono al risollevamento delle terre, teatro della grande guerra redentrice, concordemente, tenacemente nel peripiglio e nella gloria cooperanti con fede entusiastica alla riaffermazione dei sacri diritti nazionali ed alla reintegrazione dei confini naturali nostri nell’ora in cui mirabili energie con slancio mirabile preparano prosperosi giorni alla patria, le autorità civili, militari, ecclesiastiche convengono tutte alla cerimonia inaugurale dell’opera che si dedica all’Augusto Principe Emanuele Filiberto e che sorge ora più grande a testimoniare l’operosità e la tenacia di propositi del popolo italiano, un quinquennio appena dopo la sua demolizione ».

Il Duca, il Patriarca e le altre autorità appongono la loro firma. Quindi il Segretario generale della Provincia avv. Settimio Magrini offre S.A.R. una copia, riccamente rilegata, di un opuscolo compilato dallo stesso Magrini, nel quale è narrata diffusamente la storia del Ponte di San Donà e illustrato con belle fotografie. Il Principe gradisce molto il dono, e mostra di ricordare perfettamente le circostanze della demolizione del ponte e della sua provvisoria ricostruzione, dopo la vittoria, da parte dei pontieri della III Armata.

Intanto la signora Corinna Ancillotto, madre dell’eroico aviatore medaglia d’oro s’appresta a battezzare il ponte con la rituale bottiglia di sciampagna. La bottiglia, legata ad un nastro azzurro e oro, i colori della Provincia di Venezia, si rompe felicemente sopra uno dei grandi pilastri di ferro. Allora, mentre la musica intona la Marcia Reale e le truppe presentano le armi, il Duca scioglie il nastro tricolore che gli sbarra l’accesso del ponte, e passa per primo. La bella cerimonia è compiuta. Il Duca arriva all’altra sponda, salutanto da entusiastica evviva, e dagli alalà dei fascisti che si schierano sulla passarella laterale del ponte.

Il banchetto

Il Duca, in automobile si reca quindi all’Orfanotrofio, dove verrà più tardi servito il banchetto offerto dalla Provincia. Intanto il generale Sani, nella Piazza del Municipio, passa in rivista i fascisti e i nazionalisti che gli vengono presentati dall’avv. Iginio Magrini.

La pergamena che ricorda la visita del Duca d’Aosta Emanuele Filiberto di Savoia all’Orfanotrofio in occasione dell’inaugurazione del Ponte (da “Cent’anni di carità di M. Franzoi, 2021)

Il Duca d’Aosta, dopo aver visitato minutamente l’Orfanotrofio ed essersi molto interessato alla bella e benefica istituzione, scese nel salone, dove le mense erano imbandite alle 12.45. Il Principe, che portava tutte le decorazioni, sedette al centro della tavola d’onore, tra la signora Imma d’Adamo, consorte del Prefetto di Venezia, a destra, e la signora Corinna Ancillotto, a sinistra. Sedevano poi ancora alla tavola d’onore; alla destra del Principe il comm. Saccardo, il generale Sani, il comm. Picchini, il senatore Diena e il Sindaco di Venezia prof. Giordano; alla sinistra il sottosegretario di Stato on. Sardi, il Prefetto d’Adamo, il cav. di Gr. Cr. Raimondo Ravà, presidente del Magistrato delle Acque, l’ammiraglio Mortola, il comm. Mandruzzato che rappresentava il Primo presidente della Corte d’Appello, l’on. Chiggiato, il comm. Plinio Donatelli vice presidente del Consiglio provinciale. V’erano poi, alle varie tavole, tutte le altre autorità, notabilità e rappresentanze.

Alle ore 2 la colazione ebbe termine, e il Duca, che aveva voluto che gli fossero presentate le due graziose figliuole del Segretario generale della Provincia, lasciò la sala, salutato da un caldo applauso. Egli si recò subito a visitare il magnifico ospitale civile di San Donà, risorto per la tenacia del comm. Trentin. Fu ricevuto dallo stesso comm. Trentin che gli fu da guida nella visita minuziosa che egli fece al bellissimo stabilimento, che mostrò di apprezzare altamente. La popolazione, saputo che il Principe si trovava all’ospedale, gli improvvisò una calda manifestazione.

Il Principe volle quindi recarsi a Zenson, a visitare quel cimitero e quella terra sulla quale rifulse – nella famosa ansa – il valore della III Armata.

Ripartì alle ore 16 con la ferrovia, diretto a Torino, fatto segno ad una entusiastica dimostrazione da parte di tutto popolo di San Donà, che si accalcava presso il vagone-salone per salutare ancora una volta il Principe della III Armata. Il generale Sani e il sottosegretario on. Sardi sono partiti a loro volta, con lo stesso treno, diretti a Venezia.

Per ulteriori approfondimenti: 1. “Il ponte della vittoria diventa storia: 1922-2022 – passi barca, ponti e vie d’acqua a Musile e dintorni (di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto – Tipolitografia Biennegrafica – Musile di Piave – 2022); 2. “San Donà di Piave – Piccola guida di una città senza storia?” di Chiara Polita – Digipress, San Donà di Piave, 2016); 3. “Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave” (Digipress, San Donà di Piave, 2021); 4. “S. Donà di PIave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Mons. Costante Chimenton, Tipografia Editrice Trevigiana, 1928); 5. Archivio storico “Gazzetta di Venezia”, 14 novembre 1922

Guido Guarinoni, Sindaco di San Donà di Piave

Ing. Guido Guarinoni (fotografia Giacomelli, Venezia)

La guerra che tutto travolse ridusse San Donà in un cumulo di macerie, non vi era edificio che si fosse salvato. Se non erano state le bombe a combinar sconquassi, ci pensò l’uomo nel depredare quanto all’abbisogna. Gli abitanti che non avevano potuto o non avevano voluto abbandonare il territorio per lo più avevano trovato riparo nelle campagne sfidando i soprusi degli occupanti e la fame di chi ogni giorno si trovava a dover fare i conti con gli eserciti in lotta. Chi non aveva resistito si era allontanato verso i paesi del portogruarese sperando in un futuro ritorno. Dopo un anno di guerra rimase nell’aria solo l’odore acre della polvere di quegli edifici diroccati, di quel centro cittadino disseminato di tante voragini causate dalle bombe che copiose erano cadute in cerca di un nemico e che ora doveva trovare nei superstiti la forza per far risorgere il paese.

In una veduta aerea del 1918 il centro cittadino distrutto, in alto il Duomo, sulla sinistra il Palazzo Comunale (fotografia originale)
Le difficoltà del lento ritorno
La San Donà del dopoguerra tra le macerie si cucinava per sfamare la popolazione. Probabile che il borghese possa essere Guido Guarinoni (fotografia originale)

In ogni dove a San Donà sorsero baracche per offrire riparo a quanti erano rimasti e a quelli che un po’ alla volta avevano deciso di tornare. Quel che gli occhi trovavano dava un peso enorme al cuore, mai avrebbero pensato di ritrovarsi in una simile situazione di disperazione. Come non bastasse la guerra era finita da poco quando nei primi giorni di gennaio del 1919 la Piave tornò a far pesare la propria incombente presenza. Gli argini ancora danneggiati dai bombardamenti e dai trinceramenti degli eserciti in lotta non erano stati ancora riparati. Facile fu per le ribelli acque del grande fiume trovare un varco ed allagare le campagne riducendole in acquitrini paludosi. Se durante la guerra questo aveva fatto gioco per bloccare l’offensiva austroungarica, ora metteva in pericolo la ricostruzione. In ambito governativo si arrivò persino ad ordinare l’evacuazione, provvedimento poi ritirato per la ferma protesta del sindaco Giuseppe Bortolotto e della popolazione stessa. Proprio il Sindaco era tornato da poco da quella Firenze che aveva offerto rifugio alla macchina amministrativa sandonatese e che ora a fatica cercava di coordinare il ritorno della popolazione e di dare un ordine alla ricostruzione. Lo stesso Sindaco più volte era entrato in contrasto con le autorità governative tanto da dare le dimissioni, ma dopo un periodo di commissariamento venne richiamato per poi rimanere in carica sino alle elezioni dell’autunno del 1920.

Piazza Indipendenza nell’immediato dopo guerra in una cartolina dell’epoca (fotografia Italvando Battistella)
L’Italia che ritorna al voto
Una giovane (Teresina Guarinoni?) nel giardino Bressanin anno 1919 (foto originale)

Le elezioni sia a livello nazionale che a livello locale durante la guerra erano rimaste congelate. La situazione generale era in rapido mutamento e le cicatrici dei lunghi anni di conflitto ebbero presto un loro peso. A questo si aggiunsero gli effetti della rivoluzione russa, con le idee del socialismo che stavano rapidamente varcando i confini. L’Italia ne venne attraversata e questo ebbe subito un riverbero nelle elezioni amministrative del 1920 tanto che in molte zone questo cementò un’alleanza tra il nascente partito fascista e molte componenti centriste, dando vita al Blocco Nazionale in contrapposizione proprio ai socialisti. In talune zone a frapporsi tra i due schieramenti si inserì il Partito Popolare, e proprio a San Donà di Piave a sorpresa le elezioni amministrative videro prevalere proprio quest’ultimo.

Racconta la Gazzetta di Venezia del 6 novembre 1920:  « Ieri, 5., fu convocato per la prima volta il nuovo consiglio comunale. Il Commissario prefettizio cav. Bortolotto riferì a lungo sull’amministrazione straordinaria del passato difficile periodo e fece gli auguri che la nuova Amministrazione possa bene affrontare i gravi problemi che s’impongono per la resurrezione del disgraziato paese.

Passato alle nomine riuscì eletto Sindaco l’ingegnere Guarinoni ed assessori i signori Bastianetto, Battistella, Roma, Zorzetto. Il pubblico numeroso che assisteva alla seduta accolse con segni di disapprovazione l’esito della votazione. I nomi dei nuovi amministratori scelti fra la maggioranza eletta dal Partito popolare danno poco affidamento poiché il momento critico che attraversa il nostro Comune richiedeva persone colte e pratiche della vita amministrativa. ».  Il malcelato critico commento del giornale era frutto della spinta che lo stesso aveva dato affinchè si formasse un blocco unico con il partito fascista mentre San Donà aveva deciso altrimenti.

Guido Guarinoni, Sindaco di San Donà
Ritratto di famiglia presso il giardino Bressanin nel 1919, anche in questo caso il signore più anziano potrebbe essere Guido Guarinoni (foto originale)

Guido Guarinoni, il protagonista della nostra storia, divenne Sindaco di San Donà nel novembre 1920. Durante la guerra aveva trovato riparo a Venezia, città nella quale ancora risiedeva come si desume dall’atto di matrimonio della figlia che lì si sposò nel 1922 con l’industriale originario di Firenze Gino Baldi. Nonostante i timori alla sua elezione l’opera dell’amministrazione Guarinoni fu fondamentale nella ricostruzione di San Donà. Lo stesso Monsignor Chimenton dà merito all’amministrazione Guarinoni per quanto fatto negli anni del suo mandato. Essendo il libro di Monsignor Chimenton del 1928, questo non era affatto scontato anche se rimarcava come l’amministrazione di quel periodo agì in modo profittevole grazie alla collaborazione dell’opposizione. Nello specifico si riferiva a quel partito fascista che poi gli succedette, ruolo in seguito divenuto non più contendibile dopo la creazione del Podestà con cariche non più elettive. Il fatto che il Sindaco risiedesse a Venezia non costituì un impedimento dato che sin da subito gli si affiancò Marco Bastianetto quale consigliere anziano, con cui Guarinoni era stato consigliere comunale prima della guerra e, cosa non secondaria, era tra i fondatori del Partito Popolare sandonatese assieme ad Alberto Battistella, Giuseppe Boem, Pietro Perin, Enrico Picchetti e Giuseppe Zucotto.

L’amministrazione Guarinoni

Ad affiancare il Sindaco Guido Guarinoni ci furono, oltre a Marco Bastianetto, i Sig.ri Umberto Roma, Giuseppe Zorzetto, Giuseppe Boem e Alberto Battistella. L’amministrazione Guarinoni nei tre anni che rimase in carica diede attuazione al piano regolatore approvato nei mesi precedenti alle elezioni, iniziò e completò la ricostruzione del Municipio; su progetto dell’architetto Giuseppe Torres fu ultimato il campanile nel 1922 con le campane che ritornarono a risuonare il venerdì Santo dell’anno seguente e fu quasi completato il duomo poi consacrato nel 1925; si allacciò all’acquedotto la gran parte del centro cittadino; e come ricorda Monsignor Chimenton:  « …si eseguì la pavimentazione interna del paese ; si iniziò e quasi si ultimò il nuovo cimitero ; si deliberò l’alberazione di alcune strade ; si provvide per ottenere la concessione del terreno , richiesto per la sistemazione delle baracche; si proseguì e si ripristinò la viabilità pubblica ; si sistemarono gli edifici scolastici, e si iniziarono le pratiche per averne di nuovi ; si provvide in parte all’illuminazione pubblica ; si approvò l’istruzione religiosa nelle scuole. ».

Il Nuovo Ospedale
L’Inaugurazione dell’Ospedale “Umberto I” (foto Battistella)

Furono tanti gli importanti eventi e le inaugurazioni che si susseguirono negli anni dell’amministrazione Guarinoni. L’11 dicembre 1921 alla presenza del Ministro Raineri e del Vescovo di Treviso Monsignor Andrea Giacinto Longhin venne inaugurato il nuovo ospedale “Umberto I”, ricostruito in viale Regina Margherita dopo le grandi distruzioni della guerra. Grande fu l’impegno del Presidente comm. Antonio Trentin e del vicepresidente cav. dott. Vincenzo Janna per riuscire a dare al direttore dell’ospedale Alessandro Girardi e al suo assistente dott. Carlo Cristani una struttura adeguata alle esigenze di un comprensorio sandonatese destinato ad un grande sviluppo. Per reperire i fondi utili alla costruzione dell’ospedale era stata indetta anche una lotteria nazionale con l’estrazione del primo premio nel marzo 1920.

Cerimonia di inaugurazione dell’ospedale, da destra: comm. Chiggiato, comm. ing, Umberto Fantucci, comm. Antonio Trentin, S.E. il ministro Raineri, il sindaco ing. Guido Guarinoni, mons. Luigi Saretta, S.E. Monsignor Andrea Giacinto Longhin, prefetto di Venezia comm. D’Adamo (foto Giacomelli, Venezia)
Il Congresso delle Bonifiche

Dal 23 al 25 marzo 1922 si tenne a San Donà di Piave il Congresso Nazionale delle Bonifiche che diede grande lustro alla città richiamando molti esponenti della politica nazionale a cominciare da quelli governativi, per non tralasciare don Luigi Sturzo e il parlamentare sandonatese Silvio Trentin, oltre a tanti tecnici che stavano portando avanti una grande opera di bonifica in tante zone d’Italia. Nei nostri territori attraversati dalla guerra molte di quelle opere vennero ancor più implementate per riparare alle molte distruzioni causate dagli eserciti in lotta. Fu grande il risalto dato all’evento nella stampa nazionale e locale, in particolare La Gazzetta di Venezia dedicò ampie paginate ai temi in discussione e ai tanti interventi dei partecipanti alla tre giorni congressuale.

Questo l’intervento di saluto del Sindaco Guido Guarinoni come riportato da La Gazzetta di Venezia di quei giorni: « Egli ricorda che quando, sul novembre 1918, orgogliosi della grande vittoria, i cittadini di San Donà tornarono dall’esilio, e videro lo squallore di queste terre di messi opime e d’invidiata prosperità, pareva un sogno la speranza che in breve tempo sarebbero risorte, per incamminarsi a più promettente avvenire. Pure, per la fermezza di propositi e l’intensità del lavoro della popolazione, la vita riprende il suo corso normale.

Il nome di San Donà, orgogliosa di essere stata scelta a sede di questo Congresso è grato all’Istituto Federale di Credito per il risorgimento delle Venezie ed alla Federazione dei Consorzi, e con essi agli illustri Presidenti comm. Ravà e comm. Mazzotto, l’oratore dà il saluto, in nome del Comune, al ministro Bertini, ai sottosegretari Beneduce, Martini e Merlin, alle Autorità e ai Congressisti.

Augura che il Congresso sia buon augurio per l’avvenire di S. Donà che un secolo fa non era che un villaggio di poche case, specie in una zona palustre di oltre 40 mila ettari, e che oggi, mercè la fiorente attività dei Consorzi di bonifica è un importantissimo centro di vasti territori, la cui prosperità economica va sempre crescendo, e si avvia a tempi radiosi di prosperità, di benessere e di progresso. (applausi vivissimi) »

L’inaugurazione del Nuovo Ponte
L’inaugurazione del Ponte, il palco delle autorità. Sulla sinistra Monsignor Longhin con Mons, Saretta; al centro il patriarca di Venezia il Cardinale La Fontaine, alle sue spalle il Duca d’Aosta e alla sua sinistra il sottosegretario Sardi; sulla destra Corinna Ancillotto con a fianco il sindaco Guido Guarinoni (Illustrazione Italiana, nov 1922)

Il 12 novembre 1922 ebbe luogo anche l’inaugurazione del nuovo ponte sul Piave. Distrutto dall’esercito italiano nel novembre 1917 per fermare l’avanzata austroungarica, subito dopo la guerra ne venne costruito uno provvisorio in legno. Poi fu la volta di quello definitivo con caratteristiche molto simili a quello che tuttora percorriamo e che successivamente fu parzialmente ricostruito anche dopo la seconda guerra mondiale. In quel novembre 1922 il ponte venne inaugurato al cospetto delle massime autorità con la presenza di Sua Altezza il Duca Emanuele Filiberto d’Aosta, del Patriarca di Venezia il Cardinale Pietro La Fontaine, del Vescovo di Treviso Monsignor Andrea Giacinto Longhin, del sottosegretario ai Lavori Pubblici Alessandro Sardi e di tutte le massime autorità cittadine a cominciare dal Sindaco Guido Guarinoni. Grande fu la festa con una San Donà gremitissima che acclamò gli oratori che si succedettero sul palco. Dopo la benedizione del Patriarca di Venezia vi fu la firma ufficiale del Duca d’Aosta sulla pergamena che sancì il battesimo del ponte, quindi la classica rottura della bottiglia da parte della contessa Corinna Ancillotto, madre dell’aviatore sandonatese Giannino Ancillotto, medaglia d’oro al valor militare. Vi è poi una curiosità attinente alla famiglia Guarinoni ed inerente al ponte: tra gli ingegneri che seguirono la costruzione del ponte ci fu anche Ippolito Radaelli, cognato del Sindaco Guido Guarinoni. Sposato inizialmente con la sorella Alda Maria, rimase vedovo ed in seconde nozze sposò Crico Clorinda a sua volta imparentata con Guido Guarinoni avendone sposato il fratello Amedeo, anche lei rimasta prematuramente vedova.

L’inaugurazione del Municipio
Il Presidente del Consiglio Benito Mussolini 1l 3 giugno 1923 sul terrazzo del Municipio di San Donà di Piave (fotografia Ferruzzi)

Ma un evento ancor più solenne avvenne il 3 giugno 1923 quando venne inaugurato il Municipio di San Donà di Piave progettato dall’architetto Camillo Pugliesi Allegra, lo stesso che poi progetterà il Palazzo dei Consorzi della Bonifica che completerà i grandi palazzi che contornano ancor oggi Piazza Indipendenza. A tenere a battesimo il Palazzo istituzionale della città fu addirittura il presidente del consiglio Benito Mussolini. In carica dall’ottobre 1922 e impegnato in un grande giro istituzionale in Veneto Mussolini fece tappa anche a San Donà di Piave. Imponente la cornice di folla che accolse il presidente del Consiglio per un evento che ancor oggi è ricordato con una targa all’interno del Municipio nella quale è citata una frase detta da Mussolini in quella occasione: “ Qui una volta giunse il nemico, gli italiani giurano che non succederà mai più “. Un’enfasi che non venne poi troppo confermata dai fatti , ma eravamo solo all’alba del ventennio che segnerà l’Italia negli anni successivi.

La targa posta all’interno del Municipio con la citazione di Mussolini in una cartolina dell’epoca (foto A. Batacchi)
Le elezioni amministrative dell’agosto 1923

Dopo tre anni di amministrazione Guarinoni a metà agosto del 1923 si tennero le ultime elezioni amministrative prima che il regime fascista istituisse la figura del Podestà di nomina governativa. Differentemente dalle precedenti questa volta il partito fascista prevalse. Sabato 18 agosto 1923 si insediò il nuovo consiglio che nominò Costante Bortolotto Sindaco di San Donà di Piave. Tra gli eletti figurava anche l’ex Sindaco Guido Guarinoni.

Questo l’articolo della Gazzetta di Venezia che racconta quella giornata:  « Il Commissario prefettizio ha oggi insediato il nuovo Consiglio comunale. Dopo la lettura della relazione che fu applauditissima, venne nominato sindaco il sig. cav. Dott. Costante Bortolotto. Furono nominati assessori effettivi i sigg. Janna cav. Dott. Vincenzo, De Faveri dott. Cav. Giuseppe, Bastianetto Marco e Guarinoni ing. Guido. Assessori supplenti i sigg. Velluti ing. Francesco e Davanzo Giuseppe. Furono spediti i seguenti telegrammi:  “ S. E. Benito Mussolini, Roma – Nuova amministrazione San Donà di Piave risorta dalla guerra prima volta riunita oggi sede municipale da Vostra Eccellenza inaugurata manda reverente saluto e ossequio Capo Governo auspicando che programma restaurazione nazionale abbia completo sicuro svolgimento. “.  ” Generale Cittadini, Primo Aiutante Campo Sua Maestà Re d’Italia, Roma. Nuova amministrazione comunale San Donà di Piave riunitasi prima volta rivolge ossequiente pensiero a Sua Maestà il Re di Italia milite in guerra probo cittadino in pace primo fra tutti nelle nobili proficue e sane iniziative nazionali. “.  Oggi (19) continuazione della Pesca, musica in Piazza, rappresentazione straordinaria del Circo Caveagna e un attraente spettacolo pirotecnico. Si prevede gran numero di gente. La tradizionale fiera di S. Rocco è stata superiore ad ogni aspettativa ». 

Costante Bortolotto, Sindaco nel 1923 e Podestà nel 1927
Comm. Costante Bortolotto, primo Podestà di San Donà di Piave (Fotografia Batacchi)

L’amministrazione Bortolotto si mosse in continuità con quella precedente in un quadro che vedeva oramai il partito fascista sempre più dominante nella politica cittadina. Mentre a livello nazionale la tensione crebbe con la legge Acerbo che condizionò le elezioni politiche dell’aprile 1924 cui seguì il delitto Matteotti, anticamera all’instaurazione della dittatura.  Costante Bortolotto rimase in carica due anni, poi il 9 marzo 1925 con la sua nomina a fiduciario del P.N.F di tutto il Basso Piave passò il testimone al dott. Giuseppe De Faveri in continuazione con lo stesso Consiglio Comunale in precedenza eletto. Il Consiglio rimase in carica ancora per poco più di un anno per poi venire sciolto il 18 luglio 1926. Dopo un periodo di commissariamento prefettizio del cav. rag. Arturo Sears, il 9 aprile 1927 venne nominato il primo Podestà di San Donà di Piave che vide il ritorno di Costante Bortolotto alla prima carica cittadina. Quanto a Guido Guarinoni con lo scioglimento del Consiglio finì la sua avventura politica sandonatese, ma è indubbio che ancor oggi a cento anni di distanza molto di quanto ricostruito durante la sua amministrazione dopo quel terribile conflitto mondiale è ancor oggi visibile in città. Guido Guarinoni e la sua famiglia mantennero la residenza a Venezia dove tra l’altro sia lui che la moglie Maria Velluti entrarono a far parte dell’Ordine Equestre del Sacro Sepolcro di Gerusalemme. Entrambi sono stati tumulati nel cimitero di San Donà di Piave presso la tomba di famiglia che accoglie anche gli antenati dei Guarinoni oltre alla figlia Teresina morta nel 1973 e il marito Gino Baldi morto venti anni dopo.

A destra la tomba della famiglia Guarinoni, a sinistra quella della famiglia Bastianetto. Sia Guido Guarinoni che Marco Bastianetto sono stati protagonisti della ricostruzione di San Donà di Piave dopo la grande guerra. Nel secondo dopoguerra lo sarà anche Celeste Bastianetto, figlio di Marco, primo sindaco eletto dopo la Liberazione anch’egli lì tumulato nella tomba di famiglia

Racconto diviso in due parti: 1. Villa Guarinoni, immagini vecchie di un secolo – 2. Guido Guarinoni Sindaco di San Donà di Piave

Per approfondimenti: 1. « S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella » di Mons. Costante Chimenton (Tipografia Editrice Trevigiana, Treviso – 1928); 2. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Centro Stampa, Oderzo – 1995); 3. « L’esercito per la rinascita delle Terre Liberate, il ripristino delle arginature dei fiumi del Veneto dalla Piave al Tagliamento » di Comando Supremo del Regio Esercito (Stab. Tipolitografico Militare, Bologna – 1919); 4. « L’ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Dino Casagrande, Franco Ambrosi, Federico Teker, Rita Finotto, Nicoletta Lo Monaco, Silvia Cagnatel, Angelino Battistella (Tipolitografia Adriatica, Musile di Piave – 2000); 5. « San Donà di Piave, piccola guida di una città senza storia? » di Chiara Polita (Tipografia Digipress, San Donà di Piave – 2016); 6. « Il Ponte della Vittoria diventa storia 1922-2022 » di Lodovico Bincoletto e Loris Smaniotto (Bienne Grafica, Musile di Piave – 2022); 7. Archivio “La Gazzetta di Venezia” anni 1920-1923, quotidiano di Venezia; 8. Archivio “Gazzettino” anno 1923, quotidiano di Venezia

28 giugno 1885: Inaugurazione linea ferroviaria Mestre-San Donà di Piave

La stazione di San Donà di Piave in una immagine dei primi ‘900 quando la ferrovia aveva oramai collegato Venezia a Trieste (Immagine tratta dalla copertina del libro «San Donà di Piave – Memorie del passato » di Angelino e Filiberto Battistella, 1981)
Le linee ferroviarie prima del 1885

Con l’Unità d’Italia le linee ferroviarie divennero necessità impellenti, ancor più per un territorio che dopo la terza guerra di indipendenza iniziava ad espandersi verso est. Molta della rete ferroviaria presente in Veneto e nel Friuli divenuto italiano era stata costruita o era in via di completamento dagli austriaci, per cui le linee che raggiungevano Venezia seguivano la direttrice che da Vienna lungo la Pontebbana arrivava a Udine per poi diramarsi verso Venezia e verso Trieste. La necessità di collegare direttamente Venezia a Trieste, allora ancora parte dell’impero austroungarico, divenne presto un’urgenza. Il dover passare ogni qualvolta per Udine allungava a dismisura il percorso così che venne ideata una nuova tratta che in linea retta avrebbe dovuto congiungersi con la ferrovia già esistente a Monfalcone. Fu così che la Società Italiana per le strade ferrate meridionali venne incaricata della costruzione del tratto Mestre-Portogruaro. Il primo stralcio fino a San Donà di Piave venne aperto il 29 giugno 1885, un anno dopo la linea ferroviaria arrivò sino a Portogruaro e fu aperta il 17 giugno 1886. Per arrivare al completamento della linea ferroviaria che collegava definitivamente Venezia a Trieste si dovrà aspettare il 18 ottobre 1897 quando l’incaricata Società Veneta Ferrovie, dopo aver inaugurato nel 1888 la tratta fino a San Giorgio di Nogaro, completò l’ultimo tratto italiano fino all’allora austriaca Cervignano, dove nel frattempo gli austriaci avevano completato la linea da Monfalcone.

L’annuncio dell’Inaugurazione della Ferrovia

Domenica 28 andante, alle 9 e 15 ant., moverà da Venezia il treno ferroviario inaugurale per giungere in questa stazione verso le 10 e mezzo, colle Rappresentaze del Governo, della Ferrovia e dei comuni deputati, senatori e altri personaggi distinti.

Sarà ricevuto qui dalle autorità locali con il maggior decoro possibile. Mentre il paese si prepara a salutare il fausto avvenimento dell’apertura della linea Mestre-San Donà all’esercizio, col maggior entusiasmo, il Comitato farà del suo meglio perchè la festa riesca solenne.

Le bande cittadine di Venezia e di Mestre rallegreranno il paese, imbandierato straordinariamente.

La sera poi il rinomato pirotecnico Giuseppe Tantin eseguirà dei fuochi d’artificio con quattro graziose macchine a giocate diverse, candele romane, serpentoni e razzi di forme e colori vari.

Chiuderà lo spettacolo la fulgida Stella d’Italia con batterie.

San Donà di Piave, lì 26 giugno 1885. Il Comitato

In un lungo articolo nella 3^ edizione della Gazzetta di Venezia del 28 giugno 1885 viene raccontata l’inaugurazione del tratto ferroviario Mestre-San Donà

« Inaugurazione della ferrovia di San Donà »

« Veniamo ora, e sono le ore 5 pomeridiane, da San Donà, avendo avuto luogo oggi l’inaugurazione della ferrovia, la quale se da oggi congiunge Venezia a quell’importante Distretto mira a ben maggiori obiettivi dovendo più tardi allacciarsi colla Pontebbana.

Alle ore 9 ant. erano alla Stazione il R. prefetto colla Deputazione provinciale, il sindaco colla Giunta, l’on Pellegrini, il comm. Diena ed altri consiglieri provinciali e comunali, il maggior generale Palmieri, il procurator generale comm. Noce coi sostituti procuratori generali cav. Moscono e Favaretti, il comm. P.V. Vanzetti procuratore del Re, il comm. ab. Bernardi, il R. questore, gli ingegneri Legrenzi e Pastori delle ferrovie, l’ing. cav. Forcellini, il magg. dei RR. Carabinieri e molte altre rappresentanze, tutta la stampa veneziana, la Banda ecc.

Il viaggio fu felicissimo, e lungo la linea se l’accoglienza delle popolazioni non fu entusiastica – con l’ora inopportunamente scelta con questa canicola – fu però sempre cordiale.

A tutte le stazioni, addobbate con bandiere e trofei o con simulacri d’archi trionfali costruiti con fronde, si trovavano le Autorità locali colle rispettive bande, e talune di esse salirono sul treno inaugurale e si recarono a S. Donà. »

L’arrivo a San Donà

Giunta la grossa comitiva (erano circa 200 persone) a S. Donà. Vi fu ricevimento al Municipio nella cui sala maggiore parlava per primo brevemente, ma assai opportunamente quel sindaco cav. Bortolotto, il quale ringraziava tutti quelli che avevano voluto accorrere a questa festa da tanto tempo vagheggiata, e ringraziava il Governo, la Provincia, nonché la Società che assunse l’esercizio della ferrovia.

Prendeva quindi la parola il R. prefetto, comm. G. Mussi, il quale, alla sua volta, ringraziava il sindaco di S. Donà delle cortesi parole e lo faveca anche per espresso incarico avuto dalla Deputazione provinciale e da parte del Governo e in ispecialità del ministro dei lavori pubblici, che egli pure ivi rappresentava.

La stazione ferroviaria in una cartolina viaggiata del 1915

Disse di non avere mai veduto quelle ridenti contrade; ma soggiunge di non averle mai dimenticate; e qui, con molta opportunità, ricorda il triste periodo delle inondazioni del 1882 e con memore affetto, accenna alla nobile cooperazione avuta da quelle generose popolazioni le quali in quella dolorosa circostanza mostrarono di possedere quelle virtù più elevate e più pure le quali, egli disse, formano l’orgoglio della umanità.

Disse che questa inaugurazione segna una prima tappa ; che ben presto San Donà sarà unita colla ferrovia alla sorella Potogruaro e quindi a Casarsa, ecc. ecc. Rileva ch’era tanto sentito il bisogno che la parte settentrionale della Provincia di Venezia, che era quasi interamente staccata, fosse congiunta anche con vincoli ferroviari a Venezia ; disse quanto potenti fattori di progresso e di civiltà siano le ferrovie e rinnovò i ringraziamenti e le lodi a tutti quelli ai quali la festa d’oggi è dovuta.

Parlò da ultimo l’on. Pellegrini; egli riandò cose vecchie e spiacenti; malgrado la dichiarazione fatta ripetutamente dal R. prefetto di aver avuto incarico di rappresentare il ministro dei lavori pubblici, disse ripetutamente che egli avrebbe voluto vederlo alla inaugurazione, e disse anche dell’altro; ma il suo discorso fu inopportuno sotto ogni riguardo, e passò assai freddamente.

Poscia vi fu un asciolvere, al quale non tutti gli invitati presero parte, per cui molti di essi si sparsero per il paese a far colazione da famiglie di loro conoscenza o nella trattoria Chinaglia, dove il servizio fu pronto e lodevole.

La Banda cittadina intanto suonò nella Piazza maggiore sotto la loggia del Municipio, ed ebbe applausi vivissimi.

Alle ore 3 pom. seguì la partenza da San Donà tra il saluto ospitale di quei cordialissimi abitanti, i quali facevano a gara per rendere gradita a tutti la visita a S. Donà.

La stazione ferroviaria ricostruita dopo la grande guerra

A dir vero – ma in questo gli abitanti di San Donà nulla hanno a vedere – gli organizzatori della festa non furono felici nello stabilire il programma.

Fu scelta male l’ora ; fu mal provveduto al conforto degli invitati tenendoli a S. Donà dalle 12 meridiane alle 3 pom. mentre la partenza poteva benissimo aver luogo al tocco ; meglio ancora avrebbero fatto gli organizzatori se la cerimonia avesse avuto luogo dalle 3 pom. in poi (a quest’ora, cioè alle 3, la partenza da Venezia) fissando il pranzo a S. Donà ed il ritorno alle ore 9 pom.; ma quello che è fatto è fatto e non se ne parli più.

Del resto, e vista nel suo complesso, la cerimonia è andata bene.

Come viaggio lo trovammo abbastanza ameno, e tutti i manufatti che si incontrano sono tali da far veramente onore ai costruttori ; e questi sono, come già noto, la Società veneta, la Ditta De Lorenzi Vianello, la Ditta Laschi di Verona, e le fonderie Rocchetti e Società italiana diretta dal Cottrau.

Ora auguriamo che gli ulteriori tronchi che devono congiungere anche per questa parte Venezia alla Pontebba siano presto ultimati, perché questo è l’obiettivo che si deve raggiungere nel più breve termine, e senza del quale tanti sacrifici fatti e tanti denari spesi avrebbero un ben magro risultato.

A sera le cene ufficiali a Venezia e San Donà

« Questa sera banchetto a Venezia di circa 50 coperti, e banchetto a S. Donà di circa 100 coperti.

In un successivo articolo del 30 giugno 1885 venne scritto a proposito delle cene: « A completamento della relazione che abbiamo pubblicata ieri l’altro, diremmo che al banchetto che ebbe luogo in quella sera da Bauer e Grunwald – al quale non potemmo assistere – parlarono, applauditissimi, Sicher, Pecile, il prefetto, il sindaco di Venezia, il sindaco di San Donà ed il dott. Galli. Durante il banchetto giunsero telegrammi dei deputati Tacchio e Bernini, fermatisi, assieme all’on. Pellegrini, al banchetto di S. Donà. Il servizio dei signori Bauer e Grunwald fu, sotto ogni rapporto, lodevole. »

I telegrammi inviati dal sindaco Bortolotto

Furono spediti i seguenti telegrammi:

Al Primo Aiutante Campo S.M. il Re – Roma  « Prego porgere augusto Sovrano riverente saluto popolazione festante inaugurazione ferrovia. Sindaco Bortolotto »

Al Ministro lavori pubblici – Roma   « Prego gradire saluto popolazione esultante inaugurazione ferrovia. Sindaco Bortolotto »

All’Onor. Beccarini – Roma  « Popolazione esultante inaugurazione ferroviaria manda affettuoso saluto. Sindaco Bortolotto »

Avendo il Senatore Giustinian inviato un telegramma per giustificare la sua assenza, il sindaco Bortolotto gli rispondeva con il seguente: « Graditissimo gentile pensiero prego gradire saluto paese festante »

Il sindaco di Portogruaro, cav. Fabris inviò telegrammi al cav. Bonò e all’assessore Bertoldi in S. Donà esprimendo in essi la sua gioia per la festa della città sorella, festa che sarà arra di una prossima ed egualmente solenne e desiderata festa di Portogruaro.»

La Gazzetta di Venezia

L’articolo non è firmato, la Gazzetta di Venezia durante la giornata aveva diverse edizioni e questo articolo è della terza edizione di domenica 28 giugno 1885. E a proposito della Gazzetta di quel tempo veniva messo in risalto come le rivendite di giornali non restassero aperte sino a notte inoltrata ma vi fosse comunque la possibilità di avere copia del giornale sino alla mezzanotte semplicemente « battendo ad uno dei balconi a pianoterra della tipografia a Campo di Sant’Angelo.»

Le vie di comunicazione San Donà-Venezia
Gli orari di navigazione (fonte Gazzetta di Venezia)

Il collegamento ferroviario con Venezia fu per San Donà un salto di qualità incredibile. Erano molti coloro che per esigenze lavorative erano costretti spesso a recarsi a Venezia e sino al 1885 la via più breve era offerta dalla Società Veneta di navigazione a vapore lagunare che aveva un collegamento diretto al giorno con Venezia con partenza alle ore 5 da San Donà e arrivo a Venezia alle 8.15, con partenza da Venezia alle ore 16 e arrivo a San Donà alle ore 19.15. Non propriamente orari e viaggi comodi per i viaggiatori. Con la Ferrovia dal giorno 29 giugno 1885 i treni da San Donà furono tre e altrettanti quelli da Venezia. Partenze da San Donà alle ore 5.15, 12.10 e 17.18; Da Venezia 7.38, 14.35 e 19.40. Accanato agli orari dei treni che giornalmente apparivano sulla Gazzetta di Venezia, da martedì 30 giugno 1885 fu possibile trovare anche quelli riguardanti la linea Venezia-Mestre-San Donà di Piave.

Gli orari ferroviari del 30 giugno 1885 (Gazzetta di Venezia)

Per approfondire l’argomento delle ferrovie: 1. «La Società Veneta Ferrovie » di Giovanni Cornolò (Duegi Editrice, 2004)

Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944

Una vista panoramica del secondo dopoguerra, presenti ancora delle macerie del vecchio Teatro Verdi dove poi verrà costruito il cinema teatro Astra (Archivio Luciano Pavan)

Una storia che ne incrocia un’altra e che poi tutte assieme si agganciano all’ultima raccontata.…..

Nel mentre cerchi del materiale per un nuovo post ecco che incroci un atto che si potrebbe pure riassumere ma che in fondo merita di esser riportato per intero giusto per esemplificare di come quei moderni scribi comunali impiegavano lungamente il loro tempo trascrivendo penna inchiostro e calamaio i tanti atti sui vari registri. Nel 1913 avevano già dei registri prestampati ma in questo caso la trascrizione essendo inserita in appendice è stata scritta per intero a mano come accadeva tanti anni addietro.

Dal Registro dei matrimoni del 1913 (Comune di San Donà di Piave)
Comune di San Donà di Piave – Registro degli Atti di Matrimonio del 1913
La trascrizione nel registro dell’atto di matrimonio fra Giuseppe Ferrarese e Silvia Maddalena Bastianetto (1913)

« L’anno millenovecentotredici e questo giorno di lunedì otto del mese di dicembre alle ore antimeridiane undici e mezza nella Casa posta in via Sabbioni Numero ventotto.

Io sottoscritto, Bertoldi Dottor Ugo Commissario Prefettizio, nominato con decreto ventiquattro novembre anno corrente, ufficiale dello Stato Civile del Comune di San Donà di Piave accompagnato dal Segretario municipale Signor Gnudi Odoardo.

Sulla richiesta fatta dal Signor Nardini Carlo, mi sono trasferito in questa Casa per la celebrazione del matrimonio tra i signori: Ferrarese Giuseppe di anni trentacinque, industriante, nato e residente a San Donà di Piave, figlio di fu Antonio, era sarto, residente in vita a San Donà di Piave, e di Paquola Domenica residente in San Donà di Piave, celibe; Bastianetto Silvia Maddalena di anni trentatre, casalinga, nata e residente in San Donà di Piave, figlia dei furono Giambattista, era carpentiere, e Bernardi Teresa casalinga, residenti in vita a San Donà di Piave, nubile, e per motivo giustificato dal certificato medico del Dottor Perin presentatami dallo stesso richiedente di essere lo sposo per la grave infermità nella impossibilità di recarsi alla Casa comunale. Quindi assistito dallo stesso Segretario ho trovato presenti i sunnominati Signori Ferrarese Giuseppe e Bastianetto Silvia Maddalena, il primo giacente a letto, i quali mi hanno dichiarato essere nell’intendimento di voler procedere alla celebrazione del loro matrimonio, e a tale effetto mi hanno presentato la copia degli atti della loro nascita rilasciate da questo ufficiale in data odierna, e mi hanno dichiarato non aver padre né madre adottivi né ostare al loro matrimonio alcun impedimento di parentela o affinità né altro impedimento stabilito dalla legge. Le dichiarazioni fatte dagli sposi sono state davanti a me confermate con giuramento da Fontana Mario fu Casimiro, di anni ventisei, maestro comunale, Sepulcri Giuseppe fu Pietro, di anni cinquantanove, impiegato comunale; Costantin Augusto di Luigi, di anni quarantadue, mastro muratore e Nardini Carlo fu Luigi di anni sessantasei, mediatore, testimoni presenti all’atto e residenti tutti in questo Comune, i quali hanno specialmente accertato non esistere fra gli sposi impedimento di parentela, di affinità e di stato.

Ho quindi letto agli sposi gli articoli 130, 131, 132 del Codice Civile e quindi ho domandato allo sposo se intenda prendere in moglie la qui presente Bastianetto Silvia Maddalena e a questa se intende prendere in marito il qui presente Ferrarese Giuseppe ed avendomi ciascuno risposto affermativamente a piena intelligenza anche dei testimoni sopra indicati ho pronunciato in nome della legge che i medesimi sono uniti in matrimonio.

Dopo di ciò gli sposi suddetti alla presenza degli stessi testimoni mi hanno esposto che dalla loro unione naturale nacquero quattro figli: il primo nel ventidue febbraio milleottocentonovantotto denunziato a questo ufficio dalla levatrice Pravato Teodolinda, iscritto al numero cinquantotto, appellato Cestini Giovanni Battista; il secondo nel ventuno luglio millenovecentodue, iscritto al numero duecentosessantasei, appellato Ferrarese Antonio; il terzo nel tredici ottobre millenovecentocinque, iscritto al numero quattrocentodiciassette, appellato Ferrarese Silvio Giacomo; ed il quarto nel diciotto Giugno millenovecentoundici, iscritto al numero duecentottantanove, appellato Ferrarese Giuseppe, e col presente atto dichiarano di riconoscerli per propri figli all’affetto della loro legittimazione.

I documenti presentati sono le copie degli atti di nascita dei suddetti e il certificato medico del Dottor Perin Pietro, i quali uniti del mio visto sono inseriti nel volume degli allegati a questo registro.

Letto il presente atto agli intervenuti li hanno essi meco firmati.

Atto di matrimonio nr. 2 Parte II serie B, Anno 1913
A quell’atto ne segui a breve un altro

In quell’otto dicembre 1913 venne legalizzata l’unione di fatto di Ferrarese Giovanni con Bastianetto Silvia Maddalena e legittimati i quattro figli Giovanni Battista, Antonio, Silvio Giacomo e Giuseppe, che da quella unione erano nati. Giovanni Ferrarese in quella casa posta in via Sabbioni era nel suo letto di morte, due giorni dopo alle ore sei e trenta del pomeriggio spirò, come attestato dal registro degli atti di morte di quello stesso anno.

Da un ricordo ne nasce un altro
Viale Margherita, sulls destra il Monumento ai caduti, sullo sfondo l’Ospedale civile “Umberto I”, subito dopo iniziava via Sabbioni

Via Sabbioni è tra le strade più vecchie di San Donà, dalla parte terminale di viale Margherita (l’odierna Viale Libertà) vicino l’ospedale Umberto I si arrivava sino alla stazione ferroviaria, allora come oggi. Ed è incredibile come questo episodio abbia un seguito. Raccontato ad una vecchia zia, Stefania, che ha vissuto in via Sabbioni decenni dopo quel matrimonio un filo del ricordo si è riacceso, un filo che dall’oggi è arrivato sino al 10 ottobre 1944.

La San Donà degli anni Quaranta

In via Sabbioni abitavano tantissime persone, chi in case, chi in abitazioni dove il legno era l’elemento principale, baracche più o meno ampie dove le numerose famiglie dell’epoca, portavano avanti la loro esistenza tra le ristrettezze dell’economia di guerra. Ovviamente la zia non conosceva la coppia che si è sposata ma nel sentir i nomi dei figli legittimati in quel 1913 subito ha riconosciuto quello più vecchio. Lei bambina la figura di Titta Ferrarese (Giovanni Battista), lo ricorda bene. Quella nascita nel 1898 lo consegnò alla guerra e ad una ferita che gli segnò la vita successiva e che agli occhi di quella bambina dell’epoca era un segno ben distintivo. In quella via Sabbioni, abitavano diverse famiglie Ferrarese, i Turchetto, i Biancotto ecc.. Mia zia viveva nella famiglia allargata della nonna Marianna Lunardelli che rimasta vedova del marito Giovanni Guiotto si era risposata con Giuseppe Biancotto anche lui vedovo, con figli dell’uno come dell’altro matrimonio a cui si aggiunsero altre tre figlie. In quella via Sabbioni le famiglie spesso avevano parentele trasversali e tutti si conoscevano talvolta più per soprannome che per nome. Questi fattori nella buona come nella cattiva sorte hanno sempre portato ad una piena solidarietà nonostante i tempi di guerra e quel crudo periodo terminale della dittatura fascista che ancor più di prima ti metteva spesso da una parte o dall’altra della barricata.

I bombardamenti del 1944
Uno dei rifugi per fronteggiare i bombardamenti del 1944 (Archivio Giovanni Striuli)

In quel 1944 la guerra aveva toccato concretamente la città. Al risuonar dell’allarme la popolazione cercava un riparo e molti avevano pensato a costruirsi dei rifugi lontano dalle case. Così qua e là erano state predisposti dei ripari scavati nel terreno coperti alla bene e meglio che offrivano un riparo sperabilmente distante dagli obiettivi dei bombardamenti e anche da eventuali schegge che potevano venire dalle bombe che cadevano in prossimità. Senonché in quel 10 ottobre tra gli obiettivi vi fu anche l’ospedale civile. Tante furono le bombe che caddero sul centro cittadino. Oltre all’ospedale numerosi edifici pubblici vennero colpiti, il teatro Verdi fu distrutto, una settantina alla fine saranno le case che subirono gravi conseguenze, altrettante quelle danneggiate.

Quel giorno in via Sabbioni
Le macerie dell’ospedale, sullo sfondo s’intravedono alcune delle case di via Sabbioni

Come detto nelle vicinanze dell’ospedale vi era anche via Sabbioni e dal racconto della zia nei pressi delle case dei Ferrarese vi era sito un rifugio nel quale erano soliti mettersi al riparo in tanti, specialmente donne, bambini, ragazzi. Quel bombardamento del 10 ottobre 1944 sarà un qualcosa che difficilmente coloro che lì si rifugiarono hanno poi dimenticato. In quell’inferno di fuoco che prese di mira l’ospedale inevitabilmente molti ordigni colpirono i dintorni, alcuni caddero anche in prossimità del rifugio. Momenti interminabili seguirono, tra urla e pianti, dai ricordi della zia gli aiuti tardarono ad arrivare e l’uscita bloccata tenne imprigionati i superstiti per infinite ore senza saper bene cosa fosse accaduto fuori. Momenti interminabili che nel ricordo arriva sino ai due giorni, tanto è stato lungo e complicato il farli uscire dal rifugio. Alla fine “Cet” Ferrarese dall’esterno riuscì ad aprire un varco e aiutato dalla moglie vennero fatti uscire tutti uno alla volta. Gli occhi di quei bambini trasformarono la loro paura in sollievo per poi rimanere impietriti dalla distruzione che attorniava l’ospedale ed il tratto di via Sabbioni più prossimo.

Un nome da aggiungere alla triste lista
Via Sabbioni negli anni cinquanta

Nel resoconto presente sul libro “Un soffio di Libertà” tra i caduti di quel bombardamento vi è il nome di Pasquale Turchetto (18 anni), in realtà le perdite per la famiglia Turchetto furono due perché anche una coetanea della zia (8 anni) perse la vita. Il suo nome era Silvana e questo consegnò  ancor più tragicità al ricordo di questo bombardamento mai dimenticato dalla sorella Elsa Turchetto, amica di mia mamma e di mia zia, Elsa in seguito si sposerà con un Ferrarese. Nessuno dimenticò quel bombardamento, spettrale fu la vista che si appalesò agli occhi dei sopravvissuti quando furono riportati alla luce del sole. Attoniti, videro distruzioni in ogni dove e con molti soccorritori ancora all’opera nonostante le tante ore trascorse. Una esperienza che non si può dimenticare e forse è anche per questo che la si è raccontata poco alle generazioni successive, quasi a esorcizzarla per attenuare l’effetto di quel ricordo. Quella ragazzina di 8 anni trovò l’abitazione distrutta nel bombardamento, poco rimaneva in piedi e ci vollero mesi per riuscire a ridare a quei cumuli di rovine una parvenza di casa. Rivedere i propri cari scampati ad infausta sorte fu comunque un sollievo, ed in fondo il vantaggio delle famiglie allargate è che una soluzione si poteva sempre trovare presso parenti e amici…..meno sfortunati.

Quei rami familiari scampati ad un bombardamento
Bombardamento di Treviso del 7 aprile 1944

E giusto perché in famiglia non ci siamo fatti mancare nulla, anche nel bombardamento di Treviso dell’aprile 1944 quel che poi diverrà il ramo paterno rischiò di fare una brutta fine. Durissimo fu il bombardamento che colpì il capoluogo trevigiano, furono quasi mille e cinquecento i morti, infinita la distruzione che subì la città. Con mio padre in guerra da anni, fatalmente armiere aviere in quella Puglia da dove avevano iniziato a partire i caccia bombardardieri , la sua famiglia allora abitava nel quartiere di San Antonino e durante quel bombardamento la loro casa fu completamente distrutta. All’arrivo degli aerei mio zio Luigi si accorse subito che quei bombardieri non portavano nulla di buono, giusto il tempo di avvisar la madre, nonna Italia, e la distruzione si abbattè sulle case del quartiere, solo l’essersi rannicchiati vicino a dei muri portanti lì salvò. Macerie in ogni dove e muri squarciati tanto che tra la polvere si poteva intravedere l’esterno, la nonna sotto shock caricò il figlio più giovane su di una cariola, raccolse poche cose e con i figli arrivò quasi senza rendersene conto sino a Breda dove abitavano dei parenti. Anni dopo quel figlio più giovane di nome Dino, sposò la zia stabilendosi a San Donà. Come del resto mio padre Umberto prima aveva sposato mia madre Anna, che della zia era anche cugina. Gli intrecci della vita come sempre sono infiniti.

L’importanza del ricordo

Piccole storie, ricordi perduti che difficilmente potrebbero lasciar traccia se non li si legasse ad un filo utile per risalirvi. Prigionieri del presente, ci stiamo scordando del passato che granello dopo granello, in questi anni più dei precedenti, sta perdendo un numero sempre maggiore di testimoni viventi. Sono infiniti i compiti nella società attuale che vengono affidati ai nonni, il meno praticato rimane sempre quello del ricordo quasi fosse inutile ed invece costituisce uno strumento prezioso sia per chi lo porge che per chi lo riceve, perchè il ricordo non ha futuro se non ha un testimone in grado di tenerlo acceso.

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

(1 – Prima parte « Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti »); (2 – Seconda parte « Morte e distruzione nel tragico autunno 1944 »); (3 – Terza parte)

Morte e distruzione nel tragico autunno 1944

Il ponte stradale distrutto dopo essere stato numerose volte obiettivo dei bombardamenti del 1944

L’estate non era destinata a lasciare tranquilla la popolazione sandonatese. L’oppressione germanica si faceva sempre più stringente, a cui si contrapponevano sempre più apertamente le formazioni partigiane le cui fila si erano rinfoltite dei tanti militari che tornavano dal fronte e ai quali l’armistizio aveva imposto l’adesione alla Repubblica di Salò o in alternativa la prigionia o la clandestinità. E in tutto questo contesto vi era anche la variante di quanti fedeli prima al fascismo ora lo erano alla Repubblica di Salò con divisioni insite nelle stesse famiglie e nelle tante amicizie cui le notizie che arrivavano degli sviluppi della guerra regalavano speranze e disillusioni di una fine prossima. Mesi nei quali si moltiplicarono anche gli arresti e con essi le esecuzioni e le deportazioni. Tra queste anche quella di Attilio Rizzo, grande collaboratore di Monsignor Saretta, che divenne un importante esponente della Resistenza sandonatese prima di venire arrestato a metà agosto e deportato in Germania, dove morì nel gennaio del 1945. Tra i ricordi tristi ovviamente anche quello legato ai Tredici Martiri, la gran parte originaria del sandonatese e uccisi come rappresaglia ad un attentato avvenuto a Venezia.

Il bombardamento del 23 settembre 1944
Il ponte ferroviario distrutto nel 1944

A fine agosto i bombardamenti alleati colpirono il ponte della ferrovia, un obiettivo ricorrente nelle incursioni aeree di quelle settimane. Le vie di comunicazione stradali e ferroviarie erano un obiettivo importante alla pari di quelle telefoniche e telegrafiche. Ma bombardamenti ben più duri erano all’orizzonte. Il 23 settembre 1944 in diverse ondate successive gli aerei alleati sganciarono su San Donà circa 200 bombe. Sia il ponte stradale che quello ferroviario vennero colpiti e si registrarono numerose vittime, ben cinque di una sola famiglia poi salite a sei. Del ponte ferroviario venne distrutta la prima campata, mentre di quello stradale ad essere colpita fu l’ultimo tratto verso Musile. Danni riportarono la conduttura elettrica e quella dell’acquedotto e le stesse linee telefoniche vennero danneggiate. Danni importanti anche alle strade arginali, colpite anche Isiata e Mussetta di Sotto. Un giorno triste per i sandonatesi, quello seguente avrebbe dovuto essere come da tradizione dedicato alla Madonna del Colera con le cresime officiate dal Vescovo ma il tutto venne rinviato proprio per il pericolo incombente dei bombardamenti.

I nomi dei caduti del 23 settembre 1944

Sul libro di Morena Biason “Un Soffio di Libertà” vengono riportati i nominativi dei morti di quel cruento bombardamento. In una casa di via Code distrutta dalle bombe morirono cinque componenti della famiglia Ongaretto: il padre Luigi (35 anni), la moglie Vallese Germana (29 anni), la suocera Orlando Caterina (52 anni) e le figlie Giselda e Vittorina (4 anni), quest’ultima morì in ospedale e sempre in ospedale erano stati ricoverati i figli Diego (7 anni) e Angelo (10 anni), come la sorellina anche Angelo morì giorni dopo portando a sei componenti il tributo di sangue della famiglia Ongaretto. Gli altri caduti furono il marinaio Cigar Carlo (25 anni, di stanza alla Caserma San Marco di San Donà), il commerciante Luigi Marigonda (51 anni), il tipografo Davide Armellin (28 anni) e l’operaia dello jutificio Brussolo Orietta (30 anni). Qualche giorno dopo tra i feriti morirà anche Caterina Zanchetta (56 anni), per cui le vittime di quel bombardamento dalle iniziali nove passarono a undici.

4 ottobre 1944 nuovamente colpito il ponte della ferrovia

I bombardamenti divennero continui nei giorni successivi e nemmeno la Fiera d’Ottobre trovò spazio nei pensieri dei sandonatesi. Il 4 ottobre un nuovo pesante bombardamento subì il ponte della ferrovia, anche gli argini vennero duramente danneggiati e compromessi i lavori di ripristino iniziati dopo il precedente bombardamento. A finire sotto il fuoco alleato anche un barcone di ghiaia transitante lungo il Piave, miracolosamente furono solo feriti i due componenti l’equipaggio, padre e figlio.

10 ottobre 1944 pioggia di fuoco su San Donà
L’Ospedale civile “Umberto I” di San Donà di Piave

E’ il 10 ottobre 1944 la data che rimarrà indelebile nei ricordi dei sandonatesi. In quella grigia giornata di ottobre non fu bombardata solo San Donà di Piave ma lo furono anche Porto Marghera e Treviso. Oltre cento bombardieri mossero in direzione del Veneto, molti furono quelli che puntarono verso quella città lungo il Piave i cui ponti erano stati colpiti ripetutamente nelle settimane precedenti di nome San Donà. Sembrava una giornata di ordinario bombardamento invece questa volta non furono i ponti il vero obiettivo della missione. Quei primi bombardieri che si calarono tra le basse nuvole sganciarono le loro bombe sul centro cittadino quasi a marcare l’obiettivo principale. Seguì una lunga scia di fuoco che cinse le vie del centro concentrandosi particolarmente sull’ospedale civile e gli edifici in Viale Margherita. Ancora una volta l’ospedale sandonatese pagò un caro prezzo come già era successo durante la prima guerra mondiale. Da poco non si fregiava più del nome di “Umberto I”, quel legame con i Savoia non era più gradito dalle autorità fasciste dopo l’armistizio firmato da Vittorio Emanuele III e la susseguente fuga oltre le linee alleate. L’ospedale divenne un grande cumulo di macerie, sia l’artistica struttura verso viale Margherita che i padiglioni ad un solo piano posti dietro furono duramente colpiti. Delle 85 persone presenti all’interno dell’ospedale tra pazienti e personale, furono 24 i morti e 45 i feriti.

Alcune testimonianze di quel giorno
L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

Sul libro dedicato al centenario dell’ospedale “L’ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000” vengono riportate due testimonianze di quel giorno. Il segretario-economo Filiputti: « […] appena ho sentito il rumore degli aerei che si avvicinavano ho detto a Bepi Da Villa che andasse ad avvertire suor Carla e poi, appena il pericolo è diventato incombente, ho visto tanta gente che correva verso il campanile e la chiesa, ed alle spalle sentivo già il fruscio delle bombe che arrivavano e colpivano l’Ospedale. Tra le vittime ricordo la figlia di Centioli, che frequentava l’Ospedale come volontaria e tra le suore, suor Ildefonda Lupi e suor Angiolina Giusto. Ricordo che al momento di rifugiarmi nel campanile ho incontrato il dottor Bruno Nardini. Ma alla tragedia si è cercato subito di rispondere con provvedimenti per gli ammalati e i feriti. Particolarmente incisiva è stata l’azione del Comm. Giovanni Ronchi che ha fatto portare quanto possibile, ricordo in particolare anche della paglia, per predisporre dei giacigli nella caserma come primo improvvisato ricovero per i feriti e gli ammalati che non era possibile trasportare, con mezzi militari, agli ospedali di Oderzo o di Motta di Livenza… ». La seconda testimonianza è del prof. Arnaldo Balbi Guarinoni che all’epoca dei bombardamento era uno studente di medicina che lavorava all’Ospedale civile: « San Donà era una zona piuttosto calda ed era da qualche giorno sorvolata di continuo da delle fortezze volanti, quella mattina volavano più basso del solito. Qualche attimo prima delle 11 avevamo intuito il pericolo e con alcuni pazienti ho abbandonato l’ospedale trovando rifugio sotto le mura di cinta. Ho visto le fortezze volanti sopra di me, ho gridato « semo morti ». Poco dopo siamo stati avvolti da palle di fuoco, colpi tremendi, sembrava la fine del mondo. Quando mi sono rialzato, quelli che erano con me non c’erano più, nemmeno il bambino che avevo sotto il braccio e del quale non sapevo nemmeno il nome. L’ospedale era completamente distrutto…. ».

Ovunque macerie fumanti a invadere le strade
La casa Girardi in Viale Margherita

In viale Margherita oltre all’ospedale furono colpite anche le carceri e il panificio Fasan. Danni anche al Palazzo Comunale, alla Centrale dei telefoni di Stato, alla scuola elementare del centro. In via Ancillotto venne distrutto anche il teatro Verdi, con la vicina tipografia SPES, il panificio Trivellini. Ingenti danni subì anche il Piccolo Rifugio. Come racconta Savio Teker nel suo libro (1), Lucia Schiavinato alle prime avvisaglie aveva fatto uscire quanti più ospiti fosse possibile mettendoli al riparo di un vicino fossato. Le bombe colpirono l’edificio, quando fu tornata la calma immaginando quel che avrebbe trovato all’interno cercò di correre verso il vicino ospedale per chiamare un medico, ma fece solo pochi passi l’ospedale non esisteva più. Al Piccolo Rifugio saranno sei le vittime. Molti saranno comunque i medici che miracolosamente si salvarono dalla distruzione dell’ospedale e che subito si prodigarono nel soccorrere i feriti. A decine furono i feriti curati sul posto, tanti quelli trasportati con mezzi di fortuna verso altri ospedali. Ovunque un panorama di case danneggiate e di sopravvissuti alla strenua ricerca dei propri cari e delle loro povere cose da salvare tra le macerie. Per molti anche quel poco era ben poca cosa perchè il tutto era racchiuso in baracche che niente potevano opporre all’impeto delle esplosioni di un bombardamento. Una settantina furono le case distrutte, altrettante quelle danneggiate. Ai tanti sfollati delle settimane precedenti che avevano lasciato San Donà si aggiunsero ora i tanti che la loro casa l’avevano perduta, o che abbandonata momentaneamente la ritrovarono distrutta. Un’emergenza che San Donà visse per molti anni a venire di un dopoguerra non troppo lontano, ma che per chi stava vivendo quelle tragedie era ancora solo una speranza.

Articolo del Gazzettino del 12 ottobre 1944
L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

Nel libro di Morena Biason “Un soffio di Libertà” vengono riportati ampi stralci dell’articolo del Gazzettino del 12 ottobre scritti dall’inviato Alfonso Comaschi:

Chi entra in Paese dalla strada di Venezia intuisce la gravità della tragedia a destra e a sinistra dell’arteria principale infatti i maggiori edifici appaiono irrimediabilmente distrutti. Un cratere immenso sbarra la via nel fondo di essa : una sedia in frantumi e una bottiglia intera. Poco più avanti le macerie della Pretura e dell’edificio delle Assicurazioni «La Cattolica», che le sorgeva di fronte, si sono quasi riunite attraverso la via. Anche l’albergo del «Leon Bianco» mostra tra le imposte sconnesse e tra le larghe fenditure dei muri le rovine dell’interno.

Via Giannino Ancillotto presenta un aspetto se è possibile ancora più desolato sulla destra il grandioso edificio del teatro Verdi e altri minori immobili sono completamente rasi al suolo fra le innumerevoli voragini aperte da altre bombe che sono cadute nelle vicinanze: anche Piazza Margherita così aggraziata nella sua cintura di verde, denuncia subito le sue ferite di guerra e più avanti tutta Via Dante è un solo ammasso di macerie.

La Pianta dell’ospedale con i vari padiglioni a solo piano terra

Così pure il Piccolo Rifugio appare irrimediabilmente colpito. Era quest’ultimo un ricoveri di vecchi […]   E’ il primo dei luoghi più colpiti, ed è quello che ha subito i danni minori; pure tra le sue macerie rinserra ancora delle vittime. Infatti all’angolo di Viale Margherita la Casa di Ricovero, che fu dedicata ai Caduti della guerra scorsa, pur mantenendo un aspetto non molto dissimile dall’ordinario nelle sue linee esterne, sembra stranamente vuotata dall’interno e rivela gli irreparabili guasti dell’edificio la cui rovina suona doppiamente sacrilegio e per lo scopo cui esso era destinato, in quanto raccoglieva quasi un centinaio di vecchi e per l’affronto fatto alla memoria dei Caduti in onore dei quali era stato innalzato.

Di fronte un gruppo di case è irreparabilmente danneggiato e, accanto un’abitazione civile è stata quasi fatta scomparire dalla violenza dell’esplosione. In questa zona è caduto il maggior numero di bombe in quanto costituisce evidentemente il nucleo dell’obbiettivo. Sembrerebbe impossibile perché proprio qui sorgeva l’Ospedale Civile, ma il centinaio di bombe che vi sono state sganciate non lascia dubbi in proposito.

Gli aerei nemici erano apparsi sul cielo di San Donà verso le 11; erano chiaramente distinguibili dato che a causa del soffitto di nubi molto basso, volavano a quota inferiore alla solita, poco più di un migliaio di metri; anzi, prima che il grosso, a varie ondate si avvicendasse con larghi e lenti giri sull’obbiettivo, un primo gruppo di aerei, da minor altezza sganciava le prime bombe, verosimilmente per circoscrivere il bersaglio. E il bersaglio non poteva essere che l’Ospedale civile malgrado fosse chiaramente distinguibile come tale anche per la pianta a corpo centrale e dai padiglioni, caratteristica di tali tipi di moderni edifici, oltre che per il fatto di essere in maniera inequivocabile contrassegnato dagli emblemi della Croce Rossa.

L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

L’ospedale era un edificio a tre piani e di vari padiglioni; bisogna dire era, perché oggi non si può assolutamente dare neppure il nome di edificio a questo misero ammasso di mattoni e di solette di cemento, di tralicci e di architravi che ingombravano il terreno una volta coperto dalla raccolta ombra dei pini marittimi, ruderi sparsi a ricolmare le voragini delle esplosioni.

Dei tre piani della costruzione centrale sono rimaste in piedi tre colonne; della Cappella un muro che minaccia di crollare, alla base di questo si intravvede, sotto il velo di polvere, presso un angelo decapitato d’alabastro la tovaglia dell’altare. Passando di qua, qualche secondo dopo la rovina, col cuore stretto, nel tentativo di portare aiuto a chi aiuto potesse ancora ricevere, il primario prof. Binotto, ancora stordito dallo scroscio della rovina, si sentiva chiamare per nome; era Don Carlo il Cappellano che era rimasto seppellito, vivo fortunatamente, sotto le macerie della Chiesetta dedicata a Sant’Antonio.

Il primario del resto, come tutti gli altri medici possono veramente dirsi salvi per miracolo, in quanto tutti, si trovavano sul posto, che naturalmente non abbandonarono durante l’incursione. Anche il Commissario Prefettizio Ronchi che pure si trovava in sede e vi rimase durante la distruzione, si prodigò per i primi soccorsi. Purtroppo due suore hanno trovato la morte accanto ai loro malati; una gravemente ferita; un’altra, che è stata dissepolta dopo cinque ore, versa pure in gravissime condizioni. Anche un’assistente sanitaria è morta al suo posto; era la figlia del dott. Veronese, l’odontoiatra della cittadina.

L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

E’ forse impossibile descrivere lo stato dei padiglioni; quello più intatto – ma si può dire così di questa vasta sala dal soffitto completamente sforacchiato? – è il reparto maschile di chirurgia ed è forse più squallido di quello che non siano le sale totalmente rase al suolo. I letti hanno ancora le lenzuola tese, i comodini sono in parte arrovesciati dalla violenza dello spostamento d’aria e hanno sparso le poche suppellettili dei ricoverati; la fotografia di un bambino o un libro, l’immagine di un Santo o «parole incrociate» lasciate interrotte. Sopra un letto c’è ancora un cartoccio d’uva, su tutto pesa, come un incubo, il velo di polvere sollevato dallo scoppio, che traveste di una nevicata macabra i poveri oggetti che popolano le corsie degli ospedali. Più avanti nella sala operatoria, la lampada «sineumbra», miracolosamente intatta, oscilla, appesa ai fili della sospensione; sotto, nella devastazione, la stanza rivela l’aspetto tipico di un’operazione appena terminata. Il paziente, appena finito di operare, strappato si può dire alla morte dalla mano fraterna del chirurgo, è stato travolto e ucciso dal crollo della sala, dove era stato riportato. Ma le perdite più gravi si sono avite nel padiglione ostetrico. Tutte le puerpere vi hanno trovato un’orribile morte; meno una: questa però ha avuto lo strazio di vedersi orbata della creatura appena nata.

Fuori del recinto dell’ospedale, poco più avanti, fuori del viale Margherita, gli abitanti del popolare quartiere dei «Sabbioni» cercano fra le rovine delle loro modeste casette le poche suppellettili che si son salvate o la reliquia di qualche oggetto caro. Sono dei lavoratori che, per la maggior parte avevano costruito la casa con i loro risparmi; qualcuno materialmente con le sue mani; una vecchia rialza dalle rovine in cui sta frugando il volto sbigottito dall’orrore e dall’amarezza e chiede meccanicamente: «Perché?»; e il silenzio della città deserta sembra riempirsi di questa vana interrogazione senza risposta.

I morti del bombardamento del 10 ottobre 1944
I funerali dei bombardamenti di ottobre 1944 (archivio Giovanni Striuli)

Sul libro di Morena Biason “Un Soffio di Libertà” vengono riportati i nominativi dei 45 caduti del tragico bombardamento del 10 ottobre 1944: i fratelli Gonellotto Angelino (23 anni) e Silvio (18), braccianti, sulla pubblica via; Ianna Sofia (40 anni), casalinga, sulla pubblica via; Boccato Angelo (60 anni), fruttivendolo, abitazione; i soldati Crespi Francesco (20 anni) e Nardo Luigi (28 anni) pubblica via; il soldato Raccanelli Isidoro (37 anni), abitazione; Turchetto Pasquale (18 anni), bracciante, abitazione; il possidente Bortolotto Giuseppe (68 anni) e la moglie Bertoncello Elena (65 anni), abitazione; Cecchetto Regina (78 anni), casalinga, abitazione; Centioli Teresa (19 anni), casalinga, abitazione; Stefani Teresa Jolanda (28 anni), casalinga, abitazione; Vallese Irma (39 anni), casalinga, abitazione; Biancotto Antonio (50 anni), manovale, ospedale; Fantin Antonio (63 anni) bracciante, ospedale; Segato Venanzio (15 anni), mezzadro, ospedale; Penso Paolo (55 anni), impiegato, ospedale e la moglie Vescovo Clorinda (52 anni), casalinga pubblica via; Bizzaro Anna (48 anni), casalinga, ospedale; Perissinotto Angela (35 anni), casalinga, ospedale; Tonon Maria (40 anni), casalinga, ospedale; Bottan Anna (59 anni), lavandaia presso ospedale, ospedale; Veronese Lucia (16 anni), studentessa, ospedale; Contarin Veronica (40 anni), infermiera, ospedale; Rovere Rina (25 anni), infermiera, ospedale; Luppi Giuseppina “suor Ildefonsa” (40 anni), suora, ospedale; Giusto Maria ” suor Angiolina” (33 anni), suora, ospedale; Badanai Santa (41 anni), casalinga, ospedale; Bonora Iolanda (30 anni), casalinga e il figlio Fusaro Dante (15 giorni), ospedale; Bortoluzzi Luigia (40 anni), casalinga, ospedale; Cappelletto Gina (19 anni), casalinga, ospedale; Gaiotto Maria (67 anni), casalinga, ospedale; Bobbo Maria (25 anni), casalina, e la figlia Merani Rita (3 giorni), ospedale; Ongaro Giuseppe (35 anni), bracciante, ospedale; Tolon Giuseppe (12 anni), ospedale; Cupresi Casimira (6 giorni), ospedale; Sari Jolanda (25 anni), ospedale, di lei furono trovati solo dei resti umani che solo in secondo tempo si pensa possano essere associati al suo nome; Bellese Maria (3 anni), Piccolo Rifugio; Orlando Maria (81 anni), invalida, Piccolo Rifugio; Fingolo Maria (77 anni), invalida, Piccolo Rifugio; Trevisiol Giovanna (8 anni), Piccolo Rifugio; Maschietto Antonio (76 anni), invalido, Piccolo Rifugio.

Il peggior bombardamento, non l’ultimo
L’interno della chiesetta dell’Ospedale “Umberto I” distrutta nel 1944

La distruzione dell’ospedale diffuse ancor più terrore nella popolazione civile e molti scelsero di abbandonare il centro cittadino, tanto più che quello non fu l’ultimo bombardamento. Molti altri ne seguirono seppur non con quelle stesse tragiche conseguenze. Tra tutti si ricorda quello del 22 novembre che distrusse ancor di più il ponte della ferrovia. Ricorda Savio Taker nel suo libro (2) il numero delle famiglie sfollate e i paesi dei dintorni nei quali erano state accolte. Con scrupolo all’epoca Monsignor Saretta tenne aggiornato questo elenco con tanto di pubblicazione nel foglietto parrocchiale e a turno si recava nei vari paesi a visitare le famiglie sfollate, l’arciprete non aveva dimenticato della perigliosa profuganza a cui lui e tanti sandonatesi erano stati costretti durante la prima guerra mondiale. Tanti mesi mancavano prima di arrivare alla fine della guerra e le tragedie non erano ancora terminate. L’emergenza principale dopo quel tragico bombardamento fu sostituire l’ospedale che da allora venne trasferito provvisoriamente presso Villa Ancillotto. Solo nel dopoguerra venne iniziata la costruzione del nuovo Ospedale Civile dove ancor oggi si trova, nemmeno quella fu impresa facile e ci vollero parecchi anni prima di vederlo inaugurato nel 1953, ma questa è un’altra storia.

(1 – Prima parte « Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti »); (2 – Seconda parte); (3 – Terza parte « Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944 »)

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti

Nel 1940 l’Italia entra in guerra a fianco della Germania, l’esercito italiano verrà impegnato in tanti fronti ma alla fine sarà la popolazione italiana tutta a ritrovarsi al fronte stretta tra eserciti stranieri, italiani contro e distruttivi bombardamenti. Il peggior flagello che l’Italia ricordi e anche San Donà ne pagò un prezzo.

Il Monumento ai Caduti di San Donà di Piave

L’Italia in guerra vi entrò nel 1940 ma già dagli anni Trenta i soldati italiani stavano combattendo in molti fronti, presenti in Libia e in Somalia gli italiani conquistarono l’Etiopia nel 1936 occupando poi l’Albania nel 1939. Conflitti che dal punto di vista economico avevano minato le finanze italiche, tanto più che l’autarchia di regime contrapposta alle sanzioni internazionali non avevano regalato prospettive dorate alla popolazione italiana sempre più alle prese con pesanti ristrettezze. Con il 10 giugno 1940 l’entrata in guerra a fianco della Germania contro Francia ed Inghilterra non fa che acuire i problemi ma al tempo stesso rende esplicito quel prezzo che si dovrà pagare alla guerra. Se da un lato continuano i tanti arruolamenti degli elementi più e meno giovani della popolazione dall’altro già nella notte tra il 10 e l’11 giugno Torino e Genova subirono il primo bombardamento da parte della RAF inglese. Il settore industriale di Liguria, Piemonte e Lombardia divenne un obiettivo delle incursioni aeree notturne inglesi e francesi, ma anche le raffinerie di Porto Marghera subirono il loro primo attacco aereo francese nella notte tra il 13 e il 14 giugno. Francesi che di lì a poco saranno costretti alla resa dall’invasione nazista e contro cui solo poco prima della resa l’esercito italiano aveva iniziato ad avanzare da sud. Se la minaccia francese venne meno grazie al governo collaborazionista di Vichy, i bombardamenti continuarono negli anni a venire da parte di inglesi e alleati: inizialmente ebbero obiettivi economici e bellici, ma che nel proseguo del conflitto mondiale videro sempre più colpita la popolazione civile e lo stesso patrimonio artistico italiano ne pagò un caro prezzo.

In guerra anche contro gli Stati Uniti

Nel dicembre 1941 gli Stati Uniti subirono l’attacco giapponese a Pearl Harbour e la loro neutralità venne meno, subito dopo la Germania e l’Italia dichiararono guerra agli Stati Uniti in nome dell’alleanza instaurata con il Giappone. Se inizialmente le forze dell’Asse trassero beneficio dal tener impegnato il nemico americano da parte dell’alleato giapponese, poi le sorti del conflitto cambiarono quando un anno dopo gli Stati Uniti rinforzarono gli inglesi in Africa dove gli italiani prima e i tedeschi poi avevano attaccato l’Egitto controllato dagli inglesi. Nel mezzo vi era stata la rovinosa invasione della Russia da parte delle truppe dell’Asse, che costò carissimo alla Germania e ai suoi alleati. Tra offensive e controffensive furono soprattutto i due inverni russi a mietere migliaia di morti. Un’Italia in guerra su infiniti fronti ma che già prima del 1939 era conscia della propria impreparazione militare e che suo malgrado ora vedeva le sue truppe impegnate in Etiopia, nel Nord Africa, in Russia, in Grecia, in Jugoslavia.

La guerra alle porte di casa
19 luglio 1943 il bombardamento di Roma, 3mila morti e 11mila feriti

Con la sconfitta in Nord-Africa, per l’Italia le prospettive si fecero rapidamente cupe. Gli angloamericani sbarcarono il 10 luglio 1943 in Sicilia, nel giro di poche settimane arrivarono a controllare l’isola. Un incontro di Mussolini con Hitler nei pressi di Feltre non offrì vie d’uscita all’Italia tanto che in quelle stesse ore un pesante bombardamento aereo alleato colpì per la prima volta Roma. Lo stesso Mussolini venne messo in minoranza il 25 luglio dal Gran Consiglio del Fascismo e successivamente fu dimissionato da Vittorio Emanuele III, imprigionato, e sostituito con Badoglio. Quella via d’uscita la monarchia pensò di trovarla firmando un armistizio con gli alleati, e reso pubblico l’8 settembre, il re e il governo italiano presero la via prima di Pescara e poi di Brindisi. La reazione tedesca fu violenta tanto che liberarono Mussolini il 12 settembre e attuarono quello che avevano sempre fatto in ogni altro paese dell’Asse ribelle: controllo militare tedesco e costituzione di un governo amico, in questo caso la Repubblica di Salò con a capo nuovamente Mussolini. Con l’esercito italiano in rotta e i comandi senza ordini, per i tedeschi fu gioco facile prendere il sopravvento e requisire armamenti e rifornimenti. Tra l’altro il comando tedesco aveva già previsto un passo indietro italiano e si era quindi preparato ridispiegando e rinforzando le truppe nella penisola. Pesanti furono i bombardamenti che colpirono le città meridionali, gli alleati si preparavano a sbarcare in Puglia, in Calabria e in Campania. Con l’operazione “Slapstick” gli alleati sbarcarono a Taranto e l’armistizio fu una chiave per farlo con il minimo danno, nel giro di qualche settimana riuscirono a controllare l’intera Puglia. Dal punto di vista strategico l’occupazione del Salento permise agli alleati di ripristinare le numerose basi aeree italiane, funzionali sia per l’avanzata nel meridione che per colpire il Nord Italia. E proprio dalla Puglia partirono gli aerei della 15° USAAF che colpirono anche le nostre zone.

Dopo l’armistizio s’intensificano i bombardamenti
7 aprile 1944 bombardamento di Treviso, 1470 morti – “Palazzo dei Trecento”

Se nel settembre 1943 l’Italia cercò una via d’uscita firmando l’armistizio, la massiccia presenza tedesca non rese meno tenace la guerra. Anzi il conflitto divenne più crudo con un ruolo sempre più subalterno dei fascisti della Repubblica di Salò nei confronti dell’esercito germanico divenuto ancor più d’occupazione agli occhi di una popolazione stanca e insofferente. Se da un lato oramai la popolazione italiana a fronte dei tanti bombardamenti aveva per la gran parte abbandonato le città e cercava di tenersi lontano dai possibili obiettivi militari, dall’altro le distruzioni di interi quartieri di una guerra tutt’altro che selettiva fece registrare tante perdite tra la popolazione civile. Uno dei bombardamenti più duri nello scenario veneto fu quello che subì Treviso il 7 aprile 1944 che costò 1470 morti ed una distruzione generalizzata del centro cittadino, ne fece le spese anche il Palazzo dei Trecento, uno dei simboli artistici della città.

La guerra alle porte di casa
Il ponte stradale negli anni trenta

In quei primi mesi del 1944 i bombardamenti di Treviso e quelli continui di Mestre e di Porto Marghera avevano prodotto un alto numero di sfollati che cercarono scampo nelle zone circostanti, non ultima San Donà di Piave che accolse numerose famiglie e riuscì a raccogliere per la diocesi ferita ben cento mila lire di offerte. Ma le stesse autorità di San Donà incominciarono in quella primavera del 1944 ad invitare la popolazione ad abbandonare il centro cittadino e soprattutto a tenersi a distanza da quegli obiettivi militari come potevano essere il ponte stradale e quello ferroviario, sottolineandone le zone e le vie da cui era consigliata l’evacuazione specie di chi non sarebbe stato in grado di farlo celermente in caso di pericolo. Ed in particolare di notte ad osservare gli orari del coprifuoco per non offrire il fianco ai sorvoli dei caccia alleati notturni.

Le prime bombe cadono sul sandonatese

Con il fronte che si avvicinava alla Romagna si intensificarono nell’estate i bombardamenti delle città, particolarmente cruenti quelli intorno a Bologna, ma non di meno le incursioni imperversarono verso i porti di Venezia e Trieste. Inutile dire che la direttrice degli aerei portava al sorvolo continuo dei cieli sandonatesi, una minaccia costante e pur se molte missioni prendevano la direzione della Germania tra gli obiettivi multipli che avevano, anche le nostre zone entrarono spesso nel mirino degli attacchi alleati. I timori dei tanti sandonatesi che scrutavano i cieli solcati dagli aerei alleati presto si materializzarono. Le prime bombe caddero nella zona della Casa Paterna in via Calnova e a Chiesanuova il 18 luglio, mentre particolarmente importanti furono i danni subiti da Musile il 21 luglio con le prime vittime, danni anche dal lato sandonatese subì la strada arginale verso Grisolera.

Le truppe tedesche prendono possesso di San Donà
Il ponte della ferrovia colpito dai bombardamenti alleati

A fine luglio le truppe tedesche rafforzarono la loro presenza a San Donà occupando in modo stringente molte zone della città e requisendo numerose abitazioni, lo stesso Oratorio Don Bosco era pieno di soldati tedeschi con cui i salesiani furono costretti ad una scomoda convivenza. Una presenza tedesca che si manifestava in tutto il sandonatese con continue retate nelle quali i tedeschi si alternavano ai fascisti alla ricerca di partigiani, disertori del regio esercito e sempre più di militari alleati sopravvissuti agli abbattimenti degli aerei che sorvolano i cieli sandonatesi e non. Il 3 agosto di un nuovo pesante bombardamento fu fatto oggetto Musile dove caddero un centinaio di bombe, un’altra ventina caddero su San Donà. L’obiettivo palese erano sempre i ponti sul Piave ma è inevitabile che a farne le spese furono i centri cittadini. Alla fine di agosto a finire sotto le bombe fu il ponte della ferrovia pesantemente danneggiato.

Quella sirena divenuta incubo
Le sirene antiaeree ancora esistenti sui tetti di Roma

Numerosi erano gli allarmi aerei che risuonavano ogni giorno a San Donà e la tarda mattinata era l’orario solito in cui tutti erano costretti a cercare di sfuggire alle possibili esplosioni, chi in rifugi predisposti chi in ripari di fortuna. Decisamente più scomodi quando a risuonare erano le sirene di notte con uno stato di apprensione perenne della popolazione che aveva deciso di rimanere in città. Come racconta Savio Teker nel suo libro (2.): « I segnali d’allarmi erano tre: Limitato pericolo (tre segnali da 10 secondi con intervalli di 10 secondi); Pericolo (dieci segnali di 3 secondi con intervalli di 3); Cessato allarme (un segnale di 60 secondi) ». Gli inviti all’evacuazione della città verso le zone di campagna divennero sempre più assillanti e numerose erano oramai le famiglie che ingrossarono le fila degli sfollati.

Il campanile come rifugio notturno
Immagine aerea del centro di San Donà di Piave del 1930

Tra i simboli di quel periodo fatto di continue minacce aeree diurne e notturne a sorpresa vi è stato il Campanile. Ne dà conto Savio Teker inserendo nel suo libro (2.) un racconto pubblicato su un foglietto parrocchiale e scritto dallo stesso Monsignor Saretta a Liberazione di San Donà avvenuta: « Ci sono dei cittadini che hanno proprio chiesto ospitalità al campanile per fare i loro sonni tranquilli, e su per le scale, in tutti i piani del grattacielo, fino alla cella campanaria, ogni notte si dispone con mezzi di fortuna una folla silenziosa e trepidante per sottrarsi ai colpi micidiali di “Pippo” tenebroso. Tutto lo spazio disponibile è utilizzato. Non cadrebbe per terra un grano di miglio. Vi sono i “sediari” pigiati l’uno vicino all’altro, diritti, avvolti nelle ampie coperte per ripararsi dal freddo che entra col vento dalle finestre senza vetrate. Stanno immobili, rigidi, per tutta la notte, come pietrificati. Più disgraziati sono quelli che devono accomodarsi in qualche modo su per la scala. Ciascuno ha il suo gradino, e guai a chi osasse toccarla! Il diritto del primo occupante è riconosciuto in pieno. Qualche fortunato, di proporzioni più abbondanti, si è assicurato l’uso anche di due o tre gradini. E se durante la notte si potesse far luce su quella folla di accoccolati, sarebbe uno spettacolo strano, macabro, pietoso quello che si presenterebbe al nostro sguardo. Poi ci sono i privilegiati, che hanno imbastito un letto di fortuna, con reti metalliche, con materassi. Devono però essere puntuali, all’ora fissata, perché non v’è spazio fra letto e letto e chi arriva in ritardo deve passare sopra i malcapitati, che già riposano sotto le coperte, con pericolo di sentirsi mettere il piede,,,,in fallo. Non mancano le sentinelle, s’intende, senz’armi: sono i ricoverati sporadici, che nel momento del pericolo cercano rifugio in campanile e vi si introducono a furia di spintoni, e vi restano per ore e ore, nelle posizioni più incomode, ma sempre in piedi, a disagio, in attesa di…. Riveder le stelle. Piccole fiammelle a olio, accese davanti al Crocefisso, illuminano la strana catacomba (in senso verticale), quel tanto che è indispensabile per evitare pericoli e disordini, e rendono il soggiorno anche più tetro e misterioso. Così per settimane, per mesi, per tutte le notti, da quando gli aerei notturni vanno spargendo il terrore e la morte ».

(1 – Prima parte); (2 – Seconda parte « Morte e distruzione nel tragico autunno 1944 »); (3 – Terza parte « Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944 »)

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)