Tratto dalla « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° Anniversario della Resistenza » (6 settembre 1964)
Motivazione della Medaglia d’Argento al V.M.
« Fiera città di prima linea, già duramente provata dalla guerra, subito dopo l’armistizio sosteneva con decisione la lotta di liberazione, dando centinaia di valorosi combattenti alle formazioni partigiane e pagando sanguinoso tributo di vittime alla repressione tedesca. Duramente colpita anche da aerei non piegava la decisa volontà di resistenza. Insorgeva in presenza di ben seimila tedeschi e liberava il suo territorio tre giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate, dopo aver catturati tremi cinquecento prigionieri »
San Donà di Piave, settembre 1943 – 25 aprile 1945
L’introduzione del Sindaco Dott. Franco Pilla
A nome della Civica Amministrazione presento queste modeste pagine che si propongono di ricordare i 13 Martiri nel ventennale del Loro sacrificio a tutti coloro che vissero il Secondo Risorgimento e di FarLa conoscere ai giovani, a quelli che sono venuti quando l’alba della Libertà era già risorta sulla nostra Città e sulla Patria.
Il 28 luglio 1944 a Cà Giustinian vennero fucilati per nessun delitto, per nessun tradimento, ma solo per aver scelto la libertà e l’onore: Attilio BASSO, Stefano BERTAZZOLO, Francesco BIANCOTTO, Ernesto D’ANDREA, Giovanni FELISATI, Angelo GRESSANI, Enzo GUSSO, Gustavo LEVORIN, Violante MOMESSO, Venceslao NARDEAN, Amedeo PERUCH, Giovanni TAMAI e Giovanni TRONCO.
Non tutti erano sandonatesi; Gressani di Ceggia, Felisati di Mestre e Levorin di Padova. Ma da allora e per sempre nostri Concittadini, perché accomunati dallo stesso sacrificio.
L’Amministrazione Civica nel 20° anniversario dell’eccidio, che, nelle immani proporzioni , ha toccato il vertice della tragedia vissuta dalla Patria in una delle ore più oscure della Sua storia, ha dedicato la giornata del 6 settembre per onorare, con i 13 Martiri, tutti i Caduti della Resistenza e per celebrare i grandi valori ideali che la Resistenza rappresentò, nella lotta contro la dittatura per la conquista della Libertà.
Non sarebbe patrimonio vero, consapevole, operante, la libertà in Italia se non fosse stata conquistata dal coraggio, dalla fede, dall’eroismo del sacrificio dei suoi figli migliori; da coloro che dimostrarono di credere nella Libertà e nella Democrazia, con il sangue, che ci insegnarono un modo nuovo di fedeltà agli ideali.
Così intendiamo ricordare i 13 Martiri e con Loro tutta la Resistenza Sandonatese.
Si, anche gli altri: Attilio RIZZO, animatore e capo, Medaglia d’Argento al Valor Militare, Giovanni BARON, suo collaboratore, Medaglia di Bronzo al Valor Militare, Primo BIANCOTTO, Carlo VIZZOTTO, Verino ZANUTTO, Luigi GUERRATO, Luigi CAROZZANI, Bruno BALLIANA, Giodo BORTOLAZZI, Flavio STEFANI, Casimiro ZANIN; Antonio FERRO, Erminio ZANE, Esterino DALLA FRANCESCA, Cesira ed Elvira CAROZZANI, la Brigata Eraclea, la Brigata Piave, Reparti dell’Esercito della Libertà, nati ed organizzati nella nostra amatissima terra del Basso Piave, dove mai il fascismo era riuscito a piantare radici profonde.
Per quanto, mentre ancor oggi ci raccogliamo accomunati in un sentimento di immensa pietà e profonda commozione attorno a queste 13 salme sacrificate dall’odio e dalla violenza, eleviamo insieme la nostra protesta di popolo civile contro la tirannide e la dittatura.
Per questo ancora, sentiamo il diritto di pronunciare l’implacabile condanna, poiché conosciamo attraverso il sacrificio dei nostri Martiri quale sia il prezzo che un popolo deve pagare per la conquista della Libertà.
Le celebrazioni del 6 settembre costituiscono per tutti un profondo e grave ammonimento ad essere degni di questo bene inestimabile.
Il Sindaco
Dott. Franco Pilla
San Donà di Piave, 6 settembre 1964
I Tredici Martiri
Sono ormai trascorsi vent’anni dal giorno in cui il plotone d’esecuzione stroncava la vita ai tredici eroici combattenti della libertà, undici dei quali figli della nobile terra di San Donà di Piave, e il ricordo di quei luttuosi avvenimenti ci riempie ancora l’animo di profonda costernazione. Ogni idea grande per vivere, prosperare e trovare pratica attuazione ha bisogno di essere alimentata dal sangue ed il sangue non mancò di scorrere e di bagnare ogni lembo della nostra Patria martoriata, percorsa da eserciti stranieri e dilaniata dalla guerra civile.
Nei tristi giorni che seguirono alla disfatta del nostro esercito, tutti i partiti antifascisti serrarono le file, si strinsero insieme per resistere al germanico invasore che completava l’opera di distruzione materiale e morale della Patria. Uomini di ogni credo politico e d’ogni classe sociale, popolani, operai, contadini, impiegati ed intellettuali non esitarono a gettarsi nella mischia, senza badare al rischio, con la coscienza serena di compiere un imprescindibile dovere.
« Appena l’invasione nazista fu un fatto compiuto, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 28 luglio 1945, appena strappatosi la maschera di alleato, il tedesco riapparve agli Italiani tutti sotto le sue vere spoglie di nemico spietato del nostro paese; appena dietro le sue baionette ricominciarono ad innalzarsi le nere insegne della morte che si speravano abbattute per sempre il 25 luglio, essi, i futuri Martiri di Cà Giustinian, non ebbero un momento di esitazione: bisognava combattere, bisognava impugnare un’arma per la difesa della propria terra, per la conquista della indipendenza e della libertà perdute.
« Respingere l’aggressione, da qualunque parte essa provenga », era stato l’ultimo incerto e timido ordine che essi avevano sentito impartire all’esercito ». Quest’ordine fu da loro raccolto ed essi pagarono con la vita la loro dedizione al dovere e alla Patria. Fra la gloriosa schiera dei combattenti della libertà brillano i nomi dei tredici Martiri di Cà Giustinian.
BASSO ATTILIO. Era un giovane di ventitre anni di San Donà di Piave, dov’era nato il 9 settembre 1922; fattorino di banca e coniugato con un figlio. Di salute cagionevole, cattolico praticante ed alieno ad ogni avventura. Come gli altri, aveva dato la sua collaborazione alla lotta clandestina, e per questo fu arrestato e condotto nelle carceri di S. Maria Maggiore, inconsapevole della triste sorte che lo attendeva. « Era tanto felice negli ultimi suoi giorni, scrive G. Galdi, tanto felice, malgrado le sue condizioni fisiche; aveva avuto notizia che gli era nato un bambino, un bambino che ancora non conosceva, che non avrebbe mai conosciuto ma del quale parlava sempre ».
BERTAZZOLO STEFANO. Aveva venticinque anni quando immolò la sua vita nella lotta di liberazione nazionale. Era nato a Carrara San Giorgio il 6 febbraio 1919, ma risiedeva con la famiglia a San Donà di Piave. Contadino di origine, era ritornato dalla guerra in condizioni tali da non poter attendere proficuamente al duro lavoro della terra. Benchè invalido di prima classe, era riuscito a farsi assumere in qualità di impiegato presso uno zuccherificio. Fu anch’egli arrestato per la sua attività partigiana e trascorse i lunghi mesi di prigionia sul letto, nell’infermeria, in attesa della liberazione. La sorte volle invece che scontasse con la morte il suo amor di Patria.
BIANCOTTO FRANCESCO. Falegname di professione, era nato a San Donà di Piave il 2 aprile 1926 ed aveva aderito, nel fior degli anni, con slancio, alla G.A.P. (Gruppo di Azione Patriottica) della Città, prodigandosi in ogni modo per rendersi utile ai compagni di lotta. Cavaliere senza macchia e senza paura, non permetteva che si toccasse un innocente o che si recasse danno ai suoi concittadini. Basterebbe averlo visto una notte con che sprezzo del pericolo rimosse una mina dai binari quando s’accorse che, invece d’una tradotta militare, stava per transitarvi un treno passeggeri, per comprendere la tempra di questo giovane. «Piuttosto di far morire un civile, diceva ad impresa avvenuta, preferirei perdere la vita ». Arrestato il 13 gennaio 1944, tradotto nelle carceri di Venezia, dove diede prova di forza d’animo fino al triste giorno della sua fucilazione.
Di Francesco Biancotto così scriveva Giorgio Bolognesi ne “Il Mattino del Popolo” del 14 dicembre 1946: « E’ uno dei 13 fucilati di Cà Giustinian, dove domenica sarà scoperta una lapide a ricordo del loro olocausto. Diventammo amici alla prima stretta di mano. In cella con noi c’era un ragazzetto di tredici anni, Rolando, arrestato per una bricconata, Francesco era il suo protettore, Rolando in cambio gli preparava la branda alla sera. Quando il buio impediva la lettura, Francesco si alzava e veniva alla mia branda a prendermi per la passeggiata. La passeggiata del pomeriggio era basata su un numero infinito di giri di quattordici passi, sullo stretto spazio tra le brande. A contarli ci pensava il prigioniero della cella sottostante. Nei primi giri gli dava disposizioni perché gli altri cinque abitanti prendessero posto nelle brande, si fermava un istante e invitava chi aveva fede ad unirsi in una preghiera strana che aveva letto sul libro dei “Tre Moschettieri”. Essa diceva: Ma verrà il Dio della liberazione perché Dio è giusto e forte se chi vi spera avrà delusione avrà pur sempre il martirio e la morte.
Era stato Francesco a leggerla per primo e lui l’aveva insegnata agli altri. Ancora oggi nella parete della cella 108 devono essere leggibili quelle parole. Assolto il dovere religioso, lui stesso rimboccava la branda del piccolo Rolando, e di nuovo riprendeva la passeggiata con me. Era allora che lui mi raccontava della notte dell’arresto, del tradimento dei compagni lasciati fuori, della certezza della condanna a morte temperata da una leggera speranza di liberazione che si spegneva ogni giorno di più. Andavamo sotto braccio avanti ed indietro, finchè le gambe non ci costringevano a sederci sull’orlo della branda a continuare le nostre confidenze con voce sommessa. Mi parlava della sua casa, della sua famiglia, (e ricordava con affetto la buona sorella) e con affetto parlava dei suoi compagni e perfino di chi lo aveva tradito, parlava della notte della dinamite, degli interrogatori, della sua fede politica. E allora mi confessava i suoi dubbi sulle teorie politiche; mi confessava di ammirare Mazzini perché in Mazzini sentiva parlare di Dio e di libertà. Mi parlava del suo lavoro, del suo padrone che amava come un maestro, e del dispiacere di non poter più continuare ad apprendere l’arte che amava.
D’ANDREA ERNESTO. Era un operaio di Musile di poco più di trent’anni: era nato infatti il 10 dicembre 1913. Risiedeva però a San Donà di Piave ed era occupato a Marghera. Fu uno dei primi organizzatori del movimento clandestino della nostra zona; comandò fino al momento del suo arresto un Gruppo di Azione Patriottica con il quale prese parte a numerose e rischiose imprese. Anima intrepida, dal carcere di Venezia non tralasciava occasione per incitare i compagni alla lotta. Il suo ardimento venne meno solo il giorno in cui egli cadde sotto il piombo fratricida, sulle rovine ancor fumanti di Cà Giustinian, assieme con gli altri dodici compagni di sventura. Commoventi sono le poche righe che riuscì a scrivere e a far pervenire ai suoi cari: « Saluti e baci a tutti. Siate forti come lo sono il. Ciao alla mamma, al babbo a tutti, a Maria, a Ghidetti ».
FELISATI GIOVANNI. Di Carpenedo, è una delle più belle figure della resistenza mestrina. Anima nobile e generosa, fin dall’otto settembre di era prodigato in ogni modo per organizzare i primi nuclei di combattenti della libertà nella zona di Mestre e di Carpenedo, ma questa sua attività fu stroncata pochi mesi dopo con l’arresto: gli fu trovato in casa materiale esplosivo. In carcere ebbe un comportamento ammirevole; e per quanto nessuna attività delittuosa fosse emersa a suo carico, tanto che le autorità repubblichine erano propense al suo rilascio, pur tuttavia la notte tra il 27 ed il 28 luglio fu visto partire calmo e sereno, assieme con i suoi compagni, verso il suo tragico destino. La notizia della sua morte destò, in quanti lo conoscevano, un senso di vivo e profondo cordoglio. Aveva trentanove anni.
GUSSO ENZO. Sandonatese per nascita, italiano e cristiano di sentire, di professione impiegato, di anni 31, collaborò alla lotta di liberazione nonostante le sue cagionevoli condizioni di salute, partecipandovi attivamente. Imprigionato, sopportò coraggiosamente i maltrattamenti e le sofferenze infertegli in carcere. Anch’egli, con la serenità del martire, cadde eroicamente sotto i colpi del plotone d’esecuzione, fidente nel trionfo degli ideali di bontà e di giustizia per il quali aveva tanto sofferto. Fu a tutti i compagni di esempio e sprone per l’insuperabile consapevole tranquillità di spirito con la quale affrontò il martirio.
GRESSANI ANGELO. Nato ad Ovaro (Udine) il 29 febbraio 1896, coniugato con due figli; era da poco trasferito a Ceggia. Di professione orologiaio, ma dotato di vasta cultura. La sua spiccata personalità s’impose sui compagni, tanto è vero che fu nominato tenente partigiano della Brigata “Piave”. Sappiamo inoltre che contribuì alla lotta di liberazione nazionale riparando armi e dando il suo valido aiuto ai compagni; che era un instancabile lavoratore e che in carcere mantenne un comportamento fermo e dignitoso. La sua gloriosa fine all’età di quarantotto anni resterà un fulgido esempio di dedizione al dovere e di amor di Patria.
LEVORIN GUSTAVO. Operaio tipografo, nato a Padova il 6 ottobre 1905. Convinto assertore della lotta senza quartiere al fascismo, non risparmiò fatiche e pericoli pur di vedere un giorno la Patria libera da ogni oppressione politica e sociale. Già provato da cinque anni di reclusione per le sue idee e la sua attività, riprese solo l’8 settembre 1943 con l’animo di sempre ad organizzare a Mestre i primi gruppi armati di operai e contadini. Arrestato nel 1944, non si lasciò mai sfuggire parola che potesse in qualche modo tradire i compagni, ma sopportò le privazioni e le torture del carcere con animo indomito. Affrontò la morte sereno e tranquillo, con la convinzione che il suo sacrificio non sarebbe stato vano.
MOMESSO VIOLANTE. Era un giovane contadino di Noventa di Piave della classe 1923; risiedeva a San Donà di Piave. Fece il suo servizio militare nel Genio guastatori a Verona. Rientrato in famiglia, dopo l’8 settembre, si arruolò subito nella Brigata Piave, partecipando a numerose azioni di sabotaggio delle vie di comunicazione e al trasporto di armi ai combattenti della montagna. Arrestato l’11 gennaio 1944 con gli altri compagni, affrontò il carcere e la morte da eroe. Una lettera autografa scritta dal Momesso alla madre, pochi giorni prima d’immolare la vita sulle macerie di Cà Giustiniani rivela l’intrepida fede di questo giovane nell’idea per la quale combatteva. « Un’idea è un’idea – diceva – e nessuno al mondo sarà capace di troncarla ». Morì infatti con sulle labbra il grido della sua fede: « Viva l’Italia libera! ».
NARDEAN VENCESLAO. Giovane falegname, nato a Noventa di Piave e residente a San Donà. Era un anno più giovane del Momesso e come questi, aveva preso parte alla lotta di liberazione nazionale. Di intelligenza pronta e vivace, svolgeva un’attiva propaganda antifascista. Preparava da solo i manifesti che, sempre senza aiuti, affiggeva un po’ per tutta la città invitando alla lotta ed inneggiando alla libertà. Arrestato, subì il carcere e la morte associato con i suoi compagni di lotta e di avventura.
PERUCH AMEDEO. Era un sandonatese di vecchio stampo, dedito al lavoro dei campi e affezionato alla sua famiglia. Cattolico fervente e praticante, era incapace di far del male. Pur nella sua istintiva bontà, volle anch’egli offrire il suo modesto contributo alla causa della liberazione nazionale ed entrò a far parte della G.A.P. di San Donà con l’incarico di depositario dalle armi. Scoperto, riuscì a fuggire, ma venne arrestata la moglie come ostaggio. Saputa la cosa, pur consapevole del pericolo a cui andava incontro, si costituì per liberarla, Ad essa poche ore prima di essere fucilato riusciva a far pervenire le poche parole che qui riportiamo.
« Saluti cara Marcella sono le ultime ore. Tanti baci Peruch Amedeo. Mi saluterai tutti i miei fratelli e cognati ».
TAMAI GIOVANNI. Era nato a San Donà di Piave l’8 febbraio 1924, dove viveva facendo il meccanico, Le misere condizioni della sua famiglia lo costrinsero a lavorare fin da fanciullo, perciò non sapeva né leggere e né scrivere. Prese parte come i compagni alla lotta di liberazione e con essi condivise i pericoli, il carcere e la morte.
TRONCO GIOVANNI. Era un meccanico aggiustatore di San Donà di Piave, coniugato con una figlia che adorava. Quando cadde sotto il piombo fraticida aveva trentanove anni, era del 1905. Era stato arrestato sotto l’accusa d’aver rifornito di viveri ed armi i combattenti della resistenza ed aver aiutato prigionieri inglesi a raggiungere le file partigiane. Mancavano però le prove. Dalla prigionia il suo pensiero corre di frequente alla figlia Tinetta che ha lasciato e che non rivedrà mai più.
« Cara Maria, ti raccomando di essere forte. Ti domando perdono di tutto. Ti raccomando Tinetta e tutti. Addio tuo Giovanni ».
Queste sono le ultime parole rivolte alla moglie da questo intrepido campione della libertà prima di essere fucilato.
Il precipitar degli eventi
[…] Quando nel carcere di Santa Maria Maggiore si sparse la voce dell’attentato dinamitardo di Cà Giustinian, si ebbe la netta sensazione che qualche cosa di grave stava per accadere. Le notizie contradditorie che si diffondevano tra i carcerati ne accrescevano la trepidazione e lo sgomento.
Una cosa sola era certa: qualcuno avrebbe dovuto pagare! La notte che seguì l’attentato passò insonne; venne l’alba del nuovo giorno senza nulla di nuovo fosse avvenuto. Un’aria greve regnava nelle anguste e buie celle di quel luogo di dolore; un triste presentimento stringeva il cuore di tutti, perchè l’attesa è più snervante e dolorosa della sorte stessa. Così passò anche quel giorno, che fu l’ultimo della loro vita.
« Verso la mezzanotte del 27 luglio, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 4 giugno 1945, essi venivano bruscamente svegliati nelle loro celle, invitati a vestirsi e a partire. Partirono per non più ritornare. Alla soglia del carcere, gli assassini li attendevano, quaranta uomini armati di tutto punto contro tredici uomini inermi e legati mani e piedi.
Per giustificare l’eccidio, un simulacro di processo venne tenuto, clandestinamente, in qualche luogo. La sentenza, già preparata in anticipo, venne letta ai morituri nei pressi del luogo dell’esecuzione. E quando l’alba stava per spuntare, ripetute scariche di mitra falciavano i loro poveri corpi, dai quali, come ultima manifestazione di una vita spesa per il bene della Patria, uscì un sol grido: « Viva l’Italia ».
Da quel mattino in cui i Caduti cessarono di essere degli esseri viventi, essi diventarono un simbolo di dedizione al dovere, della volontà di lotta, delle sofferenze e del martirio di tutto un popolo e presero un nome comune: i tredici Martiri di Cà Giustinian ».
Il ricordo
[…] Alla fine del conflitto una delle prime cure di San Donà fu di riportare le salme dei tredici Martiri alla terra per la quale di erano immolati. Tutto il popolo si riversò sulle vie e sulle piazze per l’estremo saluto.
Il libretto in pdf edito a cura dell’Amministrazione Comunale di San Donà di Piave nel 1964 « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° anniversario della Resistenza” è possibile scaricarlo a questo link: SCARICA