« Verso la mezzanotte del 27 luglio, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 4 giugno 1945, essi venivano bruscamente svegliati nelle loro celle, invitati a vestirsi e a partire. Partirono per non più ritornare. Alla soglia del carcere, gli assassini li attendevano, quaranta uomini armati di tutto punto contro tredici uomini inermi e legati mani e piedi.
Per giustificare l’eccidio, un simulacro di processo venne tenuto, clandestinamente, in qualche luogo. La sentenza, già preparata in anticipo, venne letta ai morituri nei pressi del luogo dell’esecuzione. E quando l’alba stava per spuntare, ripetute scariche di mitra falciavano i loro poveri corpi, dai quali, come ultima manifestazione di una vita spesa per il bene della Patria, uscì un sol grido: « Viva l’Italia ».
Da quel mattino in cui i Caduti cessarono di essere degli esseri viventi, essi diventarono un simbolo di dedizione al dovere, della volontà di lotta, delle sofferenze e del martirio di tutto un popolo e presero un nome comune: i Tredici Martiri di Cà Giustinian ».
La commemorazione solenne in occasione del ventesimo anniversario
Il libretto che contiene il testo dell’incip è stato editato dal Comune di San Donà di Piave in occasione di una commemorazione solenne che si tenne il 6 settembre 1964 in occasione del ventesimo anniversario. Ai Tredici Martiri e a quel libretto abbiamo già dedicato un post « San Donà di Piave, il sacrificio dei Tredici Martiri », con la possibilità di scaricare il libretto stesso a questo link: « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° anniversario della Resistenza ». A seguire invece l’invito spedito alle autorità per la manifestazione del 6 settembre 1964:
L’attentato di Cà Giustinian
L’attentato che poi portò alla rappresaglia e all’uccisione dei Tredici Martiri avvenne il 26 luglio 1944. L’obiettivo a Venezia era la sede del Comando provinciale della Guardia nazionale repubblicana (Gnr). In quel palazzo aveva sede anche la polizia segreta del Partito fascista (Upi), oltre che un ufficio di propaganda tedesco, che risulterà l’anello debole che permise il successo dell’azione. Un obiettivo altamente simbolico che vide il crollo dei cinque piani del palazzo con numerose vittime, tra cui due militari tedeschi. Racconta Morena Biason nel suo libro (1): « …fu acquistato il baule che doveva servire allo scopo, predisposto il congegno di accensione, preparata la bomba dentro la cassa e, la mattina del 26, Varisco si recò presso l’abitazione in cui la cassa era custodita, lo studio dello scultore Velluti, e mise in funzione il congegno, dopodichè Velluti scrisse l’indirizzo tedesco sul coperchio della cassa che venne caricata sulla barca che la doveva portare a destinazione: la portarono “Kim” e un altro. I due si erano presentati al corpo di guardia del Comando provinciale della Gnr di Venezia preceduti da tre soldati tedeschi insieme ai quali, dopo aver dichiarato di dover consegnare il baule all’ufficio propaganda tedesco, avevano esibito i loro documenti personali ed erano stati fatti entrare nello stabile. Dato che l’ufficio non era ancora aperto, la cassa era stata lasciata in custodia al corpo di guardia e i due portatori se ne erano andati dicendo che sarebbero tornati poco dopo. Lo scoppio della bomba aveva provocato il crollo completo dei cinque piani dell’edificio, come voleva Varisco, solo nella parte posteriore. In seguito erano stati individuati i tre soldati tedeschi che avevano accompagnato Kim e il suo compagno all’interno del palazzo ed era stato appurato che erano stati sorpresi nella loro buona fede….»
L’alba del 28 luglio 1944
Il giorno ventisette venne decisa la rappresaglia, tredici furono i prigionieri politici del carcere di Santa Maria Maggiore che vennero giustiziati, quasi tutti erano sandonatesi. Racconta Morena Biason nel suo libro (1): « La sera del 27 un gruppo di militi della Gnr si era portato presso la sede dei carabinieri di San Zaccaria, da dove aveva ordinato il trasferimento presso di loro, dalle carceri di Santa Maria Maggiore, dei tredici prigionieri scelti per la rappresaglia. I tredici, che credevano di andare incontro ad un processo, furono subito inviati a San Zaccaria, dove trascorsero solo una parte della notte, perchè prestissimo in sette, legati con una fune, vennero portati con un motoscafo sulle macerie di Cà Giustinian e, alle 5 del mattino, uccisi a colpi di mitra e di pistola. Le altre sei vittime, anch’esse legate, erano state fatte giungere sul posto a piedi, dalla parte di San Moisè. Solo alle 9 del giorno successivo le salme furono rimosse e trasportate con una peata al cimitero, senza che fosse possibile rivolger loro qualsiasi tipo di onoranza funebre. Avevano lasciato Santa Maria Maggiore intorno alla mezzanotte e, verso le 6, racconta Giuseppe Gaddi, in carcere all’epoca con i Tredici, la guardia addetta al magazzino già si recava a ritirare gli oggetti che avevano lasciato in cella. Il plotone di esecuzione era comandato dal capitano della Gnr Waifro Zani che aveva fatto di tutto per trattenere i tredici in carcere e non farli partire per la Germania, nonostante fossero già ingaggiati con regolare contratto per recarvisi a lavorare. Il capitano dopo che il plotone di esecuzione aveva già eseguito l’ordine impartitogli, avrebbe sparato un colpo di rivoltella contro ciascuno dei primi sette martiri… »
Gli altri martiri presenti nel cimitero sandonatese
Accanto ai Tredici Martiri sandonatesi, nel cimitero cittadino vi è una seconda tomba che accoglie altre vittime sandonatesi di quel cruento periodo che vide gli uni contro gli altri, talvolta con divisioni profonde nelle proprie stesse famiglie. Un periodo nel quale morire era un attimo e anche quando si pensava di essere nel giusto, il destino decideva altrimenti. E’ il caso di Verino Zanutto al quale il solo perorare la causa di alcuni conoscenti catturati da un gruppo di partigiani trevigiani costò la vita seguendo così lo stesso destino di coloro che avrebbe voluto salvare in quanto egli stesso partigiano. Con Zanutto morì impiccato anche Primo Biancotto che lo accompagnava, fratello del Francesco che fu fucilato qualche mese dopo a Cà Giustinian. Flavio Stefani, Zanin Casimiro e Giodo Bortolazzi, tutti di Calvecchia, nel fiore dei loro anni morirono nei pressi di Pramaggiore. Caddero prigionieri dei nazisti comandanti dal tenente Bloch durante un rastrellamento a Blessaglia a seguito di alcuni sabotaggi alla linea ferroviaria. Dopo essere stati torturati furono fatti passare in rassegna alla popolazione locale per segnalare qualche loro fiancheggiatore, rimasti in silenzio furono impiccati agli alberi che costeggiavano la via Postumia il 27 novembre 1944. Al Zanin cedette la corda, lo stesso Bloch lo giustiziò a colpi di pistola dopo che una prima pistola si inceppò. Per tre giorni vennero lasciati lì a monito della popolazione locale. Padre e figlia sono invece Carozzani Luigi e Carozzani Cesira. Il padre trasferitosi in Friuli riforniva di viveri le formazioni partigiane entrando nelle mire dei tedeschi, anche i figli ben presto seguirono la stessa sorte tanto che le figlie Elvira e Cesira vennero catturate e inviate in Germania. Quando riuscirono a rientrare a San Donà il padre era già caduto in un conflitto a fuoco con i tedeschi in Friuli mentre Cesira non sopravvisse alla tubercolosi. Carlo Vizzotto fu uno di quei ragazzi che vennero arruolati forzosamente nelle fila dell’esercito di Salò. Inviato in Germania, al suo ritorno disertò e si aggregò ai gruppi partigiani liguri dove si distinse particolarmente prima di cadere in combattimento. Guerrato Luigi mori invece durante un attacco al presidio tedesco di Noventa il 28 aprile 1945.
I martiri della stazione
All’ultimo dei sandonatesi presenti nella tomba dei Martiri della Libertà, Bruno Balliana, è legato uno degli episodi che sono rimasti nella triste storia di San Donà di quegli anni. «… La sera del 10 dicembre la squadra del Curasì, il comandante del presidio delle Brigate Nere di San Donà di Piave, prelevò dalle carceri mandamentali di San Donà Bonfante Angelo, Bonfante Bruno, Scardellato Giuseppe e Balliana Bruno, che vi erano stati in precedenza ristretti per renitenza alla leva o attività antifascista, e li condusse alla sede delle SS Germaniche, dove si trovava detenuto il conte Gustavo Badini, anch’egli arrestato per attività partigiana. A notte i cinque detenuti furono fatti uscire da Villa Amelia, sede delle SS e instradati per Noventa di Piave. La scorta era costituita da un reparto, forse di 60 uomini, al comando del tenente Haupt, e da un plotone comandato da Curasì. Questi diede in seguito ordine di mutare la formazione, e cioè fece disporre i detenuti in linea di fronte, l’uno affianco all’altro: seguiva immediatamente, a una decina di passi, il plotone anzidetto. Era stato percorso circa mezzo chilometro fuori dell’abitato, quando il Curasì, dato l’alt, diede ordine ai detenuti di voltarsi e intimò ai suoi uomini: fuoco! Seguì una violenta raffica da parte del plotone, che cagionò la morte immediata del Baldini, del Scardellato, del Balliana, e di Bonfante Angelo: il fratello di quest’ultimo, Bonfante Bruno, rimase invece miracolosamente ferito alle natiche ed ebbe il consapevole ardimento di buttarsi subito fuori della strada e darsi alla fuga, riuscendo, benchè inseguito, a sottrarsi all’eccidio e alla detenzione. Processato a fine guerra, Curasì venne condannato alla fucilazione alla schiena, il suo secondo Fenzo all’ergastolo, a trent’anni i sei componenti del plotone. »
Per approfondimenti sui Tredici Martiri e la resistenza sandonatese: (1) « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007)
San Donà di Piave, medaglia d’argento al Valor Militare per la guerra di Liberazione: «Fiera Città di prima linea già duramente provata dalla guerra, subito dopo l’armistizio sosteneva con decisione la lotta di liberazione, dando centinaia di valorosi combattenti alle formazioni partigiane e pagando sanguinoso tributo di vittime alla repressione tedesca. Duramente colpita anche da bombardamenti aerei non piegava la decisa volontà di resistenza. Insorgeva in presenza di ben seimila soldati tedeschi, liberava il suo territorio tre giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate, dopo aver catturati tremilacinquecento prigionieri. San Donà di Piave, 1943–1945» — 12 dicembre 1952
Racconta Domenico Savio Teker nel suo libro “Storia cristiana di un popolo”: « Il 9 agosto il conteggio dei morti aumenta. Due partigiani vengono uccisi dai tedeschi dietro il Municipio, vengono fucilati senza dar loro il conforto di un prete. Lo stesso giorno il paese è attraversato da un camioncino che scarica davanti alla sede del fascio il corpo di un “disertore” di Musile. Il giorno dopo alle cinque di mattina i tre vengono sepolti “senza corteo e senza pompe”. Il sacerdote insieme a loro benedice anche la salma di un partigiano di Chioggia che era stato ferito a morte in uno dei rastrellamenti della settimana. ».
I due partigiani fucilati all’alba
Nei pressi del Municipio alle prime luci dell’alba furono fucilati Agostino Visentin, di Musile di Piave e Matteo Corridore, di San Giovanni Rotondo. Preziosi dettagli si desumono dal libro di Morena Biason “Un soffio di libertà”. In una relazione della brigata “Piave” viene segnalata la perdita di un elemento del gruppo, Agostino Visentin (tra parentesi le correzioni dell’autrice al documento dell’epoca) « In data 5 [ma forse 7] agosto 1944 in uno scontro sostenuto da alcuni compagni in località San Michele del 4°, contro due camion di SS e g.n.r. si lamenta la cattura in seguito a ferimento del compagno Visentin Augusto [ma Agostino] successivamente seviziato in ripetuti interrogatori e conseguentemente fucilato all’alba del giorno 11/8/1944 [ma 9/8/1944] dalle SS nel cortile delle scuole di S. Donà di Piave. [pare che il 9 luglio 1944] avendo trovato armi nascoste elementi del btg. San Marco – X Mas [abbiano] incendiato la baracca dei Visentin, adibita ad uso abitazione e magazzino, bruciando effetti di vestiario, letti grano vino botti e materiale agricolo. Asportarono inoltre n. 16 coperte, L. 25000 in contanti e banchettarono per una settimana nella casa di abitazione del Visentin fino ad esaurimento delle provviste del maiale.»
L’azione che portò alla cattura
Un altro partigiano che si trovava con loro, Pino Rossi, riuscì a salvarsi dal plotone di esecuzione. Pino Rossi, Agostino Visentin e Matteo Corridore erano stati catturati nella stessa circostanza, nel corso di un’azione, a cui aveva partecipato tra gli altri anche Luigi Amedeo Biason, svoltasi nei primi giorni di agosto, con tutta probabilità il 7.
Nella versione dei fatti fornita da Biason e Rossi si specifica anche il motivo dell’attacco ai partigiani, dicendo che l’azione in seguito alla quale era avvenuta la loro cattura si era verificata dopo circa un’ora dal disarmo di un piccolo gruppo di militari del battaglione San Marco, effettuato dai partigiani in località Musile di Piave. Entrambe le testimonianze riportano la notizia della morte di due partigiani durante lo scontro, ma nessuna delle due ne specifica i nomi.
Matteo Corridore da San Giovanni Rotondo
Il soldato Matteo Corridore, che dopo l’armistizio non aderì alla Repubblica di Salò passando tra le fila partigiane, venne dunque fucilato nell’agosto 1944 a San Donà di Piave. Di lui vennero chieste informazioni dal suo paese natale sin dal 14 agosto 1945. Esiste documentazione, citata nelle note del libro di Morena Biason, di una richiesta di informazioni del sindaco del paese pugliese a quello omologo di San Donà con relativa risposta controfirmata anche dall’Ufficiale sanitario. Le vicende del soldato Corridore sono salite agli onori della cronaca in questi giorni quando finalmente si è risaliti al luogo dove erano sepolti i suoi poveri resti. Con una cerimonia ufficiale al Comune di San Donà di Piave gli stessi sono stati raccolti in un urna e consegnati al sindaco di San Giovanni Rotondo e ai famigliari del Corridore, così da riportarli in Puglia per festeggiare nel migliore dei modi il 25 aprile anche nel ricordo del sacrificio di questo loro compaesano.
In un triste manifesto del 1944 la fucilazione dei due partigiani
Di quell’episodio esiste anche la documentazione del manifesto che le forze di occupazione erano solite affiggere nelle varie città a monito della sorte che riservavano a coloro che a loro si opponevano. Il testo in italiano e in tedesco così recitava:
COMANDO PIAZZA
S. Donà di P. – Noventa di P. – Musile di P.
AVVISO
Il 7 agosto 1944 – XXII, nel pomeriggio sulla strada Mestre – San Donà di Piave auto dell’Esercito Tedesco e Italiane, furono assalite e prese a fucilate da terroristi.
I prigionieri presi sono di nazionalità italiana:
1. – Visentin Agostino da Musile di Piave
2. – Corridore Matteo da S. Giovanni Rotondo (Foggia)
E sono stati fucilati stamane all’alba.
Il popolo viene ancora avvisato che chi darà aiuti od ospitalità ai terroristi – consegna di generi alimentari, denaro, armi e alloggio – verrà punito severamente.
Le case nelle quali i terroristi saranno trovati e avranno ricevuti aiuti verranno bruciate. Gli abitanti verranno portati in campi di concentramento di lavoro in Germania.
IL COMANDANTE LA PIAZZA
ORTSKOMMANDANTUR S. Donà, 9-8
S. Donà – Noventa di Piave
Am 7-8-44 nachmittags wurden auf der Strasse Mestre – S. Donà Fahrzeuge der deutschen und italienischen Wehrmacht durch Terroristen beschossen.
Die gefangen genommenen italienischem Staatsangehoringen
1. – Visentin, Augustino aus Musile di Piave
2. – Corridore, Matteo aus S. Giovanni Rotondo (Foggia)
Wurden heute in fruhen Morgenstunden erschossen.
Die Bevolkerung wird nochmals darauf hingewiesen, der Terroristen, Lieferung von Lebensmittel, Geld und Waffen sowie Unterbringung aufs scharfste bestraft warden.
Gehofte, in denen Terroristen aufgenommen und Unterstutzung finden, warden niedergebrannt. Die Bewohner in Zwrangsarbeifslager abtransportiert.
DER ORTSKOMMANDANT
Per ulteriori approfondimenti: 1. “Un soffio di libertà” di Morena Biason (Nuova Dimensione, Portogruaro, 2007); 2. “Storia cristiana di un popolo – San Donà di Piave” di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. “San Donà di Piave” di Dino Cagnazzi (Centro Stampa, Oderzo, 1995).
Tratto dalla « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° Anniversario della Resistenza » (6 settembre 1964)
Motivazione della Medaglia d’Argento al V.M.
« Fiera città di prima linea, già duramente provata dalla guerra, subito dopo l’armistizio sosteneva con decisione la lotta di liberazione, dando centinaia di valorosi combattenti alle formazioni partigiane e pagando sanguinoso tributo di vittime alla repressione tedesca. Duramente colpita anche da aerei non piegava la decisa volontà di resistenza. Insorgeva in presenza di ben seimila tedeschi e liberava il suo territorio tre giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate, dopo aver catturati tremi cinquecento prigionieri »
San Donà di Piave, settembre 1943 – 25 aprile 1945
L’introduzione del Sindaco Dott. Franco Pilla
A nome della Civica Amministrazione presento queste modeste pagine che si propongono di ricordare i 13 Martiri nel ventennale del Loro sacrificio a tutti coloro che vissero il Secondo Risorgimento e di FarLa conoscere ai giovani, a quelli che sono venuti quando l’alba della Libertà era già risorta sulla nostra Città e sulla Patria. Il 28 luglio 1944 a Cà Giustinian vennero fucilati per nessun delitto, per nessun tradimento, ma solo per aver scelto la libertà e l’onore: Attilio BASSO, Stefano BERTAZZOLO, Francesco BIANCOTTO, Ernesto D’ANDREA, Giovanni FELISATI, Angelo GRESSANI, Enzo GUSSO, Gustavo LEVORIN, Violante MOMESSO, Venceslao NARDEAN, Amedeo PERUCH, Giovanni TAMAI e Giovanni TRONCO. Non tutti erano sandonatesi; Gressani di Ceggia, Felisati di Mestre e Levorin di Padova. Ma da allora e per sempre nostri Concittadini, perché accomunati dallo stesso sacrificio. L’Amministrazione Civica nel 20° anniversario dell’eccidio, che, nelle immani proporzioni , ha toccato il vertice della tragedia vissuta dalla Patria in una delle ore più oscure della Sua storia, ha dedicato la giornata del 6 settembre per onorare, con i 13 Martiri, tutti i Caduti della Resistenza e per celebrare i grandi valori ideali che la Resistenza rappresentò, nella lotta contro la dittatura per la conquista della Libertà. Non sarebbe patrimonio vero, consapevole, operante, la libertà in Italia se non fosse stata conquistata dal coraggio, dalla fede, dall’eroismo del sacrificio dei suoi figli migliori; da coloro che dimostrarono di credere nella Libertà e nella Democrazia, con il sangue, che ci insegnarono un modo nuovo di fedeltà agli ideali. Così intendiamo ricordare i 13 Martiri e con Loro tutta la Resistenza Sandonatese. Si, anche gli altri: Attilio RIZZO, animatore e capo, Medaglia d’Argento al Valor Militare, Giovanni BARON, suo collaboratore, Medaglia di Bronzo al Valor Militare, Primo BIANCOTTO, Carlo VIZZOTTO, Verino ZANUTTO, Luigi GUERRATO, Luigi CAROZZANI, Bruno BALLIANA, Giodo BORTOLAZZI, Flavio STEFANI, Casimiro ZANIN; Antonio FERRO, Erminio ZANE, Esterino DALLA FRANCESCA, Cesira ed Elvira CAROZZANI, la Brigata Eraclea, la Brigata Piave, Reparti dell’Esercito della Libertà, nati ed organizzati nella nostra amatissima terra del Basso Piave, dove mai il fascismo era riuscito a piantare radici profonde. Per quanto, mentre ancor oggi ci raccogliamo accomunati in un sentimento di immensa pietà e profonda commozione attorno a queste 13 salme sacrificate dall’odio e dalla violenza, eleviamo insieme la nostra protesta di popolo civile contro la tirannide e la dittatura. Per questo ancora, sentiamo il diritto di pronunciare l’implacabile condanna, poiché conosciamo attraverso il sacrificio dei nostri Martiri quale sia il prezzo che un popolo deve pagare per la conquista della Libertà. Le celebrazioni del 6 settembre costituiscono per tutti un profondo e grave ammonimento ad essere degni di questo bene inestimabile.
Il Sindaco Dott. Franco Pilla San Donà di Piave, 6 settembre 1964
I Tredici Martiri
Sono ormai trascorsi vent’anni dal giorno in cui il plotone d’esecuzione stroncava la vita ai tredici eroici combattenti della libertà, undici dei quali figli della nobile terra di San Donà di Piave, e il ricordo di quei luttuosi avvenimenti ci riempie ancora l’animo di profonda costernazione. Ogni idea grande per vivere, prosperare e trovare pratica attuazione ha bisogno di essere alimentata dal sangue ed il sangue non mancò di scorrere e di bagnare ogni lembo della nostra Patria martoriata, percorsa da eserciti stranieri e dilaniata dalla guerra civile. Nei tristi giorni che seguirono alla disfatta del nostro esercito, tutti i partiti antifascisti serrarono le file, si strinsero insieme per resistere al germanico invasore che completava l’opera di distruzione materiale e morale della Patria. Uomini di ogni credo politico e d’ogni classe sociale, popolani, operai, contadini, impiegati ed intellettuali non esitarono a gettarsi nella mischia, senza badare al rischio, con la coscienza serena di compiere un imprescindibile dovere. « Appena l’invasione nazista fu un fatto compiuto, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 28 luglio 1945, appena strappatosi la maschera di alleato, il tedesco riapparve agli Italiani tutti sotto le sue vere spoglie di nemico spietato del nostro paese; appena dietro le sue baionette ricominciarono ad innalzarsi le nere insegne della morte che si speravano abbattute per sempre il 25 luglio, essi, i futuri Martiri di Cà Giustinian, non ebbero un momento di esitazione: bisognava combattere, bisognava impugnare un’arma per la difesa della propria terra, per la conquista della indipendenza e della libertà perdute. « Respingere l’aggressione, da qualunque parte essa provenga », era stato l’ultimo incerto e timido ordine che essi avevano sentito impartire all’esercito ». Quest’ordine fu da loro raccolto ed essi pagarono con la vita la loro dedizione al dovere e alla Patria. Fra la gloriosa schiera dei combattenti della libertà brillano i nomi dei tredici Martiri di Cà Giustinian.
BASSO ATTILIO. Era un giovane di ventitre anni di San Donà di Piave, dov’era nato il 9 settembre 1922; fattorino di banca e coniugato con un figlio. Di salute cagionevole, cattolico praticante ed alieno ad ogni avventura. Come gli altri, aveva dato la sua collaborazione alla lotta clandestina, e per questo fu arrestato e condotto nelle carceri di S. Maria Maggiore, inconsapevole della triste sorte che lo attendeva. « Era tanto felice negli ultimi suoi giorni, scrive G. Galdi, tanto felice, malgrado le sue condizioni fisiche; aveva avuto notizia che gli era nato un bambino, un bambino che ancora non conosceva, che non avrebbe mai conosciuto ma del quale parlava sempre ».
BERTAZZOLO STEFANO. Aveva venticinque anni quando immolò la sua vita nella lotta di liberazione nazionale. Era nato a Carrara San Giorgio il 6 febbraio 1919, ma risiedeva con la famiglia a San Donà di Piave. Contadino di origine, era ritornato dalla guerra in condizioni tali da non poter attendere proficuamente al duro lavoro della terra. Benchè invalido di prima classe, era riuscito a farsi assumere in qualità di impiegato presso uno zuccherificio. Fu anch’egli arrestato per la sua attività partigiana e trascorse i lunghi mesi di prigionia sul letto, nell’infermeria, in attesa della liberazione. La sorte volle invece che scontasse con la morte il suo amor di Patria.
BIANCOTTO FRANCESCO. Falegname di professione, era nato a San Donà di Piave il 2 aprile 1926 ed aveva aderito, nel fior degli anni, con slancio, alla G.A.P. (Gruppo di Azione Patriottica) della Città, prodigandosi in ogni modo per rendersi utile ai compagni di lotta. Cavaliere senza macchia e senza paura, non permetteva che si toccasse un innocente o che si recasse danno ai suoi concittadini. Basterebbe averlo visto una notte con che sprezzo del pericolo rimosse una mina dai binari quando s’accorse che, invece d’una tradotta militare, stava per transitarvi un treno passeggeri, per comprendere la tempra di questo giovane. «Piuttosto di far morire un civile, diceva ad impresa avvenuta, preferirei perdere la vita ». Arrestato il 13 gennaio 1944, tradotto nelle carceri di Venezia, dove diede prova di forza d’animo fino al triste giorno della sua fucilazione. Di Francesco Biancotto così scriveva Giorgio Bolognesi ne “Il Mattino del Popolo” del 14 dicembre 1946: « E’ uno dei 13 fucilati di Cà Giustinian, dove domenica sarà scoperta una lapide a ricordo del loro olocausto. Diventammo amici alla prima stretta di mano. In cella con noi c’era un ragazzetto di tredici anni, Rolando, arrestato per una bricconata, Francesco era il suo protettore, Rolando in cambio gli preparava la branda alla sera. Quando il buio impediva la lettura, Francesco si alzava e veniva alla mia branda a prendermi per la passeggiata. La passeggiata del pomeriggio era basata su un numero infinito di giri di quattordici passi, sullo stretto spazio tra le brande. A contarli ci pensava il prigioniero della cella sottostante. Nei primi giri gli dava disposizioni perché gli altri cinque abitanti prendessero posto nelle brande, si fermava un istante e invitava chi aveva fede ad unirsi in una preghiera strana che aveva letto sul libro dei “Tre Moschettieri”. Essa diceva: Ma verrà il Dio della liberazione perché Dio è giusto e forte se chi vi spera avrà delusione avrà pur sempre il martirio e la morte. Era stato Francesco a leggerla per primo e lui l’aveva insegnata agli altri. Ancora oggi nella parete della cella 108 devono essere leggibili quelle parole. Assolto il dovere religioso, lui stesso rimboccava la branda del piccolo Rolando, e di nuovo riprendeva la passeggiata con me. Era allora che lui mi raccontava della notte dell’arresto, del tradimento dei compagni lasciati fuori, della certezza della condanna a morte temperata da una leggera speranza di liberazione che si spegneva ogni giorno di più. Andavamo sotto braccio avanti ed indietro, finchè le gambe non ci costringevano a sederci sull’orlo della branda a continuare le nostre confidenze con voce sommessa. Mi parlava della sua casa, della sua famiglia, (e ricordava con affetto la buona sorella) e con affetto parlava dei suoi compagni e perfino di chi lo aveva tradito, parlava della notte della dinamite, degli interrogatori, della sua fede politica. E allora mi confessava i suoi dubbi sulle teorie politiche; mi confessava di ammirare Mazzini perché in Mazzini sentiva parlare di Dio e di libertà. Mi parlava del suo lavoro, del suo padrone che amava come un maestro, e del dispiacere di non poter più continuare ad apprendere l’arte che amava.
D’ANDREA ERNESTO. Era un operaio di Musile di poco più di trent’anni: era nato infatti il 10 dicembre 1913. Risiedeva però a San Donà di Piave ed era occupato a Marghera. Fu uno dei primi organizzatori del movimento clandestino della nostra zona; comandò fino al momento del suo arresto un Gruppo di Azione Patriottica con il quale prese parte a numerose e rischiose imprese. Anima intrepida, dal carcere di Venezia non tralasciava occasione per incitare i compagni alla lotta. Il suo ardimento venne meno solo il giorno in cui egli cadde sotto il piombo fratricida, sulle rovine ancor fumanti di Cà Giustinian, assieme con gli altri dodici compagni di sventura. Commoventi sono le poche righe che riuscì a scrivere e a far pervenire ai suoi cari: « Saluti e baci a tutti. Siate forti come lo sono il. Ciao alla mamma, al babbo a tutti, a Maria, a Ghidetti ».
FELISATI GIOVANNI. Di Carpenedo, è una delle più belle figure della resistenza mestrina. Anima nobile e generosa, fin dall’otto settembre di era prodigato in ogni modo per organizzare i primi nuclei di combattenti della libertà nella zona di Mestre e di Carpenedo, ma questa sua attività fu stroncata pochi mesi dopo con l’arresto: gli fu trovato in casa materiale esplosivo. In carcere ebbe un comportamento ammirevole; e per quanto nessuna attività delittuosa fosse emersa a suo carico, tanto che le autorità repubblichine erano propense al suo rilascio, pur tuttavia la notte tra il 27 ed il 28 luglio fu visto partire calmo e sereno, assieme con i suoi compagni, verso il suo tragico destino. La notizia della sua morte destò, in quanti lo conoscevano, un senso di vivo e profondo cordoglio. Aveva trentanove anni.
GUSSO ENZO. Sandonatese per nascita, italiano e cristiano di sentire, di professione impiegato, di anni 31, collaborò alla lotta di liberazione nonostante le sue cagionevoli condizioni di salute, partecipandovi attivamente. Imprigionato, sopportò coraggiosamente i maltrattamenti e le sofferenze infertegli in carcere. Anch’egli, con la serenità del martire, cadde eroicamente sotto i colpi del plotone d’esecuzione, fidente nel trionfo degli ideali di bontà e di giustizia per il quali aveva tanto sofferto. Fu a tutti i compagni di esempio e sprone per l’insuperabile consapevole tranquillità di spirito con la quale affrontò il martirio.
GRESSANI ANGELO. Nato ad Ovaro (Udine) il 29 febbraio 1896, coniugato con due figli; era da poco trasferito a Ceggia. Di professione orologiaio, ma dotato di vasta cultura. La sua spiccata personalità s’impose sui compagni, tanto è vero che fu nominato tenente partigiano della Brigata “Piave”. Sappiamo inoltre che contribuì alla lotta di liberazione nazionale riparando armi e dando il suo valido aiuto ai compagni; che era un instancabile lavoratore e che in carcere mantenne un comportamento fermo e dignitoso. La sua gloriosa fine all’età di quarantotto anni resterà un fulgido esempio di dedizione al dovere e di amor di Patria.
LEVORIN GUSTAVO. Operaio tipografo, nato a Padova il 6 ottobre 1905. Convinto assertore della lotta senza quartiere al fascismo, non risparmiò fatiche e pericoli pur di vedere un giorno la Patria libera da ogni oppressione politica e sociale. Già provato da cinque anni di reclusione per le sue idee e la sua attività, riprese solo l’8 settembre 1943 con l’animo di sempre ad organizzare a Mestre i primi gruppi armati di operai e contadini. Arrestato nel 1944, non si lasciò mai sfuggire parola che potesse in qualche modo tradire i compagni, ma sopportò le privazioni e le torture del carcere con animo indomito. Affrontò la morte sereno e tranquillo, con la convinzione che il suo sacrificio non sarebbe stato vano.
MOMESSO VIOLANTE. Era un giovane contadino di Noventa di Piave della classe 1923; risiedeva a San Donà di Piave. Fece il suo servizio militare nel Genio guastatori a Verona. Rientrato in famiglia, dopo l’8 settembre, si arruolò subito nella Brigata Piave, partecipando a numerose azioni di sabotaggio delle vie di comunicazione e al trasporto di armi ai combattenti della montagna. Arrestato l’11 gennaio 1944 con gli altri compagni, affrontò il carcere e la morte da eroe. Una lettera autografa scritta dal Momesso alla madre, pochi giorni prima d’immolare la vita sulle macerie di Cà Giustiniani rivela l’intrepida fede di questo giovane nell’idea per la quale combatteva. « Un’idea è un’idea – diceva – e nessuno al mondo sarà capace di troncarla ». Morì infatti con sulle labbra il grido della sua fede: « Viva l’Italia libera! ».
NARDEAN VENCESLAO. Giovane falegname, nato a Noventa di Piave e residente a San Donà. Era un anno più giovane del Momesso e come questi, aveva preso parte alla lotta di liberazione nazionale. Di intelligenza pronta e vivace, svolgeva un’attiva propaganda antifascista. Preparava da solo i manifesti che, sempre senza aiuti, affiggeva un po’ per tutta la città invitando alla lotta ed inneggiando alla libertà. Arrestato, subì il carcere e la morte associato con i suoi compagni di lotta e di avventura.
PERUCH AMEDEO. Era un sandonatese di vecchio stampo, dedito al lavoro dei campi e affezionato alla sua famiglia. Cattolico fervente e praticante, era incapace di far del male. Pur nella sua istintiva bontà, volle anch’egli offrire il suo modesto contributo alla causa della liberazione nazionale ed entrò a far parte della G.A.P. di San Donà con l’incarico di depositario dalle armi. Scoperto, riuscì a fuggire, ma venne arrestata la moglie come ostaggio. Saputa la cosa, pur consapevole del pericolo a cui andava incontro, si costituì per liberarla, Ad essa poche ore prima di essere fucilato riusciva a far pervenire le poche parole che qui riportiamo. « Saluti cara Marcella sono le ultime ore. Tanti baci Peruch Amedeo. Mi saluterai tutti i miei fratelli e cognati ».
TAMAI GIOVANNI. Era nato a San Donà di Piave l’8 febbraio 1924, dove viveva facendo il meccanico, Le misere condizioni della sua famiglia lo costrinsero a lavorare fin da fanciullo, perciò non sapeva né leggere e né scrivere. Prese parte come i compagni alla lotta di liberazione e con essi condivise i pericoli, il carcere e la morte.
TRONCO GIOVANNI. Era un meccanico aggiustatore di San Donà di Piave, coniugato con una figlia che adorava. Quando cadde sotto il piombo fraticida aveva trentanove anni, era del 1905. Era stato arrestato sotto l’accusa d’aver rifornito di viveri ed armi i combattenti della resistenza ed aver aiutato prigionieri inglesi a raggiungere le file partigiane. Mancavano però le prove. Dalla prigionia il suo pensiero corre di frequente alla figlia Tinetta che ha lasciato e che non rivedrà mai più. « Cara Maria, ti raccomando di essere forte. Ti domando perdono di tutto. Ti raccomando Tinetta e tutti. Addio tuo Giovanni ». Queste sono le ultime parole rivolte alla moglie da questo intrepido campione della libertà prima di essere fucilato.
Il precipitar degli eventi
[…] Quando nel carcere di Santa Maria Maggiore si sparse la voce dell’attentato dinamitardo di Cà Giustinian, si ebbe la netta sensazione che qualche cosa di grave stava per accadere. Le notizie contradditorie che si diffondevano tra i carcerati ne accrescevano la trepidazione e lo sgomento.
Una cosa sola era certa: qualcuno avrebbe dovuto pagare! La notte che seguì l’attentato passò insonne; venne l’alba del nuovo giorno senza nulla di nuovo fosse avvenuto. Un’aria greve regnava nelle anguste e buie celle di quel luogo di dolore; un triste presentimento stringeva il cuore di tutti, perchè l’attesa è più snervante e dolorosa della sorte stessa. Così passò anche quel giorno, che fu l’ultimo della loro vita.
« Verso la mezzanotte del 27 luglio, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 4 giugno 1945, essi venivano bruscamente svegliati nelle loro celle, invitati a vestirsi e a partire. Partirono per non più ritornare. Alla soglia del carcere, gli assassini li attendevano, quaranta uomini armati di tutto punto contro tredici uomini inermi e legati mani e piedi.
Per giustificare l’eccidio, un simulacro di processo venne tenuto, clandestinamente, in qualche luogo. La sentenza, già preparata in anticipo, venne letta ai morituri nei pressi del luogo dell’esecuzione. E quando l’alba stava per spuntare, ripetute scariche di mitra falciavano i loro poveri corpi, dai quali, come ultima manifestazione di una vita spesa per il bene della Patria, uscì un sol grido: « Viva l’Italia ».
Da quel mattino in cui i Caduti cessarono di essere degli esseri viventi, essi diventarono un simbolo di dedizione al dovere, della volontà di lotta, delle sofferenze e del martirio di tutto un popolo e presero un nome comune: i tredici Martiri di Cà Giustinian ».
Il ricordo
[…] Alla fine del conflitto una delle prime cure di San Donà fu di riportare le salme dei tredici Martiri alla terra per la quale di erano immolati. Tutto il popolo si riversò sulle vie e sulle piazze per l’estremo saluto.
Il libretto in pdf edito a cura dell’Amministrazione Comunale di San Donà di Piave nel 1964 « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° anniversario della Resistenza” è possibile scaricarlo a questo link: SCARICA