Tratto da « Le Vie d’Italia » rivista ufficiale del Touring Club Italiano Anno XXXV, nr. 4 – aprile 1929 pp. 301-309. (Articolo di Ulderico Tegani, fotografie di E. Fiorioli della Lena – Venezia)
In un lungo articolo apparso nel 1929 sulla rivista ufficiale del Touring Club Italiano viene data una bellissima descrizione della San Donà dell’epoca e della realtà turistica del litorale di Cavazuccherina, che attraverso il sogno del Lido dei Lombardi diverrà l’odierna Lido di Jesolo. Dividiamo l’articolo in due parti, riservando la prima a San Donà di Piave così da poter accompagnare con immagini d’epoca anche la parte dedicata alla nostra cittadina.
Il Lido dei Lombardi
Una iniziativa ardita e pittoresca
Scendendo dal treno alla stazione di San Donà di Piave, mi risuonava nello spirito un canto di trincea che poche sere innanzi avevo ascoltato dalle voci dei fanti reduci di guerra.
Siam partiti in ventisette. Solo cinque son tornati qua.
E gli altri ventidue son tutti morti a San Donà
!
Canto tragico che, nella sua semplicità disadorna e rude, rievocava l’epopea. La rotta di Caporetto, l’arresto al Piave, la strenua difesa del sacro fiume, tinto di vermiglio dal purissimo sangue degli eroi, l’ecatombe e la rovina, la vittoriosa riscossa. Una visione di morte, un panorama di distruzione. Tumulto di macerie in una solitudine di terrore. Dal Grappa a Capo Sile un orizzonte d’Apocalisse, e nell’ampio raggio San Donà travolta e fulminata, agonizzante nella polvere. Un volo di memorie nello spazio di dieci anni, di undici, che lo colma d’un tratto e lo fa sembrare un giorno. Storia di ieri, riassunta e riassurta nell’onda di una canzone, nell’eco di una rapsodia.
Storia di ieri, o non piuttosto di cent’anni indietro? Tutto m’appariva si fresco e sereno, nella mite giornata dell’incipiente inverno, con quel prodigio d’azzurro, con quel tripudio di sole! Chiara, tranquilla si stendeva d’intorno la campagna nel suo dilatato respiro, ancora soffusa di verde, tutta piena di segrete promesse. Qui la stazione riedificata, lì il vialone riassestato, laggiù il campanile ricostruito, alto emergente di fra gli alberi, dritto in piedi col piglio risoluto del padron di casa e insieme con la grazia del buon ospite che invita.
Poi, ecco d’infilata il vecchio borgo e la sua strada maggiore. Ma che dico vecchio! Qui tutto brilla nuovo fiammante ch’è una gioia vederlo. Il borgo della vetusta pieve è oggi una cittadina giovanilmente balda, risorta dalla catastrofe di cui ogni traccia è scomparsa; rinata, rifatta è già cresciuta più bella di prima, con una cera gioviale che inspira d’un subito letizia e simpatia, con un sentor di gagliardo vigore che si effonde per le larghe strade ariose e luminose, con un aspetto moderno che sa di salute e di forza, con una fioritura di case dalle linee e dai colori più diversi, in scapigliata varietà, con uno schieramento di bei negozi e di grossi empori, pingui d’ogni ben di Dio, che il lunedì, meglio degli altri giorni, s’affollano di gente d’ogni parte del contado che affluisce al mercato e riempie la strada principale di carrette e carrettelle, di uomini con le spose, di famiglie con la prole, di voci, di strepiti, di allegro e pittoresco brusio.
Qui c’è la chiesa arcipretale che sfoggia un colonnato classico sulla facciata prospiciente una piazza, aperta al posto d’un gruppo di vecchie case; e di fianco le si aderge isolato il poderoso campanile, con la sua canna quadrangolare rivestita di mattoni e un angelo alato sulla cuspide; un campanile che, come tanti altri della terra veneta, arieggia quello di San Marco e ricorda l’antica signoria della Serenissima.
Anche la piazza Indipendenza, poco innanzi, mostra il suo volto rinnovato e pur richiama Venezia col basamento riserbato al pennone tradizionale, mentre la fresca linfa della vita trascorrente trova il suo eloquente simbolo nel getto d’acqua che sgorga salendo dal profondo suolo. Un giro di portici si snoda da un lato, a piè di un’allineamento di edifici, e giova alla miglior prospettiva dello sfondo, là dove si para con armonico decoro il palazzo del Municipio, anch’esso risorto dalle sue ceneri, anch’esso nobilitato e rischiarato, com’era in origine, dal suo portico.
Sull’altro lato un palazzo nuovo è venuto a segnare, al luogo d’un vecchio giardino, il perimetro della piazza: un palazzo grandioso e severo, che accoglie i Consorzi Riuniti di San Donà, quei benemeriti Consorzi Idraulici ai quali si deve la bonifica pressochè compiuta di quattrocento chilometri quadrati del circostante territorio, in cui si distribuisce una rete di 330 chilometri di canali, di 137 chilometri di strade particolari, di circa trecento tra ponti, sostegni, chiaviche e conche di navigazione, d’ottantun pozzi trivellati e di ventisette stabilimenti idrovori con trentun pompe centrifughe e ventotto motori.
Son cifre che parlano da sè, che rivelano meglio d’un lungo discorso la tenace energia di questo popolo che ha saputo redimersi in ogni senso, sottraendo le zolle alle paludi e guadagnando all’agricoltura cinquantamila ettari di terreno, così che là ove stagnavano le morte acque o imputridivano le basse lande neglette, spaziano oggi i campi fecondi. Tale l’opera intrapresa dagli avi e proseguita con salda lena dai nipoti: opera che in sè racchiude tante possibilità d’ulteriori sviluppi e lascia presagire per San Donà il più florido avvenire.
San Donà avrebbe anche potuto essere la degna meta d’un viaggio, e dolce senza dubbio sarebbe stato l’indugiar per le sue strade, alla ricerca dei molteplici segni di rinascita, alla ricognizione dei tanti progetti di prossimi e futuri arricchimenti nell’edilizia cittadina. Qui c’è con la sua nuova sede elegante la Banca Popolare, là c’è l’Ospedale; qui sorgerà la Casa del Littorio, là troverà posto la Casa di Ricovero, la cui facciata monumentale si fregerà delle lapidi consacranti i nomi dei quattrocentoventi Caduti.
La seconda parte dell’articolo riguardante Cavazuccherina e il Lido dei Lombardi