Il Martirio e la Resurrezione di San Donà di Piave

Nel giugno 1929, in contemporanea con l’uscita del libro di Monsignor Dottor Costante Chimenton “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella”, sulla rivista edita del Touring Club Italia “Le vie d’Italia e dell’America Latina” uscì un lungo articolo a firma Giorgio Paoli che da quel libro trasse ispirazione. A corredo dell’articolo furono inserite molte fotografie di Alfredo Batacchi, molte delle quali divenute nel frattempo cartoline di San Donà di Piave.

Rivista mensile del Touring Club Italiano, Anno XXXV – giugno 1929

di Giorgio Paoli

Fra i tanti paesi italiani che, per essersi trovati sulla ardente fronte della grande guerra, ebbero a condividerne le alterne vicende, a partirne le dure violenze, a supportarne i terribili sacrifici, a viverne la crudele angoscia e la vermiglia gloria, San Donà di Piave fu dei più martoriati e dei più eroici. Non solo una folta schiera dei suoi giovani figli – quattrocentoventi – immolarono la balda esistenza combattendo per la Patria, ma il paese stesso fu tutto travolto e sconquassato dalla tremenda bufera e, dopo il rovescio di Caporetto, invaso dal tracotante nemico, soffrì per un anno l’amarezza del selvaggio e nella lotta per la liberazione fu bersaglio di spietati colpi e vittima di innumeri ferite. Ridotto a uno spaventoso cumulo di macerie, sembrava, nel vittorioso termine del conflitto, ch’esso non potesse più risollevarsi dalla triste polvere in cui giaceva. Invece – miracolo d’energia e di fede – chi lo vede oggi lo trova risorto, lo saluta più bello di prima, risanato e forte, in piena maturazione di sviluppo, in una consolante ripresa di attività, in un sicuro ritmo di lavoro: esempio anch’esso, con mille altri, dell’inestinguibile gagliardia di nostra stirpe e, in particolare, del virile e fattivo ardore della gente veneta.

Un figlio di questa terra, Monsignor Dottor Costante Chimenton, professore del seminario di Treviso, ha amorosamente tracciato la storia di San Donà di Piave in un’interessante volume di 900 pagine, copiosamente documentato ed illustrato; ed è sulla sua scorta che vogliamo qui richiamare gli eventi connessi con la guerra e compendiare l’opera di restaurazione che, per virtù di Governo e di popolo, ha doppiamente redento il gentil paese.

Il Santo Patrono

Son dodici i santi che portano il nome di Donato, per cui si può comprendere come sia stata lunga la controversia storica, non peranco risolta, per decidere quali di essi fosse l’autentico patrono di San Donà. La chiesa, a tagliar corto stabilì che l’onore spettasse a San Donato Vescovo martire, ma il curioso è che nel paese il tempio principale fu invece sempre dedicato alla Madonna delle Grazie, alla quale si aggiunse San Donato soltanto quando, nella prima metà del secolo scorso, il tempio in questione, ormai cadente e ad ogni modo inadeguato per la cresciuta popolazione venne ricostruito tra un devoto entusiasmo popolare in un nuovo edificio arcipretale che ricevette poi, a grado a grado, gli abbellimenti che lo resero particolarmente pregevole e venerato.

Era esso, come naturale, il fulcro del paese, per antica tradizione religiosissimo, e, intorno, l’abitato schierava la guardia delle sue case, nella cui massa, dalle apparenze modeste, spiccavano parecchi edifici ragguardevoli e sobriamente eleganti, quali il Municipio, le sedi di alcune banche e aziende diverse e varie palazzine e ville private, così che San Donà aveva aspetto e sostanza di vera cittadina, e il suo territorio – sanato dalle ardite bonifiche che avevano regolato il corso delle acque – si dispiegava ubertoso florido, presso il margine del lido adriatico.

L’arrivo della guerra
Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

La guerra turbò la questa quieta armonia delle opere, ma trovò il popolo di San Donà pronto a qualunque sacrificio, come ben si vide allorché il nembo tragico avvolse il paese. Dopo Caporetto, San Donà di Piave divenne uno dei punti strategici contro cui si sferrò l’azione dei belligeranti. Quasi tutti i giorni, nei suoi bollettini ufficiali, il Comando Supremo ebbe a registrare il nome di San Donà o delle sue frazioni; le vittime immolate sul suo suolo furono innumerevoli; le sue campagne furono allagate di sangue. Le prime avvisaglie della lotta vi si sparsero il 29 ottobre del 1917, allorché il paese fu invaso dal nostro esercito in ritirata. Seguirono gli esodi degli abitanti, le depredazioni e i saccheggi, le vessazioni e le brutalità dell’orta nemica, i bombardamenti senza tregua, i combattimenti sulle rive del Piave, ove i nostri si erano arrestati ed aggrappati, e quindi la rovina dello sciagurato borgo, flagellato da ogni parte. I profughi dovettero sparpagliarsi in tutte le regioni d’Italia, persino in Sicilia, mentre l’autorità municipale, capeggiata dal sindaco, Giuseppe Bortolotto, trovava asilo in Firenze, ove organizzava l’opera di tutela e di esistenza morale riannodando con pazienti ricerche le disperse fila della comunità. Il paese rimane, fin dove poté, l’arciprete monsignor Saretta, che si adoperò a favore degli infelici parrocchiani con uno zelo così caldo e coraggioso che gli austriaci, sospettosi e urtati, finirono per trasferirlo a Portogruaro.

Nel settore di San Donà-Caposile la lotta non ebbe mai respiro. In quegli acquitrini si mantennero tenacemente abbarbicati di avversari, e con pari tenacia i nostri sforzarono di snidarli, sfidando i covi di mitragliatrici di cui era cosparso tutto il margine del Piave, mentre altre stavano appiattite tra i ruderi delle case, di guisa che tutto il territorio era un feroce agguato di distruzione e di morte e dovunque s’accumulavano le rovine e giacevano al sole e alle intemperie le salme insepolte.

Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

Specialmente furiosa si scatenò la battaglia, nell’estate del 1918, all’allorchè da una parte e dall’altra si giocò la carta decisiva, e il nemico ributtato dal fiume, comprese che la sua ora disperata, la sua perdita definitiva,  stavano per arrivare. Invano s’irrigidì, invano si esasperò nella spietata violenza, invano eresse le forche sui pioppi e sugli ippocastani, per impiccarvi legionari cecoslovacchi ch’erano passati a combattere con noi; il monito crudele non valse a rianimare l’esercito prostrato e tantomeno propiziargli il sognato trionfo. L’autunno successivo, a un anno dall’invasione, quella sciagura era vendicata, il paese redento, il nemico ricacciato e rotto, la guerra vinta dal valore delle nostre armi, dall’ardimento dei nostri magnifici soldati; e dall’avversario null’altro rimase, tristo conforto, se non lo sfogo codardo delle ultime prepotenze sugli inermi, delle ultime brutalità sui vecchi, sulle donne, sui fanciulli, degli ultimi vandalismi sulle cose, delle ultime razzie nella desolata contrada ch’era costretto ad abbandonare.

I sandonatesi avevano però già ricevuto il premio del loro sacrificio nella liberazione, alla quale tanti dei loro avevano valorosamente contribuito, così che il nucleo di questi combattenti seppe meritarsi otto medaglie di bronzo, dieci d’argento e una medaglia d’oro, quella che frigiò il petto di Giannino Ancillotto, l’aquila eroica, il prodigioso bombardatore aereo che non esitò a distruggere anche la propria villa, pur di colpire il nemico che la profanava, nella sua diletta San Donà.

Dopo la guerra, solo distruzione

Il primo cittadino che entrò in quella terra redenta fu l’antico sindaco, divenuto Commissario Prefettizio, il commendatore Giuseppe Bortolotto, che vi giunse il primo novembre 1918 con un autocarro militare, attraversò il Piave con le sue truppe, visse quel giorno e il successivo in mezzo ai soldati e passò la notte tra i carriaggi dell’esercito, nutrendosi del rancio comune. Subito egli si accinse all’opera della ricostruzione, ma la situazione, nel paese deserto, era spaventosa.

Foto originale austriaca, non presente nell’articolo

Il centro dell’abitato era completamente distrutto. Il nucleo principale, nella zona immediatamente vicina al Piave e nei dintorni della chiesa, era ridotto a un mucchio di rovine. Del pari gli stabili, sulle principali vie d’accesso al paese e al fiume, erano quasi tutti a terra e soltanto qualche casa colonica era rimasta in piedi. In pochi giorni la popolazione giunse a cinquemila anime e via via s’accrebbe col ritorno dei profughi privi di tutto, in un luogo in cui c’era più nulla e ogni cosa era da improvvisare, da rifare di sana pianta.

Un compito immane fu affrontato, tra comprensibili malumori, in un disordine caotico, aggravato dagli intralci burocratici e dall’incomprensione delle autorità superiori e dello stesso Governo di quel tempo, mentre le tristi condizioni divenivano minacciose per il dilagare delle acque dalle rovinate bonifiche e per il diffondersi delle malattie. La stessa Croce Rossa americana, sollecitata a porgere il suo aiuto giudicava che San Donà fosse ormai un paese morto e che non mettesse conto di spender tempo e fatiche per farlo risorgere.

Eppure, per l’ammirevole tenacia del Commissario, che seppe moltiplicarsi riverberando il proprio entusiasmo in chi lo attorniava, piano piano San Donà risorse. Nel duro lavoro molto giovò anche l’ausilio del clero, con la alla testa il bravo arciprete, monsignor Saretta, che indefessamente ed efficacemente si prodigò per lenire tante miserie e far tornare negli spiriti la calma e la fede, a cominciare dalla fede religiosa, per la quale egli provvide subito a riattivare le pratiche del culto, officiando tra le macerie del tempio, dapprima, poi in una baracca provvisoria, mentre si dava mano alla demolizione del Duomo pericolante per ricostruirlo.

La ricostruzione del Duomo e dei luoghi di culto

Si ricostruirono infatti il Duomo e il suo campanile, su progetto del professor Giuseppe Torres di Venezia. La chiesa, ad unica navata, con cinque porte, è fronteggiata da una maestoso pronao, adorno di sei colonne di pietra artificiale e di un timpano a finte bugne. Il campanile, che le sorge a fianco, è alto 76 metri, quadrangolare, massiccio, sormontato da una cuspide sulla quale si libra un angelo rivestito di rame. La spesa s’aggirò sui tre milioni e l’edificio sacro fu aperto al culto nel marzo del 1923.

Si ricostruirono pure le chiese di Passarella e di Chiesanuova e le case canoniche di quelle frazioni del Comune, oltre quella di San Donà; come pure vennero ricostruite altre chiese ed oratori ed edifici di carattere religioso, per cui la cattolicissima plaga potè a poco a poco vedere rimosso ha rimesso a sesto e notevolmente migliorato il proprio patrimonio di pratica cristiana.

Il nuovo ponte

E a poco a poco anche l’opera della ricostruzione civile ebbe il suo coraggioso e mirabile sviluppo. Una di quelle che trovarono per prime le solerti cure dell’amministrazione provinciale e comunale fu l’opera del ponte sul Piave, per ristabilire le normali comunicazioni tra San Donà e la frazione di Musile, essendo stato distrutto dalla guerra il robusto ponte di legno che da trent’anni allacciava le due località (ndr in realtà il ponte di legno venne distrutto molti anni prima da una piena del Piave, quello distrutto nel 1917 era in muratura e ferro). Il nuovo ponte fu costruito in poco più di un anno, tra il maggio del 1921 e il luglio del 1922. Composto di quattro travate di di ferro e lungo 210 metri, esso venne inaugurato dal Duca d’Aosta e, in omaggio all’augusto Condottiero ebbe il nome di Emanuele Filiberto di Savoia. Anche sulla linea ferroviaria, transitante sul Piave, si dovettero ristabilire le comunicazioni, e ciò fu fatto dapprima con un ponte in ferro ad unico binario, che venne poi sistemato a binario doppio.

L’aquedotto

Il paese ritrovava così i suoi sbocchi, mentre si lavorava riorganizzare il nucleo urbano in base a un piano regolatore che, tra l’altro, contemplava l’apertura di cinque grandi strade e la formazione d’una piazza davanti alla chiesa, là dove in passato si aggruppavano vecchie e modeste abitazioni. Si diede pur mano a ripristinare l’acquedotto, unico mezzo per il rifornimento dell’acqua potabile, e quindi opera vitalissima per il Comune. L’impianto preesistente, posto presso il fiume da cui prendeva l’acqua per passarla alle vasche di decantazione e di filtraggio e alla cabina di organizzazione, era a un mucchio di rovine; per ciò si dovete ricostruirlo di sana pianta e si dispose poi l’ampliamento della vecchia rete portando a sette chilometri la lunghezza complessiva delle condutture stradali.

La sistemazione è tuttavia provvisoria, essendo già in corso di studio l’opera grandiosa dell’acquedotto del Basso Piave, che dovrà risolvere in modo assai più degno il problema dell’alimentazione idrica per tutta quella plaga, costretta ancora ad accontentarsi di un’acqua non sempre esente da salsedine e da altri sgradevoli sapori.

Il Municipio

Anche il Municipio di San Donà era divenuto alla fine della guerra un incomposto ammasso di macerie, per cui si imponeva la completa ricostruzione. E la nuova opera riuscì tale da non far rimpiangere l’antica. Si eresse, infatti, un edificio dignitosissimo, ricco di fasto plastico in cemento, di sfarzo decorativo di colonne abbinate, balaustre e trabeazioni, arioso ed elegante per la presenza di un portico che ne snellisce la massa architettonica e in pari tempo l’adorna efficacemente.

La superba sede municipale vanta un ampio scalone a tenaglia, con gli scalini di marmo e la ringhiera in ferro battuto, ritorta a volute capricciose, illuminata da una trifora che forma un grandioso elemento ornamentale della facciata posteriore. Pregevolissima è la decorazione in affreschi e stucchi nel salone del Consiglio, ove attira lo sguardo una gran carta geografica – sistemata in ricca cornice – riproducente il campo di battaglia del Basso Piave dal 1917 al 1918: ricordo e monito ai presenti e ai venturi. Mobili e lampadari artistici compongono un adeguato corredo per questa e le altre sale del palazzo, nonché per gli edifici, i quali appaiono tutti quanto mai confortevoli nella loro sobria eleganza.

Si provvide pure a riparare, riattare e ricostruire gli edifici scolastici del Comune che, a vero dire, non avevano neanche prima della guerra alcuna impronta artistica, così che nel campo intellettuale di San Donà è tuttora desto il desiderio di un edificio più contemporaneo alle aspirazioni dell’ambiente.

L’Ospedale

Per la sua stessa ubicazione poco discosta dal centro del Paese, l’ospedale Umberto I di San Donà, ch’era stato eretto nel 1913, fu esposto al tiro diretto delle artiglierie, di guisa che il vasto fabbricato principale, come pur quello del locale d’isolamento, fu interamente distrutto e si dovette, all’immediato dopoguerra, provvedere alla sua radicale ricostruzione. I fabbricati vennero pertanto ricostruiti secondo tutte le esigenze moderne, riforniti di ottimo materiale medico e chirurgico e dotati d’una cappella sacra.

Il Cimitero
Foto originale italiana, non presente nell’articolo

Il cimitero comunale di San Donà di Piave fu pur devastato e sconvolto dalla guerra: lo si riparò nel miglior modo possibile, ma, risultando esso oramai insufficiente, se ne preparò poi un altro, più grande, a qualche distanza dall’abitato. Anche un nuovo macello è venuto a sostituire quello insufficiente dell’anteguerra che fu tra i pochi edifici della città e risparmiati dal furore delle artiglierie: il complesso dei nuovi fabbricati, semplice decoroso e con un perfetto impianto di macchinari, assicura la praticità e rapidità dell’importante servizio.

L’Orfanotrofio

Un’altra opera, di carattere sociale, s’imponeva a lenire lo strazio che la guerra aveva portato nella popolazione distruggendo tante famiglie. V’erano più di cinquecento orfani di tutti due i genitori e trecento  orfani di padre o di madre, e queste cifre, già impressionanti, risultarono poi inferiori alla realtà. Occorreva dunque un Orfanotrofio e si provvide anche a questo. Nel 1921 esso iniziò il suo funzionamento; ampliato poi con le officine, esso rappresenta oggi il primo nobilissimo monumento eretto alla memoria dei prodi che sacrificarono la vita per il loro paese, mentre è in via di attuazione un degno monumento ai Caduti in guerra che riceverà la sua espressione patriottica ed artistica nell’edificio della Casa di Ricovero, ove troveranno posto, sulla severa facciata, le lapidi coi nomi degli Eroi.

Poiché per l’Orfanotrofio si dovette utilizzare un fabbricato incompiuto ch’era destinato ad Asilo, si provvide poi a costruire un Asilo nuovo nel centro del paese, Esso fu costruito nel 1921 e più tardi lo si ingrandì aggiungendovi due ali per le suore, per le scuole, i laboratori e le verande. Fornito di ampi locali, di un cortile per la ricreazione, di un teatrino, in una di una cappellina, esso formicola ora di bambini e di bambine. Nel medesimo ambiente sono sistemati un istituto per l’educazione religiosa delle fanciulle, la scuola di lavoro per le orfanelle, con laboratori di maglieria, di calze, di camicie e di ricamo; la scuola di lavoro per le fanciulle esterne, la cucina economica per i poveri, l’unione missionaria parrocchiale con il suo laboratorio speciale, le scuole elementari private, la biblioteca circolante, il ricreatorio festivo per le ragazze, la scuola di piano e varie altre istituzioni cattoliche femminili, mentre per quelle maschili è sorto un apposito fabbricato al posto della vecchia chiesa provvisoria. E intanto si prepara, su linee grandiose, la l’attuazione in San Donà della benemerita Opera Don Bosco che troverà sede in una serie di edifici ora in corso di costruzione.

Il Consorzio delle Bonifiche

Sulla piazza principale di San Donà – la Piazza Indipendenza – è sorto il Palazzo del Consorzio delle Bonifiche del Piave. Con tale nome i Consorzi Idraulici Uniti, che si propongono la bonifica di 400 chilometri quadrati di terreno, hanno fuse le direttive e le forze costituendo un ente dal quale la complessa opera redentrice dello storico agro di Jesolo ed Eraclea verrà studiata e disciplinata da tecnici di profonda competenza idraulica e da provetti agricoltori.

E’ un’impresa gigantesca, che prosegue nel tempo e nello spazio quella degli avi per riscattare la terra regalando il corso delle acque, e che, iniziata, nella sua nuova impresa, al principio del secolo, aveva già compiuto grandi passi e raggiunto risultati superbi, quando la guerra non solo l’arrestò, ma tutto distrusse, così che ci dovette poi ricostruire, rifare e riparare, per ricomporre il patrimonio dei vetisette stabilimenti idrovori, dei canali e delle strade, delle conche e dei pozzi, dei motori e delle pompe: fatica imponente che onora il paese e la stirpe.

Il palazzo, in cui ha stanza dello Stato maggiore di quella che può considerarsi come una incruenta ma ardua guerra, per redimere le basse valli e le paludi, si presenta nell’autorità di linee d’un tardo Rinascimento italiano, con poche sovrastrutture decorative nel corpo centrale, in tre piani, con sovrastante frontone triangolare, fra larghe pilastrate, e con due ali laterali a semplice finestre architravate. Per tutta la lunghezza dell’edificio si rincorrono quindici archi, in modo da seguire la teoria armonica dei porticati che adornano gli altri edifici sulla piazza, il vasto rettangolo della quale sarà completato con la costruzione del Palazzo del Littorio.

Le banche e gli stabilimenti industriali

Un altro porticato si profila di là per strada maggiore per che pur delimita la piazza medesima:  quello che fornisce elegante base al nuovo palazzo della Banca Mutua Popolare Cooperativa, l’istituto che in mezzo secolo di laboriosa attività, ha tanto contribuito alla prosperità del paese. Ad esso si sono aggiunte nel dopoguerra, in decorose sedi, le succursali della Cassa di Risparmio di Venezia, del Credito Veneto, di Padova, e della Banca Cattolica di Treviso. Si sono pur riattivati gli stabilimenti industriali, a cominciare da quello della Juta, che esisteva da un decennio, dava lavoro a 650 persone ed era guarnito di un poderoso macchinario di cui durante l’invasione una parte andò rovinata ed il resto depredato, per guisa che non fu facile compito la restaurazione. Analoga sorte toccò la Distilleria, i fabbricati e gli impianti della quale andarono distrutti: ricostruita e riattivata, questa industria ha poi saputo espandersi con l’aggiunta di un liquorificio e di un oleificio. Anche la Segheria fu distrutta dalle fondamenta, ma non tardò a rinascere, come tante altre attività dell’operosa cittadina che ora s’accinge ad accogliere nuove imprese industriali, come quella d’uno zuccherificio.

Il Teatro Verdi

Con la reintegrazione delle fonti e degli strumenti del quotidiano lavoro, San Donà si è pur rifornita dei rifugi per l’onesto svago. I sandonatesi furono sempre appassionati per il teatro e, possedendo un piccolo ma grazioso Teatro Sociale, lo resero capace di sostenere la rappresentazione di commedie e di operette, e anche d’opere con la partecipazione di insigni artisti. Distrutto dalla guerra in modo totale, si è preferito lasciarlo nella polvere delle care memorie per dargli un successore del tutto nuovo, che ha preso il nome augurale di Giuseppe Verdi. L’edificio, di stile rinascimento, contiene una sala capace di ospitare mille spettatori. Esso iniziò nel 1921 la sua missione consolatrice, nella quale pur si adoperò, manco a dirlo, il cinematografo, croce e delizia del nostro vertiginoso tempo.

San Donà lavora e ha quindi il pieno diritto di distrarsi un poco, di divertirsi, di ridere, finalmente, dopo aver pianto tanto. Essa deve e vuole obliare nella serenità attuale le sciagure di cui fu vittima e delle quali ogni traccia esteriore è ormai scomparsa nel suo volto, rifatto più fresco e più bello. Chi passa oggi per le lunghe larghe strade luminose, fiancheggiate da gentili case nuove, da palazzi pomposi, da leggiadre ville, da negozi e magazzini colmi d’ogni ben di Dio, più non pensa all’ieri che sembra ormai lontano lontano, ma, nella gaiezza del luogo e del ritmo gagliardo delle sue opere, indovina le più liete promesse del domani.

In viaggio verso il Lido dei Lombardi passando per San Donà di Piave

Tratto da « Le Vie d’Italia » rivista ufficiale del Touring Club Italiano Anno XXXV, nr. 4 – aprile 1929 pp. 301-309. (Articolo di Ulderico Tegani, fotografie di E. Fiorioli della Lena – Venezia)

In un lungo articolo apparso nel 1929 sulla rivista ufficiale del Touring Club Italiano viene data una bellissima descrizione della San Donà dell’epoca e della realtà turistica del Lido di Jesolo, ancora molto di là da venire. La seconda parte del viaggio che dopo l’attraversamento del fiume Piave porterà il viaggiatore al Lido dei Lombardi, l’articolo in origine non ha titoli intermedi aggiunti per facilitare la lettura.

Il Lido dei Lombardi

Una iniziativa ardita e pittoresca
Il Ponte sul Piave (cartolina del 1932)

[…] Ma San Donà non era il mio punto d’arrivo: era il mio punto di partenza, e lo sarà per tutti quelli che in un futuro non troppo remoto si varranno della ferrovia per recarsi al Lido dei Lombardi. La spiaggia è laggiù, a diciotto chilometri dal paese: diciotto chilometri che sono un nulla per le autocorriere a cui verrà affidato il compito del rapido trasporto, e che però costituiscono anch’essi il felice motivo d’un piccolo viaggio interessante.

Oltre il fiume Piave

Si attraversa il Piave nella gabbia d’un gran ponte metallico che mena alla frazione di Musile, essa pure ricostruita con la sua bella chiesa e lo snello altissimo campanile, e, piegando un poco s’incontra il Sile, deviato sin dal sedicesimo secolo nell’alveo del vecchio Piave e che tortuoso e cilestrino si avvia al mare, solcato da grosse barche, pavesato da triangoli di vele, poichè qui i trasporti si fanno la maggior parte sul cammin dell’acqua, il più economico ed agevole.

Il largo corso del Sile a Capo Sile

Sulla via di Capo Sile merita un’occhiata uno stabilimento aperto da pochi mesi, per la pastorizzazione del latte inviato da un consorzio di produttori. E’ un impianto moderno, abbagliante di candore, che per ora raccoglie giornalmente da quaranta a cinquanta ettolitri di latte, ma è capace di riceverne e lavorarne cento ed è suscettibile di ingrandimenti per una capacità di centocinquanta e duecento ettolitri di prodotto puro e sano: prodotto che giunge direttamente al consumo a San Donà, a Mestre e a Venezia.

Per il capoluogo della provincia è compiuto in due ore da un motoscafo salpante ogni giorno alle 13 sul canale navigabile del Sile che s’apre proprio di fronte allo stabilimento, là dove si staglia pure un altro ramo di canale che congiunge il Sile al Piave, per cui lo stabilimento occupa per davvero quella che si può chiamare una posizione strategica.

L’arrivo a Cavazuccherina
Il nuovo ponte di cemento armato sul Sile, presso le conche idrauliche del canale navigabile per Venezia

Più innanzi Cavazuccherina ci mostra il suo volto rinnovato, intorno alle rovine della romana Jesolo, e di lì in due passi si arriva al mare. Qui v’ha pur qualcosa che reclama una breve sosta e una piccola deviazione: un edificio di maestose proporzioni, benchè per ora non sia se non un terzo di quello che dovrà divenire.

L’Istituto Marino balneo-elioterapico

E’ l’Istituto Marino balneo-elioterapico permanente del Consorzio provinciale antitubercolare di Treviso, incominciato e costruito per una terza parte, senza risparmio di spazio e di mezzi, con una superba grandiosità di linee, con’ardita solidità di mura.

Uno dei tre edifici graziosi che formeranno l’Istituto Marino balneoterapico del consorzio provinciale di Treviso, presso Cavazuccherina

Vasti sono gli ambienti dei refettori e dormitorii, larghi i corridoi, lucente e odorosa la cucina, ma sopra tutto belle e attraenti sono le ampie terrazze spalancate sulla fronte a mare, dove la costiera muore in un lembo di tiepida sabbia. L’istituto ha iniziato la sua benefica attività nella scorsa estate e l’ha proseguita nell’autunno e nell’inverno, agli intenti della cura profilattica, con un centinaio di bimbi e giovinetti lasciati in piena libertà – sotto gli occhi dei medici e delle suore – all’aria e al sole.

Poco lungi, grazioso come una villa, sta l’edificio della Croce Rossa di Treviso che si propone scopi analoghi, e un pò più in là si allineano i modesti baraccamenti, i capannotti, i padiglioni, le casette costituenti l’appendice balneare di Cavazuccherina.

Lo sguardo verso il futuro: Il Lido dei Lombardi
Il Lido dei Lombardi dispone di più di tre chilometri di spiaggia a dolcissimo declivio, di arena finissima, omogenea e pulita.

Un breve tratto di strada ed ecco una spiaggia deserta, sabbiosa e onduleggiata, una landa semiselvaggia, un terreno quasi incolto, sinuoso di dune e di avvallamenti, qua e là punteggiato d’alberi, solcato da canali e da strade tuttora in formazione, irto d’arbusti, sparso d’erbacce, vegliato da qualche cascina, da radi casolari: una plaga solitaria, rustica, silente, che un giorno, fra non molto, risuonerà di giulive voci e s’avvierà di festosa animazione.

Perchè qui scioglierà le sue seducenti lusinghe il Lido dei Lombardi.

Il sogno di Tomaso Nember e Giovanni Gorio

Il desiderio del mare da parte di moltissimi abitanti della plaga, non solo, ma anche delle retrostanti zone alpine della Carnia e del Friuli, l ’affluenza domenicale estiva di folle desiose di tuffarsi nell’onde azzurre, la presenza d’ una bellissima spiaggia, tutto questo incoraggiò due intraprendenti bresciani — il comm. dott. Tomaso Nember e il comm. dott. Giovanni Gorio — a tentar di valorizzare con speciali criteri un’ampia tenuta da essi acquistata, che apparteneva all’Ordine di Malta e di cui godeva l ’usufrutto la veneta casa patrizia dei conti Porcia.

Le vie di comunicazione
Il piano regolatore del Lido dei Lombardi – uno schieramento di capanni sulla spiaggia, quindi quattro allineamenti di ville e villette, cinte da giardini intersecate di viali alberati, e infine la zona degli orti. Verso il centro , il settore dei grandi alberghi e stabilimenti balneari.

La tenuta, ch’era mezza landa e mezza palude, invasa da canne palustri e però dotata d’una terra sabbiosa ben adatta alle colture, ebbe anche una valorizzazione preventiva o per lo meno concomitante da un’opera prontamente eseguita per cura dell’Amministrazione provinciale, ossia da una nuova strada rotabile che, con un tratto di dodici chilometri, congiunge la veneziana Punta Sabbioni alle Conche del Cavallino sul Sile, attraversa poi la tenuta in questione, taglia i campi e si riattacca alla strada provinciale proseguendo verso Portogruaro e Trieste. D ’altro canto è già stabilito un servizio di chiatte per il trasporto di persone e veicoli da Punta Sabbioni a San Nicolò di Lido.

La località, pur essendo servita dalla grande linea ferroviaria internazionale Parigi-Milano – Venezia-Trieste-Costantinopoli mediante la stazione di San Donà che dista, come dicemmo, diciotto chilometri, ed essendo facilmente allacciatele a Venezia per via d’acqua con un servizio di vaporetti naviganti lungo la costa e lungo il canale, tende giustamente a un più spedito accesso automobilistico, e appunto la nuova strada, innestata nelle strade preesistenti, renderà particolarmente agevole l’affluire degli ospiti da ogni parte.

La tenuta è limitata a nord dalla vecchia strada di Cavazuccherina, all’est dal mare e per il resto è cinta e lambita dal Sile, che la costeggia in un largo arco sino al proprio sbocco presso il Faro del Cavallino. La nuova strada rotabile taglia la tenuta in due parti, quasi separando due aziende diverse, due mondi distinti: verso l ’Adriatico, sulla riva marina, la zona balneare; verso terra, la zona agricola.

La zona balneare
Dove ora si trovano soltanto due rustici villini, sorgerà tutta una lunga serie di capanni, di villette, di alberghi per bagnanti

La zona balneare costituirà il vero e proprio Lido dei Lombardi, così battezzato con felice spirito dai coraggiosi iniziatori, e disporrà di tre chilometri d’una spiaggia superba, soffice di finissima sabbia e in sì lene declivio che sino a cento metri ed oltre si può inoltrarsi con l’acqua non più su della cintola, ciò che rappresenta una condizione ideale per la sicurezza dei bagnanti e specialmente dei bambini.

Dolce e pur vivificante, la brezza spira nell’aperta riviera e fa limpido l’immenso specchio marino, punteggiato dalle vele dei pescatori di Chioggia e di Burano, essendo la plaga assai prodiga d’ottimo pesce che fa capo all’importante mercato di Caorle. Un punto caratteristico dello scenario è il Faro del Cavallino, che spicca a sud con la sua bianca torre; ma ancor più pittoresca è la stupenda cornice alpestre, che s’inarca alle spalle con le cime candide di neve, risaltanti contro l’azzurro del cielo. È questo il tocco magistrale del radioso quadro, composto e donato dalla natura.

Le nuove costruzioni

L ’opera dell’uomo, secondo il progetto dell’ingegnere Giuseppe Alberti, comprenderà uno schieramento di capannotti sul sabbioso tappeto, limitato da un parapetto, dietro il quale, su un piano lievemente inclinato per consentire a tutti la vista del mare, si stenderanno allineamenti di ville e di villette cinte da giardini, intersecate da viali alberati, servite di fogne e d’acqua, di luce e di posta, di telegrafo e di telefono, allietate di campi sportivi, fornite direttamente di verdure e frutta, latte, uova, salumi, pollami, dall’attigua azienda agraria. Ma vi saranno anche ville col rustico e con un pezzo di terra intorno — un ettaro, un ettaro e mezzo — per chi ami possedere il proprio orto e prolungar la stagione balneare con un placido soggiorno autunnale profittando altresì della copiosissima cacciagione.

Le villette sul mare sorte al Lido dei Lombardi in una cartolina degli anni cinquanta

Verso la zona mediana della fronte a mare verranno costruiti alcuni alberghi, decorosi ma non di lusso, per essere accessibili alle medie borse e mantenere a questo Lido senza sfarzi un carattere simpaticamente familiare. Quella zona mediana comunicherà per due strade trasversali con la grande rotabile longitudinale e avrà quindi facilità d ’accesso per veicoli d’ogni sorta e specialmente per le automobili, alle quali naturalmente si provvederanno le opportune rimesse.

La tenuta di Cà Porcia

A tergo della zona balneare, e cioè dell’effettivo Lido dei Lombardi, s ’allarga la vecchia tenuta di Cà Porcìa, già in parte bonificata e abitata da una piccola popolazione rurale, perchè Tomaso Nember, l ’audace ed esperto bonificatore, vi portò seco alcune famiglie di contadini bresciani e oggi Cà Porcìa conta all’incirea trecento persone; distribuite in varie fattorie moderne, con cinquecento capi di bestiame.

Tenuta di Cà Porcia – Cascina Brescia

Per la bonifica si sono scavati, a cura dei Consorzi, alcuni canali, come il Canal Pazienti e il Canale Vigna Vecchia, i quali raccolgono dalle terre — che sono più basse del mare e del Sile — le acque piovane e le acque di filtrazione e le convogliano in un altro canale che le avvia ad un bacino di raccolta, donde passano alla Centrale Idrovora del Secondo Bacino di Cavazuccherina, che le assorbe, le solleva con le sue pompe (della portata di 1440 litri al minuto) per travasarle in un bacino di scarico che le versa nel vicino Sile.

Poderosa, nella sua semplicità meccanica, è questa Centrale che occupa un robusto edificio, e le sta d’accanto la Casa del Custode, sempre vigilante perchè nei periodi piovosi l ’acqua cresce minacciosamente nei canali e bisogna pomparla giorno e notte e scaricarla senza indugio ; se no la zona sarebbe tutta allagata, come lo fu, qui e altrove, ad opera militare durante la guerra, per renderla inospitale al nemico.

Tenuta di Cà Porcia – Cascina di Offanengo

Allora, sulla strada che cinge la tenuta costeggiando il Sile, là dove oggi transitano lente e pacifiche le mandre, era un concitato trottare soldatesco che andava a rafforzare la delicata difesa al Cavallino. Non esistevano ponti sul fiumicello, e, ad evitare i soverchi traghetti, se ne improvvisò uno di legno che soltanto sul finire del decorso novembre venne sostituito da un solido e definitivo ponte di cemento, poco lungi dalle conche e dalle porte idrauliche che dall’opposta sponda immettono nel canale navigabile per Venezia; e se si pensa che appena una dozzina di chilometri separa questo ganglio nervoso dalla Regina dell’Adriatico, si comprende come per il tracollo di Caporetto essa sia stata minacciata da vicino e quanto ardua ed eroica sia stata la difesa nell’anno fatidico e tremendo.

Sulle rive del Sile

In questo tratto, e via via risalendo al nord, le rive del Sile son tutte guarnite di folte canne palustri, dietro le cui siepi emergono con bizzarro effetto vele ocracee di barche. Scivolano, sull’acque calme e cilestrine, grossi bragozzi, corpulenti barconi colmi di sabbia sino a rasentare col bordo il filo del fiume. Ne portano sin mille e millecinquecento quintali ciascuno, sì che un barcone da solo fa il lavoro d’un treno merci, compiendo lunghi viaggi pazienti su e giù per fiumi e canali per prendere e portare il carico da un capo all’altro di estesissime plaghe.

Scivolano sulle acque lente e chiare del Sile grossi bragozzi, corpulenti barconi, scene amabili di una fresca poesia…

E passano rimorchiatori che si tiran dietro cinque o sei barconi, convogli mastodontici che ingombrano il fiume con le loro moli prolisse; passano, snelli ed eretti come cigni, i bianchi vaporetti postali che vanno e vengono dalla città dogale, messaggeri dell’antico amore; passan vele maestose, passano navigli solenni e passan barche e barchette a remi, guidate dalle donne, le robuste operose donne di questi paesi.

Son le scene amabili di una fresca poesia, e questo bel fiume che trascorre il vasto delta quasi lambendo le liquide valli preludianti la laguna, questo Sile sereno e vispo che corre per tanti rami verso la grande foce, è un soavissimo poeta.

Tomaso Nember

Tomaso Nember, figlio della Leonessa, alto adusto bonario, ma con i segni d’una imperiosa volontà incisi nel viso macro, nei fermi occhi, nel passo sicuro, è anche lui un poeta, innamorato della natura, dei campi, del mare, della vita all’aperto, delle forti opere che si costruiscono lottando con gli elementi, conquistando e trasformando la terra, traendo quasi dal nulla le eterne energie ch’essa nasconde, portandole alla luce con perseverante fatica, lo sguardo fisso alla mèta che non può fallire.

È lui che si è addossato la dura bisogna della bonifica e che si è messo con ponderato animo a diriger l ’impresa, facendo la spola tra Brescia e Cavazuccherina e acconciandosi di buona voglia a frequenti e prolungati soggiorni sul lido ancor inospitale nella sua grezza solitudine. Cominciò nel 1925 abitando con i suoi fidi luogotenenti un’osteriucola alle Conche del Cavallino, donde traghettava il Sile quattro volte al dì avendo costruito apposta un pontile per la sua barchetta.

Egli si preoccupò anzitutto della terra e, tracciato il piano dell’impresa, si buttò al lavoro spianando dune, prosciugando, dissodando le zolle umide e raccogliendone presto i primi prodotti in magnifiche verdure, in uve eccellenti per il Rabboso del Piave, buon vino frizzante e schietto, e in copiosa ed ottima frutta a cominciare dalle mele «reinette», specialmente appetite da volonterosi incettatori che si valgono d’autocarri per girar più rapidi alla raccolta e portar la messe a San Donà per spedirla a Monaco.

Nel ’26 si trasferì in un baracchino sul mare, alla punta Nord del futuro Lido, ove certe notti di furiosa bora s’aspettava da un momento all’altro d’esser spazzato via tra le ondate con la baracca e tutto. Ma è uomo, il Nember, che ama le rudi emozioni e i forti contrasti. E nel ’27 andò finalmente ad insediarsi nella nuova sede direttiva dell’azienda, in piena tenuta di Cà Porcia, in una casa appositamente costruita nelle vicinanze d’un incrocio stradale. Una parte dell’edificio serve per abitazione dei dirigenti, l ’altra per gli uffici, e accanto stanno l’officina meccanica per le macchine agricole e una fattoria con l ’autorimessa.

Una veduta aerea degli anni cinquanta, con l’ampia campagna alle spalle della zona balneare

Altre fattorie son disseminate sul vasto territorio e ognuna possiede un silos per conservarvi ed essiccarvi l ’erba, che poi è meglio gradita dal bestiame. E dal bestiame, tra l ’altro, si ricava il latte che vien mandato ogni giorno a quel tal stabilimento di Capo Sile ch’è pure una creazione indovinata dell’azienda di Cà Porcìa ed è quindi sotto la diretta giurisdizione dell’infaticabile Nember.

Sempre in moto, egli imprime un vigoroso impulso alle opere molteplici e assicura lo sviluppo dell’impresa, a cui ora tutti credono e pronosticano un lieto esito, taluno argomentando che si trattava di cosa facile e dunque di scarso merito. Però nessuno prima osò mai affrontarla, e difatti a veder com’era, a mirar la landa deserta e selvatica, c’era da mettersi le mani nei capelli e occorreva proprio un uomo pratico e risoluto come questo volonteroso bresciano, per osar d’assumersi un travaglio sì duro.

Oggi c ’è ancor molto da fare, è vero, ma l’orizzonte appare chiaro. Ci son dune: si spianeranno. La terra si muove con facilità, i canali sono aperti, il suolo si asciuga e si assesta. Le canne tentano ancora di spuntare: saranno debellate, mentre già s ’allineano filari di piante e si stagliano i grandi rettangoli dei campi arati.

E già si fanno innanzi ingegneri, capitalisti, costruttori, per concorrere all’opera, per assumer lotti di terreno, per fabbricar ville, e la fiducia nel successo si diffonde.

Il Lido dei Lombardi dovrebb’essere una realtà quest’anno, la prossima estate. Si conta di aver pronti per allora una prima fila di capanni e un centinaio di villette. Tanto per cominciare. E il seguito verrà.

Un vecchio biglietto della fine anni cinquanta-inizio sessanta della tratta urbana di Jesolo: Villaggio Marzotto – Lido dei Lombardi

La prima parte dell’articolo riguardante San Donà di Piave

In viaggio verso il Lido dei Lombardi passando per San Donà di Piave

Tratto da « Le Vie d’Italia » rivista ufficiale del Touring Club Italiano Anno XXXV, nr. 4 – aprile 1929 pp. 301-309. (Articolo di Ulderico Tegani, fotografie di E. Fiorioli della Lena – Venezia)

In un lungo articolo apparso nel 1929 sulla rivista ufficiale del Touring Club Italiano viene data una bellissima descrizione della San Donà dell’epoca e della realtà turistica del litorale di Cavazuccherina, che attraverso il sogno del Lido dei Lombardi diverrà l’odierna Lido di Jesolo. Dividiamo l’articolo in due parti, riservando la prima a San Donà di Piave così da poter accompagnare con immagini d’epoca anche la parte dedicata alla nostra cittadina.

Il Lido dei Lombardi

Una iniziativa ardita e pittoresca

Scendendo dal treno alla stazione di San Donà di Piave, mi risuonava nello spirito un canto di trincea che poche sere innanzi avevo ascoltato dalle voci dei fanti reduci di guerra.

Siam partiti in ventisette. Solo cinque son tornati qua.

E gli altri ventidue son tutti morti a San Donà!

Il Duomo di San Donà di Piave il 10 settembre 1918, ancora sotto l’occupazione austro-ungarica

Canto tragico che, nella sua semplicità disadorna e rude, rievocava l’epopea. La rotta di Caporetto, l’arresto al Piave, la strenua difesa del sacro fiume, tinto di vermiglio dal purissimo sangue degli eroi, l’ecatombe e la rovina, la vittoriosa riscossa. Una visione di morte, un panorama di distruzione. Tumulto di macerie in una solitudine di terrore. Dal Grappa a Capo Sile un orizzonte d’Apocalisse, e nell’ampio raggio San Donà travolta e fulminata, agonizzante nella polvere. Un volo di memorie nello spazio di dieci anni, di undici, che lo colma d’un tratto e lo fa sembrare un giorno. Storia di ieri, riassunta e riassurta nell’onda di una canzone, nell’eco di una rapsodia.

Storia di ieri, o non piuttosto di cent’anni indietro? Tutto m’appariva si fresco e sereno, nella mite giornata dell’incipiente inverno, con quel prodigio d’azzurro, con quel tripudio di sole! Chiara, tranquilla si stendeva d’intorno la campagna nel suo dilatato respiro, ancora soffusa di verde, tutta piena di segrete promesse. Qui la stazione riedificata, lì il vialone riassestato, laggiù il campanile ricostruito, alto emergente di fra gli alberi, dritto in piedi col piglio risoluto del padron di casa e insieme con la grazia del buon ospite che invita.

Via Vittorio Emanuele (cartolina degli anni trenta)

Poi, ecco d’infilata il vecchio borgo e la sua strada maggiore. Ma che dico vecchio! Qui tutto brilla nuovo fiammante ch’è una gioia vederlo. Il borgo della vetusta pieve è oggi una cittadina giovanilmente balda, risorta dalla catastrofe di cui ogni traccia è scomparsa; rinata, rifatta è già cresciuta più bella di prima, con una cera gioviale che inspira d’un subito letizia e simpatia, con un sentor di gagliardo vigore che si effonde per le larghe strade ariose e luminose, con un aspetto moderno che sa di salute e di forza, con una fioritura di case dalle linee e dai colori più diversi, in scapigliata varietà, con uno schieramento di bei negozi e di grossi empori, pingui d’ogni ben di Dio, che il lunedì, meglio degli altri giorni, s’affollano di gente d’ogni parte del contado che affluisce al mercato e riempie la strada principale di carrette e carrettelle, di uomini con le spose, di famiglie con la prole, di voci, di strepiti, di allegro e pittoresco brusio.

Il Duomo visto da via Giannino Ancillotto (cartolina degli anni trenta)

Qui c’è la chiesa arcipretale che sfoggia un colonnato classico sulla facciata prospiciente una piazza, aperta al posto d’un gruppo di vecchie case; e di fianco le si aderge isolato il poderoso campanile, con la sua canna quadrangolare rivestita di mattoni e un angelo alato sulla cuspide; un campanile che, come tanti altri della terra veneta, arieggia quello di San Marco e ricorda l’antica signoria della Serenissima.

Anche la piazza Indipendenza, poco innanzi, mostra il suo volto rinnovato e pur richiama Venezia col basamento riserbato al pennone tradizionale, mentre la fresca linfa della vita trascorrente trova il suo eloquente simbolo nel getto d’acqua che sgorga salendo dal profondo suolo. Un giro di portici si snoda da un lato, a piè di un’allineamento di edifici, e giova alla miglior prospettiva dello sfondo, là dove si para con armonico decoro il palazzo del Municipio, anch’esso risorto dalle sue ceneri, anch’esso nobilitato e rischiarato, com’era in origine, dal suo portico.

Il Municipio e il Palazzo dei Consorzi Riuniti (cartolina degli anni trenta)

Sull’altro lato un palazzo nuovo è venuto a segnare, al luogo d’un vecchio giardino, il perimetro della piazza: un palazzo grandioso e severo, che accoglie i Consorzi Riuniti di San Donà, quei benemeriti Consorzi Idraulici ai quali si deve la bonifica pressochè compiuta di quattrocento chilometri quadrati del circostante territorio, in cui si distribuisce una rete di 330 chilometri di canali, di 137 chilometri di strade particolari, di circa trecento tra ponti, sostegni, chiaviche e conche di navigazione, d’ottantun pozzi trivellati e di ventisette stabilimenti idrovori con trentun pompe centrifughe e ventotto motori.

Son cifre che parlano da sè, che rivelano meglio d’un lungo discorso la tenace energia di questo popolo che ha saputo redimersi in ogni senso, sottraendo le zolle alle paludi e guadagnando all’agricoltura cinquantamila ettari di terreno, così che là ove stagnavano le morte acque o imputridivano le basse lande neglette, spaziano oggi i campi fecondi. Tale l’opera intrapresa dagli avi e proseguita con salda lena dai nipoti: opera che in sè racchiude tante possibilità d’ulteriori sviluppi e lascia presagire per San Donà il più florido avvenire.

Il Palazzo della Banca Mutua Popolare (cartolina degli anni trenta)

San Donà avrebbe anche potuto essere la degna meta d’un viaggio, e dolce senza dubbio sarebbe stato l’indugiar per le sue strade, alla ricerca dei molteplici segni di rinascita, alla ricognizione dei tanti progetti di prossimi e futuri arricchimenti nell’edilizia cittadina. Qui c’è con la sua nuova sede elegante la Banca Popolare, là c’è l’Ospedale; qui sorgerà la Casa del Littorio, là troverà posto la Casa di Ricovero, la cui facciata monumentale si fregerà delle lapidi consacranti i nomi dei quattrocentoventi Caduti.

La Rivista del Touring Club “Le vie d’Italia” aprile 1929 (Anno XXXV nr. 4)

La seconda parte dell’articolo riguardante Cavazuccherina e il Lido dei Lombardi