Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944

Una vista panoramica del secondo dopoguerra, presenti ancora delle macerie del vecchio Teatro Verdi dove poi verrà costruito il cinema teatro Astra (Archivio Luciano Pavan)

Una storia che ne incrocia un’altra e che poi tutte assieme si agganciano all’ultima raccontata.…..

Nel mentre cerchi del materiale per un nuovo post ecco che incroci un atto che si potrebbe pure riassumere ma che in fondo merita di esser riportato per intero giusto per esemplificare di come quei moderni scribi comunali impiegavano lungamente il loro tempo trascrivendo penna inchiostro e calamaio i tanti atti sui vari registri. Nel 1913 avevano già dei registri prestampati ma in questo caso la trascrizione essendo inserita in appendice è stata scritta per intero a mano come accadeva tanti anni addietro.

Dal Registro dei matrimoni del 1913 (Comune di San Donà di Piave)
Comune di San Donà di Piave – Registro degli Atti di Matrimonio del 1913
La trascrizione nel registro dell’atto di matrimonio fra Giuseppe Ferrarese e Silvia Maddalena Bastianetto (1913)

« L’anno millenovecentotredici e questo giorno di lunedì otto del mese di dicembre alle ore antimeridiane undici e mezza nella Casa posta in via Sabbioni Numero ventotto.

Io sottoscritto, Bertoldi Dottor Ugo Commissario Prefettizio, nominato con decreto ventiquattro novembre anno corrente, ufficiale dello Stato Civile del Comune di San Donà di Piave accompagnato dal Segretario municipale Signor Gnudi Odoardo.

Sulla richiesta fatta dal Signor Nardini Carlo, mi sono trasferito in questa Casa per la celebrazione del matrimonio tra i signori: Ferrarese Giuseppe di anni trentacinque, industriante, nato e residente a San Donà di Piave, figlio di fu Antonio, era sarto, residente in vita a San Donà di Piave, e di Paquola Domenica residente in San Donà di Piave, celibe; Bastianetto Silvia Maddalena di anni trentatre, casalinga, nata e residente in San Donà di Piave, figlia dei furono Giambattista, era carpentiere, e Bernardi Teresa casalinga, residenti in vita a San Donà di Piave, nubile, e per motivo giustificato dal certificato medico del Dottor Perin presentatami dallo stesso richiedente di essere lo sposo per la grave infermità nella impossibilità di recarsi alla Casa comunale. Quindi assistito dallo stesso Segretario ho trovato presenti i sunnominati Signori Ferrarese Giuseppe e Bastianetto Silvia Maddalena, il primo giacente a letto, i quali mi hanno dichiarato essere nell’intendimento di voler procedere alla celebrazione del loro matrimonio, e a tale effetto mi hanno presentato la copia degli atti della loro nascita rilasciate da questo ufficiale in data odierna, e mi hanno dichiarato non aver padre né madre adottivi né ostare al loro matrimonio alcun impedimento di parentela o affinità né altro impedimento stabilito dalla legge. Le dichiarazioni fatte dagli sposi sono state davanti a me confermate con giuramento da Fontana Mario fu Casimiro, di anni ventisei, maestro comunale, Sepulcri Giuseppe fu Pietro, di anni cinquantanove, impiegato comunale; Costantin Augusto di Luigi, di anni quarantadue, mastro muratore e Nardini Carlo fu Luigi di anni sessantasei, mediatore, testimoni presenti all’atto e residenti tutti in questo Comune, i quali hanno specialmente accertato non esistere fra gli sposi impedimento di parentela, di affinità e di stato.

Ho quindi letto agli sposi gli articoli 130, 131, 132 del Codice Civile e quindi ho domandato allo sposo se intenda prendere in moglie la qui presente Bastianetto Silvia Maddalena e a questa se intende prendere in marito il qui presente Ferrarese Giuseppe ed avendomi ciascuno risposto affermativamente a piena intelligenza anche dei testimoni sopra indicati ho pronunciato in nome della legge che i medesimi sono uniti in matrimonio.

Dopo di ciò gli sposi suddetti alla presenza degli stessi testimoni mi hanno esposto che dalla loro unione naturale nacquero quattro figli: il primo nel ventidue febbraio milleottocentonovantotto denunziato a questo ufficio dalla levatrice Pravato Teodolinda, iscritto al numero cinquantotto, appellato Cestini Giovanni Battista; il secondo nel ventuno luglio millenovecentodue, iscritto al numero duecentosessantasei, appellato Ferrarese Antonio; il terzo nel tredici ottobre millenovecentocinque, iscritto al numero quattrocentodiciassette, appellato Ferrarese Silvio Giacomo; ed il quarto nel diciotto Giugno millenovecentoundici, iscritto al numero duecentottantanove, appellato Ferrarese Giuseppe, e col presente atto dichiarano di riconoscerli per propri figli all’affetto della loro legittimazione.

I documenti presentati sono le copie degli atti di nascita dei suddetti e il certificato medico del Dottor Perin Pietro, i quali uniti del mio visto sono inseriti nel volume degli allegati a questo registro.

Letto il presente atto agli intervenuti li hanno essi meco firmati.

Atto di matrimonio nr. 2 Parte II serie B, Anno 1913
A quell’atto ne segui a breve un altro

In quell’otto dicembre 1913 venne legalizzata l’unione di fatto di Ferrarese Giovanni con Bastianetto Silvia Maddalena e legittimati i quattro figli Giovanni Battista, Antonio, Silvio Giacomo e Giuseppe, che da quella unione erano nati. Giovanni Ferrarese in quella casa posta in via Sabbioni era nel suo letto di morte, due giorni dopo alle ore sei e trenta del pomeriggio spirò, come attestato dal registro degli atti di morte di quello stesso anno.

Da un ricordo ne nasce un altro
Viale Margherita, sulls destra il Monumento ai caduti, sullo sfondo l’Ospedale civile “Umberto I”, subito dopo iniziava via Sabbioni

Via Sabbioni è tra le strade più vecchie di San Donà, dalla parte terminale di viale Margherita (l’odierna Viale Libertà) vicino l’ospedale Umberto I si arrivava sino alla stazione ferroviaria, allora come oggi. Ed è incredibile come questo episodio abbia un seguito. Raccontato ad una vecchia zia, Stefania, che ha vissuto in via Sabbioni decenni dopo quel matrimonio un filo del ricordo si è riacceso, un filo che dall’oggi è arrivato sino al 10 ottobre 1944.

La San Donà degli anni Quaranta

In via Sabbioni abitavano tantissime persone, chi in case, chi in abitazioni dove il legno era l’elemento principale, baracche più o meno ampie dove le numerose famiglie dell’epoca, portavano avanti la loro esistenza tra le ristrettezze dell’economia di guerra. Ovviamente la zia non conosceva la coppia che si è sposata ma nel sentir i nomi dei figli legittimati in quel 1913 subito ha riconosciuto quello più vecchio. Lei bambina la figura di Titta Ferrarese (Giovanni Battista), lo ricorda bene. Quella nascita nel 1898 lo consegnò alla guerra e ad una ferita che gli segnò la vita successiva e che agli occhi di quella bambina dell’epoca era un segno ben distintivo. In quella via Sabbioni, abitavano diverse famiglie Ferrarese, i Turchetto, i Biancotto ecc.. Mia zia viveva nella famiglia allargata della nonna Marianna Lunardelli che rimasta vedova del marito Giovanni Guiotto si era risposata con Giuseppe Biancotto anche lui vedovo, con figli dell’uno come dell’altro matrimonio a cui si aggiunsero altre tre figlie. In quella via Sabbioni le famiglie spesso avevano parentele trasversali e tutti si conoscevano talvolta più per soprannome che per nome. Questi fattori nella buona come nella cattiva sorte hanno sempre portato ad una piena solidarietà nonostante i tempi di guerra e quel crudo periodo terminale della dittatura fascista che ancor più di prima ti metteva spesso da una parte o dall’altra della barricata.

I bombardamenti del 1944
Uno dei rifugi per fronteggiare i bombardamenti del 1944 (Archivio Giovanni Striuli)

In quel 1944 la guerra aveva toccato concretamente la città. Al risuonar dell’allarme la popolazione cercava un riparo e molti avevano pensato a costruirsi dei rifugi lontano dalle case. Così qua e là erano state predisposti dei ripari scavati nel terreno coperti alla bene e meglio che offrivano un riparo sperabilmente distante dagli obiettivi dei bombardamenti e anche da eventuali schegge che potevano venire dalle bombe che cadevano in prossimità. Senonché in quel 10 ottobre tra gli obiettivi vi fu anche l’ospedale civile. Tante furono le bombe che caddero sul centro cittadino. Oltre all’ospedale numerosi edifici pubblici vennero colpiti, il teatro Verdi fu distrutto, una settantina alla fine saranno le case che subirono gravi conseguenze, altrettante quelle danneggiate.

Quel giorno in via Sabbioni
Le macerie dell’ospedale, sullo sfondo s’intravedono alcune delle case di via Sabbioni

Come detto nelle vicinanze dell’ospedale vi era anche via Sabbioni e dal racconto della zia nei pressi delle case dei Ferrarese vi era sito un rifugio nel quale erano soliti mettersi al riparo in tanti, specialmente donne, bambini, ragazzi. Quel bombardamento del 10 ottobre 1944 sarà un qualcosa che difficilmente coloro che lì si rifugiarono hanno poi dimenticato. In quell’inferno di fuoco che prese di mira l’ospedale inevitabilmente molti ordigni colpirono i dintorni, alcuni caddero anche in prossimità del rifugio. Momenti interminabili seguirono, tra urla e pianti, dai ricordi della zia gli aiuti tardarono ad arrivare e l’uscita bloccata tenne imprigionati i superstiti per infinite ore senza saper bene cosa fosse accaduto fuori. Momenti interminabili che nel ricordo arriva sino ai due giorni, tanto è stato lungo e complicato il farli uscire dal rifugio. Alla fine “Cet” Ferrarese dall’esterno riuscì ad aprire un varco e aiutato dalla moglie vennero fatti uscire tutti uno alla volta. Gli occhi di quei bambini trasformarono la loro paura in sollievo per poi rimanere impietriti dalla distruzione che attorniava l’ospedale ed il tratto di via Sabbioni più prossimo.

Un nome da aggiungere alla triste lista
Via Sabbioni negli anni cinquanta

Nel resoconto presente sul libro “Un soffio di Libertà” tra i caduti di quel bombardamento vi è il nome di Pasquale Turchetto (18 anni), in realtà le perdite per la famiglia Turchetto furono due perché anche una coetanea della zia (8 anni) perse la vita. Il suo nome era Silvana e questo consegnò  ancor più tragicità al ricordo di questo bombardamento mai dimenticato dalla sorella Elsa Turchetto, amica di mia mamma e di mia zia, Elsa in seguito si sposerà con un Ferrarese. Nessuno dimenticò quel bombardamento, spettrale fu la vista che si appalesò agli occhi dei sopravvissuti quando furono riportati alla luce del sole. Attoniti, videro distruzioni in ogni dove e con molti soccorritori ancora all’opera nonostante le tante ore trascorse. Una esperienza che non si può dimenticare e forse è anche per questo che la si è raccontata poco alle generazioni successive, quasi a esorcizzarla per attenuare l’effetto di quel ricordo. Quella ragazzina di 8 anni trovò l’abitazione distrutta nel bombardamento, poco rimaneva in piedi e ci vollero mesi per riuscire a ridare a quei cumuli di rovine una parvenza di casa. Rivedere i propri cari scampati ad infausta sorte fu comunque un sollievo, ed in fondo il vantaggio delle famiglie allargate è che una soluzione si poteva sempre trovare presso parenti e amici…..meno sfortunati.

Quei rami familiari scampati ad un bombardamento
Bombardamento di Treviso del 7 aprile 1944

E giusto perché in famiglia non ci siamo fatti mancare nulla, anche nel bombardamento di Treviso dell’aprile 1944 quel che poi diverrà il ramo paterno rischiò di fare una brutta fine. Durissimo fu il bombardamento che colpì il capoluogo trevigiano, furono quasi mille e cinquecento i morti, infinita la distruzione che subì la città. Con mio padre in guerra da anni, fatalmente armiere aviere in quella Puglia da dove avevano iniziato a partire i caccia bombardardieri , la sua famiglia allora abitava nel quartiere di San Antonino e durante quel bombardamento la loro casa fu completamente distrutta. All’arrivo degli aerei mio zio Luigi si accorse subito che quei bombardieri non portavano nulla di buono, giusto il tempo di avvisar la madre, nonna Italia, e la distruzione si abbattè sulle case del quartiere, solo l’essersi rannicchiati vicino a dei muri portanti lì salvò. Macerie in ogni dove e muri squarciati tanto che tra la polvere si poteva intravedere l’esterno, la nonna sotto shock caricò il figlio più giovane su di una cariola, raccolse poche cose e con i figli arrivò quasi senza rendersene conto sino a Breda dove abitavano dei parenti. Anni dopo quel figlio più giovane di nome Dino, sposò la zia stabilendosi a San Donà. Come del resto mio padre Umberto prima aveva sposato mia madre Anna, che della zia era anche cugina. Gli intrecci della vita come sempre sono infiniti.

L’importanza del ricordo

Piccole storie, ricordi perduti che difficilmente potrebbero lasciar traccia se non li si legasse ad un filo utile per risalirvi. Prigionieri del presente, ci stiamo scordando del passato che granello dopo granello, in questi anni più dei precedenti, sta perdendo un numero sempre maggiore di testimoni viventi. Sono infiniti i compiti nella società attuale che vengono affidati ai nonni, il meno praticato rimane sempre quello del ricordo quasi fosse inutile ed invece costituisce uno strumento prezioso sia per chi lo porge che per chi lo riceve, perchè il ricordo non ha futuro se non ha un testimone in grado di tenerlo acceso.

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

(1 – Prima parte « Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti »); (2 – Seconda parte « Morte e distruzione nel tragico autunno 1944 »); (3 – Terza parte)

Morte e distruzione nel tragico autunno 1944

Il ponte stradale distrutto dopo essere stato numerose volte obiettivo dei bombardamenti del 1944

L’estate non era destinata a lasciare tranquilla la popolazione sandonatese. L’oppressione germanica si faceva sempre più stringente, a cui si contrapponevano sempre più apertamente le formazioni partigiane le cui fila si erano rinfoltite dei tanti militari che tornavano dal fronte e ai quali l’armistizio aveva imposto l’adesione alla Repubblica di Salò o in alternativa la prigionia o la clandestinità. E in tutto questo contesto vi era anche la variante di quanti fedeli prima al fascismo ora lo erano alla Repubblica di Salò con divisioni insite nelle stesse famiglie e nelle tante amicizie cui le notizie che arrivavano degli sviluppi della guerra regalavano speranze e disillusioni di una fine prossima. Mesi nei quali si moltiplicarono anche gli arresti e con essi le esecuzioni e le deportazioni. Tra queste anche quella di Attilio Rizzo, grande collaboratore di Monsignor Saretta, che divenne un importante esponente della Resistenza sandonatese prima di venire arrestato a metà agosto e deportato in Germania, dove morì nel gennaio del 1945. Tra i ricordi tristi ovviamente anche quello legato ai Tredici Martiri, la gran parte originaria del sandonatese e uccisi come rappresaglia ad un attentato avvenuto a Venezia.

Il bombardamento del 23 settembre 1944
Il ponte ferroviario distrutto nel 1944

A fine agosto i bombardamenti alleati colpirono il ponte della ferrovia, un obiettivo ricorrente nelle incursioni aeree di quelle settimane. Le vie di comunicazione stradali e ferroviarie erano un obiettivo importante alla pari di quelle telefoniche e telegrafiche. Ma bombardamenti ben più duri erano all’orizzonte. Il 23 settembre 1944 in diverse ondate successive gli aerei alleati sganciarono su San Donà circa 200 bombe. Sia il ponte stradale che quello ferroviario vennero colpiti e si registrarono numerose vittime, ben cinque di una sola famiglia poi salite a sei. Del ponte ferroviario venne distrutta la prima campata, mentre di quello stradale ad essere colpita fu l’ultimo tratto verso Musile. Danni riportarono la conduttura elettrica e quella dell’acquedotto e le stesse linee telefoniche vennero danneggiate. Danni importanti anche alle strade arginali, colpite anche Isiata e Mussetta di Sotto. Un giorno triste per i sandonatesi, quello seguente avrebbe dovuto essere come da tradizione dedicato alla Madonna del Colera con le cresime officiate dal Vescovo ma il tutto venne rinviato proprio per il pericolo incombente dei bombardamenti.

I nomi dei caduti del 23 settembre 1944

Sul libro di Morena Biason “Un Soffio di Libertà” vengono riportati i nominativi dei morti di quel cruento bombardamento. In una casa di via Code distrutta dalle bombe morirono cinque componenti della famiglia Ongaretto: il padre Luigi (35 anni), la moglie Vallese Germana (29 anni), la suocera Orlando Caterina (52 anni) e le figlie Giselda e Vittorina (4 anni), quest’ultima morì in ospedale e sempre in ospedale erano stati ricoverati i figli Diego (7 anni) e Angelo (10 anni), come la sorellina anche Angelo morì giorni dopo portando a sei componenti il tributo di sangue della famiglia Ongaretto. Gli altri caduti furono il marinaio Cigar Carlo (25 anni, di stanza alla Caserma San Marco di San Donà), il commerciante Luigi Marigonda (51 anni), il tipografo Davide Armellin (28 anni) e l’operaia dello jutificio Brussolo Orietta (30 anni). Qualche giorno dopo tra i feriti morirà anche Caterina Zanchetta (56 anni), per cui le vittime di quel bombardamento dalle iniziali nove passarono a undici.

4 ottobre 1944 nuovamente colpito il ponte della ferrovia

I bombardamenti divennero continui nei giorni successivi e nemmeno la Fiera d’Ottobre trovò spazio nei pensieri dei sandonatesi. Il 4 ottobre un nuovo pesante bombardamento subì il ponte della ferrovia, anche gli argini vennero duramente danneggiati e compromessi i lavori di ripristino iniziati dopo il precedente bombardamento. A finire sotto il fuoco alleato anche un barcone di ghiaia transitante lungo il Piave, miracolosamente furono solo feriti i due componenti l’equipaggio, padre e figlio.

10 ottobre 1944 pioggia di fuoco su San Donà
L’Ospedale civile “Umberto I” di San Donà di Piave

E’ il 10 ottobre 1944 la data che rimarrà indelebile nei ricordi dei sandonatesi. In quella grigia giornata di ottobre non fu bombardata solo San Donà di Piave ma lo furono anche Porto Marghera e Treviso. Oltre cento bombardieri mossero in direzione del Veneto, molti furono quelli che puntarono verso quella città lungo il Piave i cui ponti erano stati colpiti ripetutamente nelle settimane precedenti di nome San Donà. Sembrava una giornata di ordinario bombardamento invece questa volta non furono i ponti il vero obiettivo della missione. Quei primi bombardieri che si calarono tra le basse nuvole sganciarono le loro bombe sul centro cittadino quasi a marcare l’obiettivo principale. Seguì una lunga scia di fuoco che cinse le vie del centro concentrandosi particolarmente sull’ospedale civile e gli edifici in Viale Margherita. Ancora una volta l’ospedale sandonatese pagò un caro prezzo come già era successo durante la prima guerra mondiale. Da poco non si fregiava più del nome di “Umberto I”, quel legame con i Savoia non era più gradito dalle autorità fasciste dopo l’armistizio firmato da Vittorio Emanuele III e la susseguente fuga oltre le linee alleate. L’ospedale divenne un grande cumulo di macerie, sia l’artistica struttura verso viale Margherita che i padiglioni ad un solo piano posti dietro furono duramente colpiti. Delle 85 persone presenti all’interno dell’ospedale tra pazienti e personale, furono 24 i morti e 45 i feriti.

Alcune testimonianze di quel giorno
L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

Sul libro dedicato al centenario dell’ospedale “L’ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000” vengono riportate due testimonianze di quel giorno. Il segretario-economo Filiputti: « […] appena ho sentito il rumore degli aerei che si avvicinavano ho detto a Bepi Da Villa che andasse ad avvertire suor Carla e poi, appena il pericolo è diventato incombente, ho visto tanta gente che correva verso il campanile e la chiesa, ed alle spalle sentivo già il fruscio delle bombe che arrivavano e colpivano l’Ospedale. Tra le vittime ricordo la figlia di Centioli, che frequentava l’Ospedale come volontaria e tra le suore, suor Ildefonda Lupi e suor Angiolina Giusto. Ricordo che al momento di rifugiarmi nel campanile ho incontrato il dottor Bruno Nardini. Ma alla tragedia si è cercato subito di rispondere con provvedimenti per gli ammalati e i feriti. Particolarmente incisiva è stata l’azione del Comm. Giovanni Ronchi che ha fatto portare quanto possibile, ricordo in particolare anche della paglia, per predisporre dei giacigli nella caserma come primo improvvisato ricovero per i feriti e gli ammalati che non era possibile trasportare, con mezzi militari, agli ospedali di Oderzo o di Motta di Livenza… ». La seconda testimonianza è del prof. Arnaldo Balbi Guarinoni che all’epoca dei bombardamento era uno studente di medicina che lavorava all’Ospedale civile: « San Donà era una zona piuttosto calda ed era da qualche giorno sorvolata di continuo da delle fortezze volanti, quella mattina volavano più basso del solito. Qualche attimo prima delle 11 avevamo intuito il pericolo e con alcuni pazienti ho abbandonato l’ospedale trovando rifugio sotto le mura di cinta. Ho visto le fortezze volanti sopra di me, ho gridato « semo morti ». Poco dopo siamo stati avvolti da palle di fuoco, colpi tremendi, sembrava la fine del mondo. Quando mi sono rialzato, quelli che erano con me non c’erano più, nemmeno il bambino che avevo sotto il braccio e del quale non sapevo nemmeno il nome. L’ospedale era completamente distrutto…. ».

Ovunque macerie fumanti a invadere le strade
La casa Girardi in Viale Margherita

In viale Margherita oltre all’ospedale furono colpite anche le carceri e il panificio Fasan. Danni anche al Palazzo Comunale, alla Centrale dei telefoni di Stato, alla scuola elementare del centro. In via Ancillotto venne distrutto anche il teatro Verdi, con la vicina tipografia SPES, il panificio Trivellini. Ingenti danni subì anche il Piccolo Rifugio. Come racconta Savio Teker nel suo libro (1), Lucia Schiavinato alle prime avvisaglie aveva fatto uscire quanti più ospiti fosse possibile mettendoli al riparo di un vicino fossato. Le bombe colpirono l’edificio, quando fu tornata la calma immaginando quel che avrebbe trovato all’interno cercò di correre verso il vicino ospedale per chiamare un medico, ma fece solo pochi passi l’ospedale non esisteva più. Al Piccolo Rifugio saranno sei le vittime. Molti saranno comunque i medici che miracolosamente si salvarono dalla distruzione dell’ospedale e che subito si prodigarono nel soccorrere i feriti. A decine furono i feriti curati sul posto, tanti quelli trasportati con mezzi di fortuna verso altri ospedali. Ovunque un panorama di case danneggiate e di sopravvissuti alla strenua ricerca dei propri cari e delle loro povere cose da salvare tra le macerie. Per molti anche quel poco era ben poca cosa perchè il tutto era racchiuso in baracche che niente potevano opporre all’impeto delle esplosioni di un bombardamento. Una settantina furono le case distrutte, altrettante quelle danneggiate. Ai tanti sfollati delle settimane precedenti che avevano lasciato San Donà si aggiunsero ora i tanti che la loro casa l’avevano perduta, o che abbandonata momentaneamente la ritrovarono distrutta. Un’emergenza che San Donà visse per molti anni a venire di un dopoguerra non troppo lontano, ma che per chi stava vivendo quelle tragedie era ancora solo una speranza.

Articolo del Gazzettino del 12 ottobre 1944
L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

Nel libro di Morena Biason “Un soffio di Libertà” vengono riportati ampi stralci dell’articolo del Gazzettino del 12 ottobre scritti dall’inviato Alfonso Comaschi:

Chi entra in Paese dalla strada di Venezia intuisce la gravità della tragedia a destra e a sinistra dell’arteria principale infatti i maggiori edifici appaiono irrimediabilmente distrutti. Un cratere immenso sbarra la via nel fondo di essa : una sedia in frantumi e una bottiglia intera. Poco più avanti le macerie della Pretura e dell’edificio delle Assicurazioni «La Cattolica», che le sorgeva di fronte, si sono quasi riunite attraverso la via. Anche l’albergo del «Leon Bianco» mostra tra le imposte sconnesse e tra le larghe fenditure dei muri le rovine dell’interno.

Via Giannino Ancillotto presenta un aspetto se è possibile ancora più desolato sulla destra il grandioso edificio del teatro Verdi e altri minori immobili sono completamente rasi al suolo fra le innumerevoli voragini aperte da altre bombe che sono cadute nelle vicinanze: anche Piazza Margherita così aggraziata nella sua cintura di verde, denuncia subito le sue ferite di guerra e più avanti tutta Via Dante è un solo ammasso di macerie.

La Pianta dell’ospedale con i vari padiglioni a solo piano terra

Così pure il Piccolo Rifugio appare irrimediabilmente colpito. Era quest’ultimo un ricoveri di vecchi […]   E’ il primo dei luoghi più colpiti, ed è quello che ha subito i danni minori; pure tra le sue macerie rinserra ancora delle vittime. Infatti all’angolo di Viale Margherita la Casa di Ricovero, che fu dedicata ai Caduti della guerra scorsa, pur mantenendo un aspetto non molto dissimile dall’ordinario nelle sue linee esterne, sembra stranamente vuotata dall’interno e rivela gli irreparabili guasti dell’edificio la cui rovina suona doppiamente sacrilegio e per lo scopo cui esso era destinato, in quanto raccoglieva quasi un centinaio di vecchi e per l’affronto fatto alla memoria dei Caduti in onore dei quali era stato innalzato.

Di fronte un gruppo di case è irreparabilmente danneggiato e, accanto un’abitazione civile è stata quasi fatta scomparire dalla violenza dell’esplosione. In questa zona è caduto il maggior numero di bombe in quanto costituisce evidentemente il nucleo dell’obbiettivo. Sembrerebbe impossibile perché proprio qui sorgeva l’Ospedale Civile, ma il centinaio di bombe che vi sono state sganciate non lascia dubbi in proposito.

Gli aerei nemici erano apparsi sul cielo di San Donà verso le 11; erano chiaramente distinguibili dato che a causa del soffitto di nubi molto basso, volavano a quota inferiore alla solita, poco più di un migliaio di metri; anzi, prima che il grosso, a varie ondate si avvicendasse con larghi e lenti giri sull’obbiettivo, un primo gruppo di aerei, da minor altezza sganciava le prime bombe, verosimilmente per circoscrivere il bersaglio. E il bersaglio non poteva essere che l’Ospedale civile malgrado fosse chiaramente distinguibile come tale anche per la pianta a corpo centrale e dai padiglioni, caratteristica di tali tipi di moderni edifici, oltre che per il fatto di essere in maniera inequivocabile contrassegnato dagli emblemi della Croce Rossa.

L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

L’ospedale era un edificio a tre piani e di vari padiglioni; bisogna dire era, perché oggi non si può assolutamente dare neppure il nome di edificio a questo misero ammasso di mattoni e di solette di cemento, di tralicci e di architravi che ingombravano il terreno una volta coperto dalla raccolta ombra dei pini marittimi, ruderi sparsi a ricolmare le voragini delle esplosioni.

Dei tre piani della costruzione centrale sono rimaste in piedi tre colonne; della Cappella un muro che minaccia di crollare, alla base di questo si intravvede, sotto il velo di polvere, presso un angelo decapitato d’alabastro la tovaglia dell’altare. Passando di qua, qualche secondo dopo la rovina, col cuore stretto, nel tentativo di portare aiuto a chi aiuto potesse ancora ricevere, il primario prof. Binotto, ancora stordito dallo scroscio della rovina, si sentiva chiamare per nome; era Don Carlo il Cappellano che era rimasto seppellito, vivo fortunatamente, sotto le macerie della Chiesetta dedicata a Sant’Antonio.

Il primario del resto, come tutti gli altri medici possono veramente dirsi salvi per miracolo, in quanto tutti, si trovavano sul posto, che naturalmente non abbandonarono durante l’incursione. Anche il Commissario Prefettizio Ronchi che pure si trovava in sede e vi rimase durante la distruzione, si prodigò per i primi soccorsi. Purtroppo due suore hanno trovato la morte accanto ai loro malati; una gravemente ferita; un’altra, che è stata dissepolta dopo cinque ore, versa pure in gravissime condizioni. Anche un’assistente sanitaria è morta al suo posto; era la figlia del dott. Veronese, l’odontoiatra della cittadina.

L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

E’ forse impossibile descrivere lo stato dei padiglioni; quello più intatto – ma si può dire così di questa vasta sala dal soffitto completamente sforacchiato? – è il reparto maschile di chirurgia ed è forse più squallido di quello che non siano le sale totalmente rase al suolo. I letti hanno ancora le lenzuola tese, i comodini sono in parte arrovesciati dalla violenza dello spostamento d’aria e hanno sparso le poche suppellettili dei ricoverati; la fotografia di un bambino o un libro, l’immagine di un Santo o «parole incrociate» lasciate interrotte. Sopra un letto c’è ancora un cartoccio d’uva, su tutto pesa, come un incubo, il velo di polvere sollevato dallo scoppio, che traveste di una nevicata macabra i poveri oggetti che popolano le corsie degli ospedali. Più avanti nella sala operatoria, la lampada «sineumbra», miracolosamente intatta, oscilla, appesa ai fili della sospensione; sotto, nella devastazione, la stanza rivela l’aspetto tipico di un’operazione appena terminata. Il paziente, appena finito di operare, strappato si può dire alla morte dalla mano fraterna del chirurgo, è stato travolto e ucciso dal crollo della sala, dove era stato riportato. Ma le perdite più gravi si sono avite nel padiglione ostetrico. Tutte le puerpere vi hanno trovato un’orribile morte; meno una: questa però ha avuto lo strazio di vedersi orbata della creatura appena nata.

Fuori del recinto dell’ospedale, poco più avanti, fuori del viale Margherita, gli abitanti del popolare quartiere dei «Sabbioni» cercano fra le rovine delle loro modeste casette le poche suppellettili che si son salvate o la reliquia di qualche oggetto caro. Sono dei lavoratori che, per la maggior parte avevano costruito la casa con i loro risparmi; qualcuno materialmente con le sue mani; una vecchia rialza dalle rovine in cui sta frugando il volto sbigottito dall’orrore e dall’amarezza e chiede meccanicamente: «Perché?»; e il silenzio della città deserta sembra riempirsi di questa vana interrogazione senza risposta.

I morti del bombardamento del 10 ottobre 1944
I funerali dei bombardamenti di ottobre 1944 (archivio Giovanni Striuli)

Sul libro di Morena Biason “Un Soffio di Libertà” vengono riportati i nominativi dei 45 caduti del tragico bombardamento del 10 ottobre 1944: i fratelli Gonellotto Angelino (23 anni) e Silvio (18), braccianti, sulla pubblica via; Ianna Sofia (40 anni), casalinga, sulla pubblica via; Boccato Angelo (60 anni), fruttivendolo, abitazione; i soldati Crespi Francesco (20 anni) e Nardo Luigi (28 anni) pubblica via; il soldato Raccanelli Isidoro (37 anni), abitazione; Turchetto Pasquale (18 anni), bracciante, abitazione; il possidente Bortolotto Giuseppe (68 anni) e la moglie Bertoncello Elena (65 anni), abitazione; Cecchetto Regina (78 anni), casalinga, abitazione; Centioli Teresa (19 anni), casalinga, abitazione; Stefani Teresa Jolanda (28 anni), casalinga, abitazione; Vallese Irma (39 anni), casalinga, abitazione; Biancotto Antonio (50 anni), manovale, ospedale; Fantin Antonio (63 anni) bracciante, ospedale; Segato Venanzio (15 anni), mezzadro, ospedale; Penso Paolo (55 anni), impiegato, ospedale e la moglie Vescovo Clorinda (52 anni), casalinga pubblica via; Bizzaro Anna (48 anni), casalinga, ospedale; Perissinotto Angela (35 anni), casalinga, ospedale; Tonon Maria (40 anni), casalinga, ospedale; Bottan Anna (59 anni), lavandaia presso ospedale, ospedale; Veronese Lucia (16 anni), studentessa, ospedale; Contarin Veronica (40 anni), infermiera, ospedale; Rovere Rina (25 anni), infermiera, ospedale; Luppi Giuseppina “suor Ildefonsa” (40 anni), suora, ospedale; Giusto Maria ” suor Angiolina” (33 anni), suora, ospedale; Badanai Santa (41 anni), casalinga, ospedale; Bonora Iolanda (30 anni), casalinga e il figlio Fusaro Dante (15 giorni), ospedale; Bortoluzzi Luigia (40 anni), casalinga, ospedale; Cappelletto Gina (19 anni), casalinga, ospedale; Gaiotto Maria (67 anni), casalinga, ospedale; Bobbo Maria (25 anni), casalina, e la figlia Merani Rita (3 giorni), ospedale; Ongaro Giuseppe (35 anni), bracciante, ospedale; Tolon Giuseppe (12 anni), ospedale; Cupresi Casimira (6 giorni), ospedale; Sari Jolanda (25 anni), ospedale, di lei furono trovati solo dei resti umani che solo in secondo tempo si pensa possano essere associati al suo nome; Bellese Maria (3 anni), Piccolo Rifugio; Orlando Maria (81 anni), invalida, Piccolo Rifugio; Fingolo Maria (77 anni), invalida, Piccolo Rifugio; Trevisiol Giovanna (8 anni), Piccolo Rifugio; Maschietto Antonio (76 anni), invalido, Piccolo Rifugio.

Il peggior bombardamento, non l’ultimo
L’interno della chiesetta dell’Ospedale “Umberto I” distrutta nel 1944

La distruzione dell’ospedale diffuse ancor più terrore nella popolazione civile e molti scelsero di abbandonare il centro cittadino, tanto più che quello non fu l’ultimo bombardamento. Molti altri ne seguirono seppur non con quelle stesse tragiche conseguenze. Tra tutti si ricorda quello del 22 novembre che distrusse ancor di più il ponte della ferrovia. Ricorda Savio Taker nel suo libro (2) il numero delle famiglie sfollate e i paesi dei dintorni nei quali erano state accolte. Con scrupolo all’epoca Monsignor Saretta tenne aggiornato questo elenco con tanto di pubblicazione nel foglietto parrocchiale e a turno si recava nei vari paesi a visitare le famiglie sfollate, l’arciprete non aveva dimenticato della perigliosa profuganza a cui lui e tanti sandonatesi erano stati costretti durante la prima guerra mondiale. Tanti mesi mancavano prima di arrivare alla fine della guerra e le tragedie non erano ancora terminate. L’emergenza principale dopo quel tragico bombardamento fu sostituire l’ospedale che da allora venne trasferito provvisoriamente presso Villa Ancillotto. Solo nel dopoguerra venne iniziata la costruzione del nuovo Ospedale Civile dove ancor oggi si trova, nemmeno quella fu impresa facile e ci vollero parecchi anni prima di vederlo inaugurato nel 1953, ma questa è un’altra storia.

(1 – Prima parte « Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti »); (2 – Seconda parte); (3 – Terza parte « Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944 »)

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti

Nel 1940 l’Italia entra in guerra a fianco della Germania, l’esercito italiano verrà impegnato in tanti fronti ma alla fine sarà la popolazione italiana tutta a ritrovarsi al fronte stretta tra eserciti stranieri, italiani contro e distruttivi bombardamenti. Il peggior flagello che l’Italia ricordi e anche San Donà ne pagò un prezzo.

Il Monumento ai Caduti di San Donà di Piave

L’Italia in guerra vi entrò nel 1940 ma già dagli anni Trenta i soldati italiani stavano combattendo in molti fronti, presenti in Libia e in Somalia gli italiani conquistarono l’Etiopia nel 1936 occupando poi l’Albania nel 1939. Conflitti che dal punto di vista economico avevano minato le finanze italiche, tanto più che l’autarchia di regime contrapposta alle sanzioni internazionali non avevano regalato prospettive dorate alla popolazione italiana sempre più alle prese con pesanti ristrettezze. Con il 10 giugno 1940 l’entrata in guerra a fianco della Germania contro Francia ed Inghilterra non fa che acuire i problemi ma al tempo stesso rende esplicito quel prezzo che si dovrà pagare alla guerra. Se da un lato continuano i tanti arruolamenti degli elementi più e meno giovani della popolazione dall’altro già nella notte tra il 10 e l’11 giugno Torino e Genova subirono il primo bombardamento da parte della RAF inglese. Il settore industriale di Liguria, Piemonte e Lombardia divenne un obiettivo delle incursioni aeree notturne inglesi e francesi, ma anche le raffinerie di Porto Marghera subirono il loro primo attacco aereo francese nella notte tra il 13 e il 14 giugno. Francesi che di lì a poco saranno costretti alla resa dall’invasione nazista e contro cui solo poco prima della resa l’esercito italiano aveva iniziato ad avanzare da sud. Se la minaccia francese venne meno grazie al governo collaborazionista di Vichy, i bombardamenti continuarono negli anni a venire da parte di inglesi e alleati: inizialmente ebbero obiettivi economici e bellici, ma che nel proseguo del conflitto mondiale videro sempre più colpita la popolazione civile e lo stesso patrimonio artistico italiano ne pagò un caro prezzo.

In guerra anche contro gli Stati Uniti

Nel dicembre 1941 gli Stati Uniti subirono l’attacco giapponese a Pearl Harbour e la loro neutralità venne meno, subito dopo la Germania e l’Italia dichiararono guerra agli Stati Uniti in nome dell’alleanza instaurata con il Giappone. Se inizialmente le forze dell’Asse trassero beneficio dal tener impegnato il nemico americano da parte dell’alleato giapponese, poi le sorti del conflitto cambiarono quando un anno dopo gli Stati Uniti rinforzarono gli inglesi in Africa dove gli italiani prima e i tedeschi poi avevano attaccato l’Egitto controllato dagli inglesi. Nel mezzo vi era stata la rovinosa invasione della Russia da parte delle truppe dell’Asse, che costò carissimo alla Germania e ai suoi alleati. Tra offensive e controffensive furono soprattutto i due inverni russi a mietere migliaia di morti. Un’Italia in guerra su infiniti fronti ma che già prima del 1939 era conscia della propria impreparazione militare e che suo malgrado ora vedeva le sue truppe impegnate in Etiopia, nel Nord Africa, in Russia, in Grecia, in Jugoslavia.

La guerra alle porte di casa
19 luglio 1943 il bombardamento di Roma, 3mila morti e 11mila feriti

Con la sconfitta in Nord-Africa, per l’Italia le prospettive si fecero rapidamente cupe. Gli angloamericani sbarcarono il 10 luglio 1943 in Sicilia, nel giro di poche settimane arrivarono a controllare l’isola. Un incontro di Mussolini con Hitler nei pressi di Feltre non offrì vie d’uscita all’Italia tanto che in quelle stesse ore un pesante bombardamento aereo alleato colpì per la prima volta Roma. Lo stesso Mussolini venne messo in minoranza il 25 luglio dal Gran Consiglio del Fascismo e successivamente fu dimissionato da Vittorio Emanuele III, imprigionato, e sostituito con Badoglio. Quella via d’uscita la monarchia pensò di trovarla firmando un armistizio con gli alleati, e reso pubblico l’8 settembre, il re e il governo italiano presero la via prima di Pescara e poi di Brindisi. La reazione tedesca fu violenta tanto che liberarono Mussolini il 12 settembre e attuarono quello che avevano sempre fatto in ogni altro paese dell’Asse ribelle: controllo militare tedesco e costituzione di un governo amico, in questo caso la Repubblica di Salò con a capo nuovamente Mussolini. Con l’esercito italiano in rotta e i comandi senza ordini, per i tedeschi fu gioco facile prendere il sopravvento e requisire armamenti e rifornimenti. Tra l’altro il comando tedesco aveva già previsto un passo indietro italiano e si era quindi preparato ridispiegando e rinforzando le truppe nella penisola. Pesanti furono i bombardamenti che colpirono le città meridionali, gli alleati si preparavano a sbarcare in Puglia, in Calabria e in Campania. Con l’operazione “Slapstick” gli alleati sbarcarono a Taranto e l’armistizio fu una chiave per farlo con il minimo danno, nel giro di qualche settimana riuscirono a controllare l’intera Puglia. Dal punto di vista strategico l’occupazione del Salento permise agli alleati di ripristinare le numerose basi aeree italiane, funzionali sia per l’avanzata nel meridione che per colpire il Nord Italia. E proprio dalla Puglia partirono gli aerei della 15° USAAF che colpirono anche le nostre zone.

Dopo l’armistizio s’intensificano i bombardamenti
7 aprile 1944 bombardamento di Treviso, 1470 morti – “Palazzo dei Trecento”

Se nel settembre 1943 l’Italia cercò una via d’uscita firmando l’armistizio, la massiccia presenza tedesca non rese meno tenace la guerra. Anzi il conflitto divenne più crudo con un ruolo sempre più subalterno dei fascisti della Repubblica di Salò nei confronti dell’esercito germanico divenuto ancor più d’occupazione agli occhi di una popolazione stanca e insofferente. Se da un lato oramai la popolazione italiana a fronte dei tanti bombardamenti aveva per la gran parte abbandonato le città e cercava di tenersi lontano dai possibili obiettivi militari, dall’altro le distruzioni di interi quartieri di una guerra tutt’altro che selettiva fece registrare tante perdite tra la popolazione civile. Uno dei bombardamenti più duri nello scenario veneto fu quello che subì Treviso il 7 aprile 1944 che costò 1470 morti ed una distruzione generalizzata del centro cittadino, ne fece le spese anche il Palazzo dei Trecento, uno dei simboli artistici della città.

La guerra alle porte di casa
Il ponte stradale negli anni trenta

In quei primi mesi del 1944 i bombardamenti di Treviso e quelli continui di Mestre e di Porto Marghera avevano prodotto un alto numero di sfollati che cercarono scampo nelle zone circostanti, non ultima San Donà di Piave che accolse numerose famiglie e riuscì a raccogliere per la diocesi ferita ben cento mila lire di offerte. Ma le stesse autorità di San Donà incominciarono in quella primavera del 1944 ad invitare la popolazione ad abbandonare il centro cittadino e soprattutto a tenersi a distanza da quegli obiettivi militari come potevano essere il ponte stradale e quello ferroviario, sottolineandone le zone e le vie da cui era consigliata l’evacuazione specie di chi non sarebbe stato in grado di farlo celermente in caso di pericolo. Ed in particolare di notte ad osservare gli orari del coprifuoco per non offrire il fianco ai sorvoli dei caccia alleati notturni.

Le prime bombe cadono sul sandonatese

Con il fronte che si avvicinava alla Romagna si intensificarono nell’estate i bombardamenti delle città, particolarmente cruenti quelli intorno a Bologna, ma non di meno le incursioni imperversarono verso i porti di Venezia e Trieste. Inutile dire che la direttrice degli aerei portava al sorvolo continuo dei cieli sandonatesi, una minaccia costante e pur se molte missioni prendevano la direzione della Germania tra gli obiettivi multipli che avevano, anche le nostre zone entrarono spesso nel mirino degli attacchi alleati. I timori dei tanti sandonatesi che scrutavano i cieli solcati dagli aerei alleati presto si materializzarono. Le prime bombe caddero nella zona della Casa Paterna in via Calnova e a Chiesanuova il 18 luglio, mentre particolarmente importanti furono i danni subiti da Musile il 21 luglio con le prime vittime, danni anche dal lato sandonatese subì la strada arginale verso Grisolera.

Le truppe tedesche prendono possesso di San Donà
Il ponte della ferrovia colpito dai bombardamenti alleati

A fine luglio le truppe tedesche rafforzarono la loro presenza a San Donà occupando in modo stringente molte zone della città e requisendo numerose abitazioni, lo stesso Oratorio Don Bosco era pieno di soldati tedeschi con cui i salesiani furono costretti ad una scomoda convivenza. Una presenza tedesca che si manifestava in tutto il sandonatese con continue retate nelle quali i tedeschi si alternavano ai fascisti alla ricerca di partigiani, disertori del regio esercito e sempre più di militari alleati sopravvissuti agli abbattimenti degli aerei che sorvolano i cieli sandonatesi e non. Il 3 agosto di un nuovo pesante bombardamento fu fatto oggetto Musile dove caddero un centinaio di bombe, un’altra ventina caddero su San Donà. L’obiettivo palese erano sempre i ponti sul Piave ma è inevitabile che a farne le spese furono i centri cittadini. Alla fine di agosto a finire sotto le bombe fu il ponte della ferrovia pesantemente danneggiato.

Quella sirena divenuta incubo
Le sirene antiaeree ancora esistenti sui tetti di Roma

Numerosi erano gli allarmi aerei che risuonavano ogni giorno a San Donà e la tarda mattinata era l’orario solito in cui tutti erano costretti a cercare di sfuggire alle possibili esplosioni, chi in rifugi predisposti chi in ripari di fortuna. Decisamente più scomodi quando a risuonare erano le sirene di notte con uno stato di apprensione perenne della popolazione che aveva deciso di rimanere in città. Come racconta Savio Teker nel suo libro (2.): « I segnali d’allarmi erano tre: Limitato pericolo (tre segnali da 10 secondi con intervalli di 10 secondi); Pericolo (dieci segnali di 3 secondi con intervalli di 3); Cessato allarme (un segnale di 60 secondi) ». Gli inviti all’evacuazione della città verso le zone di campagna divennero sempre più assillanti e numerose erano oramai le famiglie che ingrossarono le fila degli sfollati.

Il campanile come rifugio notturno
Immagine aerea del centro di San Donà di Piave del 1930

Tra i simboli di quel periodo fatto di continue minacce aeree diurne e notturne a sorpresa vi è stato il Campanile. Ne dà conto Savio Teker inserendo nel suo libro (2.) un racconto pubblicato su un foglietto parrocchiale e scritto dallo stesso Monsignor Saretta a Liberazione di San Donà avvenuta: « Ci sono dei cittadini che hanno proprio chiesto ospitalità al campanile per fare i loro sonni tranquilli, e su per le scale, in tutti i piani del grattacielo, fino alla cella campanaria, ogni notte si dispone con mezzi di fortuna una folla silenziosa e trepidante per sottrarsi ai colpi micidiali di “Pippo” tenebroso. Tutto lo spazio disponibile è utilizzato. Non cadrebbe per terra un grano di miglio. Vi sono i “sediari” pigiati l’uno vicino all’altro, diritti, avvolti nelle ampie coperte per ripararsi dal freddo che entra col vento dalle finestre senza vetrate. Stanno immobili, rigidi, per tutta la notte, come pietrificati. Più disgraziati sono quelli che devono accomodarsi in qualche modo su per la scala. Ciascuno ha il suo gradino, e guai a chi osasse toccarla! Il diritto del primo occupante è riconosciuto in pieno. Qualche fortunato, di proporzioni più abbondanti, si è assicurato l’uso anche di due o tre gradini. E se durante la notte si potesse far luce su quella folla di accoccolati, sarebbe uno spettacolo strano, macabro, pietoso quello che si presenterebbe al nostro sguardo. Poi ci sono i privilegiati, che hanno imbastito un letto di fortuna, con reti metalliche, con materassi. Devono però essere puntuali, all’ora fissata, perché non v’è spazio fra letto e letto e chi arriva in ritardo deve passare sopra i malcapitati, che già riposano sotto le coperte, con pericolo di sentirsi mettere il piede,,,,in fallo. Non mancano le sentinelle, s’intende, senz’armi: sono i ricoverati sporadici, che nel momento del pericolo cercano rifugio in campanile e vi si introducono a furia di spintoni, e vi restano per ore e ore, nelle posizioni più incomode, ma sempre in piedi, a disagio, in attesa di…. Riveder le stelle. Piccole fiammelle a olio, accese davanti al Crocefisso, illuminano la strana catacomba (in senso verticale), quel tanto che è indispensabile per evitare pericoli e disordini, e rendono il soggiorno anche più tetro e misterioso. Così per settimane, per mesi, per tutte le notti, da quando gli aerei notturni vanno spargendo il terrore e la morte ».

(1 – Prima parte); (2 – Seconda parte « Morte e distruzione nel tragico autunno 1944 »); (3 – Terza parte « Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944 »)

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

Antonio Pasinetti, un fotografo di San Donà

Cartolina viaggiata del 1940 (Ed. Fratelli Dall’Oro, fotografia Antonio Pasinetti, Fotocelere di A. Campassi – Torino)
I fotografi di San Donà dall’Annuario del Regno d’Italia 1935

In via Borgo, poi via Vittorio Emanuele, quindi corso Silvio Trentin sempre vi è stato un fotografo. Che sia egli Battacchi, oppure Pasinetti, o anche Striuli le loro immagini sono rimaste impresse nella storia sandonatese in quanto sono state oggetto di cartolina. Un biglietto da visita importante di San Donà di Piave e come tale oggetto da collezione e testimanianza da tramandare ai posteri.

Foto da cartolina

Una macchina fotografica a pellicola dell’epoca.

E allora ci par di vederli i fotografi di quegli anni muoversi con quei loro strumenti di lavoro, solo lontani parenti di quelli sconfinati nell’oggi dell’era digitale. Doveva essere una strumentazione piuttosto ingombrante quella che veniva utilizzata all’epoca che sicuramente non sfuggiva agli occhi dei passanti, molti dei quali divenivano parte attiva degli scatti del fotografo anche perchè liberare la scena poteva risultare un pò complicato. E allor si capisce come i fotografi cercavano sovente degli orari dove i soggetti in movimento fossero pochi e non costringessero gli stessi a sprecare inutilmente lastre e pellicole in cerca del giusto scatto che solo in un secondo tempo avrebbero potuto controllare.

Tutto in una notte, degli indimenticabili scatti

Cartolina viaggiata del 1942 (Foto Antonio Pasinetti, Fotocelere di A. Campassi – Torino)

E viaggiando ancora di immaginazione pensiamo ad Antonio Pasinetti che in fatto di cartoline ha contribuito in modo importante, con degli scatti di assoluto valore beneficiati all’epoca anche da dei formati che valorizzavano al massimo l’immagine proposta nelle cartoline. In particolare gli scatti notturni di Piazzetta Trevisan devono avere avuto una preparazione particolarmente accurata. I lampioni accesi, la fontana pienamente funzionante, di sicuro non furono pochi nemmeno i permessi per riuscire a realizzare il tutto. Non ci stupiremo che la sua opera fosse stata richiesta dalle autorità dell’epoca, un modo per celebrare artisticamente la collocazione della nuova fontana al centro della piazza di fronte al Duomo. E allora pensiamo al fotografo mentre studia la scena, guarda le luci a disposizione e cerca la giusta angolazione per trovare la migliore inquadratura. Un lavoro talmente accurato che di quella piazza possiamo ora ammirarne ben tre scatti divenuti cartolina. Sembra quasi di accompagnare l’autore in quel notturno contesto seguendo quel suo obiettivo quasi fosse uno guardo reale. Un accompagnarci passo passo intorno a quella piazza sentendo i rumori e apprezzando le luci, le ombre e i precisi contorni dei dettagli.

Cartolina viaggiata del 1935 (foto di Antonio Pasinetti, Fotocelere di A. Campassi – Torino)

La fontana di Piazzetta Trevisan

Il duomo distrutto nel 1918 ritratto dalle case che all’epoca erano poste nello spazio che poi sarà destinato a piazzetta Trevisan

Le cartoline sono della metà degli anni Trenta e furono più volte riproposte anche in successive edizioni sino agli anni sessanta. Quella Piazza fu voluta dall’arciprete Luigi Saretta all’alba della ricostruzione dopo il buio e la distruzione della grande guerra. Prima di fronte al vecchio duomo la città si era interamente sviluppata lungo la via principale che dinanzi passava, oltre quella linea di case non vi era nulla. Nel ridisegno della città con la riedificazione del nuovo duomo venne sviluppata frontalmente anche una piazza appena oltre il corso il principale intitolata ad Angelo Trevisan, esponente di quella casata a cui è legata l’origine stessa di San Donà. Uno spazio che venne pienamente utilizzato nel 1925 in occasione del Congresso Eucaristico e che successivamente vide la collocazione della fontana. L’anno preciso lo si può desumere da una cartolina dell’epoca, alla base della fontana viene indicato l’anno fascista XII°, ovvero il 1934. Il che ci riconduce a quegli scatti fotografici di Antonio Pasinetti, poi divenuti cartolina.

La fontana di Piazzetta Trevisan in una cartolina viaggiata del 1934, l’iscrizione alla base indica lo stesso anno della cartolina ovvero il XII° anno fascista.
Quell’angolo del Duomo nel 1932

Quell’angolo del Duomo nel 1932

Il timbro della cartolina del 1932

Quelle storie sospese che s’incrociano nelle cartoline hanno un nuovo capitolo. Non tanto per lo scritto questa volta ma per i protagonisti della storia. Di sfuggita avevo intravisto solo l’immagine, sembrava quasi il classico soggetto religioso che talvolta s’incrocia in talune cartoline. A guardarla bene aveva un qualcosa di famigliare, un già visto che poteva avere un nesso passato ma non certezza. Ed invece una volta arrivatami in mano ecco scoprirne anche la didascalia. Il velo subito è sceso e il nesso sandonatese è stato subito scoperto, quel granello di ricordo è divenuto montagna. L’approfondimento poteva iniziare.

La cappella del Duomo di San Donà di Piave
Il fronte della cartolina viaggiata del 1932, con l’altare della Cappella del Duomo di San Donà

L’immagine è della fine degli anni venti, ovvero di quel periodo nel quale anche il nuovo Duomo sandonatese conobbe la sua completa ricostruzione dopo la grande guerra. La stessa immagine la si trova nel libro di Monsignor Chimenton “S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella” (1928). E’ uno scatto del fotografo sandonatese Batacchi, molte le sue immagini della città contenute nel libro del Chimenton e ancor più numerose quelle divenute cartoline in quegli anni. Il soggetto ritratto in questa immagine è l’altare dedicato San Vincenzo Ferreri presente nella Cappella della Fonte Battesimale nel Duomo di San Donà di Piave, la prima cappella alla destra dell’altare principale. Offerto alla parrocchia dal cav. Dott. Vincenzo Janna, sopra l’altare campeggia una pala dipinta dal pittore Cherubini incastonata in un mobile fatto dall’intagliatore Papa su disegno dell’architetto Torres.

Così descriveva Monsignor Chimenton la pala dedicata a San Vincenzo Ferreri: « La Madonna delle Grazie campeggia in posto d’onore, su quella tela, seduta su di un ricco trono, come una matrona; fra le sue braccia sostiene il Bambino. Riccamente vestita, in un atteggiamento dolce e delicato, unitamente con il suo Figliuolo Divino volge il suo sguardo verso i Santi che stanno ai piedi del suo trono, e verso i fedeli che presentano le loro venerazioni: sembra ripetere che la sorgente della sua grandezza e dei suoi trionfi è nella Divina Maternità. Dietro il trono della Vergine, sullo sfondo che si allunga come in una visione di panorama, si scorge il nuovo tempio di S. Donà di Piave, ultimato in tutte le sue parti, anche nel suo nuovo pronao, e il campanile ».

Una fotografia odierna della pala dedicata a San Vincenzo Ferrer

« Ai piedi del trono della Vergine stanno i Santi patroni della cittadina, che ricordano la diocesi di Treviso e la vecchia Gastaldia di S. Donà: S. Liberale, che regge lo stendardo del Comune di Treviso, è in atteggiamento di perfetto guerriero, dalla divisa romana, e la corazza sul petto; tiene la sua fronte rivolta alla Vergine; con le mani congiunte sembra impetrare da Maria nuove grazie per la diocesi di cui è patrono, come ne ottenne per la stessa durante la guerra; San Vincenzo Ferreri, nel suo abito domenicano, la più bella fiugura, forse, del quadro, che additando con la mano sinistra la Vergine, la mano destra poggiata sul petto, ricorda in parte almeno, il programma della sua predicazione; S. Donato Vescovo sostiene nella sua destra il pastorale e nella sinistra il libro del Vangelo: è la figura solenne del patrono della Gastaldia; S. Marco evangelista, austera figura di pensatore e d’inspirato, che, la fronte leggermente sollevata, l’occhio raccolto come di chi medita su quanto sta compiendo, o meglio su verità che devono formare la base della nuova fede, scrive il suo Vangelo: seduto su d’un masso, ha presso di sé il fulvo leone, simbolo della gloriosa repubblica di Venezia ».

Una cartolina sorprendentemente rara che non ricordo di aver mai incrociato e che potrebbe essere parte anche di una serie di cartoline.

Nella mappa del Duomo l’esatta ubicazione dell’altare nella cappella della Fonte Battesimale
La tipografia S.P.E.S. San Donà di Piave
La tipografia S.P.E.S. con vista Duomo

Anche il retro porta una sorpresa relativa alla stampa della cartolina. A editare e stampare la stessa è la S.P.E.S. di Evaristo Da Villa che delle cartoline poi farà una missione con una sterminata varietà nei decenni successivi anche se la tipografia sandonatese non la si trova più stampigliata sul retro. Riguardo alla S.P.E.S. ci viene in soccorso ancora Monsignor Chimenton che di questa tipografia scrive « La tipografia Spes sorse dopo la guerra. Iniziò il suo lavoro in casa Gnes, in viale Margherita. Nel 1926 si trasportò in un locale più ampio, più adatto, in via Giannino Ancillotto, presso il nuovo teatro Verdi. Ne è proprietario Evaristo Da Villa, la direzione tecnica è affidata al signor Guido Zottino.

Quel destinatario depositario di una storia
Il destinatario della cartolina del 1932

La cartolina è  del 1932 e venne inviata a Roma presso l’Ospizio Salesiano del Sacro Cuore dove risiedeva il chierico Luigi Ferrari. Questi altri non era che uno dei tre salesiani che nel 1928 arrivarono a San Donà di Piave per partecipare alla fondazione dell’Oratorio Don Bosco, all’epoca già in costruzione. Oltre al chierico, vi erano il direttore don Riccardo Giovannetto e il coadiutore Mauro Picchioni. I tre legarono la loro permanenza sandonatese non solo in ottica costruzione dell’Oratorio ma prestarono la loro opera anche all’Orfanotrofio fondato subito dopo la conclusione della prima guerra mondiale.

L’arrivo dei salesiani a San Donà di Piave
Bollettino Salesiano nr. 11 novembre 1928

Una descrizione molto significativa dell’arrivo dei tre salesiani a San Donà di Piave è contenuta nel Bollettino Salesiano nr. 11 del novembre 1928 (pag. 7):  « Il 24 settembre, giorno in cui il popolo di S. Donà di Piave celebrava la festa in onore della Madonna del Colèra, i Salesiani fecero ingresso in città per dar principio al loro apostolato tra la gioventù. L’accoglienza che il buon popolo fece ai nostri confratelli, fu la più entusiastica che si possa immaginare.  Alla stazione erano ad attenderli l’Arciprete Mons. Luigi Saretta, che tanto si adoperò per avere in S. Donà i Figli di Don Bosco, e con lui erano la Contessa Corinna Ancilotto, benemerita Presidente dell’Orfanotrofio, Donna Amelia Fabris e Donna Maria Bortolotto del Comitato d’onore; le signore Perin, Bastianetto e Bagnolo del gruppo Donne Cattoliche; il Cav. Magg. Peruzzo, il cav. Marco Bastianetto, l’ing. Ennio Contri, il geom. Attilio Rizzo, i sig. Giuseppe Bizzarro, Alberto Battistella, Umberto Roma ed altri di cui ci sfugge il nome, per il Comitato esecutivo pro Oratori e per gli Uomini Cattolici. Dopo un breve saluto e colloquio nella sala d’aspetto, gentilmente concessa dal Capo Stazione, li attendeva una immensa folla che li accolse con evviva ed esclamazioni mentre i fanciulli eseguivano con l’accompagnamento della Banda locale, apposito inno composto dal Rev.mo Arciprete. »

In corteo verso il sentro cittadino. « S’iniziò il corteo aperto dai bambini dell’Orfanotrofio, dai Fanciulli della Dottrina, dagli Aspiranti al Circolo, dal Circolo Giovanile, e dietro agli Uomini Cattolici, venivano i Salesiani circondati dal Clero locale, dal Comitato Esecutivo dell’Oratorio e dalle Autorità. Seguiva una folla immensa di signore, di donne del popolo, di giovanette del Circolo, di Piccole Italiane, e in coda per adesione in segno di onore, una interminabile fila di automobili delle principali Famiglie del paese. Il corteo imponente si diresse al Duomo fra una festa di sole, di canti, di suoni, uno sventolio di bandiere e due ali di popolo reverente e festante. Da tutte le case su tutti gli alberi erano scritte inneggianti ai Salesiani. Giunti in Piazza del Duomo il corteo si fermò su l’atrio ove, accompagnato dalla Banda fu di nuovo eseguito l’inno da migliaia di voci.

In una immagine fatta all’Orfanotrofio in quegli anni, sono presenti i tre salesiani. Nella foto si riconoscono tra gli altri: il primo seduto a sinistra MAURO PICCHIONI, il chierico P. Pretz, MONSIGNOR LUIGI SARETTA, don RICCARDO GIOVANNETTO, il sig. G. Rocco. In alto in veste nera, uno dei protagonisti di questa nostra storia il chierico LUIGI FERRARI

Il saluto in Duomo.  Entrati nella Chiesa affollata di popolo, i Salesiani ricevettero il saluto da mons. Vescovo di Treviso. Mons. Longhin ricordò la lunga attesa, le preghiere, le suppliche dell’Arciprete e prendendo lo spunto dall’immensa moltitudine presente fece rilevare come tutto il popolo avesse desiderata ed attesa la venuta dei Salesiani. In nome di tutti e in nome proprio, Egli si disse lieto di salutarli: Benedicti! Sicuro che traendo lo spirito e gli auspici del grande Educatore don Bosco, essi avrebbero compiuta opera feconda di bene nella vasta Parrocchia. Si augurò di veder presto sugli Altari il Fondatore della Famiglia Salesiana, lieto di tornare a S. Donà per celebrare le virtù e le glorie di Giovanni Bosco.

La processione in onore della Madonna del Colera del 24 novembre 1928 tratta da Inoratorio

Dopo la Messa solenne celebrata da mons. Valentino Bernardi con assistenza di S. E. Mons. Vescovo e di numeroso Clero, i Salesiani furono accompagnati in Canonica dove ricevettero l’omaggio del l’ill.mo sig. Podestà Dr. Costante Bortolotto e dei due vice podestà sig. Giuseppe Fornasari e sig. Giuseppe Davanzo.

Sul mezzogiorno Autorità e Clero in bella armonia di gioia e di festa, si raccolsero in Canonica a banchetto insieme con mons. Vescovo e i Padri Salesiani. Al levar delle mense brindarono, acclamatissimi l’Arciprete e il Podestà. Rispose il Rev.mo Ispettore Don Festini ringraziando commosso.

La processione pomeridiana.    Nel pomeriggio si svolse la tradizionale interminabile Processione sigillata da un ispirato discorso di monsignor Vescovo. Tal festa rimarrà in benedizione ed in memoria nel cuore di tutti i Sandonatesi. »

Questa la relazione pubblicata dall’ottimo AVVENIRE D’ITALIA del 29 settembre . « Sentiamo il dovere di esprimere a Mons . Longhin, al R .mo Sig. Arciprete, alle Autorità e a tutte le egregie persone che ebbero parte attiva in questa dimostrazione, la nostra riconoscenza. Particolarmente a Mons. Saretta, che volle con un bellissimo Numero Unico intitolato : I Salesiani a S . Donà di Piave far conoscere alla buona popolazione l’opera di D. Bosco e l’apostolato dei suoi figli. Nella lettera con cui annunziava la venuta dei Salesiani, diceva ai suoi parrocchiani : Fin dal primo istante i Salesiani devono sentire la simpatia, la benevolenza, il cuore di S. Donà di Piave. Li accompagneremo all’Altare, per sciogliere l’inno della riconoscenza e per invocare la benedizione del Signore sopra di loro e sopra i nostri figli». I salesiani hanno sentito ciò nell’accoglienza del 24 settembre e sperano che la benedizione del Signore e la benevolenza del popolo sandonatese li aiuteranno a esplicare con frutto la propria missione. »

E come d’incanto anche il mittente è d’eccezione

Ricca la storia contenuta in questa cartolina, da ogni parte la si guardi offre spunti di approfondimento. Manca solo di conoscere chi abbia scritto al chierico Luigi Ferrari in quel 1932. Come la ciliegina sulla torta è da sempre considerata l’ultima preziosità ivi depositata, anche il mittente è la giusta conclusione di questa nostra storia. Lo scritto è breve quasi una stringata risposta ad una precedente missiva. “Anch’io….ricordando” è l’unica frase inserita, accompagnata dalla firma: Luigi Saretta, ovvero l’arciprete di San Donà di Piave.

Le poche parole scritte da Monsignor Saretta.

Per approfondimenti: 1. « S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella » (1928) di Mons. Costante Chimenton; 2. « Storia cristiana di un popolo – San Donà di Piave » (1994, De Bastiani Editore) di Domenico Savio Teker; 3. « Ancora un giro in giostra » (2006, Tipolitografia Colorama) di Wally Perissinotto; 4. « Cent’anni di carità » (2021, Digipress Book) a cura di Marco Franzoi; 5. le pagine dei siti Inoratorio.it e Duomosandona.it

La tipografia G.B. Bianchi (fotografia), 1918

Via Maggiore a San Donà di Piave nel 1918

Qualche mese fa raccontavamo la storia della Tipografia G.B. Bianchi ( « Tipografia G.B. Bianchi, San Donà di Piave » ) la sua venuta a San Donà di Piave e la sua importanza nella vita cittadina con le varie pubblicazioni, non ultime le cartoline. A distanza di qualche mese è stato possibile trovarne traccia in una fotografia austriaca scattata durante il terribile periodo dell’occupazione nemica nel primo conflitto mondiale. Ora ne abbiamo la giusta ubicazione, si trovava in via Maggiore nel tratto che dal ponte sul fiume Piave portava al centro cittadino. Nella foto la si nota con la sua insegna sulla destra, sullo sfondo si intravede il Duomo gravemente danneggiato dai cannoneggiamenti dell’esercito italiano posizionato oltre la linea del Piave.

Racconta Monsignor Chimenton che dopo la guerra riprese la sua attività in una sede più onorifica, solo che quella via Nazionale che il Chimenton cita al momento non è ben identificabile, anche se potrebbe essere il primo tratto di dell’attuale corso Silvio Trentin e che nel periodo successivo alla prima guerra mondiale venne denominata via Vittorio Emanuele.

Quel terribile inverno russo del ’42

« Mannaggio u freddu ca fa » (cit. Alessandro Marini, 277° Regg. Fanteria – Divisione Vicenza)

Cartolina viaggiata di San Donà di Piave (Chiesa – Interno). La cartolina porta nell’immagine un’imperfezione, è sporcata dall’inchiostro di un timbro particolarmente grande.

Ci sono cartoline sulle cui immagini ci soffermiamo incuriosendoci sui soggetti, i dettagli, i ricordi. Spesso questi ultimi nemmeno ci appartengono essendo legati ad un altro tempo, ad un’altra generazione. Eppure lì ci soffermiamo pensando se e dove abbiamo visto questa stessa immagine. In questo caso l’interno del Duomo è una di quelle immagini che sono state riproposte più volte nelle cartoline dedicate a San Donà di Piave. La stessa immagine la possiamo trovare sia negli anni trenta-quaranta che successivamente, magari in edizioni sgranate per le prime e patinate per le seconde. La storia che ci viene da questa cartolina è però un’altra e la scelta di quell’interno chiesa non era che una preghiera, una speranza.

La Storia nascosta nel retro

Come talvolta accade è il retro della cartolina che ti spinge ad approfondire, a vedere chi la scrive e chi ne era il destinatario regalandoti un vissuto vero. Siamo negli anni Quaranta, quelli terribili della seconda guerra mondiale, quelli conclusivi del ventennio fascista. L’Italia ormai in guerra vedeva le proprie migliori generazioni partire per i vari fronti, poco prima che l’Italia divenisse essa stessa oggetto del contendere. Quei giovani che avevano attraversato il periodo della grande guerra e che magari avevano vissuto le privazioni e la fame di quel crudo primo dopoguerra, erano lì zaino in spalla a ripercorrere lo stesso destino attraversato dai loro padri.

La madre, mittente della cartolina spediata il 27 dicembre 1942

A scrivere la cartolina è una madre il cui figlio era stato arruolato in un reggimento di fanteria. Lucia Marini, questo il suo nome, la inviava al figlio Alessandro spedendola ad uno di quegli indirizzi speciali che poi l’avrebbero smistata ai vari reggimenti. E’ questo un dettaglio importante perché ci racconta chiaramente lo scenario lungo il quale questa cartolina ha iniziato il suo viaggio.

La posta militare
Timbro « 156 »

Pur non essendo indicata la destinazione, quel numero accanto alla posta militare segnala la divisione a cui è stata inviata la cartolina. Erano molti all’epoca gli indirizzi di questo tipo, nel caso della spedizione in Russia erano addirittura 28. Dei semplici uffici postali dedicati operanti inizialmente presso il comando di Divisione e che poi iniziarono a spostarsi al seguito delle truppe. Una presenza importante quella di questi uffici postali itineranti che dava modo alla truppa di mantenere un contatto con le famiglie in Patria in epoche dove la lettera e lo scritto erano l’unico modo per comunicare. La posta militare 156 in particolare era stata assegnata alla « Divisione Vicenza ».

Posta militare 156, Divisione « Vicenza »
La posta militare delle truppe nella campagna di Russia

La Divisione “Vicenza” era stata ricostituita nella primavera del 1942 dopo le glorie conquistate nella prima guerra mondiale e il successivo scioglimento nel 1919. A farne parte vennero chiamati il 277° e il 278° Reggimento di Fanteria e il 156° Reggimento di Artiglieria. A fine settembre la Divisione “Vicenza” iniziò il suo trasferimento in Russia. Ad affiancare la Divisione anche il servizio postale denominato posta militare 156. Inizialmente il servizio operava da Brescia poi dal 10 ottobre al seguito delle truppe si insediò a Kupjansk, in Ucraina. A metà dicembre gli attacchi russi furono particolarmente cruenti e anche Divisione “Vicenza” venne trasferita a Rossoš. Dopo il lungo trasferimento il 277* Reggimento venne subito schierato in prima linea con le truppe alpine. Gennaio fu un mese terribile per l’esercito italiano attestato sulla linea del Don. I nomi di Nikitowka, Nikolajevka e Valniki divennero presto sinonimi di sofferenza e tragedia. A metà gennaio alla pari delle truppe alpine la Divisione Vicenza venne travolta dall’avanzata dell’Armata Rossa, pesanti furono le perdite ancor più accresciute dalla successiva rovinosa ritirata dove la fanteria pagò a caro prezzo l’inadeguatezza del proprio equipaggiamento. Il 17 gennaio 1943 la posta Militare 156 cessò di esistere, con essa la 108 (Corpo Alpino), la 201 (Divisione Tridentina), la 202 (Divisione Julia) e la 203 (Divisione Cuneense). Altre resistettero sino a marzo, poche altre fino a maggio quando il destino della spedizione in Russia era oramai segnato.

Una speranzosa attesa affidata ad una cartolina

Tornando alla cartolina in questione, questa era solo parte di una fitta corrispondenza tra madre e figlio, tipica di quei tempi di guerra. Talune volte a scrivere e a leggere questi scritti era un sacerdote perchè non sempre le generazioni nate a cavallo del secolo avevano potuto usufruire di un’adeguata istruzione. La scarsa puntualità della consegna portava a ricevere più lettere assieme con delle risposte che si accavallavano. Marini Alessandro che la madre nello scritto chiama Dino apparteneva al 277° Reggimento Fanteria, inquadrato nella Compagnia Comando con incarico telefonista.

Cartolina scritta da Lucia Marini il 27 dicembre 1942

Caro Dino,

ieri ho ricevuto due cartoline in data 5 e 7 corr. e lettera in data 11 corr. dove mi dici che sei in viaggio. Coraggio, caro Dino, speriamo sempre nel Signore. Noi stiamo bene augurando a te. Spero che almeno il secondo telegramma ti sia giunto, ad ogni modo ti mando tanti auguri e ti raccomando di continuare a scrivermi sempre. Ti scriverò presto lettera, intanto ti mando tanti baci.

Tua mamma

Saluti auguri per il nuovo anno. (scritta alla rovescia)

Il triste epilogo

Spedita subito dopo il Natale del 1942 questa cartolina si incamminò verso la Russia ma non è dato sapere fin dove arrivò, di certo non tra le mani del figlio. Come detto la posta militare 156 cessò di esistere il 17 gennaio 1943 quando il fronte cedette. Quale sia stato il destino di Alessandro ce lo indica l’albo dei caduti della seconda guerra mondiale dove il suo nome è incluso e che particolarmente nel caso della Russia unisce accanto ai caduti anche i dispersi. Il soldato Alessandro Marini viene segnalato in questo elenco dal 31 marzo 1943, sul database del sito della Divisione Vicenza viene inserita un’ulteriore informazione relativa al luogo della morte identificato nel campo di prigionia 56 di Uciostoje, nella regione russa di Tambov. Era nato il 10 ottobre 1920 a Cessalto, poco più che maggiorenne morì sul fronte russo.

L’incredibile opera del fato

Il ricordo è un qualcosa di vivo che talvolta è capace di sorprendere quando meno te lo aspetti. E allora può capitare che un documento recuperato tanti anni fa si possa infilare nel mezzo di un altro ricordo che stai sfogliando pretendendo giustamente di esserne parte. Quasi nello stesso momento in cui sua madre scriveva la cartolina, Alessandro Marini scriveva una « cartolina postale per le forze armate » inviando i migliori auguri di buone feste ai funzionari dei Consorzi di Bonifica di San Donà di Piave presso cui evidentemente lavorava aggiungendo uno speciale saluto a Berto Maschietto presumibilmente suo collega. Anche in questo caso l’uso dei nomi è importante Alessandro è il suo nome ufficiale, che lui riduceva a Sandro ma tutti compresa sua madre lo chiamavano Dino. E così si firma per l’amico-collega scrivendogli: “Mannaggio u freddu ca fa”. Dalla stessa si evince che faceva parte della Compagnia Comando del 277° Reggimento Fanteria, 1° Battaglione, ovvero lo stesso reparto che nell’offensiva russa di metà gennaio schierato in supporto alle truppe alpine nel coprire il fronte, venne praticamente decimato. Queste le parole scritte nelle sue memorie dal Col. Giulio Cesare Salvi, comandante del 277° Reggimento: « La situazione peggiora. Il 15 gennaio 1943 il 1/277° dislocato alla difesa di Rossoch, viene travolto dai carri armati russi e pochissimi Ufficiali e soldati riescono a sfuggire…. »

La cartolina postale scritta da Alessandro Marini il 26 dicembre 1942, timbro postale posta militare 156 del 1 gennaio 1943
Il ritorno al mittente
Il destinatario della cartolina e il timbro del mancato recapito

Quella cartolina spedita da Lucia Marini da San Donà di Piave il 27 dicembre 1942 con il timbro « Al mittente, non potuto recapitare per eventi bellici » tornò il 26 agosto 1943. L’immagine rovinata dell’interno del duomo dall’inchiostro di un timbro altro non era che la sovrapposizione successiva di più cartoline che non era stato possibile recapitare. Centinaia, migliaia di missive che tornavano in Patria con tutti i loro irrisolti desideri e le perdute speranze, solo pochi vedranno poi tornare i loro cari. Un triste epilogo che trovò una San Donà su cui gli echi della guerra si materializzarono con il rombo degli aerei in cielo e i successivi bombardamenti. Come molte città venete anche San Donà di Piave ne pagò un prezzo. Ma questa per il momento è un’altra storia.

Per approfondimenti:

1. Divisione Vicenza ; 2. Memoriale del Col. Giulio Cesare Salvi (comandante del 277° Reggimento Fanteria); 3. Posta Militare 156 – La Divisione “Fantasma”; 4. L’elenco dei caduti della Divisione “Vicenza” (Marini); 5. Campagna italiana in Russia (agosto 1941-20 gennaio 1943); 6. Prima battaglia sul Don (20 agosto-1° settembre 1942); 7. Seconda battaglia sul Don (11 dicembre 1942 -31 gennaio 1943); 8. Offensiva Ostrogožsk-Rossoš’ (12 gennaio-27 gennaio 1943); 9. U.N.I.R.R. (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia);

Il sacrificio dei legionari cechi sul fronte del Piave

I cinque legionari cechi giustiziati il 19 giugno 1918 a Calvecchia, presso casa Davanzo vicino alla scuola (foto originale)

Una delle tante Storie che si sono intrecciate con le vicende della Grande Guerra è stata indubbiamente quella incentrata sui legionari cecoslovacchi. Alcune di quelle strazianti vicende sono accadute nelle nostre terre, flagellate esse stesse dal loro essere prima linea nel conflitto mondiale.

L’impero diviso

Quell’insieme di popoli rappresentato dall’impero austroungarico si presentò sullo scenario della prima guerra mondiale tutt’altro che unito. Molte erano le spinte indipendentiste al suo interno che nemmeno la crudezza della guerra seppe nascondere, tra queste anche quelle nelle regioni della Boemia e della Slovacchia. Durante la guerra si formò un governo in esilio che cercò una sponda negli stati dell’Intesa allo scopo in un futuro prossimo di ottenere il riconoscimento di un nuovo stato con capitale Praga. Tra le varie iniziative ci fu quella di costituire un gruppo di legionari che dopo la rotta di Caporetto venne inquadrato nell’esercito italiano. Per la gran parte formato da ex prigionieri dell’esercito austro-ungarico costituirono il I° battaglione del 33° reggimento, a comando italiano già nel maggio del 1918 parte di esso venne dislocato sul fronte del Piave. Chiaramente costoro venivano considerati dei traditori dal comando austroungarico e il loro ruolo avrebbe dovuto essere di solo supporto alle truppe italiane. Nonostante l’accordo di un loro immediato ritiro in caso di combattimento gli eventi portarono a tutt’altro e a metà del giugno 1918 l’intero battaglione era schierato tra Casa Fasan e Fossa delle Millepertiche.

I cinque legionari giustiziati a Calvecchia

Racconta Eugenio Bucciol nel suo libro che l’offensiva austriaca del 15 giugno 1918 colse il battaglione dei legionari schierato accanto agli italiani e contrariamente agli accordi presi questi non vennero ritirati ma parteciparono attivamente ai combattimenti e alle controffensive di quei giorni. Costretti al ripiegamento assieme alle truppe italiane, nel pomeriggio  del 17 giugno venne ordinata la controffensiva e i legionari si trovarono a fronteggiare la 10ª divisione austroungarica costituita principalmente da soldati cechi come loro. Al termine della battaglia i legionari avevano catturato duecento prigionieri e otto mitragliatrici; otto di loro erano morti, sessantatrè feriti o dispersi. « …Sei dei legionari dichiarati dispersi erano caduti nelle mani dei loro connazionali della 10ª divisione, comandata dal generale polacco Gologòrsky, con sede a Ceggia. Essi erano:

Antonín Kahler (2)

Hynek Horák, nato il 25 marzo 1899 a Bohdane (Boemia), fatto prigioniero dagli italiani il 2 agosto 1917 a Hermada. Contadino, sposato, due figli.

Antonín Kahler, nato il 6 giugno 1883 a Praga. Caduto prigioniero degli italiani sull’Isonzo il 15 settembre 1917. Orefice, sposato, una figlia.

Emanuel Kubeš (2)

Jozef Kříž, nato il 31 maggio 1888 a Šebanovice (Boemia), fatto prigioniero dagli italiani il 9 ottobre 1916 presso Jamiano. Scalpellino, sposato, un figlio.

Emanuel Kubeš, mato l’8 agosto 1880 a Praga, arresosi agli italiani il 7 agosto 1916 sul Monte Sabotino. Imbianchino, sposato, due figli.

František Viktora, nato il 24 dicembre 1875 a Purkarec (Boemia), caduto prigioniero degli italiani il 5 maggio 1917 a Jamiano. Macchinista, celibe.

František Viktora (2)

Una ferita alla coscia con frattura del femore salvò la vita del sesto legionario catturato, Antonin Vokřínek. Nel lazzaretto di San Stino fu interrogato, ma ottenne il rinvio del processo. Trasferito a Udine, alla fine di ottobre era già tornato a casa in convalescenza. Pochi giorni dopo cessava per lui, con la guerra perduta, ogni presupposto di colpa.

Il 18 giugno i cinque legionari furono processati dal tribunale della 10ª divisione. Condannati a morte per alto tradimento, vennero impiccati alle ore 14 del giorno seguente, tra gli insulti del capitano di cavalleria Maier che comandava l’esecuzione, agli ippocastani davanti alla scuola, presso l’agenzia Giustiniani, con il privilegio di avere ciascuno una pianta per sé. Alla sera furono sepolti nel vicino vigneto. » Sulla sepoltura la versione di Bucciol differisce da quella di Mons. Chimenton secondo cui i cinque legionari rimasero appesi agli ippocastani per due giorni.

Un sesto legionario giustiziato a Calvecchia

Continua Eugenio Bucciol:  « Il 21 giugno 1918 fu giustiziato a Calvecchia, nella campagna di San Donà di Piave, sulla strada per Ceggia, il legionario Bedřích Havlena, nato a Nova Lbota (Boemia) il 18 maggio 1888, impiegato delle imposte, celibe, catturato dagli italiani a San Michele del Carso il 28 novembre 1915.

La targa posta a Calvecchia in ricordo del legionario Bedřích Havlena (2)

Nell’offensiva del Solstizio si era arreso ai cechi del 98°, il suo reggimento di provenienza. L’avevano condotto a Calvecchia, nella fattoria Bertolotti, detta, in virtù dell’intonaco, “la Casa rossa”, sede del comando della 10ª divisione cui subentrò, all’arrivo del legionario, quello della 46ª che lo prese in consegna nella stalla.

Condannato a morte, si dovette attendere che inchiodassero un legno al palo del telegrafo davanti alla “Casa rossa” per ricavare il braccio della forca. Alle 11.30 il legionario si diresse con passo sicuro verso il luogo dell’esecuzione. Aveva ottenuto che gli slegassero le mani. Accanto all’improvvisato patibolo, anticipò gli esecutori aggrappandosi con una mano alla traversa e infilandosi con l’altra il capestro; ma il sostegno cedette al suo peso. Lo ricondussero nella stalla. La consuetudine voleva che fosse graziato e in tal senso si pronunciò il comando interpellato. Ma il presidente del tribunale, il capitano Von Fröhlich, insistette affinché l’operazione venisse ripetuta. Alle 14.30 il legionario fu fatto uscire nuovamente dalla stalla dove aveva scritto una cartolina ai famigliari. Accanto al palo si aggrappò ancora al sostegno che resistette. Parendogli tuttavia troppo basso, pregò che sterrassero il suolo. Lo accontentarono. Alla base del palo fu posta una cassetta-. Bedřích Havlena vi salì sopra per infilarsi il cappio. Un militare diede un calcio alla cassetta. Lo tolsero alle 19 per seppellirlo nel campo davanti al palo telegrafico. »

Furono tristi giorni per i legionari cechi catturati dagli austroungarici, lungo tutto il fronte ripetute furono .le esecuzioni ai danni dei legionari catturati. Complessivamente alla fine della guerra saranno 46 i legionari giustiziati dagli austroungarici, 8 dagli italiani e 2 giustiziati in Slovacchia.

I tre legionari cechi giustiziati il 18 giugno 1918 ad Oderzo (foto originale)

I cinque legionari di Calvecchia nel ricordo di Mons. Chimenton

″ Le forche ufficiali, le più speciose, funzionarono di fronte alle scuole di Calvecchia, sui cinque ippocastani prospicienti quell’edificio scolastico.

Su questi ippocastani furono giustiziati i czeco slovacchi. Fatti prigionieri sul fronte italiano del Carso, incorporati nel nostro esercito, presero parte alla battaglia del giugno in località di Fossalta di Piave e caddero prigionieri degli Austriaci : giudicati dal tribunale di guerra con una procedura sommaria, dichiarati traditori, furono trascinati attraverso Noventa e San Donà fino a Calvecchia e immediatamente giustiziati. Ferveva sul Piave la grande battaglia : essi rimasero appesi alle corde di quei cinque ippocastani per due giorni interi : le truppe austriache che movevano all’assalto lessero così in quelle vittime la loro sentenza. Le salme furono gettate confusamente nell’orto della famiglia Carlo Carpenè, in proprietà di Federico Colosso, e vi rimasero fin dopo l’armistizio quando, come già accennammo, furono esumate e sepolte nel cimitero militare di San Donà. Su molte di quelle salme penzolanti fu posta in un cartellino a stampa, questa dicitura : Così si puniscono i traditori della Patria!.

Sulla parete di quella scuola, prospiciente la strada, di fonte agli ippocastani, dopo l’armistizio fu posta una lapide su cui furono incise queste parole, dettate in cattiva lingua italiana da qualche prigioniero di guerra: « Qui morirono per la patria 5 legionari – Czeco slovacchi, – combattendo in Italia – per la libertà del popolo – dalla vendetta l’Austria gli impiccava – 18 giugno 1918 »

Nel 1921 l’esumazione dei legionari caduti

Nel 1921 le salme dei legionari cechi furono trasportate in patria. Così lo racconta Monsignor Chimenton nel capitolo dedicato al cimitero militare di San Donà attiguo a quello comunale:  « In questo cimitero erano state deposte anche le salme dei vari soldati czeco slovacchi, che, caduti prigionieri degli Austriaci, durante la battaglia del giugno 1918, furono impiccati dinanzi le scuole di Calvecchia. Le salme furono esumate e trasportate a Praga il 2 aprile 1921. – Il loro riconoscimento fu semplicissimo. Dal cimitero degli impiccati di Calvecchia le salme erano state trasportate nel cimitero comunale subito dopo l’armistizio : occupavano la prima fila nord; nella traslazione le salme esumate e avvolte separatamente in una tela da campo erano state rinchiuse in apposite casse funebri. L’autorità boema volle accertarsi dell’autenticità di quelle salme : esumate le casse e aperte, le salme apparvero scheletrite ; ma le loro braccia erano ancora legate dietro la schiena, con il filo telefonico usato dall’Austria in simili esecuzioni, e attorno al collo le vittime portavano ancora un nodo scorsoio e un pezzo di fune che aveva servito alla loro esecuzione capitale. L’autenticità apparve evidente : rinchiuse in doppia cassa quelle salme furono composte nuovamente e trasportate in Boemia. »

Il 24 aprile 1921 in occasione della traslazione dei legionari giustiziati in Italia, ebbe luogo una grande cerimonia e ad essi furono tributati i più grandi onori militari in una grande cornice di popolo. Furono poi tumulati nel cimitero Olsany di Praga (2)

La terra sandonatese a ricordo del sacrificio dei legionari

Nel 1924, come racconta Chiara Polita, un’Associazione cecoslovacca per le onoranze ai caduti in guerra volendo ricordare in occasione dell’inaugurazione di un nuovo cimitero i propri legionari caduti sul fronte italiano inviò una richiesta particolare al Comune di San Donà di Piave. Desiderava avere della terra dei campi di battaglia italiani da inserire in una nicchia. Venne dato l’assenso da parte del Comune e di quel prelievo è rimasta traccia in un verbale. Il solenne prelievo venne effettuato dal Sindaco Costante Bortolotto assieme al sig. Antonio Bincoletto, dell’Associazione Mutilati e Invalidi di guerra, al rag. Ippolito Gianasso, della sezione sandonatese dell’Associazione Nazionale ex combattenti, e al segretario comunale Livio Fabris. Il prelievo venne effettuato l’11 giugno 1924: « …in territorio di questo Comune e precisamente sulla riva destra del Piave in prossimità del ponte distrutto durante la guerra mondiale 1915-1918 e nella zona delle ex trincee interrate ». Posta in un doppio sacchetto con i sigilli del Comune e i colori nazionali quella terra venne inviata al Console cecoslovacco a Trieste.

Fonti: Approfondimenti sulle vicende dei legionari cechi sul fronte del Piave è possibile trovarli in questi testi: 1. « S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e Passarella » di Mons. Costante Chimenton (1928); 2. « Dalla Moldava al Piave – I legionari cecosclovacchi sul fronte italiano nella Grande Guerra » di Eugenio Bucciol (Ed. Nuova dimensione, 1998); 3. « Di qua e al di là del Piave – La grande guerra degli ultimi » di Chiara Polita (Mazzanti Libri, 2015)

San Donà di Piave, il sacrificio dei 13 Martiri

Tratto dalla « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° Anniversario della Resistenza » (6 settembre 1964)

L’imponente omaggio di San Donà di Piave ai resti mortali dei tredici Martiri quando furono traslati in città terminata la guerra
Motivazione della Medaglia d’Argento al V.M.

« Fiera città di prima linea, già duramente provata dalla guerra, subito dopo l’armistizio sosteneva con decisione la lotta di liberazione, dando centinaia di valorosi combattenti alle formazioni partigiane e pagando sanguinoso tributo di vittime alla repressione tedesca. Duramente colpita anche da aerei non piegava la decisa volontà di resistenza. Insorgeva in presenza di ben seimila tedeschi e liberava il suo territorio tre giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate, dopo aver catturati tremi cinquecento prigionieri »

San Donà di Piave, settembre 1943 – 25 aprile 1945

L’introduzione del Sindaco Dott. Franco Pilla
Il sindaco Franco Pilla in una immagine di repertorio del 1968 (Tratta da “Il Piave”)

A nome della Civica Amministrazione presento queste modeste pagine che si propongono di ricordare i 13 Martiri nel ventennale del Loro sacrificio a tutti coloro che vissero il Secondo Risorgimento e di FarLa conoscere ai giovani, a quelli che sono venuti quando l’alba della Libertà era già risorta sulla nostra Città e sulla Patria.
Il 28 luglio 1944 a Cà Giustinian vennero fucilati per nessun delitto, per nessun tradimento, ma solo per aver scelto la libertà e l’onore: Attilio BASSO, Stefano BERTAZZOLO, Francesco BIANCOTTO, Ernesto D’ANDREA, Giovanni FELISATI, Angelo GRESSANI, Enzo GUSSO, Gustavo LEVORIN, Violante MOMESSO, Venceslao NARDEAN, Amedeo PERUCH, Giovanni TAMAI e Giovanni TRONCO.
Non tutti erano sandonatesi; Gressani di Ceggia, Felisati di Mestre e Levorin di Padova. Ma da allora e per sempre nostri Concittadini, perché accomunati dallo stesso sacrificio.
L’Amministrazione Civica nel 20° anniversario dell’eccidio, che, nelle immani proporzioni , ha toccato il vertice della tragedia vissuta dalla Patria in una delle ore più oscure della Sua storia, ha dedicato la giornata del 6 settembre per onorare, con i 13 Martiri, tutti i Caduti della Resistenza e per celebrare i grandi valori ideali che la Resistenza rappresentò, nella lotta contro la dittatura per la conquista della Libertà.
Non sarebbe patrimonio vero, consapevole, operante, la libertà in Italia se non fosse stata conquistata dal coraggio, dalla fede, dall’eroismo del sacrificio dei suoi figli migliori; da coloro che dimostrarono di credere nella Libertà e nella Democrazia, con il sangue, che ci insegnarono un modo nuovo di fedeltà agli ideali.
Così intendiamo ricordare i 13 Martiri e con Loro tutta la Resistenza Sandonatese.
Si, anche gli altri: Attilio RIZZO, animatore e capo, Medaglia d’Argento al Valor Militare, Giovanni BARON, suo collaboratore, Medaglia di Bronzo al Valor Militare, Primo BIANCOTTO, Carlo VIZZOTTO, Verino ZANUTTO, Luigi GUERRATO, Luigi CAROZZANI, Bruno BALLIANA, Giodo BORTOLAZZI, Flavio STEFANI, Casimiro ZANIN; Antonio FERRO, Erminio ZANE, Esterino DALLA FRANCESCA, Cesira ed Elvira CAROZZANI, la Brigata Eraclea, la Brigata Piave, Reparti dell’Esercito della Libertà, nati ed organizzati nella nostra amatissima terra del Basso Piave, dove mai il fascismo era riuscito a piantare radici profonde.
Per quanto, mentre ancor oggi ci raccogliamo accomunati in un sentimento di immensa pietà e profonda commozione attorno a queste 13 salme sacrificate dall’odio e dalla violenza, eleviamo insieme la nostra protesta di popolo civile contro la tirannide e la dittatura.
Per questo ancora, sentiamo il diritto di pronunciare l’implacabile condanna, poiché conosciamo attraverso il sacrificio dei nostri Martiri quale sia il prezzo che un popolo deve pagare per la conquista della Libertà.
Le celebrazioni del 6 settembre costituiscono per tutti un profondo e grave ammonimento ad essere degni di questo bene inestimabile.

Il Sindaco
Dott. Franco Pilla
San Donà di Piave, 6 settembre 1964

I Tredici Martiri

Sono ormai trascorsi vent’anni dal giorno in cui il plotone d’esecuzione stroncava la vita ai tredici eroici combattenti della libertà, undici dei quali figli della nobile terra di San Donà di Piave, e il ricordo di quei luttuosi avvenimenti ci riempie ancora l’animo di profonda costernazione. Ogni idea grande per vivere, prosperare e trovare pratica attuazione ha bisogno di essere alimentata dal sangue ed il sangue non mancò di scorrere e di bagnare ogni lembo della nostra Patria martoriata, percorsa da eserciti stranieri e dilaniata dalla guerra civile.
Nei tristi giorni che seguirono alla disfatta del nostro esercito, tutti i partiti antifascisti serrarono le file, si strinsero insieme per resistere al germanico invasore che completava l’opera di distruzione materiale e morale della Patria. Uomini di ogni credo politico e d’ogni classe sociale, popolani, operai, contadini, impiegati ed intellettuali non esitarono a gettarsi nella mischia, senza badare al rischio, con la coscienza serena di compiere un imprescindibile dovere.
« Appena l’invasione nazista fu un fatto compiuto, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 28 luglio 1945, appena strappatosi la maschera di alleato, il tedesco riapparve agli Italiani tutti sotto le sue vere spoglie di nemico spietato del nostro paese; appena dietro le sue baionette ricominciarono ad innalzarsi le nere insegne della morte che si speravano abbattute per sempre il 25 luglio, essi, i futuri Martiri di Cà Giustinian, non ebbero un momento di esitazione: bisognava combattere, bisognava impugnare un’arma per la difesa della propria terra, per la conquista della indipendenza e della libertà perdute.
« Respingere l’aggressione, da qualunque parte essa provenga », era stato l’ultimo incerto e timido ordine che essi avevano sentito impartire all’esercito ». Quest’ordine fu da loro raccolto ed essi pagarono con la vita la loro dedizione al dovere e alla Patria. Fra la gloriosa schiera dei combattenti della libertà brillano i nomi dei tredici Martiri di Cà Giustinian.

Basso Attilio

BASSO ATTILIO. Era un giovane di ventitre anni di San Donà di Piave, dov’era nato il 9 settembre 1922; fattorino di banca e coniugato con un figlio. Di salute cagionevole, cattolico praticante ed alieno ad ogni avventura. Come gli altri, aveva dato la sua collaborazione alla lotta clandestina, e per questo fu arrestato e condotto nelle carceri di S. Maria Maggiore, inconsapevole della triste sorte che lo attendeva. « Era tanto felice negli ultimi suoi giorni, scrive G. Galdi, tanto felice, malgrado le sue condizioni fisiche; aveva avuto notizia che gli era nato un bambino, un bambino che ancora non conosceva, che non avrebbe mai conosciuto ma del quale parlava sempre ».

Bertazzolo Stefano

BERTAZZOLO STEFANO. Aveva venticinque anni quando immolò la sua vita nella lotta di liberazione nazionale. Era nato a Carrara San Giorgio il 6 febbraio 1919, ma risiedeva con la famiglia a San Donà di Piave. Contadino di origine, era ritornato dalla guerra in condizioni tali da non poter attendere proficuamente al duro lavoro della terra. Benchè invalido di prima classe, era riuscito a farsi assumere in qualità di impiegato presso uno zuccherificio. Fu anch’egli arrestato per la sua attività partigiana e trascorse i lunghi mesi di prigionia sul letto, nell’infermeria, in attesa della liberazione. La sorte volle invece che scontasse con la morte il suo amor di Patria.

Biancotto Francesco

BIANCOTTO FRANCESCO. Falegname di professione, era nato a San Donà di Piave il 2 aprile 1926 ed aveva aderito, nel fior degli anni, con slancio, alla G.A.P. (Gruppo di Azione Patriottica) della Città, prodigandosi in ogni modo per rendersi utile ai compagni di lotta. Cavaliere senza macchia e senza paura, non permetteva che si toccasse un innocente o che si recasse danno ai suoi concittadini. Basterebbe averlo visto una notte con che sprezzo del pericolo rimosse una mina dai binari quando s’accorse che, invece d’una tradotta militare, stava per transitarvi un treno passeggeri, per comprendere la tempra di questo giovane. «Piuttosto di far morire un civile, diceva ad impresa avvenuta, preferirei perdere la vita ». Arrestato il 13 gennaio 1944, tradotto nelle carceri di Venezia, dove diede prova di forza d’animo fino al triste giorno della sua fucilazione.
Di Francesco Biancotto così scriveva Giorgio Bolognesi ne “Il Mattino del Popolo” del 14 dicembre 1946: « E’ uno dei 13 fucilati di Cà Giustinian, dove domenica sarà scoperta una lapide a ricordo del loro olocausto. Diventammo amici alla prima stretta di mano. In cella con noi c’era un ragazzetto di tredici anni, Rolando, arrestato per una bricconata, Francesco era il suo protettore, Rolando in cambio gli preparava la branda alla sera. Quando il buio impediva la lettura, Francesco si alzava e veniva alla mia branda a prendermi per la passeggiata. La passeggiata del pomeriggio era basata su un numero infinito di giri di quattordici passi, sullo stretto spazio tra le brande. A contarli ci pensava il prigioniero della cella sottostante. Nei primi giri gli dava disposizioni perché gli altri cinque abitanti prendessero posto nelle brande, si fermava un istante e invitava chi aveva fede ad unirsi in una preghiera strana che aveva letto sul libro dei “Tre Moschettieri”. Essa diceva: Ma verrà il Dio della liberazione perché Dio è giusto e forte se chi vi spera avrà delusione avrà pur sempre il martirio e la morte.
Era stato Francesco a leggerla per primo e lui l’aveva insegnata agli altri. Ancora oggi nella parete della cella 108 devono essere leggibili quelle parole. Assolto il dovere religioso, lui stesso rimboccava la branda del piccolo Rolando, e di nuovo riprendeva la passeggiata con me. Era allora che lui mi raccontava della notte dell’arresto, del tradimento dei compagni lasciati fuori, della certezza della condanna a morte temperata da una leggera speranza di liberazione che si spegneva ogni giorno di più. Andavamo sotto braccio avanti ed indietro, finchè le gambe non ci costringevano a sederci sull’orlo della branda a continuare le nostre confidenze con voce sommessa. Mi parlava della sua casa, della sua famiglia, (e ricordava con affetto la buona sorella) e con affetto parlava dei suoi compagni e perfino di chi lo aveva tradito, parlava della notte della dinamite, degli interrogatori, della sua fede politica. E allora mi confessava i suoi dubbi sulle teorie politiche; mi confessava di ammirare Mazzini perché in Mazzini sentiva parlare di Dio e di libertà. Mi parlava del suo lavoro, del suo padrone che amava come un maestro, e del dispiacere di non poter più continuare ad apprendere l’arte che amava.

D’Andrea Ernesto

D’ANDREA ERNESTO. Era un operaio di Musile di poco più di trent’anni: era nato infatti il 10 dicembre 1913. Risiedeva però a San Donà di Piave ed era occupato a Marghera. Fu uno dei primi organizzatori del movimento clandestino della nostra zona; comandò fino al momento del suo arresto un Gruppo di Azione Patriottica con il quale prese parte a numerose e rischiose imprese. Anima intrepida, dal carcere di Venezia non tralasciava occasione per incitare i compagni alla lotta. Il suo ardimento venne meno solo il giorno in cui egli cadde sotto il piombo fratricida, sulle rovine ancor fumanti di Cà Giustinian, assieme con gli altri dodici compagni di sventura. Commoventi sono le poche righe che riuscì a scrivere e a far pervenire ai suoi cari: « Saluti e baci a tutti. Siate forti come lo sono il. Ciao alla mamma, al babbo a tutti, a Maria, a Ghidetti ».

Felisati Giovanni

FELISATI GIOVANNI. Di Carpenedo, è una delle più belle figure della resistenza mestrina. Anima nobile e generosa, fin dall’otto settembre di era prodigato in ogni modo per organizzare i primi nuclei di combattenti della libertà nella zona di Mestre e di Carpenedo, ma questa sua attività fu stroncata pochi mesi dopo con l’arresto: gli fu trovato in casa materiale esplosivo. In carcere ebbe un comportamento ammirevole; e per quanto nessuna attività delittuosa fosse emersa a suo carico, tanto che le autorità repubblichine erano propense al suo rilascio, pur tuttavia la notte tra il 27 ed il 28 luglio fu visto partire calmo e sereno, assieme con i suoi compagni, verso il suo tragico destino. La notizia della sua morte destò, in quanti lo conoscevano, un senso di vivo e profondo cordoglio. Aveva trentanove anni.

Gusso Enzo

GUSSO ENZO. Sandonatese per nascita, italiano e cristiano di sentire, di professione impiegato, di anni 31, collaborò alla lotta di liberazione nonostante le sue cagionevoli condizioni di salute, partecipandovi attivamente. Imprigionato, sopportò coraggiosamente i maltrattamenti e le sofferenze infertegli in carcere. Anch’egli, con la serenità del martire, cadde eroicamente sotto i colpi del plotone d’esecuzione, fidente nel trionfo degli ideali di bontà e di giustizia per il quali aveva tanto sofferto. Fu a tutti i compagni di esempio e sprone per l’insuperabile consapevole tranquillità di spirito con la quale affrontò il martirio.

Gressani Angelo

GRESSANI ANGELO. Nato ad Ovaro (Udine) il 29 febbraio 1896, coniugato con due figli; era da poco trasferito a Ceggia. Di professione orologiaio, ma dotato di vasta cultura. La sua spiccata personalità s’impose sui compagni, tanto è vero che fu nominato tenente partigiano della Brigata “Piave”. Sappiamo inoltre che contribuì alla lotta di liberazione nazionale riparando armi e dando il suo valido aiuto ai compagni; che era un instancabile lavoratore e che in carcere mantenne un comportamento fermo e dignitoso. La sua gloriosa fine all’età di quarantotto anni resterà un fulgido esempio di dedizione al dovere e di amor di Patria.

Levorin Gustavo

LEVORIN GUSTAVO. Operaio tipografo, nato a Padova il 6 ottobre 1905. Convinto assertore della lotta senza quartiere al fascismo, non risparmiò fatiche e pericoli pur di vedere un giorno la Patria libera da ogni oppressione politica e sociale. Già provato da cinque anni di reclusione per le sue idee e la sua attività, riprese solo l’8 settembre 1943 con l’animo di sempre ad organizzare a Mestre i primi gruppi armati di operai e contadini. Arrestato nel 1944, non si lasciò mai sfuggire parola che potesse in qualche modo tradire i compagni, ma sopportò le privazioni e le torture del carcere con animo indomito. Affrontò la morte sereno e tranquillo, con la convinzione che il suo sacrificio non sarebbe stato vano.

Momesso Violante

MOMESSO VIOLANTE. Era un giovane contadino di Noventa di Piave della classe 1923; risiedeva a San Donà di Piave. Fece il suo servizio militare nel Genio guastatori a Verona. Rientrato in famiglia, dopo l’8 settembre, si arruolò subito nella Brigata Piave, partecipando a numerose azioni di sabotaggio delle vie di comunicazione e al trasporto di armi ai combattenti della montagna. Arrestato l’11 gennaio 1944 con gli altri compagni, affrontò il carcere e la morte da eroe. Una lettera autografa scritta dal Momesso alla madre, pochi giorni prima d’immolare la vita sulle macerie di Cà Giustiniani rivela l’intrepida fede di questo giovane nell’idea per la quale combatteva. « Un’idea è un’idea – diceva – e nessuno al mondo sarà capace di troncarla ». Morì infatti con sulle labbra il grido della sua fede: « Viva l’Italia libera! ».

Nardean Venceslao

NARDEAN VENCESLAO. Giovane falegname, nato a Noventa di Piave e residente a San Donà. Era un anno più giovane del Momesso e come questi, aveva preso parte alla lotta di liberazione nazionale. Di intelligenza pronta e vivace, svolgeva un’attiva propaganda antifascista. Preparava da solo i manifesti che, sempre senza aiuti, affiggeva un po’ per tutta la città invitando alla lotta ed inneggiando alla libertà. Arrestato, subì il carcere e la morte associato con i suoi compagni di lotta e di avventura.

Peruch Amedeo

PERUCH AMEDEO. Era un sandonatese di vecchio stampo, dedito al lavoro dei campi e affezionato alla sua famiglia. Cattolico fervente e praticante, era incapace di far del male. Pur nella sua istintiva bontà, volle anch’egli offrire il suo modesto contributo alla causa della liberazione nazionale ed entrò a far parte della G.A.P. di San Donà con l’incarico di depositario dalle armi. Scoperto, riuscì a fuggire, ma venne arrestata la moglie come ostaggio. Saputa la cosa, pur consapevole del pericolo a cui andava incontro, si costituì per liberarla, Ad essa poche ore prima di essere fucilato riusciva a far pervenire le poche parole che qui riportiamo.
« Saluti cara Marcella sono le ultime ore. Tanti baci Peruch Amedeo. Mi saluterai tutti i miei fratelli e cognati ».

Tamai Giovanni

TAMAI GIOVANNI. Era nato a San Donà di Piave l’8 febbraio 1924, dove viveva facendo il meccanico, Le misere condizioni della sua famiglia lo costrinsero a lavorare fin da fanciullo, perciò non sapeva né leggere e né scrivere. Prese parte come i compagni alla lotta di liberazione e con essi condivise i pericoli, il carcere e la morte.

Tronco Giovanni

TRONCO GIOVANNI. Era un meccanico aggiustatore di San Donà di Piave, coniugato con una figlia che adorava. Quando cadde sotto il piombo fraticida aveva trentanove anni, era del 1905. Era stato arrestato sotto l’accusa d’aver rifornito di viveri ed armi i combattenti della resistenza ed aver aiutato prigionieri inglesi a raggiungere le file partigiane. Mancavano però le prove. Dalla prigionia il suo pensiero corre di frequente alla figlia Tinetta che ha lasciato e che non rivedrà mai più.
« Cara Maria, ti raccomando di essere forte. Ti domando perdono di tutto. Ti raccomando Tinetta e tutti. Addio tuo Giovanni ».
Queste sono le ultime parole rivolte alla moglie da questo intrepido campione della libertà prima di essere fucilato.

Il precipitar degli eventi

[…] Quando nel carcere di Santa Maria Maggiore si sparse la voce dell’attentato dinamitardo di Cà Giustinian, si ebbe la netta sensazione che qualche cosa di grave stava per accadere. Le notizie contradditorie che si diffondevano tra i carcerati ne accrescevano la trepidazione e lo sgomento.

Una cosa sola era certa: qualcuno avrebbe dovuto pagare! La notte che seguì l’attentato passò insonne; venne l’alba del nuovo giorno senza nulla di nuovo fosse avvenuto. Un’aria greve regnava nelle anguste e buie celle di quel luogo di dolore; un triste presentimento stringeva il cuore di tutti, perchè l’attesa è più snervante e dolorosa della sorte stessa. Così passò anche quel giorno, che fu l’ultimo della loro vita.

« Verso la mezzanotte del 27 luglio, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 4 giugno 1945, essi venivano bruscamente svegliati nelle loro celle, invitati a vestirsi e a partire. Partirono per non più ritornare. Alla soglia del carcere, gli assassini li attendevano, quaranta uomini armati di tutto punto contro tredici uomini inermi e legati mani e piedi.

Per giustificare l’eccidio, un simulacro di processo venne tenuto, clandestinamente, in qualche luogo. La sentenza, già preparata in anticipo, venne letta ai morituri nei pressi del luogo dell’esecuzione. E quando l’alba stava per spuntare, ripetute scariche di mitra falciavano i loro poveri corpi, dai quali, come ultima manifestazione di una vita spesa per il bene della Patria, uscì un sol grido: « Viva l’Italia ».

Da quel mattino in cui i Caduti cessarono di essere degli esseri viventi, essi diventarono un simbolo di dedizione al dovere, della volontà di lotta, delle sofferenze e del martirio di tutto un popolo e presero un nome comune: i tredici Martiri di Cà Giustinian ».

Il ricordo

[…] Alla fine del conflitto una delle prime cure di San Donà fu di riportare le salme dei tredici Martiri alla terra per la quale di erano immolati. Tutto il popolo si riversò sulle vie e sulle piazze per l’estremo saluto.

Camera ardente allestita nella sala consiliare del Comune

Il libretto in pdf edito a cura dell’Amministrazione Comunale di San Donà di Piave nel 1964 « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° anniversario della Resistenza” è possibile scaricarlo a questo link: SCARICA

Cartoline che raccontano: il campo del San Donà

Una cartolina di San Donà del 1927 o precedente, le case del Foro Boario, il vecchio Cimitero, la Caserma “Tito Acerbo” o “San Marco”, mentre al posto dell’Oratorio Don Bosco prima venne costruito un campo di calcio

Quante storie possono esser nascoste in una sola cartolina. La data dell’immagine può esser imprecisa ma i soggetti che lì son ritratti ne danno un contorno. Se la prima pietra dell’Oratorio è stata posata il 15 maggio 1927, pur nell’imprecisione del tratto dell’immagine tutto si può dire tranne che in quel terreno oltre al cimitero ci sia un cantiere. Le cronache ci dicono che prima che fosse posata la prima pietra quel terreno fu concesso al San Donà Foot-Ball Club e adattato a campo di calcio, per cui quell’immagine è ancor precedente al 22 dicembre 1925 quando venne inaugurato il campo di calcio. In quegli anni venti andava ad iniziare la storia quasi centenaria del calcio sandonatese.

L’inizio della Storia
Villa Amelia, nei pressi della quale si ritrovavano i primi calciatori sandonatesi

La nostra storia non può che cominciare prendendo in prestito le parole scritte da Gianni Colosetti nel suo libro sullo sport sandonatese che poi faranno da base anche a quello successivo scritto da Monforte e Pasqualato sulla storia del’A.C. San Donà.
« A San Donà la scintilla della palla rotonda è stata attivata da un giovane impresario sandonatese, operante nel campo dei pozzi artesiani, Leonida Fava, che nel corso dei suoi viaggi di lavoro, ebbe modo di assistere a degli incontri dell’Ambrosiana Inter di Milano appassionandosi a questo nuovo sport.
Avendone la possibilità, acquistò un pallone coinvolgendo in questa sua passione gli amici Antonio e Giuseppe Battistella, Federico ed Eugenio Alfier, Giovanni Nespolo, con i quali cominciò a ritrovarsi la domenica mattina nei pressi della stazione ferroviaria in un prato dietro Villa Amelia detto “Il Campo del Mago”. Il rudimentale campo da gioco era situato in via Garibaldi: grossi sassi materializzavano inizialmente le porte, sostituiti successivamente da pali di salice terminanti a forchetta sui quali veniva posta la traversa. Una parte importante in quella fase è stata svolta dal tecnico delle ferrovie, addetto al ripristino della linea San Donà-Ceggia, ancora gravemente danneggiata dagli eventi bellici, il triestino Szabados. Il tecnico, avvicinatosi al gruppo iniziò ad insegnare loro i primi rudimenti e le regole fondamentali del calcio, in particolare come trattare la palla “all’ungherese”, tiro effettuato cioè con l’esterno del piede, in modo da dare al pallone un effetto rotatorio rientrante.
Quei ritrovi domenicali, però, non durarono a lungo. Privati del loro terreno di gioco, destinato momentaneamente dai proprietari ad altri usi, quei pionieri cessarono l’attività ma proseguirono a cercare proseliti in attesa di reperire qualche altro terreno dove sfogare la loro nuova passione ».

Un vero campo dove giocare

Continua Colosetti nel suo libro: « Furono proprio due di questi nuovi proseliti, Bruno e Gino Rossi, che contribuirono a risolvere, dopo qualche tempo, il gravoso problema del terreno di gioco. I due fratelli, infatti, convinsero il padre Enrico a cedere in affitto un campo dislocato dietro la caserma “Tito Acerbo”, terreno che fu, dagli stessi, ben spianato e dotato di pali per le porte ». Un campo di calcio vicino alla Caserma “Tito Acerbo”, che forse ancora non aveva tale denominazione, la zona è la stessa della cartolina ma il campo non sembra essero quello che si intravede nell’immagine. Viene detto dietro la Caserma mentre quella che si vede nell’immagine della cartolina è la facciata della stessa prospiciente la strada detta “Del Casermone”. Vien però citato il nome di Enrico Rossi che ritroveremo poi, evidentemente tutta quella zona era stata di sua proprietà, sia davanti che dietro la caserma.

La nascita dell’Ardita
L’ « Ardita » la prima squadra che si formo nei primi anni

Ben presto quel gruppo di giocatori formarono una squadra vera. « La ripresa dell’attività portò nuovi adepti, alcuni dei quali avevano già dimestichezza con il pallone avendolo praticato nelle scuole veneziane o trevigiane da essi frequentate. Dopo qualche tempo al gruppo si unì Tullio Roma, che essendosi diplomato capitano di lungo corso, aveva giocato, oltre che nell’istituto scolastico, anche nella giovanile del Venezia con un altro sandonatese Giovanni (Nino) Gallerani, studente presso l’Istituto Commerciale Sanudo. Così, vuoi per la sua esperienza che per il grado derivategli dal suo titolo di studio, quando, costituita la squadra, si trattò di designare il capitano, la scelta non potè che essere rivolta sul suo nome.
Raggiunto il numero sufficiente fu costituita una squadra alla quale fu dato il nome di “Ardita” che con tassazioni personali e questue fra amici si diede una divisa, maglia bianco nera a scacchi e pantaloncini bianchi. Hanno fatto parte dell’Ardita: Alessandro Janna (presidente), Ruggero Galassini (allenatore). Giocatori: Eugenio, Nene e Federico Alfier, Antonio e Giuseppe Battistella, fratelli Bincoletto, Gino Bonetto, Libero Dus, Emilio Caramel, Cesarin, Giuseppe Da Villa, Sante Calcide, Amos e Ruggero Galassini, Girolamo Gallerani, Vito Girardi, Bernardo Guerrato, Loro da Ceggia, Bruno Marusso, Giuseppe Nespolo, Giovanni e Giuseppe Picchetti, Tullio Roma, Bruno e Gino Rossi, Salvador, Antonio Velludo, Alessandro Zuccon e Luigi Zorzi.

Dietro quella Caserma il campo di calcio diviene importante

« Le esibizioni dei calciatori erano motivo di curiosità da parte di molti che, dopo aver assistito a qualche allenamento non mancavano di appassionarsi e ingrandire il numero dei calciatori. La cosa non sfuggì ad Alessandro Janna, presidente dell’Unione Sportiva Piave, che prese subito a cuore le necessità di quei pionieri, non disdegnando di far fronte alle loro esigenze.
Il campo di calcio fu recintato con delle tavole provenienti dall’Azienda Agricola Janna, dotato di una baracca di legno nelle vicinanze della quale una fontanella d’acqua serviva ai giocatori per lavarsi e tentare di ripulirsi, a turno, dal copioso fango che nelle giornate piovose rendeva quel terreno più simile ad una stazione di cure termali che ad un campo di calcio. Il campo aveva anche nel signor Callegher il suo custode. »

Celeste Bastianetto presidente del San Donà
Il presidente Celeste Bastianetto con il San Donà F.C. nel 1926

Il campo dietro la caserma venne dunque recintato, nel mentre entra in scena la figura di Celeste Bastianetto. Era “un ragazzo del ‘99” reduce da quella prima guerra mondiale nella quale era stato insignito di una medaglia di bronzo al valor militare. Laureatosi in legge, divenne avvocato venendo poi nominato presidente dell’Azione Cattolica sandonatese. Impegnato nell’associazionismo cattolico al fianco di monsignor Saretta, fondò anche un’associazione ginnico sportiva che per la sua attività condivideva gli spazi del campo di calcio. Racconta Colosetti: « L’attività era svolta anche nel campo di calcio dell’Ardita e fu proprio grazie a queste comuni frequentazioni che Celestino Bastianetto pensò di unire queste giovani realtà sportive. Dopo una serie di contatti con Alessandro Janna, il “manager” dei calciatori, domenica 14 dicembre 1924, terminate le funzioni pomeridiane, nei locali della canonica si tenne una riunione nel corso della quale furono gettate le basi per la creazione di una Polisportiva alla cui presidenza fu nominato Celestino Bastianetto, che aveva una componente calcistica nel San Donà Football Club e una ginnica sportiva, nelle sopracitate associazioni parrocchiali. »

Monsignor Saretta acquista il terreno per il futuro Oratorio

Dopo aver avuto in desiderio di far arrivare a San Donà di Piave per tanti anni i Salesiani, monsignor Saretta decise di acquistare il terreno vicino al vecchio Cimitero. Ne da conto Wally Perissinotto nel suo libro: « Oggetto della transazione era l’area edificabile di 12.667 mq posta in località Loghetto, subito dopo il vecchio cimitero comunale, sulla strada di via Calnova (l’odierna via XIII Martiri).
Il confine orientale frantumava l’originaria proprietà proseguendo in modo irregolare lungo un breve tratto dell’attuale via Eraclea, detta strada “del Casermone” per la presenza della imponente Caserma “Tito Acerbo”. A sud e a ovest il terreno andava a morire nell’acqua di scolo della fossa Molina e in quello delimitante la proprietà Bortolotto. Sul fondo, parte seminativo e parte prativo, c’erano i resti di una casa colonica danneggiata dalla guerra già abitata dal sig. Enrico Rossi e Callegher ». Ecco ritornar i nomi di Enrico Rossi e Callegher, il primo diede in affitto il terreno dietro la Caserma per il primo campo di calcio, mentre il secondo ne era il custode.

Il terreno acquistato nel 1925 da Monsignor Saretta tra il vecchio cimitero e la Caserma che divenne provvisoriamente campo di calcio, in seguito nel 1927 furono acquistati altri due lotti di terreno vicino a quello acquistato per primo e venne costruito l’Oratorio Don Bosco
Prima dell’Oratorio un nuovo campo di calcio

In attesa che maturino i tempi per la costruzione dell’Oratorio, Monsignor Saretta decise di destinare quel terreno inizialmente a un campo di calcio. Scrive ancora Wally Perissinotto nel suo libro: « E’ interessante osservare comunque come in questo secondo atto compaia la specifica destinazione d’uso della proprietà immobiliare: “ricreatorio e campo sportivo, nonché scuola professionale”, annotazione che ci svela i progetti dell’arciprete a medio e lungo termine. Una fattura conservata in archivio parrocchiale della ditta “Barbato costruzioni edili” ci fornisce ulteriori indicazioni: già a dicembre sul fondo ripulito e adeguatamente sistemato veniva costruito uno spogliatoio per consentire l’attività ginnico-sportiva dei giovani sandonatesi.
Sappiamo che la gestione del campo venne affidata alla società sportiva “San Donà Foot-ball Club” le cui finalità avevano senz’altro incontrato l’approvazione del parroco. Infatti lo statuto pubblicato il 15 agosto 1926 recita fedelmente: “Accanto allo sport (la società sportiva) curerà l’educazione dell’animo dei giovani. All’art. 12. E’ dovere di ogni socio giocatore di astenersi completamente dalla bestemmia e dal turpiloquio. E all’art. 24. Il campo sportivo sarà chiuso a chiunque non appartenga alla società, ma in ore da convenirsi potrà essere aperto alle due Società dei ginnasti della Guido Negri e degli Esploratori cattolici… ».

L’inaugurazione del nuovo campo di calcio

Racconta Gianni Colosetti dell’inaugurazione del nuovo campo: « I lavori di livellamento e di costruzione dello spogliatoio furono eseguiti dall’impresa Dante Barbato che provvide anche alla recinzione del medesimo recuperando lo steccato del vecchio campo. L’impianto fu inaugurato, domenica 22 dicembre 1925, alla presenza del Podestà Giuseppe De Faveri, del dottor Stocchino, segretario del Fascio, di autorità civili e militari e con la partecipazione della banda comunale.
Nel susseguirsi dei rari discorsi commemorativi, ci fu un piccolo incidente “diplomatico”, l’avvocato Bastianetto, i cui rapporti con il segretario del Fascio non erano di certo idilliaci, non acconsentì che il dottor Stocchino, intervenisse adducendo a motivazione il ritardo accumulato dai vari discorsi precedenti. Dopo la benedizione data da don Casonato, in assenza del Parroco impegnato a Montebelluna e il taglio del rituale nastro fatto dalla madrina, la Signora Pasin vedova Guarinoni, si disputò l’incontro tra l’undici sandonatese e il Portogruaro.
Fu quella, in pratica la prima esibizione ufficiale del San Donà Football-Club capitanato da Tullio Roma che si era presentato in campo, come tutti i componenti della squadra, vestendo la maglia bianconera dell’Ardita seguito da un accompagnatore che portava delle maglie azzurre.
Prima di iniziare l’incontro, Tullio indossò la nuova divisa dicendo: “Copriamo la vecchia gloriosa bianconera con la nuova maglia azzurra”, quindi consegnò ad ognuno dei componenti la squadra la nuova casacca. L’incontro terminò con il punteggio di 2-0 a favore del Portogruaro che era una delle formazioni emergenti di quel periodo ».

Una delle prime formazioni del San Donà, la maglia “sembra” azzurra e l’edificio alle spalle li colloca proprio nel nuovo campo di via Calnova tra dicembre 1925 e l’aprile 1927
Quella vecchia foto del San Donà Foot-ball Club d’azzurro vestito
Il manifesto di una delle ultime gare giocate dal San Donà F.C. su quel campo sportivo (stampato da Tipografia SPES – via Giannno Ancillotto)

Sul libro di Wally Perissinotto è presente una foto che viene indicata come una delle prime del calcio sandonatese. Ebbene grazie alla cartolina ora abbiamo pure una più giusta collocazione temporale di quei giocatori. Alle spalle degli stessi vi è un casolare le cui fattezze le rincontriamo in quello presente nella cartolina nelle vicinanze di via Calnova. La maglia scura indica che potrebbe essere quella descritta da Gianni Colosetti nel suo racconto, magari non legata all’inaugurazione del dicembre 1925 ma sicuramente una delle gare successive. Il campo fu utilizzato non solo dal San Donà ma anche dai ginnasti facenti parte della Polisportiva, che nel frattempo nel novembre 1926 vide le dimissioni di Celeste Bastianetto dalla presidenza perchè inviso all’autorità fascista dell’epoca che di lì a poco sciolse anche le componenti cattoliche della Polisportiva. Alessandro Janna divenne il presidente del San Donà Foot-ball Club affiancato da Girolamo Janna e Fausto Picchetti, mentre la società dovette entrar a far parte dell’Opera Nazionale Dopolavoro. Il San Donà F.C. ebbe in gestione quel campo sino alla primavera del 1927, quando Monsignor Saretta si vide costretto a dare lo sfratto ai calciatori in quanto aveva ottenuto quanto sperato, l’arrivo dei salesiani a San Donà. Poche settimane dopo ci fu la posa della prima pietra dell’Oratorio Don Bosco, ma questa è un’altra storia. Quanto al San Donà Foot-ball Club, presto divenne Società Sportiva Fascista e di lì a due anni venne inaugurato il nuovo campo sportivo del Littorio, l’attuale Stadio “Verino Zanutto”, ma anche questa è un altra storia.

Lo statuto del San Donà Foot-ball Club, 15 agosto 1926

Per approfondimenti sul campo di calcio di via Calnova: (1) « Monsignor Saretta, “Pastore” di San Donà di Piave » a cura del Gruppo “El Solzariol” (2004); (2)« Ancora un giro in giostra » di Wally Perissinotto (2006); (3) « Storia dello sport sandonatese » di Gianni Colosetti (2007); (4) « A.C. San Donà – 90 anni di Calcio Biancoceleste » di Giovanni Monforte e Stefano Pasqualato (2012)