Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti

Nel 1940 l’Italia entra in guerra a fianco della Germania, l’esercito italiano verrà impegnato in tanti fronti ma alla fine sarà la popolazione italiana tutta a ritrovarsi al fronte stretta tra eserciti stranieri, italiani contro e distruttivi bombardamenti. Il peggior flagello che l’Italia ricordi e anche San Donà ne pagò un prezzo.

Il Monumento ai Caduti di San Donà di Piave

L’Italia in guerra vi entrò nel 1940 ma già dagli anni Trenta i soldati italiani stavano combattendo in molti fronti, presenti in Libia e in Somalia gli italiani conquistarono l’Etiopia nel 1936 occupando poi l’Albania nel 1939. Conflitti che dal punto di vista economico avevano minato le finanze italiche, tanto più che l’autarchia di regime contrapposta alle sanzioni internazionali non avevano regalato prospettive dorate alla popolazione italiana sempre più alle prese con pesanti ristrettezze. Con il 10 giugno 1940 l’entrata in guerra a fianco della Germania contro Francia ed Inghilterra non fa che acuire i problemi ma al tempo stesso rende esplicito quel prezzo che si dovrà pagare alla guerra. Se da un lato continuano i tanti arruolamenti degli elementi più e meno giovani della popolazione dall’altro già nella notte tra il 10 e l’11 giugno Torino e Genova subirono il primo bombardamento da parte della RAF inglese. Il settore industriale di Liguria, Piemonte e Lombardia divenne un obiettivo delle incursioni aeree notturne inglesi e francesi, ma anche le raffinerie di Porto Marghera subirono il loro primo attacco aereo francese nella notte tra il 13 e il 14 giugno. Francesi che di lì a poco saranno costretti alla resa dall’invasione nazista e contro cui solo poco prima della resa l’esercito italiano aveva iniziato ad avanzare da sud. Se la minaccia francese venne meno grazie al governo collaborazionista di Vichy, i bombardamenti continuarono negli anni a venire da parte di inglesi e alleati: inizialmente ebbero obiettivi economici e bellici, ma che nel proseguo del conflitto mondiale videro sempre più colpita la popolazione civile e lo stesso patrimonio artistico italiano ne pagò un caro prezzo.

In guerra anche contro gli Stati Uniti

Nel dicembre 1941 gli Stati Uniti subirono l’attacco giapponese a Pearl Harbour e la loro neutralità venne meno, subito dopo la Germania e l’Italia dichiararono guerra agli Stati Uniti in nome dell’alleanza instaurata con il Giappone. Se inizialmente le forze dell’Asse trassero beneficio dal tener impegnato il nemico americano da parte dell’alleato giapponese, poi le sorti del conflitto cambiarono quando un anno dopo gli Stati Uniti rinforzarono gli inglesi in Africa dove gli italiani prima e i tedeschi poi avevano attaccato l’Egitto controllato dagli inglesi. Nel mezzo vi era stata la rovinosa invasione della Russia da parte delle truppe dell’Asse, che costò carissimo alla Germania e ai suoi alleati. Tra offensive e controffensive furono soprattutto i due inverni russi a mietere migliaia di morti. Un’Italia in guerra su infiniti fronti ma che già prima del 1939 era conscia della propria impreparazione militare e che suo malgrado ora vedeva le sue truppe impegnate in Etiopia, nel Nord Africa, in Russia, in Grecia, in Jugoslavia.

La guerra alle porte di casa
19 luglio 1943 il bombardamento di Roma, 3mila morti e 11mila feriti

Con la sconfitta in Nord-Africa, per l’Italia le prospettive si fecero rapidamente cupe. Gli angloamericani sbarcarono il 10 luglio 1943 in Sicilia, nel giro di poche settimane arrivarono a controllare l’isola. Un incontro di Mussolini con Hitler nei pressi di Feltre non offrì vie d’uscita all’Italia tanto che in quelle stesse ore un pesante bombardamento aereo alleato colpì per la prima volta Roma. Lo stesso Mussolini venne messo in minoranza il 25 luglio dal Gran Consiglio del Fascismo e successivamente fu dimissionato da Vittorio Emanuele III, imprigionato, e sostituito con Badoglio. Quella via d’uscita la monarchia pensò di trovarla firmando un armistizio con gli alleati, e reso pubblico l’8 settembre, il re e il governo italiano presero la via prima di Pescara e poi di Brindisi. La reazione tedesca fu violenta tanto che liberarono Mussolini il 12 settembre e attuarono quello che avevano sempre fatto in ogni altro paese dell’Asse ribelle: controllo militare tedesco e costituzione di un governo amico, in questo caso la Repubblica di Salò con a capo nuovamente Mussolini. Con l’esercito italiano in rotta e i comandi senza ordini, per i tedeschi fu gioco facile prendere il sopravvento e requisire armamenti e rifornimenti. Tra l’altro il comando tedesco aveva già previsto un passo indietro italiano e si era quindi preparato ridispiegando e rinforzando le truppe nella penisola. Pesanti furono i bombardamenti che colpirono le città meridionali, gli alleati si preparavano a sbarcare in Puglia, in Calabria e in Campania. Con l’operazione “Slapstick” gli alleati sbarcarono a Taranto e l’armistizio fu una chiave per farlo con il minimo danno, nel giro di qualche settimana riuscirono a controllare l’intera Puglia. Dal punto di vista strategico l’occupazione del Salento permise agli alleati di ripristinare le numerose basi aeree italiane, funzionali sia per l’avanzata nel meridione che per colpire il Nord Italia. E proprio dalla Puglia partirono gli aerei della 15° USAAF che colpirono anche le nostre zone.

Dopo l’armistizio s’intensificano i bombardamenti
7 aprile 1944 bombardamento di Treviso, 1470 morti – “Palazzo dei Trecento”

Se nel settembre 1943 l’Italia cercò una via d’uscita firmando l’armistizio, la massiccia presenza tedesca non rese meno tenace la guerra. Anzi il conflitto divenne più crudo con un ruolo sempre più subalterno dei fascisti della Repubblica di Salò nei confronti dell’esercito germanico divenuto ancor più d’occupazione agli occhi di una popolazione stanca e insofferente. Se da un lato oramai la popolazione italiana a fronte dei tanti bombardamenti aveva per la gran parte abbandonato le città e cercava di tenersi lontano dai possibili obiettivi militari, dall’altro le distruzioni di interi quartieri di una guerra tutt’altro che selettiva fece registrare tante perdite tra la popolazione civile. Uno dei bombardamenti più duri nello scenario veneto fu quello che subì Treviso il 7 aprile 1944 che costò 1470 morti ed una distruzione generalizzata del centro cittadino, ne fece le spese anche il Palazzo dei Trecento, uno dei simboli artistici della città.

La guerra alle porte di casa
Il ponte stradale negli anni trenta

In quei primi mesi del 1944 i bombardamenti di Treviso e quelli continui di Mestre e di Porto Marghera avevano prodotto un alto numero di sfollati che cercarono scampo nelle zone circostanti, non ultima San Donà di Piave che accolse numerose famiglie e riuscì a raccogliere per la diocesi ferita ben cento mila lire di offerte. Ma le stesse autorità di San Donà incominciarono in quella primavera del 1944 ad invitare la popolazione ad abbandonare il centro cittadino e soprattutto a tenersi a distanza da quegli obiettivi militari come potevano essere il ponte stradale e quello ferroviario, sottolineandone le zone e le vie da cui era consigliata l’evacuazione specie di chi non sarebbe stato in grado di farlo celermente in caso di pericolo. Ed in particolare di notte ad osservare gli orari del coprifuoco per non offrire il fianco ai sorvoli dei caccia alleati notturni.

Le prime bombe cadono sul sandonatese

Con il fronte che si avvicinava alla Romagna si intensificarono nell’estate i bombardamenti delle città, particolarmente cruenti quelli intorno a Bologna, ma non di meno le incursioni imperversarono verso i porti di Venezia e Trieste. Inutile dire che la direttrice degli aerei portava al sorvolo continuo dei cieli sandonatesi, una minaccia costante e pur se molte missioni prendevano la direzione della Germania tra gli obiettivi multipli che avevano, anche le nostre zone entrarono spesso nel mirino degli attacchi alleati. I timori dei tanti sandonatesi che scrutavano i cieli solcati dagli aerei alleati presto si materializzarono. Le prime bombe caddero nella zona della Casa Paterna in via Calnova e a Chiesanuova il 18 luglio, mentre particolarmente importanti furono i danni subiti da Musile il 21 luglio con le prime vittime, danni anche dal lato sandonatese subì la strada arginale verso Grisolera.

Le truppe tedesche prendono possesso di San Donà
Il ponte della ferrovia colpito dai bombardamenti alleati

A fine luglio le truppe tedesche rafforzarono la loro presenza a San Donà occupando in modo stringente molte zone della città e requisendo numerose abitazioni, lo stesso Oratorio Don Bosco era pieno di soldati tedeschi con cui i salesiani furono costretti ad una scomoda convivenza. Una presenza tedesca che si manifestava in tutto il sandonatese con continue retate nelle quali i tedeschi si alternavano ai fascisti alla ricerca di partigiani, disertori del regio esercito e sempre più di militari alleati sopravvissuti agli abbattimenti degli aerei che sorvolano i cieli sandonatesi e non. Il 3 agosto di un nuovo pesante bombardamento fu fatto oggetto Musile dove caddero un centinaio di bombe, un’altra ventina caddero su San Donà. L’obiettivo palese erano sempre i ponti sul Piave ma è inevitabile che a farne le spese furono i centri cittadini. Alla fine di agosto a finire sotto le bombe fu il ponte della ferrovia pesantemente danneggiato.

Quella sirena divenuta incubo
Le sirene antiaeree ancora esistenti sui tetti di Roma

Numerosi erano gli allarmi aerei che risuonavano ogni giorno a San Donà e la tarda mattinata era l’orario solito in cui tutti erano costretti a cercare di sfuggire alle possibili esplosioni, chi in rifugi predisposti chi in ripari di fortuna. Decisamente più scomodi quando a risuonare erano le sirene di notte con uno stato di apprensione perenne della popolazione che aveva deciso di rimanere in città. Come racconta Savio Teker nel suo libro (2.): « I segnali d’allarmi erano tre: Limitato pericolo (tre segnali da 10 secondi con intervalli di 10 secondi); Pericolo (dieci segnali di 3 secondi con intervalli di 3); Cessato allarme (un segnale di 60 secondi) ». Gli inviti all’evacuazione della città verso le zone di campagna divennero sempre più assillanti e numerose erano oramai le famiglie che ingrossarono le fila degli sfollati.

Il campanile come rifugio notturno
Immagine aerea del centro di San Donà di Piave del 1930

Tra i simboli di quel periodo fatto di continue minacce aeree diurne e notturne a sorpresa vi è stato il Campanile. Ne dà conto Savio Teker inserendo nel suo libro (2.) un racconto pubblicato su un foglietto parrocchiale e scritto dallo stesso Monsignor Saretta a Liberazione di San Donà avvenuta: « Ci sono dei cittadini che hanno proprio chiesto ospitalità al campanile per fare i loro sonni tranquilli, e su per le scale, in tutti i piani del grattacielo, fino alla cella campanaria, ogni notte si dispone con mezzi di fortuna una folla silenziosa e trepidante per sottrarsi ai colpi micidiali di “Pippo” tenebroso. Tutto lo spazio disponibile è utilizzato. Non cadrebbe per terra un grano di miglio. Vi sono i “sediari” pigiati l’uno vicino all’altro, diritti, avvolti nelle ampie coperte per ripararsi dal freddo che entra col vento dalle finestre senza vetrate. Stanno immobili, rigidi, per tutta la notte, come pietrificati. Più disgraziati sono quelli che devono accomodarsi in qualche modo su per la scala. Ciascuno ha il suo gradino, e guai a chi osasse toccarla! Il diritto del primo occupante è riconosciuto in pieno. Qualche fortunato, di proporzioni più abbondanti, si è assicurato l’uso anche di due o tre gradini. E se durante la notte si potesse far luce su quella folla di accoccolati, sarebbe uno spettacolo strano, macabro, pietoso quello che si presenterebbe al nostro sguardo. Poi ci sono i privilegiati, che hanno imbastito un letto di fortuna, con reti metalliche, con materassi. Devono però essere puntuali, all’ora fissata, perché non v’è spazio fra letto e letto e chi arriva in ritardo deve passare sopra i malcapitati, che già riposano sotto le coperte, con pericolo di sentirsi mettere il piede,,,,in fallo. Non mancano le sentinelle, s’intende, senz’armi: sono i ricoverati sporadici, che nel momento del pericolo cercano rifugio in campanile e vi si introducono a furia di spintoni, e vi restano per ore e ore, nelle posizioni più incomode, ma sempre in piedi, a disagio, in attesa di…. Riveder le stelle. Piccole fiammelle a olio, accese davanti al Crocefisso, illuminano la strana catacomba (in senso verticale), quel tanto che è indispensabile per evitare pericoli e disordini, e rendono il soggiorno anche più tetro e misterioso. Così per settimane, per mesi, per tutte le notti, da quando gli aerei notturni vanno spargendo il terrore e la morte ».

(1 – Prima parte); (2 – Seconda parte « Morte e distruzione nel tragico autunno 1944 »); (3 – Terza parte « Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944 »)

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

Quell’angolo del Duomo nel 1932

Quell’angolo del Duomo nel 1932

Il timbro della cartolina del 1932

Quelle storie sospese che s’incrociano nelle cartoline hanno un nuovo capitolo. Non tanto per lo scritto questa volta ma per i protagonisti della storia. Di sfuggita avevo intravisto solo l’immagine, sembrava quasi il classico soggetto religioso che talvolta s’incrocia in talune cartoline. A guardarla bene aveva un qualcosa di famigliare, un già visto che poteva avere un nesso passato ma non certezza. Ed invece una volta arrivatami in mano ecco scoprirne anche la didascalia. Il velo subito è sceso e il nesso sandonatese è stato subito scoperto, quel granello di ricordo è divenuto montagna. L’approfondimento poteva iniziare.

La cappella del Duomo di San Donà di Piave
Il fronte della cartolina viaggiata del 1932, con l’altare della Cappella del Duomo di San Donà

L’immagine è della fine degli anni venti, ovvero di quel periodo nel quale anche il nuovo Duomo sandonatese conobbe la sua completa ricostruzione dopo la grande guerra. La stessa immagine la si trova nel libro di Monsignor Chimenton “S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella” (1928). E’ uno scatto del fotografo sandonatese Batacchi, molte le sue immagini della città contenute nel libro del Chimenton e ancor più numerose quelle divenute cartoline in quegli anni. Il soggetto ritratto in questa immagine è l’altare dedicato San Vincenzo Ferreri presente nella Cappella della Fonte Battesimale nel Duomo di San Donà di Piave, la prima cappella alla destra dell’altare principale. Offerto alla parrocchia dal cav. Dott. Vincenzo Janna, sopra l’altare campeggia una pala dipinta dal pittore Cherubini incastonata in un mobile fatto dall’intagliatore Papa su disegno dell’architetto Torres.

Così descriveva Monsignor Chimenton la pala dedicata a San Vincenzo Ferreri: « La Madonna delle Grazie campeggia in posto d’onore, su quella tela, seduta su di un ricco trono, come una matrona; fra le sue braccia sostiene il Bambino. Riccamente vestita, in un atteggiamento dolce e delicato, unitamente con il suo Figliuolo Divino volge il suo sguardo verso i Santi che stanno ai piedi del suo trono, e verso i fedeli che presentano le loro venerazioni: sembra ripetere che la sorgente della sua grandezza e dei suoi trionfi è nella Divina Maternità. Dietro il trono della Vergine, sullo sfondo che si allunga come in una visione di panorama, si scorge il nuovo tempio di S. Donà di Piave, ultimato in tutte le sue parti, anche nel suo nuovo pronao, e il campanile ».

Una fotografia odierna della pala dedicata a San Vincenzo Ferrer

« Ai piedi del trono della Vergine stanno i Santi patroni della cittadina, che ricordano la diocesi di Treviso e la vecchia Gastaldia di S. Donà: S. Liberale, che regge lo stendardo del Comune di Treviso, è in atteggiamento di perfetto guerriero, dalla divisa romana, e la corazza sul petto; tiene la sua fronte rivolta alla Vergine; con le mani congiunte sembra impetrare da Maria nuove grazie per la diocesi di cui è patrono, come ne ottenne per la stessa durante la guerra; San Vincenzo Ferreri, nel suo abito domenicano, la più bella fiugura, forse, del quadro, che additando con la mano sinistra la Vergine, la mano destra poggiata sul petto, ricorda in parte almeno, il programma della sua predicazione; S. Donato Vescovo sostiene nella sua destra il pastorale e nella sinistra il libro del Vangelo: è la figura solenne del patrono della Gastaldia; S. Marco evangelista, austera figura di pensatore e d’inspirato, che, la fronte leggermente sollevata, l’occhio raccolto come di chi medita su quanto sta compiendo, o meglio su verità che devono formare la base della nuova fede, scrive il suo Vangelo: seduto su d’un masso, ha presso di sé il fulvo leone, simbolo della gloriosa repubblica di Venezia ».

Una cartolina sorprendentemente rara che non ricordo di aver mai incrociato e che potrebbe essere parte anche di una serie di cartoline.

Nella mappa del Duomo l’esatta ubicazione dell’altare nella cappella della Fonte Battesimale
La tipografia S.P.E.S. San Donà di Piave
La tipografia S.P.E.S. con vista Duomo

Anche il retro porta una sorpresa relativa alla stampa della cartolina. A editare e stampare la stessa è la S.P.E.S. di Evaristo Da Villa che delle cartoline poi farà una missione con una sterminata varietà nei decenni successivi anche se la tipografia sandonatese non la si trova più stampigliata sul retro. Riguardo alla S.P.E.S. ci viene in soccorso ancora Monsignor Chimenton che di questa tipografia scrive « La tipografia Spes sorse dopo la guerra. Iniziò il suo lavoro in casa Gnes, in viale Margherita. Nel 1926 si trasportò in un locale più ampio, più adatto, in via Giannino Ancillotto, presso il nuovo teatro Verdi. Ne è proprietario Evaristo Da Villa, la direzione tecnica è affidata al signor Guido Zottino.

Quel destinatario depositario di una storia
Il destinatario della cartolina del 1932

La cartolina è  del 1932 e venne inviata a Roma presso l’Ospizio Salesiano del Sacro Cuore dove risiedeva il chierico Luigi Ferrari. Questi altri non era che uno dei tre salesiani che nel 1928 arrivarono a San Donà di Piave per partecipare alla fondazione dell’Oratorio Don Bosco, all’epoca già in costruzione. Oltre al chierico, vi erano il direttore don Riccardo Giovannetto e il coadiutore Mauro Picchioni. I tre legarono la loro permanenza sandonatese non solo in ottica costruzione dell’Oratorio ma prestarono la loro opera anche all’Orfanotrofio fondato subito dopo la conclusione della prima guerra mondiale.

L’arrivo dei salesiani a San Donà di Piave
Bollettino Salesiano nr. 11 novembre 1928

Una descrizione molto significativa dell’arrivo dei tre salesiani a San Donà di Piave è contenuta nel Bollettino Salesiano nr. 11 del novembre 1928 (pag. 7):  « Il 24 settembre, giorno in cui il popolo di S. Donà di Piave celebrava la festa in onore della Madonna del Colèra, i Salesiani fecero ingresso in città per dar principio al loro apostolato tra la gioventù. L’accoglienza che il buon popolo fece ai nostri confratelli, fu la più entusiastica che si possa immaginare.  Alla stazione erano ad attenderli l’Arciprete Mons. Luigi Saretta, che tanto si adoperò per avere in S. Donà i Figli di Don Bosco, e con lui erano la Contessa Corinna Ancilotto, benemerita Presidente dell’Orfanotrofio, Donna Amelia Fabris e Donna Maria Bortolotto del Comitato d’onore; le signore Perin, Bastianetto e Bagnolo del gruppo Donne Cattoliche; il Cav. Magg. Peruzzo, il cav. Marco Bastianetto, l’ing. Ennio Contri, il geom. Attilio Rizzo, i sig. Giuseppe Bizzarro, Alberto Battistella, Umberto Roma ed altri di cui ci sfugge il nome, per il Comitato esecutivo pro Oratori e per gli Uomini Cattolici. Dopo un breve saluto e colloquio nella sala d’aspetto, gentilmente concessa dal Capo Stazione, li attendeva una immensa folla che li accolse con evviva ed esclamazioni mentre i fanciulli eseguivano con l’accompagnamento della Banda locale, apposito inno composto dal Rev.mo Arciprete. »

In corteo verso il sentro cittadino. « S’iniziò il corteo aperto dai bambini dell’Orfanotrofio, dai Fanciulli della Dottrina, dagli Aspiranti al Circolo, dal Circolo Giovanile, e dietro agli Uomini Cattolici, venivano i Salesiani circondati dal Clero locale, dal Comitato Esecutivo dell’Oratorio e dalle Autorità. Seguiva una folla immensa di signore, di donne del popolo, di giovanette del Circolo, di Piccole Italiane, e in coda per adesione in segno di onore, una interminabile fila di automobili delle principali Famiglie del paese. Il corteo imponente si diresse al Duomo fra una festa di sole, di canti, di suoni, uno sventolio di bandiere e due ali di popolo reverente e festante. Da tutte le case su tutti gli alberi erano scritte inneggianti ai Salesiani. Giunti in Piazza del Duomo il corteo si fermò su l’atrio ove, accompagnato dalla Banda fu di nuovo eseguito l’inno da migliaia di voci.

In una immagine fatta all’Orfanotrofio in quegli anni, sono presenti i tre salesiani. Nella foto si riconoscono tra gli altri: il primo seduto a sinistra MAURO PICCHIONI, il chierico P. Pretz, MONSIGNOR LUIGI SARETTA, don RICCARDO GIOVANNETTO, il sig. G. Rocco. In alto in veste nera, uno dei protagonisti di questa nostra storia il chierico LUIGI FERRARI

Il saluto in Duomo.  Entrati nella Chiesa affollata di popolo, i Salesiani ricevettero il saluto da mons. Vescovo di Treviso. Mons. Longhin ricordò la lunga attesa, le preghiere, le suppliche dell’Arciprete e prendendo lo spunto dall’immensa moltitudine presente fece rilevare come tutto il popolo avesse desiderata ed attesa la venuta dei Salesiani. In nome di tutti e in nome proprio, Egli si disse lieto di salutarli: Benedicti! Sicuro che traendo lo spirito e gli auspici del grande Educatore don Bosco, essi avrebbero compiuta opera feconda di bene nella vasta Parrocchia. Si augurò di veder presto sugli Altari il Fondatore della Famiglia Salesiana, lieto di tornare a S. Donà per celebrare le virtù e le glorie di Giovanni Bosco.

La processione in onore della Madonna del Colera del 24 novembre 1928 tratta da Inoratorio

Dopo la Messa solenne celebrata da mons. Valentino Bernardi con assistenza di S. E. Mons. Vescovo e di numeroso Clero, i Salesiani furono accompagnati in Canonica dove ricevettero l’omaggio del l’ill.mo sig. Podestà Dr. Costante Bortolotto e dei due vice podestà sig. Giuseppe Fornasari e sig. Giuseppe Davanzo.

Sul mezzogiorno Autorità e Clero in bella armonia di gioia e di festa, si raccolsero in Canonica a banchetto insieme con mons. Vescovo e i Padri Salesiani. Al levar delle mense brindarono, acclamatissimi l’Arciprete e il Podestà. Rispose il Rev.mo Ispettore Don Festini ringraziando commosso.

La processione pomeridiana.    Nel pomeriggio si svolse la tradizionale interminabile Processione sigillata da un ispirato discorso di monsignor Vescovo. Tal festa rimarrà in benedizione ed in memoria nel cuore di tutti i Sandonatesi. »

Questa la relazione pubblicata dall’ottimo AVVENIRE D’ITALIA del 29 settembre . « Sentiamo il dovere di esprimere a Mons . Longhin, al R .mo Sig. Arciprete, alle Autorità e a tutte le egregie persone che ebbero parte attiva in questa dimostrazione, la nostra riconoscenza. Particolarmente a Mons. Saretta, che volle con un bellissimo Numero Unico intitolato : I Salesiani a S . Donà di Piave far conoscere alla buona popolazione l’opera di D. Bosco e l’apostolato dei suoi figli. Nella lettera con cui annunziava la venuta dei Salesiani, diceva ai suoi parrocchiani : Fin dal primo istante i Salesiani devono sentire la simpatia, la benevolenza, il cuore di S. Donà di Piave. Li accompagneremo all’Altare, per sciogliere l’inno della riconoscenza e per invocare la benedizione del Signore sopra di loro e sopra i nostri figli». I salesiani hanno sentito ciò nell’accoglienza del 24 settembre e sperano che la benedizione del Signore e la benevolenza del popolo sandonatese li aiuteranno a esplicare con frutto la propria missione. »

E come d’incanto anche il mittente è d’eccezione

Ricca la storia contenuta in questa cartolina, da ogni parte la si guardi offre spunti di approfondimento. Manca solo di conoscere chi abbia scritto al chierico Luigi Ferrari in quel 1932. Come la ciliegina sulla torta è da sempre considerata l’ultima preziosità ivi depositata, anche il mittente è la giusta conclusione di questa nostra storia. Lo scritto è breve quasi una stringata risposta ad una precedente missiva. “Anch’io….ricordando” è l’unica frase inserita, accompagnata dalla firma: Luigi Saretta, ovvero l’arciprete di San Donà di Piave.

Le poche parole scritte da Monsignor Saretta.

Per approfondimenti: 1. « S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella » (1928) di Mons. Costante Chimenton; 2. « Storia cristiana di un popolo – San Donà di Piave » (1994, De Bastiani Editore) di Domenico Savio Teker; 3. « Ancora un giro in giostra » (2006, Tipolitografia Colorama) di Wally Perissinotto; 4. « Cent’anni di carità » (2021, Digipress Book) a cura di Marco Franzoi; 5. le pagine dei siti Inoratorio.it e Duomosandona.it

Cartoline che raccontano: il campo del San Donà

Una cartolina di San Donà del 1927 o precedente, le case del Foro Boario, il vecchio Cimitero, la Caserma “Tito Acerbo” o “San Marco”, mentre al posto dell’Oratorio Don Bosco prima venne costruito un campo di calcio

Quante storie possono esser nascoste in una sola cartolina. La data dell’immagine può esser imprecisa ma i soggetti che lì son ritratti ne danno un contorno. Se la prima pietra dell’Oratorio è stata posata il 15 maggio 1927, pur nell’imprecisione del tratto dell’immagine tutto si può dire tranne che in quel terreno oltre al cimitero ci sia un cantiere. Le cronache ci dicono che prima che fosse posata la prima pietra quel terreno fu concesso al San Donà Foot-Ball Club e adattato a campo di calcio, per cui quell’immagine è ancor precedente al 22 dicembre 1925 quando venne inaugurato il campo di calcio. In quegli anni venti andava ad iniziare la storia quasi centenaria del calcio sandonatese.

L’inizio della Storia
Villa Amelia, nei pressi della quale si ritrovavano i primi calciatori sandonatesi

La nostra storia non può che cominciare prendendo in prestito le parole scritte da Gianni Colosetti nel suo libro sullo sport sandonatese che poi faranno da base anche a quello successivo scritto da Monforte e Pasqualato sulla storia del’A.C. San Donà.
« A San Donà la scintilla della palla rotonda è stata attivata da un giovane impresario sandonatese, operante nel campo dei pozzi artesiani, Leonida Fava, che nel corso dei suoi viaggi di lavoro, ebbe modo di assistere a degli incontri dell’Ambrosiana Inter di Milano appassionandosi a questo nuovo sport.
Avendone la possibilità, acquistò un pallone coinvolgendo in questa sua passione gli amici Antonio e Giuseppe Battistella, Federico ed Eugenio Alfier, Giovanni Nespolo, con i quali cominciò a ritrovarsi la domenica mattina nei pressi della stazione ferroviaria in un prato dietro Villa Amelia detto “Il Campo del Mago”. Il rudimentale campo da gioco era situato in via Garibaldi: grossi sassi materializzavano inizialmente le porte, sostituiti successivamente da pali di salice terminanti a forchetta sui quali veniva posta la traversa. Una parte importante in quella fase è stata svolta dal tecnico delle ferrovie, addetto al ripristino della linea San Donà-Ceggia, ancora gravemente danneggiata dagli eventi bellici, il triestino Szabados. Il tecnico, avvicinatosi al gruppo iniziò ad insegnare loro i primi rudimenti e le regole fondamentali del calcio, in particolare come trattare la palla “all’ungherese”, tiro effettuato cioè con l’esterno del piede, in modo da dare al pallone un effetto rotatorio rientrante.
Quei ritrovi domenicali, però, non durarono a lungo. Privati del loro terreno di gioco, destinato momentaneamente dai proprietari ad altri usi, quei pionieri cessarono l’attività ma proseguirono a cercare proseliti in attesa di reperire qualche altro terreno dove sfogare la loro nuova passione ».

Un vero campo dove giocare

Continua Colosetti nel suo libro: « Furono proprio due di questi nuovi proseliti, Bruno e Gino Rossi, che contribuirono a risolvere, dopo qualche tempo, il gravoso problema del terreno di gioco. I due fratelli, infatti, convinsero il padre Enrico a cedere in affitto un campo dislocato dietro la caserma “Tito Acerbo”, terreno che fu, dagli stessi, ben spianato e dotato di pali per le porte ». Un campo di calcio vicino alla Caserma “Tito Acerbo”, che forse ancora non aveva tale denominazione, la zona è la stessa della cartolina ma il campo non sembra essero quello che si intravede nell’immagine. Viene detto dietro la Caserma mentre quella che si vede nell’immagine della cartolina è la facciata della stessa prospiciente la strada detta “Del Casermone”. Vien però citato il nome di Enrico Rossi che ritroveremo poi, evidentemente tutta quella zona era stata di sua proprietà, sia davanti che dietro la caserma.

La nascita dell’Ardita
L’ « Ardita » la prima squadra che si formo nei primi anni

Ben presto quel gruppo di giocatori formarono una squadra vera. « La ripresa dell’attività portò nuovi adepti, alcuni dei quali avevano già dimestichezza con il pallone avendolo praticato nelle scuole veneziane o trevigiane da essi frequentate. Dopo qualche tempo al gruppo si unì Tullio Roma, che essendosi diplomato capitano di lungo corso, aveva giocato, oltre che nell’istituto scolastico, anche nella giovanile del Venezia con un altro sandonatese Giovanni (Nino) Gallerani, studente presso l’Istituto Commerciale Sanudo. Così, vuoi per la sua esperienza che per il grado derivategli dal suo titolo di studio, quando, costituita la squadra, si trattò di designare il capitano, la scelta non potè che essere rivolta sul suo nome.
Raggiunto il numero sufficiente fu costituita una squadra alla quale fu dato il nome di “Ardita” che con tassazioni personali e questue fra amici si diede una divisa, maglia bianco nera a scacchi e pantaloncini bianchi. Hanno fatto parte dell’Ardita: Alessandro Janna (presidente), Ruggero Galassini (allenatore). Giocatori: Eugenio, Nene e Federico Alfier, Antonio e Giuseppe Battistella, fratelli Bincoletto, Gino Bonetto, Libero Dus, Emilio Caramel, Cesarin, Giuseppe Da Villa, Sante Calcide, Amos e Ruggero Galassini, Girolamo Gallerani, Vito Girardi, Bernardo Guerrato, Loro da Ceggia, Bruno Marusso, Giuseppe Nespolo, Giovanni e Giuseppe Picchetti, Tullio Roma, Bruno e Gino Rossi, Salvador, Antonio Velludo, Alessandro Zuccon e Luigi Zorzi.

Dietro quella Caserma il campo di calcio diviene importante

« Le esibizioni dei calciatori erano motivo di curiosità da parte di molti che, dopo aver assistito a qualche allenamento non mancavano di appassionarsi e ingrandire il numero dei calciatori. La cosa non sfuggì ad Alessandro Janna, presidente dell’Unione Sportiva Piave, che prese subito a cuore le necessità di quei pionieri, non disdegnando di far fronte alle loro esigenze.
Il campo di calcio fu recintato con delle tavole provenienti dall’Azienda Agricola Janna, dotato di una baracca di legno nelle vicinanze della quale una fontanella d’acqua serviva ai giocatori per lavarsi e tentare di ripulirsi, a turno, dal copioso fango che nelle giornate piovose rendeva quel terreno più simile ad una stazione di cure termali che ad un campo di calcio. Il campo aveva anche nel signor Callegher il suo custode. »

Celeste Bastianetto presidente del San Donà
Il presidente Celeste Bastianetto con il San Donà F.C. nel 1926

Il campo dietro la caserma venne dunque recintato, nel mentre entra in scena la figura di Celeste Bastianetto. Era “un ragazzo del ‘99” reduce da quella prima guerra mondiale nella quale era stato insignito di una medaglia di bronzo al valor militare. Laureatosi in legge, divenne avvocato venendo poi nominato presidente dell’Azione Cattolica sandonatese. Impegnato nell’associazionismo cattolico al fianco di monsignor Saretta, fondò anche un’associazione ginnico sportiva che per la sua attività condivideva gli spazi del campo di calcio. Racconta Colosetti: « L’attività era svolta anche nel campo di calcio dell’Ardita e fu proprio grazie a queste comuni frequentazioni che Celestino Bastianetto pensò di unire queste giovani realtà sportive. Dopo una serie di contatti con Alessandro Janna, il “manager” dei calciatori, domenica 14 dicembre 1924, terminate le funzioni pomeridiane, nei locali della canonica si tenne una riunione nel corso della quale furono gettate le basi per la creazione di una Polisportiva alla cui presidenza fu nominato Celestino Bastianetto, che aveva una componente calcistica nel San Donà Football Club e una ginnica sportiva, nelle sopracitate associazioni parrocchiali. »

Monsignor Saretta acquista il terreno per il futuro Oratorio

Dopo aver avuto in desiderio di far arrivare a San Donà di Piave per tanti anni i Salesiani, monsignor Saretta decise di acquistare il terreno vicino al vecchio Cimitero. Ne da conto Wally Perissinotto nel suo libro: « Oggetto della transazione era l’area edificabile di 12.667 mq posta in località Loghetto, subito dopo il vecchio cimitero comunale, sulla strada di via Calnova (l’odierna via XIII Martiri).
Il confine orientale frantumava l’originaria proprietà proseguendo in modo irregolare lungo un breve tratto dell’attuale via Eraclea, detta strada “del Casermone” per la presenza della imponente Caserma “Tito Acerbo”. A sud e a ovest il terreno andava a morire nell’acqua di scolo della fossa Molina e in quello delimitante la proprietà Bortolotto. Sul fondo, parte seminativo e parte prativo, c’erano i resti di una casa colonica danneggiata dalla guerra già abitata dal sig. Enrico Rossi e Callegher ». Ecco ritornar i nomi di Enrico Rossi e Callegher, il primo diede in affitto il terreno dietro la Caserma per il primo campo di calcio, mentre il secondo ne era il custode.

Il terreno acquistato nel 1925 da Monsignor Saretta tra il vecchio cimitero e la Caserma che divenne provvisoriamente campo di calcio, in seguito nel 1927 furono acquistati altri due lotti di terreno vicino a quello acquistato per primo e venne costruito l’Oratorio Don Bosco
Prima dell’Oratorio un nuovo campo di calcio

In attesa che maturino i tempi per la costruzione dell’Oratorio, Monsignor Saretta decise di destinare quel terreno inizialmente a un campo di calcio. Scrive ancora Wally Perissinotto nel suo libro: « E’ interessante osservare comunque come in questo secondo atto compaia la specifica destinazione d’uso della proprietà immobiliare: “ricreatorio e campo sportivo, nonché scuola professionale”, annotazione che ci svela i progetti dell’arciprete a medio e lungo termine. Una fattura conservata in archivio parrocchiale della ditta “Barbato costruzioni edili” ci fornisce ulteriori indicazioni: già a dicembre sul fondo ripulito e adeguatamente sistemato veniva costruito uno spogliatoio per consentire l’attività ginnico-sportiva dei giovani sandonatesi.
Sappiamo che la gestione del campo venne affidata alla società sportiva “San Donà Foot-ball Club” le cui finalità avevano senz’altro incontrato l’approvazione del parroco. Infatti lo statuto pubblicato il 15 agosto 1926 recita fedelmente: “Accanto allo sport (la società sportiva) curerà l’educazione dell’animo dei giovani. All’art. 12. E’ dovere di ogni socio giocatore di astenersi completamente dalla bestemmia e dal turpiloquio. E all’art. 24. Il campo sportivo sarà chiuso a chiunque non appartenga alla società, ma in ore da convenirsi potrà essere aperto alle due Società dei ginnasti della Guido Negri e degli Esploratori cattolici… ».

L’inaugurazione del nuovo campo di calcio

Racconta Gianni Colosetti dell’inaugurazione del nuovo campo: « I lavori di livellamento e di costruzione dello spogliatoio furono eseguiti dall’impresa Dante Barbato che provvide anche alla recinzione del medesimo recuperando lo steccato del vecchio campo. L’impianto fu inaugurato, domenica 22 dicembre 1925, alla presenza del Podestà Giuseppe De Faveri, del dottor Stocchino, segretario del Fascio, di autorità civili e militari e con la partecipazione della banda comunale.
Nel susseguirsi dei rari discorsi commemorativi, ci fu un piccolo incidente “diplomatico”, l’avvocato Bastianetto, i cui rapporti con il segretario del Fascio non erano di certo idilliaci, non acconsentì che il dottor Stocchino, intervenisse adducendo a motivazione il ritardo accumulato dai vari discorsi precedenti. Dopo la benedizione data da don Casonato, in assenza del Parroco impegnato a Montebelluna e il taglio del rituale nastro fatto dalla madrina, la Signora Pasin vedova Guarinoni, si disputò l’incontro tra l’undici sandonatese e il Portogruaro.
Fu quella, in pratica la prima esibizione ufficiale del San Donà Football-Club capitanato da Tullio Roma che si era presentato in campo, come tutti i componenti della squadra, vestendo la maglia bianconera dell’Ardita seguito da un accompagnatore che portava delle maglie azzurre.
Prima di iniziare l’incontro, Tullio indossò la nuova divisa dicendo: “Copriamo la vecchia gloriosa bianconera con la nuova maglia azzurra”, quindi consegnò ad ognuno dei componenti la squadra la nuova casacca. L’incontro terminò con il punteggio di 2-0 a favore del Portogruaro che era una delle formazioni emergenti di quel periodo ».

Una delle prime formazioni del San Donà, la maglia “sembra” azzurra e l’edificio alle spalle li colloca proprio nel nuovo campo di via Calnova tra dicembre 1925 e l’aprile 1927
Quella vecchia foto del San Donà Foot-ball Club d’azzurro vestito
Il manifesto di una delle ultime gare giocate dal San Donà F.C. su quel campo sportivo (stampato da Tipografia SPES – via Giannno Ancillotto)

Sul libro di Wally Perissinotto è presente una foto che viene indicata come una delle prime del calcio sandonatese. Ebbene grazie alla cartolina ora abbiamo pure una più giusta collocazione temporale di quei giocatori. Alle spalle degli stessi vi è un casolare le cui fattezze le rincontriamo in quello presente nella cartolina nelle vicinanze di via Calnova. La maglia scura indica che potrebbe essere quella descritta da Gianni Colosetti nel suo racconto, magari non legata all’inaugurazione del dicembre 1925 ma sicuramente una delle gare successive. Il campo fu utilizzato non solo dal San Donà ma anche dai ginnasti facenti parte della Polisportiva, che nel frattempo nel novembre 1926 vide le dimissioni di Celeste Bastianetto dalla presidenza perchè inviso all’autorità fascista dell’epoca che di lì a poco sciolse anche le componenti cattoliche della Polisportiva. Alessandro Janna divenne il presidente del San Donà Foot-ball Club affiancato da Girolamo Janna e Fausto Picchetti, mentre la società dovette entrar a far parte dell’Opera Nazionale Dopolavoro. Il San Donà F.C. ebbe in gestione quel campo sino alla primavera del 1927, quando Monsignor Saretta si vide costretto a dare lo sfratto ai calciatori in quanto aveva ottenuto quanto sperato, l’arrivo dei salesiani a San Donà. Poche settimane dopo ci fu la posa della prima pietra dell’Oratorio Don Bosco, ma questa è un’altra storia. Quanto al San Donà Foot-ball Club, presto divenne Società Sportiva Fascista e di lì a due anni venne inaugurato il nuovo campo sportivo del Littorio, l’attuale Stadio “Verino Zanutto”, ma anche questa è un altra storia.

Lo statuto del San Donà Foot-ball Club, 15 agosto 1926

Per approfondimenti sul campo di calcio di via Calnova: (1) « Monsignor Saretta, “Pastore” di San Donà di Piave » a cura del Gruppo “El Solzariol” (2004); (2)« Ancora un giro in giostra » di Wally Perissinotto (2006); (3) « Storia dello sport sandonatese » di Gianni Colosetti (2007); (4) « A.C. San Donà – 90 anni di Calcio Biancoceleste » di Giovanni Monforte e Stefano Pasqualato (2012)

«Cent’anni di carità», il nuovo libro su San Donà

Ieri, sabato 13 marzo 2021, è stato presentato un nuovo libro sulla storia di San Donà di Piave: « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi. Un altro capitolo della lunga storia sandonatese, un’altra prospettiva di quel periodo storico che vide San Donà crescere ad inizio novecento per poi subire il disastro della prima guerra mondiale ed il suo successivo ridisegno. Una parte importante di quella rinascita vide come protagonista assoluto monsignor Saretta ma ebbe nelle Suore di Maria Bambina delle preziose collaboratrici, sia prima che durante e soprattutto dopo la Grande Guerra. Cento anni fa sorgeva l’Orfanotrofio a San Donà di Piave, in questo libro viene raccontata la sua lunga storia e l’opera delle suore di Maria Bambina al servizio di San Donà. Un servizio svolto non solo all’interno dell’Orfanotrofio ma anche presso l’Istituto San Luigi, l’Ospedale civile, la Casa di riposo ed in altre infinite attività lungo questi cento anni.

Il libro è disponibile presso Casa Saretta, via Pralungo 12, 30027 San Donà di Piave (Ve). LINK

Il 14 aprile 1975 su “Il Piave” è stata pubblicata un’intervista a Suor Aurelia Giacobetti e Suor Aurelia Baldasso firmata da Gianfranco Bedin. Le due religiose sono state parte della storia dell’Orfanotrofio di San Donà di Piave sin dai primi anni. Di seguito pubblichiamo la lunga intervista integrale.

Due Suore raccontano

di Gianfranco Bedin

Monsignor Costante Chimenton nel suo volume « Storia di San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella » (1928) scrisse: « L’educazione della gioventù fu sempre riconosciuta il problema più delicato e più impellente per la vita di un popolo; il problema più assillante anche per la vita moderna, religiosa e civile. Delicato ed impellente perché nulla v’ha di più sacro dell’ingenuità dell’infanzia; assillante, perché dall’educazione dei primi anni dipende la vita intera dell’uomo.
A San Donà di Piave si affrontò questo problema; lo si affrontò sotto tutti gli aspetti: le opere già compiute e le opere in corso costituiscono un’assicurazione che nulla si trascurò per salvare la gioventù da quelle rovine, morali e fisiche, che manifestano le loro funeste conseguenze nei delinquenti della pubblica strada o nei sacrificati alla morte stessa primavera della vita ».


Una di queste prime opere fu l’Orfanotrofio, la cui costruzione, seppur con scopi diversi (asilo nido), iniziò nel 1914 per opera di Monsignor Giovanni Battista Bettanin.
I lavori, causa la prima guerra mondiale, furono interrotti: gli uomini furono chiamati alle armi e non si parlò più del costruendo asilo.
Nel 1919, su iniziativa di Monsignor Luigi Saretta, prevalse l’idea di riprendere la costruzione dell’edificio per ospitare i bambini rimasti orfani. Fra innumerevoli problemi e sacrifici, i lavori vennero ultimati nel 1921.
L’Orfanotrofio rappresenta quindi per San Donà una ricca pagina della sua storia, seppur triste per le vicissitudini patite dal primo al secondo conflitto mondiale.
Fra i testimoni di queste vicende sono ancor oggi la sorella Aurelia Giacchetti, nata nel 1901 a Valle di Cadore, e la sorella Aurelia Baldasso, nata nel 1899 a Sant’Andrea (Treviso), due suore che ancora operano nel locale Orfanotrofio e che nonostante il peso degli anni e le sofferenze patite ci ricordano nell’intervista che pubblichiamo quei tristi anni di vita dell’Opera e della nostra città.
Suor Aurelia Giachetti è giunta nella nostra città nel lontano 1923, suor Aurelia Baldasso pochi anni dopo, nel 1928.

Suor Aurelia Giacchetti e Suor Aurelia Baldasso

¤ Suor Aurelia Giachetti, lei è venuta a San Donà nel lontano 1923; cosa ricorda in articolare di quell’anno? « Quell’anno eravamo andate a Biadene nella villa del comm. Gaviolo, che era presidente dell’Opera. Il presidente aveva invitato tutti gli orfani e anche le ragazze che erano nell’asilo alle scuole di lavoro. Ci ha fatto trascorrere una giornata bellissima: aveva preparato il pranzo nel suo stupendo boschetto. Abbiamo trascorso la giornata in tutta serenità e prima di partire abbiamo fatto una fotografia ricordo. »
¤ Quanti orfani c’erano allora? « Venti interni e altrettanti esterni ».
¤ Si trattava di poveri? « No, erano tutti orfani di guerra: bambini e bambine ».
¤ Come era San Donà in quegli anni? « La città era tutta distrutta. Mi ricordo che, venendo dalla stazione ferroviaria, gli alberi erano ridotti a tronchi o abbattuti; c’era una grande demolizione. Il “Borsa” era l’unico albergo del centro del paese ancora abbastanza funzionante ».
¤ La situazione di San Donà com’era? E la gente? « Erano tutti malandati, c’erano le baracche. Il campo sportivo era tutto coperto di baracche. Quando andavamo là ricordo che c’erano tanti bambini: bisognava vedere in che condizione erano! Dove ora c’è la casa del Mutilato, allora c’era il macello attorniato da un fosso. I rifiuti del macello venivano scaricati proprio in quel fosso: può immaginare che puzza c’era nella zona, i ragazzi volevano sempre evitarla per andare in paese ».
¤ Lei, suor Aurelia Baldasso, è venuta a San Donà nel 1928; cosa era cambiato dal quadro fattoci da suor Giachetti? « Non ho trovato niente di cambiato: c’era poca gente, tante baracche, tanta miseria e poi tutti erano pieni di malaria. Ogni sabato venivano qua a prendersi il pane e una tazza di latte o altri generi alimentari, raccolti dall’Opera San Vincenzo. C’era tanta e tanta miseria. Nel 1929 la situazione si era aggravata, soprattutto d’estate, per la grande siccità. La gente correva a prendere l’acqua del Piave che però era salata; l’aspetto era desolante, tutte le piante seccavano, i campi non producevano niente, i pozzi si asciugavano ad uno ad uno…, erano anni che pativamo anche la sete ».
¤ Quante suore eravate in quel tempo? « Eravamo in nove, mentre i bambini erano centoventi. Poi sono venuti i Salesiani, in attesa che costruissero la loro sede, per cui ci siamo divisi i maschi (a loro) e le femmine (a noi).
¤ Si ricorda qualche fatto particolare accaduto ad un bambino o ad una bambina? « La morte della “Ginetta” causata da una peritonite. L’avevamo portata all’Ospedale, ma non c’era più nulla da fare. Ricordo poi un altro fatto dovuto ad una peritonite che aveva colpito un altro nostro ragazzo. All’Ospedale la nostra superiore disse al professor Girardi: “Professore me lo salvi”. Lui rispose: “Senta Superiora, in chi ha fiducia?” “Prima nel signore – disse lei – e poi anche nel professor Girardi”. Ricordo poi che nei primi anni i bambini erano stati quasi tutti colpiti dalla “tigna”: erano tutti senza capelli. Che pena, poveretti! »
¤ I bambini a quanti anni lasciano l’Orfanotrofio? « I maschi dopo la quinta elementare, le bambine dopo la terza media. Poi hanno la possibilità di tornare in famiglia, altrimenti vengono ospitati a Venezia dove frequentano le scuole medie superiori ».
¤ Quando diventano adulti, vengono mai a trovarvi? « Si, vengono spesso con tanta nostalgia e riconoscenza. Tanti si sono fatti anche un’ottima posizione nella società ».
¤ Come vi sembra si sia trasformata la vostra città dalla vostra venuta? « Quando eravamo venute, San Donà era praticamente distrutta: ora è risorta. Ci pare di essere in un altro mondo. C’è stato uno sviluppo straordinario da allora. Ricordo che gli amministratori del Comune erano molto scoraggianti: è stato monsignor Saretta a dare loro il coraggio necessario. C’è poi un particolare. Il Duomo era stato distrutto dai bombardamenti della prima guerra mondiale: nessuno andava più a Messa. Ma nel 1923, durante la settimana Santa, monsignor Saretta raccolse tutti i fedeli e tenne la S. Messa tra le rovine del Duomo alla quale intervennero moltissime persone ».
¤ Avete avuto momenti difficili nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale? « Si, abbiamo sofferto molto, anche per la pesante situazione economica: non avevamo i soldi per fare le compere. Avevamo allora centoventi bambini da sfamare ».
¤ Come avete risolto il problema? « Con molta fatica, soffrendo. I bambini andavano a scuola ma non si poteva dare loro la merenda perché altrimenti ci mancavano i viveri per il pranzo: si soddisfaceva in qualche modo la fame dando loro una patata bollita. Con le patate e la farina facevamo anche la polenta, Possiamo comunque affermare che i ragazzi, nonostante la situazione, non hanno mai patito la fame: magari polenta e formaggio, ma hanno sempre mangiato ».
¤ Come riscaldavate le camere dei bambini? « Si prendevano delle braci che mettevamo in uno scaldarello. Questo veniva “passato” su e giù sulle lenzuola, quel poco per togliere “il crudo”. Ad ogni bambino si dava poi una bottiglia di ferro contenente dell’acqua calda ».
¤ Che differenza avete notato tra i bambini d’allora e quelli di quest’era? « Un’enorme differenza. Allora nelle famiglie, causa la guerra e le sue conseguenze, soffrivano parecchio e si adattavano, per forza di cosem alla situazione. Erano “tremendi” una volta, ma, poveretti, non avevano colpe. Ora, invece, pretendono di più e ci sono in tutte le famiglie le possibilità economiche per accontentarli ».
¤ In quei difficili momenti, la cittadinanza sandonatese vi ha aiutato? « Poco. Non avendo quasi nulla per loro, non potevano logicamente aiutarci ».
¤ Andavate anche a questua? « Si, per sfamarci andavamo per i campi a raccogliere le spighe rimaste dopo la mietitura del frumento: un anno ne abbiamo raccolte, assieme ai bambini, circa dieci quintali. Nella seconda guerra mondiale, dopo la distruzione dell’Ospedale Civile Umberto I°, ci siamo trasferiti per sette mesi a Campodipietra, nel locale asilo. Là c’era anche un comando tedesco. I bambini andavano a chiedere ai soldati del pane o altro e loro li accontentavano sempre. Davano loro anche il dolce. Ricordo che ai bambini piaceva moltissimo andare a legna dai contadini che gli offrivano sempre del pane, salame e del vino ».
¤ Come siete stati trattati dai tedeschi durante la loro occupazione? « Ci hanno sempre rispettato. Qui davanti all’Orfanotrofio, nella villa Velluti, c’erano un comando di S.S.: quanta paura! Ci hanno comunque sempre rispettato, anzi ogni settimana ci mandavano dodici chili di carne per i nostri bambini. Erano momenti veramente brutti, per non parlare poi del bombardamento dell’Ospedale Umberto I°. Là c’era un comando tedesco. Quando hanno saputo che gli italiani volevano bombardare l’Ospedale sono scappati, lasciando là gli ammalati: che disastro, che macello! Anche noi siamo accorse per prime a prestare i necessari aiuti. Momenti di terrore li abbiamo passati invece con gli indiani che ci hanno devastato la cucina e tutti i locali ».
¤ Molti anni sono ormai passati; ora come vi trovate? « Ora siamo veramente in un altro mondo! ».
Così suor Aurelia Giachetti e Suor Aurelia Baldasso ci hanno raccontato, in questa semplice e forse disordinata intervista, le tristi vicissitudini del loro passato trascorso all’Orfanotrofio, un passatche molti sandonatesi ricordano e che i giovani devono sapere.
« Ora siamo in un altro mondo », così ci hanno detto. E’ una dichiarazione che deve far meditare, cos’ come da meditare sono le parole scritte da Monsignor Chimenton in apertura del nostro servizio. Erano i problemi di allora, sono i problemi dei nostri giorni.

Documenti:

In un post di novembre la Relazione Morale e Finanziaria dell’Orfanotrofio di San Donà di Piave del 1920, con il link per scaricarne la versione in pdf.

Il 5 gennaio 1918, Mons. Saretta nominato parroco della Cattedrale di Portogruaro

Tratto da “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Monsignor Costante Chimenton (1928, capitolo V pp. 263-268)

Portogruaro il 20 novembre 1917
Monsignor Saretta rifugiato a Portogruaro

Portogruaro, nel dicembre del 1917, sembrava una terra deserta : i pochi borghesi del centro, come pure i contadini della campagna, vivevano la massima parte appartati e diffidenti ; grandi concentramenti di truppe austro-ungariche per le campagne. Rendeva più penosa quella posizione il silenzio assoluto che dall’autorità militare fu imposto a tutte le campane ; il provvedimento non portò gravi conseguenze, perché in città di Portogruaro il servizio del culto era limitatissimo, anche per mancanza di clero : il parroco Mons. G. B. Tittilo e i canonici della cattedrale si erano allontanati al primo avvicinarsi del nemico ; in città erano rimasti, – animi veramente zelanti, – con Mons. Vescovo, don Luigi Bortoluzzi, arciprete di S. Agnese e Mons. Giuseppe Gaiatto ex parroco del Duomo : anche le classe dirigenti si erano allontanate.

Portogruaro, 3 dicembre 1917

L’arrivo dell’arciprete di San Donà. Specialmente nel campo spirituale, fu considerato un dono provvidenziale da parte di quella popolazione. In mezzo a tanti orrori non era spenta la fede in Portogruaro ; era assopita e bisognava ridestarla nelle coscienze ; bisognava commuovere un po’ i cuori, eccitare gli animi, far comprendere al popolo che il sacerdote è fatto per lui, e che gli sta vicino non soltanto quando la pace e la gioia rendono felice la sua vita, ma più ancora quando la guerra, la miseria, la fame e la prigionia lo gettano sul lastricato della pubblica strada, lo costringono a stendere la mano per chiedere l’elemosina di un pane, lo avviliscono nelle sue aspirazioni di libertà, gli spezzano gli affetti più santi, religiosi e famigliari.

Mons. Luigi Saretta era fatto per questo lavoro. – Quando giunse a Portogruaro trovò le chiese abbandonate ; il popolo stesso, non compresi i suoi profughi, guardava con occhio di diffidenza il sacerdote forestiero che giungeva a rimpiazzare il posto, rimasto vacante, dei suoi pastori. Ma quella figura pallida, magra, che giungeva, in quei giorni, sul luogo della prigionia, prigioniero volontario, tormentato da sofferenze, suscitò presto le simpatie : la diffidenza dei primi momenti si cambiò in affetto, finì in entusiasmo. Mons. Saretta riuscì ad impadronirsi di quel popolo, a portare un nuovo soffio di vita, anche in mezzo ad un nemico che non cessò mai di controllare i passi dei nostri connazionali.

La cerimonia del 31 dicembre 1917 nella Cattedrale

Segnò l’inizio della sua missione provvidenziale la cerimonia della benedizione solenne, in occasione del ringraziamento dell’anno 1917, nella Cattedrale di Portogruaro. A lui, abbiamo già detto, fu dal Vescovo affidato l’incarico di tenere il discorso d’occasione, compito delicatissimo in quei momenti, più delicato ancora perché a quella cerimonia potevamo intervenire, in veste ufficiale, le stesse autorità militari dell’esercito invasore. La bella Cattedrale quella sera era gremita di popolo : cittadini e profughi, frammisti ai soldati tedeschi, stavano riuniti dinanzi all’altare, al Crocefisso sanguinante sulla croce, che mai forse, durante la guerra, rappresentò più che in quella circostanza le sofferenze degli uni e degli altri.

Portogruaro prima della prima guerra mondiale

Mons. Saretta fu felicissimo nel suo discorso. Seppe commuovere il cuore di tutti, senza suscitare sospetti o gelosie, facile difetto per chi parla in pubblico e sotto l’impulso di una commozione così naturale per chi è prigioniero e bersagliato dal nemico ; più naturale ancora in chi, da una condizione fortunata, è sbalzato nella miseria, lontano dal suo paese, in balìa di una forza brutale che non conosce limiti nelle sue vendette. Siamo riusciti a rintracciare, fra le carte accatastate nell’archivio di San Donà, il manoscritto degli appunti del brevissimo discorso, conservato da Mons. Saretta con gelosia. E che l’indiscrezione di chi scrive questa monografia potè carpire ; ci perdoni Mons. Saretta l’indiscrezione ancor più marcata, che oggi commettiamo, nel pubblicare integralmente questi appunti : è un documento storico, e la storia, anche questa volta, domanda che siano rispettati i suoi diritti:

« Salvum fac…. Mai grido d’angoscia, voce di pianto e di preghiera uscì più spontanea di questa che la chiesa ci pone sulle labbra, in questa sera, ultima del 1917! – Oh! Signore, salva il tuo popolo! – Siamo qui raccolti davanti al tuo altare per implorare misericordia e perdono. – Ecce populus tuus omnes nos! Siamo il tuo popolo! – Altri gridarono : nolumus hunc regnare super nos! ; ma noi ripetiamo: non habemus alium regem nisi Christum!

Noi siamo la tua eredità. Noi che siamo stati redenti dal tuo sangue.

Ma in questa sera quante memorie ci opprimono! In questo momento quanti affetti si affollano nel nostro cuore! La chiesa ci suggerisce l’inno della lode e del ringraziamento, e non ci accorgiamo che le lagrime inondano il nostro volto ; noi ci accorgiamo che il pianto è l’unica voce che vibra nelle nostre anime.

Ogni anno che muore porta con sé la mestizia. Esso rappresenta qualche cosa che scompare nella vita di un uomo. E’ così breve la vita! – Esso ci parla della fugacità del tempo ; nella nullità di tutte le cose umane. Ma quest’anno 1917 è per noi più triste del solito ; la sua fine ci trova oppressi dal più profondo dolore, dalla più orribile sventura che possa colpire una nazione. Tu comprendi il mio pensiero, o Signore, tu che hai pianto sulle rovine della tua patria!

Nondimeno tu aspetti da noi un tributo di lode : tu ce lo chiedi ; tu ne hai diritto. E, sia pur nel pianto, noi gridiamo grazie, o Signore : Te Deum laudamus!

Grazie! Tutte le calamità che ne circondano, furono permesse da Te : esse sono il frutto dell’abuso dei tuoi doni ; sono la punizione dei nostri peccati. – Tutto il bene che ci è venuto in quest’anno, ci è venuto da Te ; tutto il male ci è venuto dagli uomini. – Noi stessi, disobbedendo alla tua legge, abbiamo fabbricato la nostra rovina. – Dei tuoi doni, grazie! ; del nostro abuso, del nostro peccato, Signore, perdono!

Parce, Domine : salvum fac populum tuum! In te, Domine, speravi : non confundar in aeternum! ».

L’interno della cattedrale di Portogruaro

Le brevissime parole furono pronunciate fra le lagrime, vorremmo dire fra i singhiozzi. Quelle parole furono sillabate ad una ad una, e attraversarono i cuori aprendoli alle serene speranze di un radioso avvenire, come una scintilla elettrica e come una voce benefica e amica.

Piacque il discorso al popolo ; non dispiacque neppure al nemico che in quella sera aveva raddoppiato il servizio di spionaggio : l’oratore in poche parole aveva detto molto per gli uni e il suo pensiero era stato bene inteso ; si era contenuto dentro i giusti limiti anche per gli altri e nessuno rimase offeso.

Il primo gennaio in duomo con i profughi di San Donà

La cerimonia religiosa dell’ultimo giorno dell’anno 1917 fu completata, in una forma più intima e più simpatica, il primo gennaio del nuovo anno 1918, con la Messa celebrata dopo mezzogiorno, a porte chiuse, nel Duomo di Portogruaro. Alla presenza dei soli profughi di S. Donà : Mons. Saretta indossò i paramenti e usò i vasi sacri dell’arcipretale di S. Maria delle Grazie. – Fu un poema di commozione e di lagrime, specialmente quando, al Vangelo, l’arciprete Mons. Saretta portò l’augurio, presso a poco con queste parole: « Ho voluto questa riunione intima nella casa del Signore, perché oggi le nostre anime ne sentivano il bisogno. – Sebbene una barriera di ferro e di fuoco ci separi dai nostri cari, e sebbene lontani dalla nostra terra che è ormai un cumulo di rovine, noi abbiamo nel cuore la speranza. Sopra il Piave inviolato, spiriti che vanno e vengono portano e ricevono i voti, gli affetti, le lagrime di un popolo che oggi è unito più che mai nella sua fede e nella sua volontà di vivere…» – S.E. Mons. Francesco Isola, presente a questa cerimonia, comprese che aveva trovato un ottimo elemento che poteva riuscire di massimo vantaggio anche al suo popolo, e con bolla vescovile, in data 5 gennaio 1918, nominò Mons. Luigi Saretta parroco della Cattedrale di Portogruaro.

Era ciò che desiderava Mons. Saretta : la sua nuova posizione gli avrebbe assicurato un prestigio dinanzi alle stesse autorità tedesche ; lo avrebbe messo più strettamente a contatto con i profughi, dispersi nel vasto territorio di Portogruaro, e con i cittadini stessi, tanto bisognosi di assistenza spirituale. La consegna della chiesa si effettuò subito ; la consegna, invece, della canonica non si ebbe che il 22 gennaio 1918, non appena quella casa fu lasciata libera da un Comando austriaco che vi aveva preso dimora. Così furono salvati, almeno in parte, il mobilio e i libri dell’arciprete della Cattedrale.

L’occupazione raccontata da Monsignor Chimenton in “San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” nei post dedicati:

29 ottobre – 5 novembre 1917  prima parte; 6 – 9 novembre 1917 seconda parte; 9 – 11 novembre 1917 terza parte; 9 – 12 novembre 1917 (Passarella) quarta parte; 12 – 14 novembre (Passarella-Chiesanuova) quinta parte; 14 – 15 novembre 1917 (Chiesanuova) sesta parte; 13 novembre 1917 (Grisolera) settima parte; 14 – 18 novembre 1917 ottava parte; 16 – 21 novembre 1917 (Passarella e Chiesanuova) nona parte; 19 – 22 novembre 1917 (San Donà) decima parte; 23 – 30 novembre undicesima parte; 22 – 30 novembre 1917 (Torre di Mosto) dodicesima parte; 1 – 5 dicembre 1917 tredicesima parte; 6 – 8 dicembre 1917 quattordicesima parte; 8 – 15 dicembre 1917 quindicesima parte; 16 – 30 dicembre 1917 sedicesima parte; 31 dicembre 1917 – 5 gennaio 1918 diciassettesima parte

Monsignor Saretta confinato a Portogruaro

Tratto da “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Monsignor Costante Chimenton (1928, capitolo IV pp. 242-246)

In viaggio verso Portogruaro
La stazione di Santo Stino di Livenza

Piovigginava quella mattina ; « un fango orribile aveva tramutato le strade in pozzanghere. Gettate sulla carretta poche masserizie, il convoglio procedette a piedi fino a S. Stino di Livenza » : a don Zandomenighi non fu permesso di accompagnare alla stazione i due partenti, a cui si prospettavano nuove peripezie e più odiose vessazioni. La mamma di Mons. Saretta, causa il tempo e le strade impraticabili si soffermò a Torre di Mosto con una suora : il figlio arciprete le promise che sarebbe venuto a prenderla quanto prima.

Si partì dalla stazione di S. Stino alle 12.30 del 17 dicembre : pessima ed umida la stagione : tutta la gente unitamente alle suore, a Mons. Saretta e a don Marin, fu fatta salire su carrozzoni da bestiame. Carrozzoni aperti, per far contemplare ai profughi la bellezza, l’incanto poetico della stagione invernale. Dopo un viaggio disastroso, poco dopo la mezzanotte del giorno 18, si giunse a Portogruaro : le sentinelle li lasciarono tutti rinchiusi nei carrozzoni, tenuti a guardia, fino alle 10 antimeridiane. ̶ ̶ ̶ Lasciati in libertà ognuno dovette pensare a provvedersi di cibo e alloggio : Mons. Saretta sistemò le suore nell’ospedale civile : poi, abboccatosi con il Vescovo, ottenne ospitalità nella canonica di S. Agnese.

Monsignor Saretta e la vita a Portogruaro
Portogruaro a fine novembre del 1917

Ma l’arciprete di S. Donà doveva trovarsi in uno stato d’animo compassionevole : troncati i contatti diretti con casa Sgorlon, con Ceggia, con Torre di Mosto, vide il suo popolo, per il quale si era votato alla prigionia, lontano da sé, con un avvenire che per tutti si presentava assai fosco. Perduta quella tranquillità di spirito, che manifesta sempre nel suo diario, la sera del 18 dicembre, vergava queste parole : « Alla sera, cena tranquilla, ma tristissima, con don Berto in canonica di S. Agnese ! Ma… quando finirà questo doloroso calvario? ».

I primi giorni, in Portogruaro, passarono assai monotoni ; nessun incidente importante : mancarono spesso i viveri, ma non si ebbero, in compenso, noie maggiori. ̶ ̶ Si tentò di scindere anche quella piccola comunità sandonatese. Le suore furono richieste dalla stessa arciduchessa d’Austria per il servizio degli ospedali militari di S. Stino ; ma le suore si rifiutarono e chiesero invece di prestare servizio all’ospedale civile di Portogruaro.

Le festività a Portogruaro
Portogruaro ai primi di dicembre 1917

Poche persone di S. Donà potè Mons. Saretta avvicinare in questi primi giorni : tenne una vita ritiratissima fra Santa Agnese e l’ospedale ; potè avvicinare unicamente, il 22 dicembre, il dott. Perin, giunto in Portogruaro, e di sentire da lui tutti i patimenti e le peripezie della colonia affidata a don Rossetto in Cà Fiorentina. Un po’ di sollievo provò la sera dello stesso giorno, 22 dicembre, quando S.E. Mons. Isola lo chiamò e lo pregò di accettare l’incarico di tenere il discorso del 31 dicembre in Cattedrale. Le sue condizioni di salute erano un po’ infelici ; pure Mons. Saretta accettò l’incarico : fu un incarico delicatissimo, ma che avrebbe potuto riuscire vantaggioso al popolo, e anche un mezzo efficace per raccogliere i suoi parrocchiani dispersi nei paesi circonvicini di Portogruaro.

Il giorno di Natale fu triste : Mons. Saretta restò a letto fino alle 13 per non assistere al Pontificale del Duomo. ̶ ̶ ̶ Il 27 dicembre potè vedere don Rossetto e trattenersi con lui a tutto il 28. La vita cominciava un po’ a mutare aspetto, sebbene nessuna illusione Mons. Saretta si poteva formare, attese specialmente le condizioni in cui versava, nel campo religioso e politico, la città di Portogruaro.

L’ arrivo della madre di Monsignor Saretta
Monsignor Saretta con la madre e la sorella

La mamma dell’arciprete giunse a Portogruaro un po’ tardi, il 29 dicembre. Mons. Saretta non aveva potuto muoversi dalla nuova sede : la mamma, preoccupata di un lungo silenzio di 15 giorni, decise di mettersi sulle tracce del figlio e di raggiungerlo. Dovette portarsi a piedi da Torre di Mosto alla stazione di San Stino, sotto una pioggia torrenziale : il cuore di madre ha le sue esigenze. A lei, che ne aveva fatta esplicita domanda, fu negato ogni mezzo di trasporto, e unicamente concesso il “nulla osta” per il viaggio che doveva compiere. Mons. Saretta si mostrò graditissimo delle cure prestate alla sua mamma dal confratello di Torre di Mosto, e spedì una lettera, calda di affetto e di riconoscenza, a don Zandomenighi : « Mi spiace, scrive don Zandomenighi nelle sue memorie, di non produrre tale documento, anche perché contiene cenni specifici sulle peripezie occorsagli a Torre ; mi esprimeva sentimenti di perenne gratitudine per averlo salvato in uno dei momenti più pericolosi della sua prigionia ».

Finisce con l’arrivo a Portogruaro di Monsignor Saretta, di don Marin e delle suore il IV capitolo del libro di Mosignor Chimenton. Un pericoloso viaggio lungo quella prima linea rappresentata del Piave, la stessa percorsa da molte centinaia di profughi in cerca di rifugio. La guerra non è però finita e l’opera di Monsignor Saretta anche in quel di Portogruaro non sarà minore. Riprenderemo il filo del racconto tra qualche settimana.

L’occupazione raccontata da Monsignor Chimenton in “San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” nei post dedicati:

29 ottobre – 5 novembre 1917  prima parte; 6 – 9 novembre 1917 seconda parte; 9 – 11 novembre 1917 terza parte; 9 – 12 novembre 1917 (Passarella) quarta parte; 12 – 14 novembre (Passarella-Chiesanuova) quinta parte; 14 – 15 novembre 1917 (Chiesanuova) sesta parte; 13 novembre 1917 (Grisolera) settima parte; 14 – 18 novembre 1917 ottava parte; 16 – 21 novembre 1917 (Passarella e Chiesanuova) nona parte; 19 – 22 novembre 1917 (San Donà) decima parte; 23 – 30 novembre 1917 undicesima parte; 22 – 30 novembre 1917 (Torre di Mosto) dodicesima parte; 1 – 5 dicembre 1917 tredicesima parte; 6 – 8 dicembre 1917 quattordicesima parte; 8 – 15 dicembre 1917 quindicesima parte; 16 – 30 dicembre 1917 sedicesima parte; 31 dicembre 1917 – 5 gennaio 1918 diciassettesima parte

Dopo l’arresto di Monsignor Saretta, nuova destinazione per i profughi sandonatesi

Tratto da “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Monsignor Costante Chimenton (1928, capitolo IV pp. 217-218; pp. 222-224; pp. 241-242)

San Donà di Piave, via Maggiore il 7 gennaio 1918

A Torre di Mosto si era rifugiato il parroco di Passarella don Innocenzo Zandomenighi, nominato parroco dalle truppe di occupazione. E qui vi sarà l’incontro con Monsignor Saretta. Monsignor Chimenton intreccia i racconti degli scritti del parroco di Passarella e quelli di don Umberto Marin per narrare l’arresto dei due sacerdoti di San Donà.

Il clero attenzionato dalle truppe di occupazione

Quale l’accusa che gravava sul clero di S. Donà di Piave? L’accusa dello spionaggio, facile e opportuna scappatoia per levarsi d’intorno dei sacerdoti che costituivano un controllo prolungato sulle vessazioni che, con freddo cinismo, si perpetravano dai nemici sul popolo italiano.

Non destano meraviglia, se si tiene presente questo concetto, le disposizioni segrete emanate contro il clero italiano, ritenuto sempre dall’Austria come una spia, un elemento equivoco che bisognava o domare con la fame o sopprimere con la violenza. Questo principio, che fu principio fondamentale della politica tenuta dall’Austria nei paesi invasi, fu sanzionato in varie circolari : ne citiamo semplicemente una : « In caso di offensiva, e se per ragioni di difficoltà non venisse effettuato lo sgombero, tutti i borghesi di sesso maschile che vivono qui, verranno dichiarati in arresto e rinchiusi a cura del personale del reparto informativo ; il parroco, sotto la sorveglianza mia personale, sarà tenuto nella prigione ». (nota: ” La Battaglia del Montello, Comando dell’VIII Armata, Ufficio informazioni, riservatissimo, luglio 1918 – Battaglia del Montello, Comando dell’VIII Armata – “I.R. 44 Regg. Famt., Misure di precauzione per la repressione dello spionaggio nemico” – SI riferisce allo spionaggio compiuto dai nostri invasi nel territorio di Sernaglia”.)

Mons. Saretta e don Marin furono maggiormente colpiti da questa imputazione di spionaggio. – Mons. Saretta era ormai caduto nelle mani della giustizia : il severo controllo organizzato attorno alla sua persona non lasciava incertezze ; un po’ difficile invece si presentò la cattura di don Marin.

Dal Diario di don Zandomenighi: l’incontro con Mons. Saretta

Giunse il giorno 8 dicembre, giorno indimenticabile per il clero di S. Donà. Dispersi dalla guerra, i due parroci di S. Donà e di Passarella si trovarono momentaneamente ricongiunti sulla via del dolore e della fame ; la loro posizione giuridica si era interamente tramutata : don Zandomenighi, parroco eletto di Torre di Mosto, a Mons. Saretta, profugo e ramingo, un giorno suo superiore, concedeva l’elemosina e il soccorso. L’uguaglianza delle sofferenze fece dimenticare ogni divergenza giuridica : sul campo del dolore i due rappresentanti legittimi del popolo si intesero, si scambiarono i soccorsi, organizzarono un piano di comune salvezza.

Torre di Mosto, tratta da “La grande guerra tra terra e acqua” (archivio Renzo Vedovo)

Cediamo la parola all’ex parroco di Passarella : « Avevo celebrato la prima Messa e, ritornando a casa, mi incontro con l’arciprete di S. Donà : la barba lunga, pallidissimo, ma pure con il fare scherzoso, mi domandò il permesso di celebrare, e mi disse che fra un’ora sarebbero arrivate tutte le suore, e, fra qualche giorno, forse domani, anche sua madre con la donna di casa. Avevo quattro camerette con due letti ; a noi, quattro giorni prima, si era aggiunto P. Emidio, l’economo di Chiesanuova : quella mattina stessa domandarono ricovero il sig. Roma di S. Donà e, più tardi, don Umberto Marin. Come fare? Come provvedere di alloggio? Le suore, come tante pecore, occuparono la stanza vuota, priva di letti, e si accontentarono di riposarsi così, gettate sul nudo pavimento, nell’estrema povertà come il poverello d’Assisi in S. Damiano ; l’arciprete di S. Donà, il P. Emidio ed io su di un unico letto, da buoni fratelli, don Umberto nella stessa stanza ; la nipote, le cugine, la signora Letizia Saretta, l’inserviente, nella quarta stanza, esse pure sul nudo pavimento ». E per il vitto? Il problema si presentò ancor più interessante : « le due mie cugine e la nipote, che ormai erano conosciute, in giro ogni mattina, presso le varie macellerie per domandare un po’ di carne, e al molino per chiedere farina, e sul mezzogiorno in caserma, presso i gendarmi, con una pignatta, per prendere un po’ di minestra : il pranzo doveva essere allestito in due o tre riprese per mancanza di piatti e di posate ». Condizioni compassionevoli, ma ben più fortunate di quelle in cui si trovò gettata la gran massa del popolo di S. Donà, sotto l’oppressione di un nemico, e in momenti così tristi e così fatali. Allo stimolo della fame che tormentava, all’ostilità di uno spionaggio spietato, alle continue requisizioni che privavano il popolo di tutto e lo sottoponevano ad un regime insostenibile, non è da scordarsi la preoccupazione di un avvenire che si avanzava minaccioso, saturo di nuove persecuzioni e di nuovi pericoli.

Dal diario di don Umberto Marin: lo sgombero di via Sgorlon

Dopo l’arresto di Mons. Saretta e il suo internamento a Torre di Mosto, si volle dal Comando militare di Palazzetto che fosse allontanato da quella posizione anche il cappellano che, alle dipendenze dell’arciprete di San Donà, prestava il servizio religioso alla comunità concentrata in casa Sgorlon.

Torre di Mosto, tratta da “La grande guerra tra terra e acqua” (archivio Sergio Tazzer)

Un capitano a cavallo giunse la mattina del 13 dicembre a casa Sgorlon : riferì al cappellano che quella stessa mattina doveva partire. Il capitano, che parlava perfettamente italiano, si mostrò gentilissimo nei suoi atti ; con un atteggiamento quasi compassionevole verso il sacerdote, disse che motivi di convenienza avevano costretto l’autorità austriaca a trasferirlo in altra sede. Don Marin non si lasciò vincere da quelle prime parole melate : teneva con sé, nascosto in casa Sgorlon, tutto il tesoro della chiesa di San Donà. Il capitano, sempre con modi gentili, conchiuse : « E’ ordine superiore ; io devo eseguire quest’ordine, e lei veda di seguirmi! ». Fu inutile ogni resistenza : don Marin gettò su di una carretta di campagna un po’ di masserizie ; poi salì in cappella, prese la sacra pisside con le Specie consacrate, se la assicurò al petto, sotto le vesti, e, fra le grida di quella comunità e dei profughi accorsi dalle cascine circonvicine, intraprese il suo viaggio. Così la comunità di casa Sgorlon rimase priva del sacerdote e dei conforti della fede ; di essa si interessò, a lunghe riprese, don Rossetto, in quell’epoca impegnato in una missione del tutto pastorale nel concentramento di Cà Fiorentina.

L’arrivo di don Marin a Torre di Mosto e l’incontro con Monsignor Saretta

Dopo un viaggio lungo e faticoso, stanco, affamato, inzaccherato, don Marin giunse a Torre di Mosto poco dopo il mezzogiorno. Sulla pubblica piazza, contornato da gendarmi, lo attendeva l’arciprete di San Donà, già informato del suo arrivo, e che, dimenticando per un momento le sue lunghe sofferenze, fece al nuovo arrivato una festosa accoglienza. I due sacerdoti si abbracciarono e si baciarono tra le lagrime ; poi : « Porto con me l’Eucarestia! », esclamò il cappellano. Mons. Saretta s’inginocchiò, adorò Cristo, « che veniva a confortarlo nel Calvario da lui tanto coraggiosamente e con tanta generosità d’animo intrapreso ».

Monsignor Saretta e don Marin arrestati
Villa Loro a Ceggia, dove furono interrogati Mosignor Saretta e don Marin

I soldati fecero salire i due sacerdoti su di una carretta campestre e il convoglio si mosse. – Per dove? Era una nuova incognita a cui non si sapeva dare una risposta. Sulla stessa piazza di Torre assisteva, quale spettatore, il sig. Umberto Roma di San Donà. – Questi, commosso dinanzi a quella scena stranissima, si accostò ai due sacerdoti per rivolgere loro un saluto e una parola d’incoraggiamento. « Eh ! ci segua ! – esclamò Mons. Saretta ; – ci faccia compagnia ! » – « Ben volentieri ! », rispose il sig. Roma ; e salì, arrampicandosi su quel calesse già ormai in movimento. – Ma non era un viaggio di piacere : subito si comprese che la comitiva era diretta a Ceggia, presso il Comando di divisione, sistemantosi a Villa Loro. – Umberto Roma, conosciuto l’equivoco, chiese di tornare a Torre di Mosto : i gendarmi si opposero e lo dichiararono prigioniero di guerra, unitamente ai due sacerdoti. – A Villa Loro i tre prigionieri furono gettati in una lurida stanza : passarono la notte su un povero giaciglio ; tre soldati, con la baionetta innestata, furono incaricati a far la guardia a quei malcapitati, uno nella stanza stessa, il secondo fuori della porta e il terzo alla finestra. I prigionieri furono trattati da veri furfanti, o meglio da delinquenti.

L’interrogatorio e l’insperata liberazione

La mattina i tre prigionieri consumarono le Sacre Specie. – Verso le nove, si iniziò l’interrogatorio presso la cancelleria del tribunale di guerra. L’equivoco per il sig. Roma fu subito chiarificato : il prigioniero improvvisato fu rimesso in libertà ; al contrario l’interrogatorio dei due sacerdoti si protrasse fino alle tre e mezzo del pomeriggio ; furono discussi a lungo i rapporti presentati dai due sacerdoti contro le violenze e le rapine perpetrate dai soldati a danno delle donne e delle famiglie profughe. La montatura dello spionaggio tramontò, e anche i due sacerdoti, digiuni da ben 24 ore, furono rimessi in libertà. Si volle anzi, da quel Comando riparare, in qualche modo, all’affronto fatto ingiustamente patire : in una carrozza, unitamente al sig. Roma, i due sacerdoti furono ricondotti a Torre di Mosto. (1)

Torre di Mosto, tratta da “La grande guerra tra terra e acqua” (Archivio di Renzo Vedovo)

(nota 1): Il Sig. Umberto Roma rimase a Torre di Mosto fino all’armistizio ; ma la sua permanenza in quella località fu sempre poco fortunata : privo di notizie dei suoi familiari, visse giornate di dolore, come tutto il popolo invaso di San Donà ; riportiamo qualche periodo della lettera, spedita a Mons. Saretta, risiedente in quell’epoca a Portogruaro, il 22 luglio 1918 : “ Da molto tempo non ho notizie dirette ; però ognuno che so venire da Porto, lo interpello se mi sa dare di Lei notizie…. Spero continuerà a star bene ; fui ammalato, con otto giorni di letto lo scorso giugno : fortissimi dolori intestinali mi lasciarono in brutto stato… ; ieri tornati a disturbarmi : speriamo sia cosa passeggera. – Immagini lo stato dell’animo mio per non aver ancora notizie dei miei cari… Io e la sorella ce la passiamo, nella speranza che il buon Dio calcoli questo tempo per un po’ di purgatorio ; ma non le enumero i dispiaceri che soffriamo, ecc. “. (Cfr. Arch. Di Curia, incarto San Donà di Piave e la nuova chiesa).

Dal diario di don Zandomenighi: una nuova destinazione per la comunità di Monsignor Saretta

Passarono sei giorni in queste condizioni anormali, « quando, la mattina del giorno 14, Mons. Saretta e don Marin furono chiamati in tutta fretta dai gendarmi austriaci ; una carretta era giunta nel cortile ; i sacerdoti furono fatti salire : dovevano essere ricondotti nuovamente a Ceggia. E si fermarono a Ceggia tutta la giornata, sottoposti ad un nuovo interrogatorio lungo e minuzioso. Ritornarono a tarda sera tranquilli. Ma forse non era rimasta contenta e soddisfatta la cattiveria austriaca : la mattina del giorno 15, per tempo, un soldato mi venne a domandare, per ordine del Comando, se la sera antecedente erano ritornati i due sacerdoti, e a quale ora fossero ritornati ; due giorni dopo un ordine militare internava i due sacerdoti, con tutte le suore, a Portogruaro ».

L’occupazione raccontata da Monsignor Chimenton in “San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” nei post dedicati:

29 ottobre – 5 novembre 1917  prima parte; 6 – 9 novembre 1917 seconda parte; 9 – 11 novembre 1917 terza parte; 9 – 12 novembre 1917 (Passarella) quarta parte; 12 – 14 novembre (Passarella-Chiesanuova) quinta parte; 14 – 15 novembre 1917 (Chiesanuova) sesta parte; 13 novembre 1917 (Grisolera) settima parte; 14 – 18 novembre 1917 ottava parte; 16 – 21 novembre 1917 (Passarella e Chiesanuova) nona parte; 19 – 22 novembre 1917 (San Donà) decima parte; 23 – 30 novembre 1917 undicesima parte; 22 – 30 novembre 1917 (Torre di Mosto) dodicesima parte; 1 – 5 dicembre 1917 tredicesima parte; 6 – 8 dicembre 1917 quattordicesima parte; 8 – 15 dicembre 1917 quindicesima parte; 16 – 30 dicembre 1917 sedicesima parte; 31 dicembre 1917 – 5 gennaio 1918 diciassettesima parte

Ordine di sgombero : inizia l’esodo verso Torre di Mosto

Tratto da “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Monsignor Costante Chimenton (1928, capitolo IV pp. 210-217)

San Donà di Piave, 24 novembre 1917
Un giogo che non sembra allentarsi

Le vessazioni, i soprusi, le violenze aumentavano intanto con un crescendo spaventevole, raddoppiato dalla disillusione in cui era caduto l’esercito austriaco in seguito ai disastrosi scontri sulla destra del Piave.

La notte dal 5 al 6 dicembre, in una cascina, presso casa Sant, alcuni soldati austriaci, che avevano tentato di rubare quel po’ di pollame che costituiva l’unica ricchezza di un povero vecchio, certo Bevilacqua di S. Donà, quando si videro scoperti dal proprietario che gridò al soccorso, spararono contro di lui diversi colpi di rivoltella : una pallottola lo colpì alla guancia destra, e gli spezzo la mascella. Compiuta quell’eroica azione, quei delinquenti se ne andarono canticchiando una canzonaccia e bestemmiando a Salandra e a Sonnino (nota: presidente del consiglio il primo, ministro degli esteri il secondo, che portarono l’Italia nel campo dei paesi dell’Intesa e alla conseguente guerra contro l’Austria), abbandonando in una pozza di sangue quel vecchio. Il poveretto fu assistito da Mons. Saretta, che mandò subito per un medico ungherese, che era sul posto, a pochi passi dalla località : ma il medico si rifiutò di prestare il suo soccorso ad un italiano, e a Mons. Saretta che insisteva, in nome dei primi elementi di umanità, per ottenere la sua presenza, in chiara lingua toscana rispose : ‹‹ Così possano crepare tutti i borghesi! ››.

Solo alla mattina la ferita gravissima fu disinfettata da una suora infermiera ; ma il sangue perduto durante la notte e che non riuscì a fermare con una medicazione provvisoria, annunziò prossima la morte del vecchio : Mons. Saretta gli somministrò i conforti religiosi ; poi si rivolse al capitano Paolo Hertzog, che sempre si era dimostrato generoso e caritatevole verso i nostri profughi, e ottenne che il ferito fosse trasportato in un ospedale. Sulla sera del giorno 6 l’infelice partiva sopra un rozzo carro da trasporto, accompagnato da due soldati ; Mons. Saretta, incontratolo per strada, gli somministrò l’Estrema Unzione : all’ospedale di Torre di Mosto, dove era diretto, il Bevilacqua giunse cadavere. Le prove più dure non erano ancora giunte : Mons. Saretta doveva affrontare umiliazioni ancor più forti prima di giungere ad una sistemazione un po’ tranquilla in Portogruaro, dove già si era concentrato un forte nucleo di sandonatesi.

Casa Sgorlon, subito dopo la guerra
Ordine di sgombero per le comunità di casa Sgorlon, casa Sant e casa Catelan

Il 6 dicembre si impose tutto lo sgombero della zona : il provvedimento, che poteva essere giustificato da necessità tattiche e di incolumità per gli invasi, assunse un aspetto odioso per il modo con cui fu attuato. Già alcune famiglie avevano, in antecedenza, presa la via della profuganza, senza meta, senza direzione, senza viveri. Mons. Saretta si portò quella mattina in casa Catelan ; chiamò a raccolta gli uomini per prendere con questi gli accordi nel caso venisse singolarmente imposta la partenza : non sarebbe stato prudente lasciarsi colpire da un improvviso ordine di sgombero. Poco lontano da casa Catelan stava stanziando il comando di un battaglione.

Monsignor Saretta raggiunge un accordo sullo sgombero, subito disatteso

Il giorno 7 dicembre, un venerdì che non si dimenticherà mai dai profughi prigionieri di S. Donà, Mons. Saretta chiese un abboccamento con il colonnello : aiutato da un interprete, potè perorare la causa del suo popolo in modo efficacissimo e ottenere promessa formale che, qualora fosse stata sgomberata la zona Catelan-casa Sant, i profughi di S. Donà, sotto la responsabilità del loro arciprete, avrebbero potuto rimanere, o certamente non avrebbero avuto noie finchè non si fossero trovati i mezzi di trasporto e un rifugio sicuro nelle retrovie. Il permesso scritto doveva essere consegnato a Mons. Saretta un po’ più tardi : il colonello si impegnava intanto a notificare la cosa al Comando di divisione, da cui dipendeva il settore. Mons. Saretta era appena tornato con il fausto annunzio in casa Catelan e in casa Sant, quando una strana visita fece comprendere che gli eventi precipitavano. Il maggiore medico ungherese, l’assassino che il giorno innanzi si era rifiutato di curare il Bevilacqua, in compagnia del sergente che comandava la pattuglia, entrò in casa Sant per una minuta perlustrazione di tutte le stanze. Fu il segnale della catastrofe : imprecando alla guerra e a chi l’aveva dichiarata, quel maggiore si allontanò, lanciando prima un’occhiata sprezzante e quasi di compiacenza sui due vecchi di Passarella, che giacevano miseramente accovacciati in un angolo della cucina.

La zona dell’esodo di quei primi giorni di dicembre

Giungeva intanto la notizia che casa Sgorlon era stata sgomberata. Mons. Saretta si precipitò sul luogo per impedire lo sgombero e ottenere che si rispettasse l’ordine del colonnello. Lungo il percorso ebbe chiara la visione di quell’ultimo strazio ; nei cortili delle case erano state gettate a terra le povere masserizie dei contadini, mentre la truppa, avida di impadronirsi del bottino, piantonava le stanze, e con la rivoltella in mano, minacciava chiunque ardisse avvicinarsi. Dopo un mese di strazi, la nuova odissea veniva così ufficialmente ripresa. Nessun riguardo ai bambini, alle donne, agli ammalati : la soldatesca, costituita di elementi bosniaci, la mezzaluna intrecciata sull’elmetto, laceri, sporchi, senza camicia, veri banditi da galera, pareva scelta apposta per compiere l’ultimo scempio di un popolo, reo unicamente di essere italiano!

In casa Sgorlon erano ricoverate più di cento persone assistite dal cappellano don Marin. Nel cortile dell’ampio fabbricato, tre carri erano ormai già carichi di masserizie gettate alla rinfusa. Il vecchio padrone di casa, un tipo patriarcale girava intorno attonito, con due cappelli in testa, un paletot e un giubbone d’inverno sulle spalle ; i bambini strillavano ; le donne scapigliate sembravano impazzite, mentre, dentro, nella casa, i mussulmani consumavano il saccheggio di quanto non era stato gettato sui carri. Una vecchia, che non poteva scendere dalle scale, fu afferrata per il collo per essere gettata giù dalla finestra : due testimoni che tentarono di salire per salvarla, furono respinti col calcio del fucile : la disgraziata, trascinata in modo brutale giù per la scala da due bosniaci, rimase tutta pesta.

L’ira di Monsignor Saretta per lo sgombero forzato, ad un passo dalla fucilazione

Un furioso cannoneggiamento di abbatteva intanto su S. Donà e Grisolera, e un tenente a cavallo impartì l’ordine della partenza. Mons. Saretta non seppe più contenersi, e, furente contro quel nuovo sistema di assassinio, gridò che si attendesse almeno la risposta del comandante di divisione e si rispettassero gli ordini superiori. Il cappellano don Marin fu mandato ad informare del fatto il colonnello ; ma il percorso era lungo quattro chilometri, e nell’attesa, acconsentita dal tenente, fu una lotta continua tra i soldati che chiedevano una partenza precipitosa e Mons. Saretta che reclamava giustizia e umanità. Quel giorno non si pranzò ; neppure i bambini chiesero cibo, colpiti dalla scena del tutto nuova e dall’atteggiamento dell’arciprete, il quale aveva imposto ai suoi di non allontanarsi, e che, le mani incrociate sul petto, misurando in tutte le direzioni il cortile di casa Sgorlon, non cedeva dinanzi alle minacce dei Bosniaci e del loro comandante.

Monsignor Saretta

Verso le due del pomeriggio un sergente, seguito da due soldati bosniaci, in tenuta di servizio, si accostò a Mons. Saretta e gli impose di seguirlo : fu condotto in casa Sant. La casa era in uno stato di vero assedio, tutta piantonata da truppa. Il maggiore medico, in atteggiamento di minaccia, attendeva l’arciprete : lo investì con sarcasmi e con parole asprissime, e gli impose la partenza, sotto pena di fucilazione immediata. Mons. Saretta reagì fortemente agli insulti di chi abusava di una forza brutale e rimbeccò ad una ad una le osservazioni e le offese di quel medico degenerato : un sergente triestino si frappose fra i due litiganti, e Mons. Saretta, sbalzato da quel triestino che bestemmiava in lingua toscana perfetta, si vide perduto : rispose che cedeva alla violenza! Volle però salire nella cappellina di casa Sant, dove consumò l’Eucarestia distribuendo la Comunione alle suore e ai bambini più teneri ; fece poi gettare su due carri quelle poche masserizie che erano state salvate sino allora ; si interessò perché le suore mettessero in salvo il corredo liturgico della chiesa di S. Donà e i documenti riguardanti l’ospedale e l’asilo ; poi…. Si diede in mano ai soldati. Erano le tre pomeridiane.

Inizia l’esodo verso Torre di Mosto

Si organizzò il corteo per la partenza. Ogni suora fu fiancheggiata da due gendarmi armati ; l’arciprete, come l’elemento più torbido e pericoloso, da quattro gendarmi : a lui non si permise di scambiare una parola. Una bambina, che lo vide in quello stato di arresto, gli si avvicinò per baciargli l’ultima volta la mano : fu cacciata lontano bruscamente con un calcio.

Don Umberto Marin

Sul volto di tutti era scolpito lo spavento : la preoccupazione più angosciosa era per la sorte riservata all’arciprete. Mons. Saretta era pallido come la morte : un sudore freddo gli imperlava la fronte e non poteva parlare. Si scosse da quell’atteggiamento unicamente quando il maggiore medico impose che i due vecchi ammalati, rincantucciati in cucina, non venissero trasportati. Tentò allora di parlare, ma la voce gli si strozzò in gola. Mentre da tutti si attendeva che la strana compagnia si mettesse in moto, con un fare sdolcinato che in altre epoche avrebbe avuto del comico, il maggiore medico, sotto pretesto di assistenza ai due vecchi, requisiva due suore, suor Luigia Cernesoni e suor Battistina Lanza, e ordinò venissero rinchiuse in una stanza. Le due requisite piansero e scongiurarono ; supplicarono che i due ammalati fossero sì affidati alle loro cure, ma trasportati con la carovana : col calcio del fucile furono sospinte dai Bosniaci su per la scala, mentre due soldati con la baionetta che toccava loro il petto gridavano che le avrebbero finite se non avessero smesso di strillare. Alle quattro precise del 7 dicembre la carovana si mosse : a questa era stata aggiunta, travolta dalla stessa sorte, tutta la famiglia Sant che aveva ospitato le suore e l’arciprete. Anche quella sera il sole tramontava in un mare di fuoco.

Pochi minuti dopo giungeva il cappellano militare, P. Tecelin Joseph Jaksch, accompagnato da don Marin, con il permesso del Comando di divisione, con cui si concedeva all’arciprete di S. Donà e ai suoi parrocchiani l’ordine scritto di rimanere sul posto. Troppo tardi! Il permesso giovò soltanto per la famiglia Sgorlon che riprendeva e rioccupava le proprie stanze, dove rimase indisturbata fino al 19 febbraio 1918.

La sosta notturna presso Stretti
Immagine tratta da “Una memoria di guerra nell’anno dell’invasione austro-ungarica” (2012, Battistella-Polita)

Dopo tre ore di cammino angoscioso, sempre in silenzio, si giunse in località chiamata Stretti, a sette chilometri da Grisolera e cinque da Torre di Mosto. Qui i soldati ordinarono la sosta e il riposo per la notte. La posizione era deserta ; nessun vestigio di abitazione umana ; una stamberga abbandonata, al di là del canale, raccolse quella notte un centinaio di persone. ‹‹ E noi dovemmo passare la notte così, dopo una giornata di tante vicende. Prendemmo posto, con la poca roba che ci era rimasta, in una orribile stanzaccia ; per coricarci in qualche modo, stendemmo un po’ di fieno che doveva aver servito alle sentinelle del ponte sul vicino canale, e che doveva contenere molti inquilini poco graditi. In un’altra stanzaccia prese ricovero la famiglia Sant che era stata cacciata con noi. Faceva freddo, un freddo umido che saliva dalle acque circostanti con una nebbia fitta che penetrava le ossa. I bambini impauriti, privi di nutrimento, piangevano. ̶ ̶ ̶ Ci siamo raccolti per la preghiera : i soldati bosniaci guardavano e sorridevano ; un po’ di polenta fredda, portata dalla famiglia Sant, fu l’unico cibo di quella giornata, condito con le lagrime più amare : poi, vestiti come eravamo, ciascuno si gettò sulla terra, sulla paglia, accovacciato lungo le pareti ; qualche coperta sulle spalle alle donne e ai bambini, e si cercò il riposo. Ma non fu possibile il riposo dopo una giornata di tante lotte e di tante emozioni ; fuori, i soldati avevano acceso un gran fuoco che minacciava quel tugurio mezzo coperto di paglia, e tra le risa, i frizzi e gli schiamazzi attendevano il sorgere del nuovo sole. Più lontano, in un sussulto monotono, cadenzato, rumoreggiava il cannone››.

La mattina dell’8 si ritrovarono soli nel viaggio verso Torre di Mosto

Spuntò finalmente il mattino del giorno 8 dicembre, festa dell’Immacolata : gli uni dubitavano sulla sorte degli altri. Quando si videro tutti in vita, dinanzi alla catapecchia, imbrattati di fango e di lordura, ma ancora salvi ; quando si videro soli e senza soldati che si erano allontanati senza lasciare nuovi ordini e nuove disposizioni ; quando si riconobbero liberi da tante angherie, respirarono e ringraziarono la Provvidenza. ̶ Le due suore rimaste prigioniere furono ugualmente protette dalla mano di Dio : otto giorni dopo raggiunsero le consorelle a Torre di Mosto, accompagnate dal cap. Hertzog. Il capitano anzi, che le precedette a cavallo, permise che quelle sue suore potessero trasportare a Torre quel materiale che era rimasto abbandonato in casa Sant, e, di più, concedette loro una armenta per provvedere di latte gli ammalati. Una brina gelata dava tutto attorno alla campagna deserta lo spettacolo della morte.
Bisognava provvedere a tanta gente per non lasciarla morire di fame e di freddo in quella località ; bisognava provvedere ai mezzi di trasporto. Mons. Saretta, staccatosi subito dalla compagnia, si diresse verso Torre di Mosto per celebrarvi la Messa e per provvedere alle necessità più urgenti.

Quel grave pericolo corso da Monsignor Saretta

Fu durante quel viaggio disastroso del 7 dicembre che Mons. Saretta corse il pericolo di venir soppresso per sempre. Teneva rinchiuso nel taschino della veste la copia di un discorso pronunciato nell’arcipretale di S. Donà di Piave alla presenza di tutto il popolo e delle autorità civili e militari, in occasione dell’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia ; e, sotto le calze, il suo minuscolo diario di guerra, caduto ora nelle nostre mani, e che ci serve per la ricostruzione di queste scene dolorosissime. Erano due documenti assai pericolosi : il primo poteva essere carpito alla più semplice perquisizione ; il secondo poteva rimanere nascosto. Il primo documento doveva scomparire ; e scomparve in un modo semplicissimo, del tutto originale. Imbacuccato nel su mantello, quando Mons. Saretta percepì che la sua condanna alla fucilazione poteva essere racchiusa in quelle poche pagine, piegò la testa fino a coprirsi la bocca, estrasse, dal disotto, quell’opuscolo e cominciò a lacerarlo con i denti fino a ridurlo, lentamente, pezzo a pezzo, in una pontiglia : poi lo sputò, a varie riprese, sulla lunga strada. ‹‹ Sta male, Reverendo ! ››, gli ripeteva sghignazzando un interprete triestino, veramente poco triestino, che lo accompagnava unitamente ai soldati di guardia ; ‹‹ ringrazi Cadorna ! ››. All’ironia si aggiungevano gli insulti e le beffe ! ‹‹ No ! signore, ̶ rispose sollevando la testa pallida Mons. Saretta, ̶ sto benissimo ; oggi non ho nessuno da ringraziare, e neppure lei ! ››.
L’interprete comprese la risposta, e più non fiatò ; prima del tramonto quel documento compromettente era scomparso del tutto.

L’occupazione raccontata da Monsignor Chimenton in “San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” nei post dedicati:

29 ottobre – 5 novembre 1917  prima parte; 6 – 9 novembre 1917 seconda parte; 9 – 11 novembre 1917 terza parte; 9 – 12 novembre 1917 (Passarella) quarta parte; 12 – 14 novembre (Passarella-Chiesanuova) quinta parte; 14 – 15 novembre 1917 (Chiesanuova) sesta parte; 13 novembre 1917 (Grisolera) settima parte; 14 – 18 novembre 1917 ottava parte; 16 – 21 novembre 1917 (Passarella e Chiesanuova) nona parte; 19 – 22 novembre 1917 (San Donà) decima parte; 23 – 30 novembre 1917 undicesima parte; 22 – 30 novembre 1917 (Torre di Mosto) dodicesima parte; 1 – 5 dicembre 1917 tredicesima parte; 6 – 8 dicembre 1917 quattordicesima parte; 8 – 15 dicembre 1917 quindicesima parte; 16 – 30 dicembre 1917 sedicesima parte; 31 dicembre 1917 – 5 gennaio 1918 diciassettesima parte

E in quei primi di dicembre l’incosciente visita ad una San Donà gravemente ferita

Tratto da “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Monsignor Costante Chimenton (1928, capitolo IV pp. 206-210)

La strada che portava verso il cimitero vista da via Maggiore, sulla destra quella che diverrà piazzetta delle Grazie
Primo dicembre, la certezza che la guerra continuerà

Il primo giorno di dicembre un aereoplano austriaco, volteggiando a bassa quota, lasciò cadere su Grisolera, fin presso S. Donà, dei piccoli manifesti che annunziavano la pace separata con la Russia : si assicurò così che la guerra avrebbe assunto una maggiore audacia sul fronte italiano.

Il ricordo di San Donà commuove i profughi

Lo stesso giorno, il più sfacciato saccheggio di quanto non si era potuto nascondere nelle case di Palazzetto, in Cà Fiorentina e in Cà Catturcata. – Il giorno 2, domenica, il servizio religioso si potè effettuare in tutti i concentramenti : Mons. Saretta incaricò il cappellano don Marin a portarsi per la seconda messa in Catturcata. Non è possibile descrivere l’entusiasmo con cui il sacerdote fu accolto da questa comunità : al Vangelo don Marin rivolse al popolo il suo saluto, pieno di fede e d’entusiasmo, e commentando il passo biblico Super flumina Babilonis illic sedimus et flevimus, ricordò la casa abbandonata, la chiesa dove molte lagrime si erano sparse e voti ardentissimi si erano innalzati : luoghi santi, a cui erano intrecciate una storia e tante sacre memorie. Il ricordo del paese, della casa, della chiesa suscitò un fremito di indignazione e un profluvio di lagrime.

L’incoscienza delle suore le guida sino a San Donà
Il cimitero di San Donà di Piave, nella zona dell’attuale Oratorio Don Bosco

Il lunedì 3 dicembre iniziò una nuova settimana tragica. Nella speranza di ottenere qualche aiuto, quella mattina Mons. Saretta si era recato a far visita al cappellano di un reggimento austriaco. Durante la sua assenza tre suore e la domestica di canonica, sig. Rosa Carniato, una donna piena di coraggio confinante con un ardimento spinto alla follia, presero la strana risoluzione di portarsi a piedi fino a S. Donà per una ricognizione. Prive di ogni biglietto di passaggio, costeggiando sempre l’argine, a piè della scarpata, per essere riparate dal tiro della fucileria italiana, giunsero a S. Donà : l’argine sinistro del Piave era interamente abbandonato,

‹‹ Visitammo l’asilo, completamente saccheggiato e in più punti colpito da granate ; alcuni soldati austriaci si dividevano gli oggetti che avevano trovato sopra la soffitta della cappellina e sotto l’altare,  nascosti là prima della nostra partenza, nella ingenua speranza di sottrarli all’ingordigia dell’invasore. Di là passammo al cimitero, che trovammo abbastanza intatto ; era scoperchiato l’ossario, e la mura di cinta colpita in più parti ; la tomba della nostra sorella, suor Santa Tommasoni, non aveva avuto alcun danno ; mentre recitavamo per l’anima di lei, raccomandandoci alle sue preghiere, il De profundis, sul cielo volteggiavano minacciosi sette aereoplani italiani che pareva spiassero le nostre mosse.

Le distruzioni all’interno del duomo

̶ ̶ Dal cimitero, alla chiesa ; vi potemmo entrare a stento, perché il pavimento era ingombro di macerie ; il tetto era in gran parte crollato, l’organo gravemente danneggiato, il tutto messo a soqquadro. Anche la bella statua della Madonna era scomparsa. Molti banchi erano stati asportati. Intatta ancora si conservava la cappella di Maria Bambina, ma le magnifiche vetrate erano tutte infrante. Dalla chiesa alla canonica : semi distrutta come tutte le altre case della piazza di S. Donà, che pareva un cimitero sconvolto. ̶ ̶ Non potemmo che prelevare un ostensorio, un crocefisso della chiesetta dell’ospedale militare e alcuni metri di panno nero, che doveva aver servito per drappo mortuario, e che, più tardi, in un’altra fuga, doveva servire per velo ad alcune di noi ››.

Mentre uscivano dall’ospedale militare, un soldato austriaco le ammonì del pericolo a cui erano esposte. Inconscie della gravità del passo che stavano per compiere, attraversarono la piazza a pochi metri dall’argine del Piave, e si diressero all’ospedale civile : Il fabbricato era sufficientemente intatto, ma del tutto completo il saccheggio di ciò che le suore avevano abbandonato. ‹‹Potemmo solo raccogliere la statua del S. Cuore, alcuni libri e qualche indumento ; nel refettorio trovammo un soldato che indossava il vestito di una suora, e che depose subito appena ci vide comparire ; un altro soldato, in cappella, con la tovaglia della balaustra si fasciava i piedi. Terrorizzate da una fitta scarica di artiglieria di tutti i calibri, che pareva puntasse contro di noi, fra il sibilio delle pallotole, intontite, prendemmo la corsa del ritorno››.

Ospedale Umberto I

Erano le quattro pomeridiane e la giornata calava assai tetra. E a quelle ardite, troppo imprudenti, sebbene degne di encomio per il sangue freddo sempre addimostrato, erano riservate, nel ritorno, sorprese poco gradite. Rifatta la strada dall’ospedale alla piazza, attraversata frettolosamente quest’ultima, per la Via dei Tigli, giunsero sotto l’argine del Piave. Vollero seguire un’altra via nel ritorno : alcuni figuri che le avevano lasciate passare e non pareva fossero disposti a mostrarsi verso di loro cavalieri onorati, le avevano seguite a lungo con aria minacciosa ; la nuova via che si intendeva percorrere, era più breve e più opportuna per quattro donne che, in sul tramonto, in mezzo a tanti pericoli, tra soldati capaci di ogni azione, dovevano percorrere ancora circa dieci chilometri di strada a piedi, su un terreno sconvolto, sparpagliato di cadaveri e, più di tutto, ingombro di munizioni di guerra.

Le postazioni austriace poste all’inizio di Viale dei Tigli

Appena giunte sulla rampata, presso la casa abitata un giorno dal segretario comunale sig. Livio Fabris, una sentinella le invitò a presentarsi al vicino Comando, sistemato in casa Maschietto. Dopo un rapido interrogatorio, in cui quelle donne si sforzarono di far capire ad un tenente lo scopo del loro viaggio e il desiderio di ritornare a Grisolera, furono con difficoltà esaudite : un soldato fu incaricato dell’accompagnamento. Il soldato si dimostrò sempre premuroso e gentile verso quelle donne ; fu, in realtà, una scorta sicura, ma aveva avuto ordini tassativi : condurre le suore presso un Comando di linea, a 200 metri appena da S. Donà, e che aveva stanza in una grotta, scavata nell’argine stesso del Piave, presso la rampa. Il nuovo interrogatorio fu breve, e si decise di far accompagnare le suore a Ceggia, e non più a Grisolera che doveva essere ormai sgombra dalla popolazione civile. Era un nuovo pericolo per la comunità religiosa : la separazione avrebbe certamente avuto fatali conseguenze.

Insperatamente libere

Quelle suore tanto piansero e tanto pregarono che furono lasciate libere, in balia di sé stesse, sotto la piena e personale responsabilità per tutti gli incidenti a cui potevano rimanere esposte. Esse accettarono l’intera responsabilità : per quelle suore era preferibile la morte, anziché rimanere a disposizione di un Comando austriaco e di soldati ed ufficiali di tutte le fedi e di tutti i costumi. Era ormai notte ; le granate fioccavano qua e là, ad intermittenza, sul terreno sconvolto ; i riflettori spiavano il cielo dalle due parti dei combattenti e illuminavano di una luce sinistra la via che si doveva percorrere : quelle donne, tutte sole, tra gli spasimi continui e le preghiere, con passo più che affrettato, inciampando spesso nelle pozzanghere e fra i reticolati, giunsero finalmente a casa Sant. Non erano più attese né da Mons. Saretta né dalla comunità : il giusto rimprovero del sacerdote si trasformò in gioia alla narrazione delle peripezie incorse : su quelle fortunate vegliò la mano di Dio. Ne ricordiamo i nome : suor Giuseppina Fossa, suor Battistina Lanza e la sorella Giuseppina.

Il retro del duomo danneggiato di San Donà con accanto i poveri resti del campanile
Continua la difficile convivenza in casa Sant

La notte dal 3 al 4 dicembre fu un’altra notte tormentosa per l’intera comunità. I soldati austriaci, che tenevano occupato il pianterreno di casa Sant, quel giorno avevano data la caccia ad un maiale ; la sera sedettero a banchetto per consumare la facile selvaggina in una di quelle orgie che così spesso si ripeterono nelle nostre regioni invase. Non mancò il vino prelibato ; non mancarono i liquori più rinomati, rubati a Grisolera : tutta la notte, fino alle cinque del mattino, si prolungò una gazzarra stomachevole, frammischiata da canti e frizzi immorali, consolata dal gridio stridulo di un verticale, rubato con il solito sistema della violenza austriaca. Non si rispettò il sonno delle donne ; non si badò ai gemiti degli ammalati : la violenza era più o meno inaugurata a sistema in tutti i paesi invasi e bisognò tacere : ogni reclamo sarebbe stato scontato con la morte sotto il colpo di un pugnale o con la strage di una bomba a mano.

Prima ancora che sorgesse il sole del 4 dicembre, la comunità, dopo una notte agitatissima. Era uscita di casa e si era portata a Grisolera per i funerali di un vecchio. La cassa funebre fu formata colle stesse porte della casa Sant, e il feretro fu coperto con uno sciallo nero. Il calesse, una carretta da campagna, fu trascinato da un magro ronzino che più volte cadde al suolo, sfinito per mancanza di nutrimento : suore e donne dovettero sostituirsi a quella bestia, fino al cimitero.

Il giorno 5 dicembre un nuovo funerale a Grisolera : una donna, una certa Balbo, era morta, consunta dai patimenti e dallo spavento. Mons. Saretta volle celebrare la Messa tra le rovine della chiesa di Grisolera presente il feretro : ultimata appena la Messa, alcune granate italiane colpirono l’unica cappella rimasta intatta ; dell’artistico edificio non doveva rimanere che un cumulo di macerie continuamente battute e sconvolte.

Il duomo di Grisolera

Lo stesso giorno si diffuse fra i nostri la notizia che i Tedeschi avevano avanzato per sei chilometri e occupato Croce di Piave e Losson di Meolo : era una notizia falsa, diffusa ad arte dagli Austriaci per sollevare lo spirito dei combattenti ed opprimere maggiormente i nostri profughi.

La fame cominciò a farsi sentire : le poche provviste si assottigliavano sempre più ; il pane stesso della carità veniva a mancare. – A Grisolera funzionavano una macina e un forno che servivano per tutta la zona ; ma il pane fresco era assai raro, mancava perfino agli ammalati. Mons. Saretta più volte domandò a qualche ufficiale un pò di pagnotta e di rancio per sè e la numerosa famiglia ; fu sempre assistito, in quest’opera di soccorso, dal capitano di Gorizia, già sopra ricordato, sig. Paolo Hertzog che, al sacerdote che chiedeva l’elemosina per il suo popolo, offriva quel pane che serviva alla truppa. Il pane era impastato di tutto fuorchè di farina di frumento ; ma in mezzo a tanta indigenza quella carità fu provvidenziale : di pochi ufficiali austriaci il popolo di San Donà conserva un migliore ricordo.

L’occupazione raccontata da Monsignor Chimenton in “San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” nei post dedicati:

29 ottobre – 5 novembre 1917  prima parte; 6 – 9 novembre 1917 seconda parte; 9 – 11 novembre 1917 terza parte; 9 – 12 novembre 1917 (Passarella) quarta parte; 12 – 14 novembre (Passarella-Chiesanuova) quinta parte; 14 – 15 novembre 1917 (Chiesanuova) sesta parte; 13 novembre 1917 (Grisolera) settima parte; 14 – 18 novembre 1917 ottava parte; 16 – 21 novembre 1917 (Passarella e Chiesanuova) nona parte; 19 – 22 novembre 1917 (San Donà) decima parte; 23 – 30 novembre 1917 undicesima parte; 22 – 30 novembre 1917 (Torre di Mosto) dodicesima parte; 1 – 5 dicembre 1917 tredicesima parte; 6 – 8 dicembre 1917 quattordicesima parte; 8 – 15 dicembre 1917 quindicesima parte; 16 – 30 dicembre 1917 sedicesima parte; 31 dicembre 1917 – 5 gennaio 1918 diciassettesima parte

I profughi di Monsignor Saretta a Palazzetto tra lutti e lotta per la sopravvivenza

Tratto da “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Monsignor Costante Chimenton (1928, capitolo IV , pp. 203-206)

Piazza Indipendenza nel novembre 1917, sullo sfondo i palazzi più importanti danneggiati dai bombardamenti
Sempre sul filo del pericolo, nuovi lutti per le comunità di sfollati
Il Duomo danneggiato di Grisolera

Il giovedì 23 novembre fu turbato da un triste episodio. Mentre Mons. Saretta percorreva il breve tratto che divide casa Sant da casa Sgorlon, una granata di grosso calibro, proveniente dalla direzione di Meolo, cadde a pochi metri dal sacerdote e dalle suore che lo accompagnavano, nel cortile di casa Fiorindo. In quel momento una donna si trovava nel cortile : portava l’acqua attinta nel Piave. Una scheggia la colpì, le squarciò il petto e la distese a terra : sopravvisse pochi minuti. ̶ ̶ ̶ Mons. Saretta potè appena impartirle l’assoluzione e amministrarle l’estrema unzione. La sventurata aveva il marito in guerra, e lasciava, abbandonati alle cure dei parenti, undici orfanelli, di cui il maggiore contava appena quindici anni, mentre un prossimo nascituro attendeva di uscire alla luce per … godere la vita. ̶ ̶ ̶ Lo stesso giorno un vecchio, in un’altra casa di Palazzetto, fu colpito da scheggia di granata : raccolto da due soldati austriaci, benedetto da Mons. Saretta, fu sepolto nella campagna prospiciente la sua casa. ̶ ̶ ̶ Quel tiro insolito attorno a casa Fiorindo, e che riuscì fatale ai profughi, fu provocato da un pallone frenato austriaco, che i nostri non cessarono di perseguitare, finchè non fu interamente distrutto.

La mattina del 24 si trasportò al cimitero di Grisolera la salma della povera Fiorindo. La famiglia Fiorindo, pur sotto la minaccia di nuove disgrazie, volle rendere l’ultimo tributo di affetto all’estinta. Le esequie si celebrarono in una cappella della chiesa di Grisolera, rimasta ancora in piedi ; ma bisognò passare su di un cumulo di macerie. Al cimitero di Grisolera si ebbe lo spettacolo delle tombe sconvolte e dei morti disseppelliti dalle granate ; il quadro era reso più tetro ancora dalla vista di otto soldati austriaci morti e abbandonati sopra ai tumuli, stringenti ancora tra le mani il pugnale. Il prigioniero è sempre degno di rispetto ; più ancora merita rispetto l’avversario che sacrificò la sua vita : se l’esercito austriaco, operante in quella zona, mancava ancora di cappellano, è però sempre biasimevole la mancanza di quel senso di umanità che si trova perfino tra le pieghe del cuore più indurito : Mons. Saretta giudicò suo dovere supplire a questo senso di indifferenza e di cinismo e, aiutato dai Fiorindo e dalle suore, diede a quelle salme una provvisoria sepoltura.

Tensione con i soldati in casa Sgorlon

La sera del 24, quattro soldati austriaci penetrarono in casa Sgorlon : fumarono, bevettero e canticchiarono una loro canzone, accompagnando il canto con gesti poco decenti. Consumato quanto trovarono in cucina, tre soldati si portarono a spopolare il pollaio di quel poco che era rimasto dalle requisizioni di quei giorni; e poi se ne andarono ; il quarto invece si fermo in cucina evidentemente con cattive intenzioni. Pregato di andarsene, prepotentemente, villanamente si rifiutò : la pazienza ebbe un limite, e quel disgraziato si vide sul punto di essere aggredito da quelle donne che stavano raccolte in casa Sgorlon. Compresa la sua posizione pericolosa, ridotto in uno stato di assoluta impotenza, perché le donne si erano ormai armate di bastoni e di coltelli, credette opportuno tramutarsi in piffero da montagna, e queto queto si allontanò, lanciando però contro quelle donne delle frasi che anche al più inesperto della lingua tedesca suonarono banali bestemmie e titoli osceni, sputati contro creature onestissime che vollero salvaguardato il loro onore.

Casa Ronchi saccheggiata da borghesi e soldati
Casa Ronchi

La mattina del 25, giorno di domenica, la prima Messa si celebrò in casa Sant; la seconda in casa Sgorlon, dove alcuni uomini di Cava e di Grisolera si accostarono ai sacramenti. Sulla località si erano intanto, quella notte, rifugiate altre famiglie di Passarella che trasportarono con sé due vecchi ammalati, di Cavazuccherina : quei due vecchi furono subito consegnati, per l’assistenza, alle suore ; muniti dei conforti religiosi, abbandonati dalle famiglie che ne avevano curato il trasporto e che proseguirono la via dell’esilio, rimasero in definitiva aggregati alla compagnia del Mons. Saretta.

Nello stesso giorno si amministrò il battesimo in casa Marcon ad una bambina, cui le suore imposero il nome di Maria. ̶ ̶ ̶ In complesso, il 25 e il 26 novembre, in casa Sant e in casa Sgorlon, passarono tranquilli : rattristò unicamente tutti i profughi il saccheggio e le devastazioni compiute in casa Ronchi. Borghesi e soldati trovarono là, per diversi giorni, ogni sorta di derrate e di provviste : il vino allagò l’immensa cantina, dove accorsero, muniti di fiaschi e di botticelli, tutti i Comandi dei dintorni. Lo stesso Mons. Saretta, perché le cose nostre non andassero sciupate, pensò di approfittare di questa abbondanza ; si fornì di un po’ di vino e di alcuni salsicciotti, che furono, pochi giorni appresso, un vero acquisto provvidenziale per la numerosa famiglia.

Dal rifugio di Palazzetto la triste visione dei continui bombardamenti su San Donà
San Donà nel gennaio 1918

In casa Catelan, il mercoledì 28 novembre, si erano intanto rifugiate le suore Giuseppine, il parroco, e il medico di Grisolera, dott. Bressanin, unico medico rimasto prigioniero in quella zona (1 – Dobbiamo ricordare che il dott. Bressanin si tenne in contatto con il dott. Perin che spesso lo sostituì nella cura degli ammalati) : con quest’ultimo, in modo speciale, la comitiva di S. Donà procurò di non perdere mai contatto, anche in previsione di una fuga che si prospettava non lontana : parroco e medico, anzi, il 29 novembre si fermarono a modesta colazione con quei fuggiaschi di S. Donà e scambiarono con questi il loro programma per l’avvenire. Verso S. Donà, intanto, era sempre diretto il bombardamento, mentre razzi luminosi, durante la notte, spiavano il cielo e proiettavano scie fantastiche su quelle lugubri campagne.

Il giorno 30 la battaglia si accanì sopra S. Donà : aereoplani italiani e nemici volteggiarono, per lunghe ore, nel cielo di Palazzetto con tragiche scaramucce e lunghi inseguimenti. Così nella più angosciosa incertezza, senza una chiara visione di uscita, sempre con lo spettro della morte dinanzi agli occhi, tramontava, in un sanguinoso lembo di fuoco e di sangue, il disgraziato novembre 1917.

L’occupazione raccontata da Monsignor Chimenton in “San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” nei post dedicati:

29 ottobre – 5 novembre 1917  prima parte; 6 – 9 novembre 1917 seconda parte; 9 – 11 novembre 1917 terza parte; 9 – 12 novembre 1917 (Passarella) quarta parte; 12 – 14 novembre (Passarella-Chiesanuova) quinta parte; 14 – 15 novembre 1917 (Chiesanuova) sesta parte; 13 novembre 1917 (Grisolera) settima parte; 14 – 18 novembre 1917 ottava parte; 16 – 21 novembre 1917 (Passarella e Chiesanuova) nona parte; 19 – 22 novembre 1917 (San Donà) decima parte; 23 – 30 novembre 1917 undicesima parte; 22 – 30 novembre 1917 (Torre di Mosto) dodicesima parte; 1 – 5 dicembre 1917 tredicesima parte; 6 – 8 dicembre 1917 quattordicesima parte; 8 – 15 dicembre 1917 quindicesima parte; 16 – 30 dicembre 1917 sedicesima parte; 31 dicembre 1917 – 5 gennaio 1918 diciassettesima parte