Ricomincia il racconto

Quando iniziano ad ingiallire le foglie si tornano a scrivere le storie. Ce ne sono di sospese e di nuove, perchè il tempo le posa piano e quando le si scopre togliere la polvere è un arte complessa che comporta ricerca. I Guarinoni son lì da un pò con quell’immagine della loro villa datata 1915 a cui ora si è aggiunta una sconosciuta medaglia d’argento datata 1916 che racconta un’altra storia sandonatese calata dal cielo. E’ tempo di andare, di scrivere e raccontare prima che il ricordo venga meno e la memoria divenga perduta.

Angelo Cereser, i suoi inizi sandonatesi visti da Torino

La copertina del libro “Angelo Cereser, una vita in Trincea”

Negli anni Sessanta a San Donà di Piave e nel suo circondario ci fu un proliferare di giovani promesse che poi videro la loro carriera concretizzarsi nelle maggiori squadre di serie A. Era già accaduto nel decennio precedente, come d’incanto si apre una via e uno alla volta questi giovani giocatori hanno la bravura e spesso la fortuna di approdare in società che poi ne decretano il successo. Uno di questi è stato Angelo Cereser e di lui parla un bel libro di Paolo Ferrero uscito nel 2019 che ha il grande pregio di avere una ricca dotazione fotografica del suo periodo granata. Del Cereser che muove i primi passi nella San Donà a cavallo degli anni Sessanta vi è un capitolo che inseriamo nella sua interezza, ovviamente l’oratorio salesiano di cui si parla non può essere che l’Oratorio Don Bosco cittadino.

Tratto dal libro « Angelo Cereser, una vita in “Trincea” » (di Paolo Ferrero in collaborazione con Toro Club Valcerrina granata “Angelo Cereser”, Bradipo Libri, 2019)

” Ciao San Donà “
Giovanile del San Donà – In piedi:  dirigente Zanutto, Bona, CERESER, Moretto, Gerotto, Paro, Cola, Salvori, avvocato Davanzo
Accosciati: Montagner, Iseppi, Pacifici, Pegorer, Socrate Brollo, Battistella

« La mia non è stata un’infanzia facile. Sono nato a Eraclea, un comune della città metropolitana di Venezia, affacciato sul golfo veneto. Per l’esattezza sono di Cittanova, una piccola frazione del paese. Ho perso il papà quando avevo solo due anni. La mamma, allora, per tirare a campare aveva aperto un negozietto di maglieria a San Donà di Piave e lì eravamo andati ad abitare. Studiavo all’istituto chimico, di pomeriggio ripassavo le lezioni e poi andavo in bicicletta in centro a comperare per la mamma. Ironia della sorte, il mio professore di chimica era Paolo Casarin, il futuro arbitro internazionale, che tante volte ho incontrato sul campo. Di questo, sia io che lui, abbiamo sempre taciuto, per non creare facili illazioni. »  

Terra veneta, terra di uomini tosti, di infaticabili lavoratori, ostinatamente rivolti a combattere contro le zone paludose della laguna. Una vita semplice nel quale il pallone riempie ad Angelo i pochi spazi lasciati per il divertimento. Nel mondo, se non fossero esistiti gli oratori, il calcio avrebbe avuto molti meno campioni. Tra preghiere, messe, canti e feste, il pallone ha sempre trovato lo spazio su quei campetti di periferia straboccanti di entusiasmo e di speranze, stretti tra palazzoni di edilizia popolare, tutti uguali tra di loro. Il ragazzo gioca e sogna e a volte ce la fa. Sarà il più bravo, anche se spesso la bravura non basta; ci vuole disciplina, determinazione, costanza. Angelo ha quattordici anni e gioca come portiere nella squadretta dell’oratorio salesiano di Cittanova. La sua casa è lì a due passi, si salta un muretto ed è fatta. A correre in campo spesso senza scarpette per non consumarle, c’è anche Gianfranco Bedin, futuro mediano dell’Inter del mago Herrera, un anno di età in meno e, come lui, razza Piave doc. Angelo ha il fisico adatto e anche una sana dose di incoscienza per quel ruolo. Il parroco don Giacomo stravede per quel ragazzo, educato, riservato, rispettoso, sempre premuroso con tutti. E poi non manca mai alla santa messa. Capita un giorno che in una uscita a terra molto coraggiosa su un attaccante lanciato a rete riporti un trauma cranico e quattro punti di sutura in fronte. E’ quello il suo “sliding doors” della vita: « In quel momento – racconta Cereser su Alè Toro – il pensiero dominante in me, più del dolore della ferita, era rivolto alla mia mamma, che già altre volte mi aveva bonariamente rimproverato affinchè smettessi di giocare. Non sapendo come giustificarmi pensai di chiedere protezione a don Giacomo, che tra l’altro giocava al pallore ed era un grintoso centravanti e che mi era stato vicino mentre mi medicavano. Con il suo aiuto riuscii a convincere la mamma che era stato un incidente di percorso, ma quando si trattò di decidere se continuare a giocare o smettere, dovetti accettare un compromesso: non avrei più giocato quale portiere, ma in un altro ruolo meno pericoloso; scelsi comunque, per non allontanarmi troppo dalla porta, quello di difensore, terzino e centromediano »

Rappresentativa giovanile – In piedi: dirigente Arnaldo Silvestri, avvocato Davanzo, CERESER, Brollo, Storto, Ferrari, Salvori
Accosciati: Ronchi, Muffato, Bedin, Isoni, Lazzarini, Armellin

E anche in quel ruolo i risultati si vedono subito, tanto da far attirare l’attenzione, dopo un paio di partite ad alto livello, ai dirigenti della gloriosa società veneta del San Donà di Piave. Il passaggio è presto stabilito: per poche migliaia di lire che vanno a finire nelle povere casse dell’oratorio, Angelo va a giocare in biancoceleste. Sono quelli gli anni della rinascita sportiva del calcio sandonatese che veleggia fra alterne fortune tra Promozione e serie D. Si sta costruendo una buona squadra, dando molta importanza al vivaio: Cereser è uno dei tanti giovani sfornati da quella società sotto l’attenta guida di Giovanni “Nani” Perissinotto, bandiera storica, con un passato glorioso di attaccante del secondo dopoguerra nelle fila di Roma e Udinese, dove era stato anche il primo goleador della squadra in serie A. Era una punta velocissima, imprevedibile, molto versatile. Al San Donà, nel doppio ruolo di allenatore e giocatore, Perissinotto vinse per due anni consecutivi il campionato, riuscendo ad approdare il serie D per poi chiudere la carriera a 38 anni. Ma il vero artefice della crescita calcistica di Angelo è Omero Tognon, veneto anche lui, antico centromediano del Milan di Schiaffino che, terminato di giocare, è diventato allenatore del San Donà, E’ una fortuna per un ragazzo di 16 anni avere come maestro un campione che ha giocato nello stesso ruolo con il quale si cimenta; consigli e incoraggiamenti sono profusi in gran quantità, basta solo carpirli e farne buon uso. Nel San Donà, Angelo gioca una dozzina di partite, due nella stagione 1960-61 e dieci nella stagione 1961-62 per l’esattezza. Assieme ad Angelo prendono la via del calcio che conta anche Elvio Salvori, mediano di grande corsa con futuro anche in lui in giallorosso ed Enzo Ferrari, potente ala sinistra che giocherà in molte squadre di serie A prima di intraprendere una brillante carriera di allenatore.

San Donà 1960-61 – In piedi: Salvadoretti, Socrate Brollo, Bonazza, Ferrari, Beffagna, Muffato, Zanutto, – Gianni Brollo, CERESER, Dal Ben, Maschietto. Accosciati: Susin, Tommasella, Guerrato, Trevisan, Salvori, Tonon, Giovanni Perissinotto

Si è agli inizi degli anni Sessanta. L’Italia sta vivendo il boom economico. E’ un bel periodo quello: i Giochi olimpici disputati a Roma hanno fatto vedere al mondo che l’Italia ci sa fare. La gente ha voglia di divertirsi e di trasgredire. Si balla il rock’n’roll, si impazzisce per Elvis Presley e si rimane estasiati di fronte alla bellezza e alla eleganza di Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany”. E intanto incomincia la conquista dello spazio: Yuri Gagarin diventa il primo uomo a volare negli spazi siderali portando con successo a termine la sua missione. Il Torino, intanto, è in giro per l’Italia in cerca di talenti. E non solo per l’Italia: da lì a poco sarebbe arrivata dall’Inghilterra la giovane coppia di attaccanti Denis Law e Joe Baker, tanto talentuosi (il primo) e potenti (il secondo) sul campo, quanto incostanti e trasgressivi nella vita. Sotto la Mole sarebbero rimasti solo un anno, per poi ritornare in patria a conquistare allori e gloria, ma in quell’anno, anche se solo a tratti, si vide un gran bel calcio al Comunale. Per ben quattro volte la società granata manda Cesare Nay a visionare il ragazzo. Nay ha giocato per cinque stagioni nel Toro del post Superga come sentromediano terminando poi la carriera sulla sponda opposta della Juve. E’ cresciuto nel vivaio granata e conosce alla perfezione chi sono i giocatori adatti per giocare al Filadelfia. « Mi avevano avvertito – racconta ancora Cereser – che ogni tanto veniva sin da Torino un tecnico per controllarmi, ma io non lo conoscevo. Ricordo una volta, nel bel mezzo di una partita importante, il pallone era nell’area di rigore avversaria; mi giro verso la tribuna e vedo il presidente della società parlottare con un distinto signore. Immagino subito che si tratti di quell’osservatore. Mi viene la tremarella, rimango fermo impalato a guardare i due che continuano a parlare, e non mi accorgo che la mia ala da marcare, ricevuto il pallone, mi sta scartando e se ne va in gol. Fortuna che il portiere ci mette una pezza, altrimenti non mi sarei mai perdonato tanta leggerezza in un momento così delicato ed importante. »

CERESER nella foto di copertina di un Alè Tori del 1973

E’ comunque fatta. Al termine dell’incontro Angelo viene chiamato in direzione dove gli viene presentato il signor Nay (era proprio lui) e comunicato l’avvenuto passaggio in maglia granata. « Ricordo che divenni rosso come un gambero, non sapevo cosa fare, se ringraziare, se sorridere, l’unica cosa che uscì di bocca, e adesso giudico un po’ banale, ma in quel momento non ne trovai altra, fu: viva il Toro! »  Fa tenerezza pensare ad Angelo Cereser di tanti anni fa, ragazzo timido ed impacciato e confrontarlo con l’uomo di adesso sempre sicuro di sé, ironico, mattatore di ogni serata al “suo” Toro club.

« Io sono arrivato qui nel 1962, non avevo ancora 18 anni. Ero figlio unico, senza genitori (la madre era rimasta a San Donà). Per me è stata una storia di vita, non solo di calcio » ci racconta Angelo. « Andavo a fare colazione con il custode alle 9 di mattina, perchè non avevo una famiglia. Noi ragazzi si veniva qua in pullman, in tram, a piedi, si faceva riferimento al Filadelfia e alle persone a esso collegate. Una seconda casa? Per me il Fila è stata la prima casa. » …. così inizia il capitolo successivo quello che vedrà Cereser crescere in tutti i sensi nella Torino granata.

Quei primi anni raccontati dallo stesso CERESER
I primi anni granata di CERESER nelle figurine Panini
I primi anni granata di CERESER nelle figurine non Panini

I Protagonisti del calcio sandonatese: 1. Francesco Canella “Dall’Oratorio al tetto del mondo”; 2. Arturo Silvestri con lo scudetto sul petto nella stagione 1951-52; 3. Guerin Sportivo | Adriano Meacci: «Scusate il ritardo »; 4. Glerean: « Nessun segreto, grande San Donà »; 5. Guerrino Striuli « Il gatto nero »; 6. Elvio Salvori, un sandonatese a Roma; 7. « Bomba » Cornaviera, una vita per il San Donà; 8. Silvano Tommasella, il miglior terzino biancoceleste; 9. « Nanni » Perissinotto, il bomber che stregò la Capitale; 10. Antonio Guerrato, quell’ala destra che non sbagliava una punizione; 11. Orfeo Granzotto: « Così è nato il Sandonà dei sogni »; 12. Bruno Visentin, il « Colombo » che volò in serie A; 13. Angelo Cereser, i suoi inizi sandonatesi visti da Torino; 14. Enzo Ferrari, quel sandonatese famoso prima di esserlo

Bice Adami, la soprano nata a San Donà

San Donà alla fine dell’Ottocento era una cittadina in grande sviluppo. Posta nella parte bassa del corso della Piave, da sempre il suo territorio era stato ostaggio delle ire del fiume come anche degli ampi terreni paludosi. Non sempre la convivenza fu semplice, con gli abitanti di quelle terre impegnati in una lotta continua per riuscire a strappare del terreno utile alla coltivazione, fare i conti con le malattie e riuscire al tempo stesso a sfamare le proprie famiglie. Le bonifiche e i miglioramenti strutturali della città portarono ad un aumento demografico notevole, ciò non di meno anche in quegli anni Ottanta le inondazioni si succedettero e se da un lato le opere pubbliche sostennero il territorio dall’altro il fenomeno dell’emigrazione non fu secondario con tante famiglie che in cerca di miglior fortuna si misero in viaggio verso altre nazioni, verso altri continenti.

La famiglia Adami
Bice Adami

Non si sa se la famiglia di Giovanni Battista Adami e di sua moglie Ernesta Clerici fosse originaria di San Donà o vi fosse arrivata per esigenze lavorative, ma in quei primi anni Settanta del secolo Ottocento due delle loro figlie nacquero a San Donà. Il 20 ottobre 1873 nacque Osanna Ernesta Margherita Maria e il 16 marzo 1875 fu la volta di Beatrice Margherita Maria. Quel che è certo è che qualche tempo dopo la famiglia Adami emigrò in Argentina, stabilendosi nella zona di Buenos Aires.

Beatrice detta Bice

La protagonista della nostra storia è Beatrice, o come meglio era conosciuta e come lo sarà in seguito Bice. Le radici italiane erano un qualcosa che chi emigrava non abbandonava mai e quella bambina divenuta ragazza quel suo sentirsi italiana lo ritrovò nel canto. Sotto la guida del maestro Stiattesi il suo talento venne esaltato a tal misura che nel 1896 debuttò come soprano al Teatro Politeama Argentino a Buenos Aires. A ventuno anni la strada di Bice Adami era oramai tracciata e presto intraprese la via del ritorno quando nel 1898 ottenne una scrittura nella Compagnia di Opera Italiana. Ad Amsterdam interpreterà Nedda nell’opera “Pagliacci” e Santuzza nella “Cavalleria rusticana”, ma soprattutto in quella compagnia ebbe modo di conoscere il baritono Ferruccio Corradetti che divenne presto suo marito.

Ferruccio Corradetti
Ferruccio Corradetti

Marchigiano di San Severino Marche, Ferruccio Corradetti si trasferì presto a Roma e dopo degli inizi come giornalista scoprì le sue doti di canto grazie al maestro Faini. Il suo debutto come baritono avvenne nel 1892 a Roma nel “Campanello dello speziale” di Donizetti. Ebbe sin da subito un ottimo successo e quando si incontrò ad Amsterdam in palcoscenico con la sua futura moglie Bice godeva già di grande fama, in carriera fu particolarmente apprezzato nel “Barbiere di Siviglia” e nel  “Don Pasquale”.

Adami, Bice e Corradetti, Ferruccio sing Dite alla giovine Traviata (Verdi)
Bice Adami Corradetti
« Le Maschere » di Pietro Mascagni (1901)

Bice adottò entrambi i cognomi e alla pari del marito anche la carriera di Bice Adami Corradetti proseguì con successo: fu la Mimi in “Bohème”, la Manon in “Manon Lescaut”, la Nedda in “Pagliacci”, la Fedora nell’omonima opera. Il 17 gennaio 1901 fu tra i protagonisti della prima in assoluto di “Le Maschere” di Pietro Mascagni che in quel giorno venne rappresentata in contemporanea in sei teatri dell’opera italiani. Al teatro Costanzi di Roma fu lo stesso Pietro Mascagni a dirigere l’opera nella quale Bice ebbe il ruolo di Colombina, mentre Ferruccio Corradetti ebbe quello di Tartaglia. Quell’opera del Mascagni in seguito non rappresentò uno dei massimi successi del compositore, ma in quella prima romana ottenne dei favori del pubblico ben superiori a quelli ottenuti negli altri cinque teatri.

La compagnia alle prove per l’opera “Le Maschere”
(Corradetti il terzo da destra, Bice Adami la quarta da destra)
La gioia e la separazione
Ferruccio Corradetti e Bice Adami con la figlia Iris

Entrambi i coniugi Corradetti proseguirono le loro carriere, lui in chiave più internazionale mentre lei fu più legata ai teatri italiani, cantando talvolta nella stessa opera. Il 19 marzo 1904 il lieto evento della nascita della figlia Iris suggellò la loro unione nella vita. L’arrivo della figlia inevitabilmente comportò un minore impegno operistico per Bice, che contemporaneamente iniziò quello dell’insegnamento. Qualche anno dopo arrivò però la separazione da Ferruccio Corradetti che nel 1913 si trasferì negli Stati Uniti dove continuò la sua carriera e dove sposerà in seconde nozze Anna Lisarelli. Anche lui in seguito si dedicò all’insegnamento e divenne un apprezzato critico musicale. Ferruccio Corradetti morì a New York il 19 giugno 1939, all’età di 72 anni.

Iris Adami Corradetti
Iris Adami Corradetti in un abito di scena de “La Traviata”

Dedicatasi all’insegnamento nella Milano dove scelse di vivere, Bice avrà come principale allieva proprio la figlia Iris che aveva pienamente ereditato le doti canore dai due genitori seppur celate inizialmente da degli studi da pianista. Poi nella Milano dei salotti di quei tempi in cui erano facili gli incroci con i più grandi artisti dell’epoca, un’audizione come cantante con il maestro Arturo Toscanini le aprì le porte dei palcoscenici. Come la madre anche lei mantenne il doppio cognome e come Iris Adami Corradetti debuttò da soprano il 25 novembre 1926 al “Teatro Dal Verme” a Milano nel ruolo di Coralito nell’opera “Anima Allegra” di Vittadini. Ne seguì una carriera intensa e ricca di soddisfazioni che partendo inizialmente dal Teatro alla Scala di Milano vide Iris cantare in tutti i migliori teatri dell’opera italiani fino al 1942. Impegni che divennero minori durante e dopo la guerra, l’ultimo suo impegno operistico fu il 4 gennaio 1951 a Padova nel ruolo di Desdemona nell’Otello di Verdi. Come in un girotondo della vita Bice che era partita dalle rive del Piave aveva poi scelto di vivere come la figlia a Padova, dove morì il 3 novembre 1969 all’età di 94 anni. La figlia Iris è mancata invece il 26 giugno 1998, e come la madre morì a Padova a 94 anni.

Per approfondimenti: 1. « Iris Adami Corradetti, tra storia e critica » di Paolo Padovan (Bongiovanni Editore, Bologna – 1977)

28 giugno 1885: Inaugurazione linea ferroviaria Mestre-San Donà di Piave

La stazione di San Donà di Piave in una immagine dei primi ‘900 quando la ferrovia aveva oramai collegato Venezia a Trieste (Immagine tratta dalla copertina del libro «San Donà di Piave – Memorie del passato » di Angelino e Filiberto Battistella, 1981)
Le linee ferroviarie prima del 1885

Con l’Unità d’Italia le linee ferroviarie divennero necessità impellenti, ancor più per un territorio che dopo la terza guerra di indipendenza iniziava ad espandersi verso est. Molta della rete ferroviaria presente in Veneto e nel Friuli divenuto italiano era stata costruita o era in via di completamento dagli austriaci, per cui le linee che raggiungevano Venezia seguivano la direttrice che da Vienna lungo la Pontebbana arrivava a Udine per poi diramarsi verso Venezia e verso Trieste. La necessità di collegare direttamente Venezia a Trieste, allora ancora parte dell’impero austroungarico, divenne presto un’urgenza. Il dover passare ogni qualvolta per Udine allungava a dismisura il percorso così che venne ideata una nuova tratta che in linea retta avrebbe dovuto congiungersi con la ferrovia già esistente a Monfalcone. Fu così che la Società Italiana per le strade ferrate meridionali venne incaricata della costruzione del tratto Mestre-Portogruaro. Il primo stralcio fino a San Donà di Piave venne aperto il 29 giugno 1885, un anno dopo la linea ferroviaria arrivò sino a Portogruaro e fu aperta il 17 giugno 1886. Per arrivare al completamento della linea ferroviaria che collegava definitivamente Venezia a Trieste si dovrà aspettare il 18 ottobre 1897 quando l’incaricata Società Veneta Ferrovie, dopo aver inaugurato nel 1888 la tratta fino a San Giorgio di Nogaro, completò l’ultimo tratto italiano fino all’allora austriaca Cervignano, dove nel frattempo gli austriaci avevano completato la linea da Monfalcone.

L’annuncio dell’Inaugurazione della Ferrovia

Domenica 28 andante, alle 9 e 15 ant., moverà da Venezia il treno ferroviario inaugurale per giungere in questa stazione verso le 10 e mezzo, colle Rappresentaze del Governo, della Ferrovia e dei comuni deputati, senatori e altri personaggi distinti.

Sarà ricevuto qui dalle autorità locali con il maggior decoro possibile. Mentre il paese si prepara a salutare il fausto avvenimento dell’apertura della linea Mestre-San Donà all’esercizio, col maggior entusiasmo, il Comitato farà del suo meglio perchè la festa riesca solenne.

Le bande cittadine di Venezia e di Mestre rallegreranno il paese, imbandierato straordinariamente.

La sera poi il rinomato pirotecnico Giuseppe Tantin eseguirà dei fuochi d’artificio con quattro graziose macchine a giocate diverse, candele romane, serpentoni e razzi di forme e colori vari.

Chiuderà lo spettacolo la fulgida Stella d’Italia con batterie.

San Donà di Piave, lì 26 giugno 1885. Il Comitato

In un lungo articolo nella 3^ edizione della Gazzetta di Venezia del 28 giugno 1885 viene raccontata l’inaugurazione del tratto ferroviario Mestre-San Donà

« Inaugurazione della ferrovia di San Donà »

« Veniamo ora, e sono le ore 5 pomeridiane, da San Donà, avendo avuto luogo oggi l’inaugurazione della ferrovia, la quale se da oggi congiunge Venezia a quell’importante Distretto mira a ben maggiori obiettivi dovendo più tardi allacciarsi colla Pontebbana.

Alle ore 9 ant. erano alla Stazione il R. prefetto colla Deputazione provinciale, il sindaco colla Giunta, l’on Pellegrini, il comm. Diena ed altri consiglieri provinciali e comunali, il maggior generale Palmieri, il procurator generale comm. Noce coi sostituti procuratori generali cav. Moscono e Favaretti, il comm. P.V. Vanzetti procuratore del Re, il comm. ab. Bernardi, il R. questore, gli ingegneri Legrenzi e Pastori delle ferrovie, l’ing. cav. Forcellini, il magg. dei RR. Carabinieri e molte altre rappresentanze, tutta la stampa veneziana, la Banda ecc.

Il viaggio fu felicissimo, e lungo la linea se l’accoglienza delle popolazioni non fu entusiastica – con l’ora inopportunamente scelta con questa canicola – fu però sempre cordiale.

A tutte le stazioni, addobbate con bandiere e trofei o con simulacri d’archi trionfali costruiti con fronde, si trovavano le Autorità locali colle rispettive bande, e talune di esse salirono sul treno inaugurale e si recarono a S. Donà. »

L’arrivo a San Donà

Giunta la grossa comitiva (erano circa 200 persone) a S. Donà. Vi fu ricevimento al Municipio nella cui sala maggiore parlava per primo brevemente, ma assai opportunamente quel sindaco cav. Bortolotto, il quale ringraziava tutti quelli che avevano voluto accorrere a questa festa da tanto tempo vagheggiata, e ringraziava il Governo, la Provincia, nonché la Società che assunse l’esercizio della ferrovia.

Prendeva quindi la parola il R. prefetto, comm. G. Mussi, il quale, alla sua volta, ringraziava il sindaco di S. Donà delle cortesi parole e lo faveca anche per espresso incarico avuto dalla Deputazione provinciale e da parte del Governo e in ispecialità del ministro dei lavori pubblici, che egli pure ivi rappresentava.

La stazione ferroviaria in una cartolina viaggiata del 1915

Disse di non avere mai veduto quelle ridenti contrade; ma soggiunge di non averle mai dimenticate; e qui, con molta opportunità, ricorda il triste periodo delle inondazioni del 1882 e con memore affetto, accenna alla nobile cooperazione avuta da quelle generose popolazioni le quali in quella dolorosa circostanza mostrarono di possedere quelle virtù più elevate e più pure le quali, egli disse, formano l’orgoglio della umanità.

Disse che questa inaugurazione segna una prima tappa ; che ben presto San Donà sarà unita colla ferrovia alla sorella Potogruaro e quindi a Casarsa, ecc. ecc. Rileva ch’era tanto sentito il bisogno che la parte settentrionale della Provincia di Venezia, che era quasi interamente staccata, fosse congiunta anche con vincoli ferroviari a Venezia ; disse quanto potenti fattori di progresso e di civiltà siano le ferrovie e rinnovò i ringraziamenti e le lodi a tutti quelli ai quali la festa d’oggi è dovuta.

Parlò da ultimo l’on. Pellegrini; egli riandò cose vecchie e spiacenti; malgrado la dichiarazione fatta ripetutamente dal R. prefetto di aver avuto incarico di rappresentare il ministro dei lavori pubblici, disse ripetutamente che egli avrebbe voluto vederlo alla inaugurazione, e disse anche dell’altro; ma il suo discorso fu inopportuno sotto ogni riguardo, e passò assai freddamente.

Poscia vi fu un asciolvere, al quale non tutti gli invitati presero parte, per cui molti di essi si sparsero per il paese a far colazione da famiglie di loro conoscenza o nella trattoria Chinaglia, dove il servizio fu pronto e lodevole.

La Banda cittadina intanto suonò nella Piazza maggiore sotto la loggia del Municipio, ed ebbe applausi vivissimi.

Alle ore 3 pom. seguì la partenza da San Donà tra il saluto ospitale di quei cordialissimi abitanti, i quali facevano a gara per rendere gradita a tutti la visita a S. Donà.

La stazione ferroviaria ricostruita dopo la grande guerra

A dir vero – ma in questo gli abitanti di San Donà nulla hanno a vedere – gli organizzatori della festa non furono felici nello stabilire il programma.

Fu scelta male l’ora ; fu mal provveduto al conforto degli invitati tenendoli a S. Donà dalle 12 meridiane alle 3 pom. mentre la partenza poteva benissimo aver luogo al tocco ; meglio ancora avrebbero fatto gli organizzatori se la cerimonia avesse avuto luogo dalle 3 pom. in poi (a quest’ora, cioè alle 3, la partenza da Venezia) fissando il pranzo a S. Donà ed il ritorno alle ore 9 pom.; ma quello che è fatto è fatto e non se ne parli più.

Del resto, e vista nel suo complesso, la cerimonia è andata bene.

Come viaggio lo trovammo abbastanza ameno, e tutti i manufatti che si incontrano sono tali da far veramente onore ai costruttori ; e questi sono, come già noto, la Società veneta, la Ditta De Lorenzi Vianello, la Ditta Laschi di Verona, e le fonderie Rocchetti e Società italiana diretta dal Cottrau.

Ora auguriamo che gli ulteriori tronchi che devono congiungere anche per questa parte Venezia alla Pontebba siano presto ultimati, perché questo è l’obiettivo che si deve raggiungere nel più breve termine, e senza del quale tanti sacrifici fatti e tanti denari spesi avrebbero un ben magro risultato.

A sera le cene ufficiali a Venezia e San Donà

« Questa sera banchetto a Venezia di circa 50 coperti, e banchetto a S. Donà di circa 100 coperti.

In un successivo articolo del 30 giugno 1885 venne scritto a proposito delle cene: « A completamento della relazione che abbiamo pubblicata ieri l’altro, diremmo che al banchetto che ebbe luogo in quella sera da Bauer e Grunwald – al quale non potemmo assistere – parlarono, applauditissimi, Sicher, Pecile, il prefetto, il sindaco di Venezia, il sindaco di San Donà ed il dott. Galli. Durante il banchetto giunsero telegrammi dei deputati Tacchio e Bernini, fermatisi, assieme all’on. Pellegrini, al banchetto di S. Donà. Il servizio dei signori Bauer e Grunwald fu, sotto ogni rapporto, lodevole. »

I telegrammi inviati dal sindaco Bortolotto

Furono spediti i seguenti telegrammi:

Al Primo Aiutante Campo S.M. il Re – Roma  « Prego porgere augusto Sovrano riverente saluto popolazione festante inaugurazione ferrovia. Sindaco Bortolotto »

Al Ministro lavori pubblici – Roma   « Prego gradire saluto popolazione esultante inaugurazione ferrovia. Sindaco Bortolotto »

All’Onor. Beccarini – Roma  « Popolazione esultante inaugurazione ferroviaria manda affettuoso saluto. Sindaco Bortolotto »

Avendo il Senatore Giustinian inviato un telegramma per giustificare la sua assenza, il sindaco Bortolotto gli rispondeva con il seguente: « Graditissimo gentile pensiero prego gradire saluto paese festante »

Il sindaco di Portogruaro, cav. Fabris inviò telegrammi al cav. Bonò e all’assessore Bertoldi in S. Donà esprimendo in essi la sua gioia per la festa della città sorella, festa che sarà arra di una prossima ed egualmente solenne e desiderata festa di Portogruaro.»

La Gazzetta di Venezia

L’articolo non è firmato, la Gazzetta di Venezia durante la giornata aveva diverse edizioni e questo articolo è della terza edizione di domenica 28 giugno 1885. E a proposito della Gazzetta di quel tempo veniva messo in risalto come le rivendite di giornali non restassero aperte sino a notte inoltrata ma vi fosse comunque la possibilità di avere copia del giornale sino alla mezzanotte semplicemente « battendo ad uno dei balconi a pianoterra della tipografia a Campo di Sant’Angelo.»

Le vie di comunicazione San Donà-Venezia
Gli orari di navigazione (fonte Gazzetta di Venezia)

Il collegamento ferroviario con Venezia fu per San Donà un salto di qualità incredibile. Erano molti coloro che per esigenze lavorative erano costretti spesso a recarsi a Venezia e sino al 1885 la via più breve era offerta dalla Società Veneta di navigazione a vapore lagunare che aveva un collegamento diretto al giorno con Venezia con partenza alle ore 5 da San Donà e arrivo a Venezia alle 8.15, con partenza da Venezia alle ore 16 e arrivo a San Donà alle ore 19.15. Non propriamente orari e viaggi comodi per i viaggiatori. Con la Ferrovia dal giorno 29 giugno 1885 i treni da San Donà furono tre e altrettanti quelli da Venezia. Partenze da San Donà alle ore 5.15, 12.10 e 17.18; Da Venezia 7.38, 14.35 e 19.40. Accanato agli orari dei treni che giornalmente apparivano sulla Gazzetta di Venezia, da martedì 30 giugno 1885 fu possibile trovare anche quelli riguardanti la linea Venezia-Mestre-San Donà di Piave.

Gli orari ferroviari del 30 giugno 1885 (Gazzetta di Venezia)

Per approfondire l’argomento delle ferrovie: 1. «La Società Veneta Ferrovie » di Giovanni Cornolò (Duegi Editrice, 2004)

Bruno Visentin, il « Colombo » che volò in serie A

Gli anni cinquanta furono un periodo particolare per il calcio sandonatese, dai fasti della Serie C ai campionati regionali il passo fu breve e le difficoltà finanziarie immense. Eppure dal vivaio sandonatese uscirono dei giocatori promettentissimi capaci di arrivare sino alla serie A. Uno di questi fu Bruno Visentin. In breve la sua carriera e l’intervista che nel 1974 gli fece il giornalista Gianfranco Bedin per il periodico “Il Piave”.

Gli inizi al San Donà e il trasferimento al Venezia
San Donà 1953-54 Campionato di Promozione
In piedi: massaggiatore Paludetto, Guerrato, VISENTIN, Mion, Calcaterra, Iseppi, Zanon, l’allenatore Depità: Accosciati: Rossetto, Bortoletto, Dolce, Lotto, Zanon

Nella prima annata dopo la Serie C il San Donà si ritrovò a giocare in IV Serie, un campionato interregionale che poco si addiceva alle allora magre finanze sandonatesi, si puntò per cui su una formazione giovane, tra questi anche il diciasettenne Visentin che debuttò in IV serie il 22 marzo 1953 in Legnago-San Donà (2-0). Nei due anni successivi consolidò le sue qualità nella formazione sandonatese militante in Promozione. Grazie ad un accordo con il Venezia in base al quale i migliori giovani sandonatesi approdavano poi alle giovanili neroverdi anche Visentin si trasferì in laguna al termine della stagione 1954-55. Non riùscì a debuttare nella prima squadra del Venezia allora militante in serie C e l’imminenza del militare lo portò presto lontano.

Le prime esperienze in Serie C

Giocò dapprima in IV Serie con i calabresi del Nicastro, quindi al Trapani. Con la squadra siciliana nelle prime due annate giocò poco a causa proprio del servizio militare ma ebbe comunque modo di debuttare in Serie C. Terminato il militare rimase al Trapani un’altra annata. Nel 1960 si trasferì dapprima al Pescara, quindi a novembre passò al Siena.

Con il Bari arriva il debutto in serie A
BARI 1963-1964 (Serie A): In piedi da sinistra: VISENTIN, Magnaghi, Panara, Buccione, Catalano: Accosciati: Ghizzardi, Gianmarinaro, Baccari, Carrano, Galletti, Rossi

Nella stagione 1961-62 il passo decisivo nella sua carriera avvenne con il trasferimento al Bari. Un’ascesa continua che lo vide prima debuttare in serie B, quindi ottenere la promozione nella massima serie nel 1962-63 quando il Bari allenato da Pietro Magni arrivò al secondo posto a pari merito con la Lazio, dietro la sorpresa Messina. Nel 1963-64 Bruno Visentin debuttò in serie A il 25 settembre 1963 in Juventus-Bari (4-0), una stagione travagliata per i baresi che alla fine retrocessero. Visentin disputò 29 gare con 1 rete segnata (in Modena-Bari 1-1) .

Nel Cagliari di Silvestri e Riva il punto più alto della sua carriera
CAGLIARI 1964-1965: In piedi da sinistra: Nenè, Longo, Spinosi, Gallardo, Riva, VISENTIN; Accosciati: Colombo, Tiddia, Cera, Martiradonna, Greatti
La prima di cinque parti del racconto della Storia del Cagliari che arriverà allo scudetto, tra i protagonisti nei primi anni anche Visentin

Nel 1964 passò al Cagliari, squadra allenata da Arturo Silvestri e neopromossa in serie A. Proprio Silvestri lo volle al Cagliari in quella che sarà la prima stagione in serie A nella storia dei rossoblu sardi. Visentin giocò due campionati da titolare con la maglia cagliaritana, poi con Silvestri che passò al Milan e l’arrivo di Scopigno, Visentin giocò decisamente meno. E’ però una squadra sarda in evoluzione e nella quale si stanno gettando le basi per quella che nel 1970 porterà il Cagliari a festeggiare uno storico scudetto, e con molti di quei vincenti protagonisti Visentin ebbe modo di giocare. Nel 1967 terminato il campionato il Cagliari si trasferì negli Stati Uniti per partecipare a quello che sarà il primo campionato statunitense. In via straordinaria vennero ingaggiate intere squadre di ogni parte del mondo che per l’occasione indossarono le maglie di squadre americane, i cagliaritani indossarono quella dei Chicago Mustangs. Anche Visentin fu tra i partecipanti, cagliaritani che arrivarono terzi, con Boninsegna capocannoniere.

L’esperienza al Padova e il ritorno a San Donà

Nel campionato 1967-68 Visentin si avvicinò a casa passando al Padova in serie B. Dopo un buon primo campionato, nella seconda stagione disputò poche gare meditando il ritiro. Pur tuttavia nel 1969 accettò la proposta del presidente Mucelli e divenne un giocatore del San Donà per quella che sarà la sua ultima annata da calciatore. In totale sono state 85 le sue presenze in Serie A (5 reti), 90 in serie B (6 reti), mentre con il San Donà ha giocato 59 gare segnando 15 reti.

La breve esperienza da allenatore

Come allenatore nella stagione 1972-73 ebbe modo di sedere sulla panchina biancoceleste subentrando a campionato in corso a Sergio Manente, esperienza che durò solo poche gare prima che venisse richiamato Manente. In precedenza da allenatore aveva portato al massimo campionato regionale prima la Miranese e poi lo Spinea. Nel 1973-74 divenne l’allenatore dello Jesolo guidando i nerazzurri in ottobre nelle finali del torneo anglo italiano Coppa Ottorino Barassi cui cui lo Jesolo partecipò per aver vinto la Coppa Italia Dilettanti il 1° luglio 1973 , nel novembre comunque si dimise per delle divergenze con la dirigenza.

L’intervista a “Il Piave” del 7 gennaio 1974 (Anno 7 nr. 1)

di Gianfranco Bedin

Bruno Visentin (Bari) e Elvio Salvori (Udinese)

Il nostro album dei ricordi delle vecchie glorie ci porta a conoscere un altro personaggio della nostra ricca storia calcistica: Bruno Visentin. Lo chiamavano « colombo » all’epoca della sua infanzia pedatoria per la piccola statura, ma anche per le sue doti di cursore instancabile a tutto campo. Un Benetti del calcio attuale, per capirci. Da ragazzino, come madre natura vuole, Bruno divenne poi un uomo robusto, da aspirante calciatore divenne uno dei protagonisti delle scene calcistiche nazionali, ma per gli amici è sempre « il colombo ». Visentin è molto legato alla famiglia. Sposato con la simpaticissima e « terribile » signora Franca, i suoi gioielli, come Cornelia, sono i figli Stefano e Deborah. Ma la sua grande passione, la sua seconda passione, la sua seconda famiglia è però sempre il foot-ball. Appese le scarpe al chiodo, si è dedicato al difficile mestiere di allenatore, dedicando il tempo libero alla vita….. agreste. Gioie, dolori e avvenimenti di un calciatore, Bruno Visentin li ricorda nella nosra intervista.

Quale è il ricordo più bello della tua lunga carriera calcistica? Il mio primo anno nel cagliari segnai il goal del 2 a 1 a sfavore del Milan. All’Amsicora, con quella sconfitta all’ultima giornata, il Milan perse lo scudetto che fu vinto dall’Inter.

E il più brutto ricordo? I tre anni che ho trascorso a Trapani. Causa il servizio militare non ho potuto giocare per quasi due campionati. Ho dovuto poi ricominciare tutto da capo e ciò mi è costato notevoli sacrifici. Altra delusione è stata la retrocessione del Bari nel campionato 1963-64 dalla serie A a quella cadetta.

Cosa ti ha dato il calcio nella vita? Tutto. Grosse soddisfazioni morali, mi ha reso indipendente, ma soprattutto mi ha dato la possibilità di girare il mondo. Tranne la Russia e la Cina posso dire di aver visitato quasi tutte le nazioni.

Quali sono stati i giocatori più famosi che hai avuto al tuo fianco? Gigi Riva e Roberto Boninsegna, tra quelli ancora in attività.

Parlami di Gigi Riva. Lo ricordo fortissimo nei suoi primi exploit cagliaritano. Ora rende un quarto delle sue reali possibilità perchè è costretto, a furor di popolo, a giocare al centro per fare i gol. Gli sportivi e la stampa stessa non vogliono altro da lui e questo lo danneggia. Così si spega anche l’esclusione di Boninsegna dalla Nazionale, un giocatore che reputo fortissimo: Riva è grande all’ala, Bonimba è fortissimo al centro dell’attacco.

Quali sono stati i tuoi più grandi maestri? Tommaso Maestrelli,ora allenatore della Lazio, e Arturo Silvestri, allenatore del Geonoa. Sono due tecnici che ottengono gli stessi risultati seppur usando metodi diversi: il primo con la…carota, il secondo usando il…bastone.

La tua carriera di allenatore ci sembra però avara di soddisfazioni. Non è vero perchè con la Miranese ho ottenuto la « promozione » dalla prima categoria alla promozione, con lo Spinea ho ottenuto lo stesso traguardo, dando quattordici punti di distacco alla seconda classificata, e sempre in una sola stagione. Questi risultati li ho ottenuti perchè avevo carta bianca da parte dei dirigenti delle rispettive società. Quando questi presupposti, che reputo essenziali per un allenatore, sono venuti meno, ho rassegnato le dimissioni. L’anno scorso ho collaborato con il San Donà. Quest’anno a Jesolo, pur essendo partito con una squadra in grado di vincere il campionato, mi sono trovato contro, sin dai primi allenamenti, tutti gli sportivi jesolani (ndr: abbiamo assistito anche noi nella coppa Barassi all’incivile e deprecabile linciaggio morale del tecnico) le cui insensate proteste nei miei confronti sono culminate nel duplice confronto internazionale tra lo Jesolo e il Walton.

Quale sarà il tuo futuro di allenatore? Sono deciso a continuare perchè sono innamorato del gioco del calcio, con la speranza di trovare nella mia strada dirigenti competenti che mi lascino lavorare in pace e che giudichino eventualmente il mio operato alla fine della stagione sportiva.

Come trascorri il tempo libero? Ho l’hobby della pesca ma la mia attività è rivolta principalmente ad un piccolo appezzamento di terreno che ho adibito in parte a vigneto ed in parte ad allevamento di conigli. Ho sempre vissuto all’aria aperta giocando al pallone ed ora che ho smesso voglio continuare perchè oltre che salutare è bellissimo. Sono sempre stato innamorato della natura.

BRUNO VISENTIN nelle figurine Panini

I Protagonisti del calcio sandonatese: 1. Francesco Canella “Dall’Oratorio al tetto del mondo”; 2. Arturo Silvestri con lo scudetto sul petto nella stagione 1951-52; 3. Guerin Sportivo | Adriano Meacci: «Scusate il ritardo »; 4. Glerean: « Nessun segreto, grande San Donà »; 5. Guerrino Striuli « Il gatto nero »; 6. Elvio Salvori, un sandonatese a Roma; 7. « Bomba » Cornaviera, una vita per il San Donà; 8. Silvano Tommasella, il miglior terzino biancoceleste; 9. « Nanni » Perissinotto, il bomber che stregò la Capitale; 10. Antonio Guerrato, quell’ala destra che non sbagliava una punizione; 11. Orfeo Granzotto: « Così è nato il Sandonà dei sogni »; 12. Bruno Visentin, il « Colombo » che volò in serie A; 13. Angelo Cereser, i suoi inizi sandonatesi visti da Torino; 14. Enzo Ferrari, quel sandonatese famoso prima di esserlo

Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944

Una vista panoramica del secondo dopoguerra, presenti ancora delle macerie del vecchio Teatro Verdi dove poi verrà costruito il cinema teatro Astra (Archivio Luciano Pavan)

Una storia che ne incrocia un’altra e che poi tutte assieme si agganciano all’ultima raccontata.…..

Nel mentre cerchi del materiale per un nuovo post ecco che incroci un atto che si potrebbe pure riassumere ma che in fondo merita di esser riportato per intero giusto per esemplificare di come quei moderni scribi comunali impiegavano lungamente il loro tempo trascrivendo penna inchiostro e calamaio i tanti atti sui vari registri. Nel 1913 avevano già dei registri prestampati ma in questo caso la trascrizione essendo inserita in appendice è stata scritta per intero a mano come accadeva tanti anni addietro.

Dal Registro dei matrimoni del 1913 (Comune di San Donà di Piave)
Comune di San Donà di Piave – Registro degli Atti di Matrimonio del 1913
La trascrizione nel registro dell’atto di matrimonio fra Giuseppe Ferrarese e Silvia Maddalena Bastianetto (1913)

« L’anno millenovecentotredici e questo giorno di lunedì otto del mese di dicembre alle ore antimeridiane undici e mezza nella Casa posta in via Sabbioni Numero ventotto.

Io sottoscritto, Bertoldi Dottor Ugo Commissario Prefettizio, nominato con decreto ventiquattro novembre anno corrente, ufficiale dello Stato Civile del Comune di San Donà di Piave accompagnato dal Segretario municipale Signor Gnudi Odoardo.

Sulla richiesta fatta dal Signor Nardini Carlo, mi sono trasferito in questa Casa per la celebrazione del matrimonio tra i signori: Ferrarese Giuseppe di anni trentacinque, industriante, nato e residente a San Donà di Piave, figlio di fu Antonio, era sarto, residente in vita a San Donà di Piave, e di Paquola Domenica residente in San Donà di Piave, celibe; Bastianetto Silvia Maddalena di anni trentatre, casalinga, nata e residente in San Donà di Piave, figlia dei furono Giambattista, era carpentiere, e Bernardi Teresa casalinga, residenti in vita a San Donà di Piave, nubile, e per motivo giustificato dal certificato medico del Dottor Perin presentatami dallo stesso richiedente di essere lo sposo per la grave infermità nella impossibilità di recarsi alla Casa comunale. Quindi assistito dallo stesso Segretario ho trovato presenti i sunnominati Signori Ferrarese Giuseppe e Bastianetto Silvia Maddalena, il primo giacente a letto, i quali mi hanno dichiarato essere nell’intendimento di voler procedere alla celebrazione del loro matrimonio, e a tale effetto mi hanno presentato la copia degli atti della loro nascita rilasciate da questo ufficiale in data odierna, e mi hanno dichiarato non aver padre né madre adottivi né ostare al loro matrimonio alcun impedimento di parentela o affinità né altro impedimento stabilito dalla legge. Le dichiarazioni fatte dagli sposi sono state davanti a me confermate con giuramento da Fontana Mario fu Casimiro, di anni ventisei, maestro comunale, Sepulcri Giuseppe fu Pietro, di anni cinquantanove, impiegato comunale; Costantin Augusto di Luigi, di anni quarantadue, mastro muratore e Nardini Carlo fu Luigi di anni sessantasei, mediatore, testimoni presenti all’atto e residenti tutti in questo Comune, i quali hanno specialmente accertato non esistere fra gli sposi impedimento di parentela, di affinità e di stato.

Ho quindi letto agli sposi gli articoli 130, 131, 132 del Codice Civile e quindi ho domandato allo sposo se intenda prendere in moglie la qui presente Bastianetto Silvia Maddalena e a questa se intende prendere in marito il qui presente Ferrarese Giuseppe ed avendomi ciascuno risposto affermativamente a piena intelligenza anche dei testimoni sopra indicati ho pronunciato in nome della legge che i medesimi sono uniti in matrimonio.

Dopo di ciò gli sposi suddetti alla presenza degli stessi testimoni mi hanno esposto che dalla loro unione naturale nacquero quattro figli: il primo nel ventidue febbraio milleottocentonovantotto denunziato a questo ufficio dalla levatrice Pravato Teodolinda, iscritto al numero cinquantotto, appellato Cestini Giovanni Battista; il secondo nel ventuno luglio millenovecentodue, iscritto al numero duecentosessantasei, appellato Ferrarese Antonio; il terzo nel tredici ottobre millenovecentocinque, iscritto al numero quattrocentodiciassette, appellato Ferrarese Silvio Giacomo; ed il quarto nel diciotto Giugno millenovecentoundici, iscritto al numero duecentottantanove, appellato Ferrarese Giuseppe, e col presente atto dichiarano di riconoscerli per propri figli all’affetto della loro legittimazione.

I documenti presentati sono le copie degli atti di nascita dei suddetti e il certificato medico del Dottor Perin Pietro, i quali uniti del mio visto sono inseriti nel volume degli allegati a questo registro.

Letto il presente atto agli intervenuti li hanno essi meco firmati.

Atto di matrimonio nr. 2 Parte II serie B, Anno 1913
A quell’atto ne segui a breve un altro

In quell’otto dicembre 1913 venne legalizzata l’unione di fatto di Ferrarese Giovanni con Bastianetto Silvia Maddalena e legittimati i quattro figli Giovanni Battista, Antonio, Silvio Giacomo e Giuseppe, che da quella unione erano nati. Giovanni Ferrarese in quella casa posta in via Sabbioni era nel suo letto di morte, due giorni dopo alle ore sei e trenta del pomeriggio spirò, come attestato dal registro degli atti di morte di quello stesso anno.

Da un ricordo ne nasce un altro
Viale Margherita, sulls destra il Monumento ai caduti, sullo sfondo l’Ospedale civile “Umberto I”, subito dopo iniziava via Sabbioni

Via Sabbioni è tra le strade più vecchie di San Donà, dalla parte terminale di viale Margherita (l’odierna Viale Libertà) vicino l’ospedale Umberto I si arrivava sino alla stazione ferroviaria, allora come oggi. Ed è incredibile come questo episodio abbia un seguito. Raccontato ad una vecchia zia, Stefania, che ha vissuto in via Sabbioni decenni dopo quel matrimonio un filo del ricordo si è riacceso, un filo che dall’oggi è arrivato sino al 10 ottobre 1944.

La San Donà degli anni Quaranta

In via Sabbioni abitavano tantissime persone, chi in case, chi in abitazioni dove il legno era l’elemento principale, baracche più o meno ampie dove le numerose famiglie dell’epoca, portavano avanti la loro esistenza tra le ristrettezze dell’economia di guerra. Ovviamente la zia non conosceva la coppia che si è sposata ma nel sentir i nomi dei figli legittimati in quel 1913 subito ha riconosciuto quello più vecchio. Lei bambina la figura di Titta Ferrarese (Giovanni Battista), lo ricorda bene. Quella nascita nel 1898 lo consegnò alla guerra e ad una ferita che gli segnò la vita successiva e che agli occhi di quella bambina dell’epoca era un segno ben distintivo. In quella via Sabbioni, abitavano diverse famiglie Ferrarese, i Turchetto, i Biancotto ecc.. Mia zia viveva nella famiglia allargata della nonna Marianna Lunardelli che rimasta vedova del marito Giovanni Guiotto si era risposata con Giuseppe Biancotto anche lui vedovo, con figli dell’uno come dell’altro matrimonio a cui si aggiunsero altre tre figlie. In quella via Sabbioni le famiglie spesso avevano parentele trasversali e tutti si conoscevano talvolta più per soprannome che per nome. Questi fattori nella buona come nella cattiva sorte hanno sempre portato ad una piena solidarietà nonostante i tempi di guerra e quel crudo periodo terminale della dittatura fascista che ancor più di prima ti metteva spesso da una parte o dall’altra della barricata.

I bombardamenti del 1944
Uno dei rifugi per fronteggiare i bombardamenti del 1944 (Archivio Giovanni Striuli)

In quel 1944 la guerra aveva toccato concretamente la città. Al risuonar dell’allarme la popolazione cercava un riparo e molti avevano pensato a costruirsi dei rifugi lontano dalle case. Così qua e là erano state predisposti dei ripari scavati nel terreno coperti alla bene e meglio che offrivano un riparo sperabilmente distante dagli obiettivi dei bombardamenti e anche da eventuali schegge che potevano venire dalle bombe che cadevano in prossimità. Senonché in quel 10 ottobre tra gli obiettivi vi fu anche l’ospedale civile. Tante furono le bombe che caddero sul centro cittadino. Oltre all’ospedale numerosi edifici pubblici vennero colpiti, il teatro Verdi fu distrutto, una settantina alla fine saranno le case che subirono gravi conseguenze, altrettante quelle danneggiate.

Quel giorno in via Sabbioni
Le macerie dell’ospedale, sullo sfondo s’intravedono alcune delle case di via Sabbioni

Come detto nelle vicinanze dell’ospedale vi era anche via Sabbioni e dal racconto della zia nei pressi delle case dei Ferrarese vi era sito un rifugio nel quale erano soliti mettersi al riparo in tanti, specialmente donne, bambini, ragazzi. Quel bombardamento del 10 ottobre 1944 sarà un qualcosa che difficilmente coloro che lì si rifugiarono hanno poi dimenticato. In quell’inferno di fuoco che prese di mira l’ospedale inevitabilmente molti ordigni colpirono i dintorni, alcuni caddero anche in prossimità del rifugio. Momenti interminabili seguirono, tra urla e pianti, dai ricordi della zia gli aiuti tardarono ad arrivare e l’uscita bloccata tenne imprigionati i superstiti per infinite ore senza saper bene cosa fosse accaduto fuori. Momenti interminabili che nel ricordo arriva sino ai due giorni, tanto è stato lungo e complicato il farli uscire dal rifugio. Alla fine “Cet” Ferrarese dall’esterno riuscì ad aprire un varco e aiutato dalla moglie vennero fatti uscire tutti uno alla volta. Gli occhi di quei bambini trasformarono la loro paura in sollievo per poi rimanere impietriti dalla distruzione che attorniava l’ospedale ed il tratto di via Sabbioni più prossimo.

Un nome da aggiungere alla triste lista
Via Sabbioni negli anni cinquanta

Nel resoconto presente sul libro “Un soffio di Libertà” tra i caduti di quel bombardamento vi è il nome di Pasquale Turchetto (18 anni), in realtà le perdite per la famiglia Turchetto furono due perché anche una coetanea della zia (8 anni) perse la vita. Il suo nome era Silvana e questo consegnò  ancor più tragicità al ricordo di questo bombardamento mai dimenticato dalla sorella Elsa Turchetto, amica di mia mamma e di mia zia, Elsa in seguito si sposerà con un Ferrarese. Nessuno dimenticò quel bombardamento, spettrale fu la vista che si appalesò agli occhi dei sopravvissuti quando furono riportati alla luce del sole. Attoniti, videro distruzioni in ogni dove e con molti soccorritori ancora all’opera nonostante le tante ore trascorse. Una esperienza che non si può dimenticare e forse è anche per questo che la si è raccontata poco alle generazioni successive, quasi a esorcizzarla per attenuare l’effetto di quel ricordo. Quella ragazzina di 8 anni trovò l’abitazione distrutta nel bombardamento, poco rimaneva in piedi e ci vollero mesi per riuscire a ridare a quei cumuli di rovine una parvenza di casa. Rivedere i propri cari scampati ad infausta sorte fu comunque un sollievo, ed in fondo il vantaggio delle famiglie allargate è che una soluzione si poteva sempre trovare presso parenti e amici…..meno sfortunati.

Quei rami familiari scampati ad un bombardamento
Bombardamento di Treviso del 7 aprile 1944

E giusto perché in famiglia non ci siamo fatti mancare nulla, anche nel bombardamento di Treviso dell’aprile 1944 quel che poi diverrà il ramo paterno rischiò di fare una brutta fine. Durissimo fu il bombardamento che colpì il capoluogo trevigiano, furono quasi mille e cinquecento i morti, infinita la distruzione che subì la città. Con mio padre in guerra da anni, fatalmente armiere aviere in quella Puglia da dove avevano iniziato a partire i caccia bombardardieri , la sua famiglia allora abitava nel quartiere di San Antonino e durante quel bombardamento la loro casa fu completamente distrutta. All’arrivo degli aerei mio zio Luigi si accorse subito che quei bombardieri non portavano nulla di buono, giusto il tempo di avvisar la madre, nonna Italia, e la distruzione si abbattè sulle case del quartiere, solo l’essersi rannicchiati vicino a dei muri portanti lì salvò. Macerie in ogni dove e muri squarciati tanto che tra la polvere si poteva intravedere l’esterno, la nonna sotto shock caricò il figlio più giovane su di una cariola, raccolse poche cose e con i figli arrivò quasi senza rendersene conto sino a Breda dove abitavano dei parenti. Anni dopo quel figlio più giovane di nome Dino, sposò la zia stabilendosi a San Donà. Come del resto mio padre Umberto prima aveva sposato mia madre Anna, che della zia era anche cugina. Gli intrecci della vita come sempre sono infiniti.

L’importanza del ricordo

Piccole storie, ricordi perduti che difficilmente potrebbero lasciar traccia se non li si legasse ad un filo utile per risalirvi. Prigionieri del presente, ci stiamo scordando del passato che granello dopo granello, in questi anni più dei precedenti, sta perdendo un numero sempre maggiore di testimoni viventi. Sono infiniti i compiti nella società attuale che vengono affidati ai nonni, il meno praticato rimane sempre quello del ricordo quasi fosse inutile ed invece costituisce uno strumento prezioso sia per chi lo porge che per chi lo riceve, perchè il ricordo non ha futuro se non ha un testimone in grado di tenerlo acceso.

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

(1 – Prima parte « Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti »); (2 – Seconda parte « Morte e distruzione nel tragico autunno 1944 »); (3 – Terza parte)

Morte e distruzione nel tragico autunno 1944

Il ponte stradale distrutto dopo essere stato numerose volte obiettivo dei bombardamenti del 1944

L’estate non era destinata a lasciare tranquilla la popolazione sandonatese. L’oppressione germanica si faceva sempre più stringente, a cui si contrapponevano sempre più apertamente le formazioni partigiane le cui fila si erano rinfoltite dei tanti militari che tornavano dal fronte e ai quali l’armistizio aveva imposto l’adesione alla Repubblica di Salò o in alternativa la prigionia o la clandestinità. E in tutto questo contesto vi era anche la variante di quanti fedeli prima al fascismo ora lo erano alla Repubblica di Salò con divisioni insite nelle stesse famiglie e nelle tante amicizie cui le notizie che arrivavano degli sviluppi della guerra regalavano speranze e disillusioni di una fine prossima. Mesi nei quali si moltiplicarono anche gli arresti e con essi le esecuzioni e le deportazioni. Tra queste anche quella di Attilio Rizzo, grande collaboratore di Monsignor Saretta, che divenne un importante esponente della Resistenza sandonatese prima di venire arrestato a metà agosto e deportato in Germania, dove morì nel gennaio del 1945. Tra i ricordi tristi ovviamente anche quello legato ai Tredici Martiri, la gran parte originaria del sandonatese e uccisi come rappresaglia ad un attentato avvenuto a Venezia.

Il bombardamento del 23 settembre 1944
Il ponte ferroviario distrutto nel 1944

A fine agosto i bombardamenti alleati colpirono il ponte della ferrovia, un obiettivo ricorrente nelle incursioni aeree di quelle settimane. Le vie di comunicazione stradali e ferroviarie erano un obiettivo importante alla pari di quelle telefoniche e telegrafiche. Ma bombardamenti ben più duri erano all’orizzonte. Il 23 settembre 1944 in diverse ondate successive gli aerei alleati sganciarono su San Donà circa 200 bombe. Sia il ponte stradale che quello ferroviario vennero colpiti e si registrarono numerose vittime, ben cinque di una sola famiglia poi salite a sei. Del ponte ferroviario venne distrutta la prima campata, mentre di quello stradale ad essere colpita fu l’ultimo tratto verso Musile. Danni riportarono la conduttura elettrica e quella dell’acquedotto e le stesse linee telefoniche vennero danneggiate. Danni importanti anche alle strade arginali, colpite anche Isiata e Mussetta di Sotto. Un giorno triste per i sandonatesi, quello seguente avrebbe dovuto essere come da tradizione dedicato alla Madonna del Colera con le cresime officiate dal Vescovo ma il tutto venne rinviato proprio per il pericolo incombente dei bombardamenti.

I nomi dei caduti del 23 settembre 1944

Sul libro di Morena Biason “Un Soffio di Libertà” vengono riportati i nominativi dei morti di quel cruento bombardamento. In una casa di via Code distrutta dalle bombe morirono cinque componenti della famiglia Ongaretto: il padre Luigi (35 anni), la moglie Vallese Germana (29 anni), la suocera Orlando Caterina (52 anni) e le figlie Giselda e Vittorina (4 anni), quest’ultima morì in ospedale e sempre in ospedale erano stati ricoverati i figli Diego (7 anni) e Angelo (10 anni), come la sorellina anche Angelo morì giorni dopo portando a sei componenti il tributo di sangue della famiglia Ongaretto. Gli altri caduti furono il marinaio Cigar Carlo (25 anni, di stanza alla Caserma San Marco di San Donà), il commerciante Luigi Marigonda (51 anni), il tipografo Davide Armellin (28 anni) e l’operaia dello jutificio Brussolo Orietta (30 anni). Qualche giorno dopo tra i feriti morirà anche Caterina Zanchetta (56 anni), per cui le vittime di quel bombardamento dalle iniziali nove passarono a undici.

4 ottobre 1944 nuovamente colpito il ponte della ferrovia

I bombardamenti divennero continui nei giorni successivi e nemmeno la Fiera d’Ottobre trovò spazio nei pensieri dei sandonatesi. Il 4 ottobre un nuovo pesante bombardamento subì il ponte della ferrovia, anche gli argini vennero duramente danneggiati e compromessi i lavori di ripristino iniziati dopo il precedente bombardamento. A finire sotto il fuoco alleato anche un barcone di ghiaia transitante lungo il Piave, miracolosamente furono solo feriti i due componenti l’equipaggio, padre e figlio.

10 ottobre 1944 pioggia di fuoco su San Donà
L’Ospedale civile “Umberto I” di San Donà di Piave

E’ il 10 ottobre 1944 la data che rimarrà indelebile nei ricordi dei sandonatesi. In quella grigia giornata di ottobre non fu bombardata solo San Donà di Piave ma lo furono anche Porto Marghera e Treviso. Oltre cento bombardieri mossero in direzione del Veneto, molti furono quelli che puntarono verso quella città lungo il Piave i cui ponti erano stati colpiti ripetutamente nelle settimane precedenti di nome San Donà. Sembrava una giornata di ordinario bombardamento invece questa volta non furono i ponti il vero obiettivo della missione. Quei primi bombardieri che si calarono tra le basse nuvole sganciarono le loro bombe sul centro cittadino quasi a marcare l’obiettivo principale. Seguì una lunga scia di fuoco che cinse le vie del centro concentrandosi particolarmente sull’ospedale civile e gli edifici in Viale Margherita. Ancora una volta l’ospedale sandonatese pagò un caro prezzo come già era successo durante la prima guerra mondiale. Da poco non si fregiava più del nome di “Umberto I”, quel legame con i Savoia non era più gradito dalle autorità fasciste dopo l’armistizio firmato da Vittorio Emanuele III e la susseguente fuga oltre le linee alleate. L’ospedale divenne un grande cumulo di macerie, sia l’artistica struttura verso viale Margherita che i padiglioni ad un solo piano posti dietro furono duramente colpiti. Delle 85 persone presenti all’interno dell’ospedale tra pazienti e personale, furono 24 i morti e 45 i feriti.

Alcune testimonianze di quel giorno
L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

Sul libro dedicato al centenario dell’ospedale “L’ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000” vengono riportate due testimonianze di quel giorno. Il segretario-economo Filiputti: « […] appena ho sentito il rumore degli aerei che si avvicinavano ho detto a Bepi Da Villa che andasse ad avvertire suor Carla e poi, appena il pericolo è diventato incombente, ho visto tanta gente che correva verso il campanile e la chiesa, ed alle spalle sentivo già il fruscio delle bombe che arrivavano e colpivano l’Ospedale. Tra le vittime ricordo la figlia di Centioli, che frequentava l’Ospedale come volontaria e tra le suore, suor Ildefonda Lupi e suor Angiolina Giusto. Ricordo che al momento di rifugiarmi nel campanile ho incontrato il dottor Bruno Nardini. Ma alla tragedia si è cercato subito di rispondere con provvedimenti per gli ammalati e i feriti. Particolarmente incisiva è stata l’azione del Comm. Giovanni Ronchi che ha fatto portare quanto possibile, ricordo in particolare anche della paglia, per predisporre dei giacigli nella caserma come primo improvvisato ricovero per i feriti e gli ammalati che non era possibile trasportare, con mezzi militari, agli ospedali di Oderzo o di Motta di Livenza… ». La seconda testimonianza è del prof. Arnaldo Balbi Guarinoni che all’epoca dei bombardamento era uno studente di medicina che lavorava all’Ospedale civile: « San Donà era una zona piuttosto calda ed era da qualche giorno sorvolata di continuo da delle fortezze volanti, quella mattina volavano più basso del solito. Qualche attimo prima delle 11 avevamo intuito il pericolo e con alcuni pazienti ho abbandonato l’ospedale trovando rifugio sotto le mura di cinta. Ho visto le fortezze volanti sopra di me, ho gridato « semo morti ». Poco dopo siamo stati avvolti da palle di fuoco, colpi tremendi, sembrava la fine del mondo. Quando mi sono rialzato, quelli che erano con me non c’erano più, nemmeno il bambino che avevo sotto il braccio e del quale non sapevo nemmeno il nome. L’ospedale era completamente distrutto…. ».

Ovunque macerie fumanti a invadere le strade
La casa Girardi in Viale Margherita

In viale Margherita oltre all’ospedale furono colpite anche le carceri e il panificio Fasan. Danni anche al Palazzo Comunale, alla Centrale dei telefoni di Stato, alla scuola elementare del centro. In via Ancillotto venne distrutto anche il teatro Verdi, con la vicina tipografia SPES, il panificio Trivellini. Ingenti danni subì anche il Piccolo Rifugio. Come racconta Savio Teker nel suo libro (1), Lucia Schiavinato alle prime avvisaglie aveva fatto uscire quanti più ospiti fosse possibile mettendoli al riparo di un vicino fossato. Le bombe colpirono l’edificio, quando fu tornata la calma immaginando quel che avrebbe trovato all’interno cercò di correre verso il vicino ospedale per chiamare un medico, ma fece solo pochi passi l’ospedale non esisteva più. Al Piccolo Rifugio saranno sei le vittime. Molti saranno comunque i medici che miracolosamente si salvarono dalla distruzione dell’ospedale e che subito si prodigarono nel soccorrere i feriti. A decine furono i feriti curati sul posto, tanti quelli trasportati con mezzi di fortuna verso altri ospedali. Ovunque un panorama di case danneggiate e di sopravvissuti alla strenua ricerca dei propri cari e delle loro povere cose da salvare tra le macerie. Per molti anche quel poco era ben poca cosa perchè il tutto era racchiuso in baracche che niente potevano opporre all’impeto delle esplosioni di un bombardamento. Una settantina furono le case distrutte, altrettante quelle danneggiate. Ai tanti sfollati delle settimane precedenti che avevano lasciato San Donà si aggiunsero ora i tanti che la loro casa l’avevano perduta, o che abbandonata momentaneamente la ritrovarono distrutta. Un’emergenza che San Donà visse per molti anni a venire di un dopoguerra non troppo lontano, ma che per chi stava vivendo quelle tragedie era ancora solo una speranza.

Articolo del Gazzettino del 12 ottobre 1944
L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

Nel libro di Morena Biason “Un soffio di Libertà” vengono riportati ampi stralci dell’articolo del Gazzettino del 12 ottobre scritti dall’inviato Alfonso Comaschi:

Chi entra in Paese dalla strada di Venezia intuisce la gravità della tragedia a destra e a sinistra dell’arteria principale infatti i maggiori edifici appaiono irrimediabilmente distrutti. Un cratere immenso sbarra la via nel fondo di essa : una sedia in frantumi e una bottiglia intera. Poco più avanti le macerie della Pretura e dell’edificio delle Assicurazioni «La Cattolica», che le sorgeva di fronte, si sono quasi riunite attraverso la via. Anche l’albergo del «Leon Bianco» mostra tra le imposte sconnesse e tra le larghe fenditure dei muri le rovine dell’interno.

Via Giannino Ancillotto presenta un aspetto se è possibile ancora più desolato sulla destra il grandioso edificio del teatro Verdi e altri minori immobili sono completamente rasi al suolo fra le innumerevoli voragini aperte da altre bombe che sono cadute nelle vicinanze: anche Piazza Margherita così aggraziata nella sua cintura di verde, denuncia subito le sue ferite di guerra e più avanti tutta Via Dante è un solo ammasso di macerie.

La Pianta dell’ospedale con i vari padiglioni a solo piano terra

Così pure il Piccolo Rifugio appare irrimediabilmente colpito. Era quest’ultimo un ricoveri di vecchi […]   E’ il primo dei luoghi più colpiti, ed è quello che ha subito i danni minori; pure tra le sue macerie rinserra ancora delle vittime. Infatti all’angolo di Viale Margherita la Casa di Ricovero, che fu dedicata ai Caduti della guerra scorsa, pur mantenendo un aspetto non molto dissimile dall’ordinario nelle sue linee esterne, sembra stranamente vuotata dall’interno e rivela gli irreparabili guasti dell’edificio la cui rovina suona doppiamente sacrilegio e per lo scopo cui esso era destinato, in quanto raccoglieva quasi un centinaio di vecchi e per l’affronto fatto alla memoria dei Caduti in onore dei quali era stato innalzato.

Di fronte un gruppo di case è irreparabilmente danneggiato e, accanto un’abitazione civile è stata quasi fatta scomparire dalla violenza dell’esplosione. In questa zona è caduto il maggior numero di bombe in quanto costituisce evidentemente il nucleo dell’obbiettivo. Sembrerebbe impossibile perché proprio qui sorgeva l’Ospedale Civile, ma il centinaio di bombe che vi sono state sganciate non lascia dubbi in proposito.

Gli aerei nemici erano apparsi sul cielo di San Donà verso le 11; erano chiaramente distinguibili dato che a causa del soffitto di nubi molto basso, volavano a quota inferiore alla solita, poco più di un migliaio di metri; anzi, prima che il grosso, a varie ondate si avvicendasse con larghi e lenti giri sull’obbiettivo, un primo gruppo di aerei, da minor altezza sganciava le prime bombe, verosimilmente per circoscrivere il bersaglio. E il bersaglio non poteva essere che l’Ospedale civile malgrado fosse chiaramente distinguibile come tale anche per la pianta a corpo centrale e dai padiglioni, caratteristica di tali tipi di moderni edifici, oltre che per il fatto di essere in maniera inequivocabile contrassegnato dagli emblemi della Croce Rossa.

L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

L’ospedale era un edificio a tre piani e di vari padiglioni; bisogna dire era, perché oggi non si può assolutamente dare neppure il nome di edificio a questo misero ammasso di mattoni e di solette di cemento, di tralicci e di architravi che ingombravano il terreno una volta coperto dalla raccolta ombra dei pini marittimi, ruderi sparsi a ricolmare le voragini delle esplosioni.

Dei tre piani della costruzione centrale sono rimaste in piedi tre colonne; della Cappella un muro che minaccia di crollare, alla base di questo si intravvede, sotto il velo di polvere, presso un angelo decapitato d’alabastro la tovaglia dell’altare. Passando di qua, qualche secondo dopo la rovina, col cuore stretto, nel tentativo di portare aiuto a chi aiuto potesse ancora ricevere, il primario prof. Binotto, ancora stordito dallo scroscio della rovina, si sentiva chiamare per nome; era Don Carlo il Cappellano che era rimasto seppellito, vivo fortunatamente, sotto le macerie della Chiesetta dedicata a Sant’Antonio.

Il primario del resto, come tutti gli altri medici possono veramente dirsi salvi per miracolo, in quanto tutti, si trovavano sul posto, che naturalmente non abbandonarono durante l’incursione. Anche il Commissario Prefettizio Ronchi che pure si trovava in sede e vi rimase durante la distruzione, si prodigò per i primi soccorsi. Purtroppo due suore hanno trovato la morte accanto ai loro malati; una gravemente ferita; un’altra, che è stata dissepolta dopo cinque ore, versa pure in gravissime condizioni. Anche un’assistente sanitaria è morta al suo posto; era la figlia del dott. Veronese, l’odontoiatra della cittadina.

L’Ospedale civile “Umberto I” distrutto il 10 ottobre 1944

E’ forse impossibile descrivere lo stato dei padiglioni; quello più intatto – ma si può dire così di questa vasta sala dal soffitto completamente sforacchiato? – è il reparto maschile di chirurgia ed è forse più squallido di quello che non siano le sale totalmente rase al suolo. I letti hanno ancora le lenzuola tese, i comodini sono in parte arrovesciati dalla violenza dello spostamento d’aria e hanno sparso le poche suppellettili dei ricoverati; la fotografia di un bambino o un libro, l’immagine di un Santo o «parole incrociate» lasciate interrotte. Sopra un letto c’è ancora un cartoccio d’uva, su tutto pesa, come un incubo, il velo di polvere sollevato dallo scoppio, che traveste di una nevicata macabra i poveri oggetti che popolano le corsie degli ospedali. Più avanti nella sala operatoria, la lampada «sineumbra», miracolosamente intatta, oscilla, appesa ai fili della sospensione; sotto, nella devastazione, la stanza rivela l’aspetto tipico di un’operazione appena terminata. Il paziente, appena finito di operare, strappato si può dire alla morte dalla mano fraterna del chirurgo, è stato travolto e ucciso dal crollo della sala, dove era stato riportato. Ma le perdite più gravi si sono avite nel padiglione ostetrico. Tutte le puerpere vi hanno trovato un’orribile morte; meno una: questa però ha avuto lo strazio di vedersi orbata della creatura appena nata.

Fuori del recinto dell’ospedale, poco più avanti, fuori del viale Margherita, gli abitanti del popolare quartiere dei «Sabbioni» cercano fra le rovine delle loro modeste casette le poche suppellettili che si son salvate o la reliquia di qualche oggetto caro. Sono dei lavoratori che, per la maggior parte avevano costruito la casa con i loro risparmi; qualcuno materialmente con le sue mani; una vecchia rialza dalle rovine in cui sta frugando il volto sbigottito dall’orrore e dall’amarezza e chiede meccanicamente: «Perché?»; e il silenzio della città deserta sembra riempirsi di questa vana interrogazione senza risposta.

I morti del bombardamento del 10 ottobre 1944
I funerali dei bombardamenti di ottobre 1944 (archivio Giovanni Striuli)

Sul libro di Morena Biason “Un Soffio di Libertà” vengono riportati i nominativi dei 45 caduti del tragico bombardamento del 10 ottobre 1944: i fratelli Gonellotto Angelino (23 anni) e Silvio (18), braccianti, sulla pubblica via; Ianna Sofia (40 anni), casalinga, sulla pubblica via; Boccato Angelo (60 anni), fruttivendolo, abitazione; i soldati Crespi Francesco (20 anni) e Nardo Luigi (28 anni) pubblica via; il soldato Raccanelli Isidoro (37 anni), abitazione; Turchetto Pasquale (18 anni), bracciante, abitazione; il possidente Bortolotto Giuseppe (68 anni) e la moglie Bertoncello Elena (65 anni), abitazione; Cecchetto Regina (78 anni), casalinga, abitazione; Centioli Teresa (19 anni), casalinga, abitazione; Stefani Teresa Jolanda (28 anni), casalinga, abitazione; Vallese Irma (39 anni), casalinga, abitazione; Biancotto Antonio (50 anni), manovale, ospedale; Fantin Antonio (63 anni) bracciante, ospedale; Segato Venanzio (15 anni), mezzadro, ospedale; Penso Paolo (55 anni), impiegato, ospedale e la moglie Vescovo Clorinda (52 anni), casalinga pubblica via; Bizzaro Anna (48 anni), casalinga, ospedale; Perissinotto Angela (35 anni), casalinga, ospedale; Tonon Maria (40 anni), casalinga, ospedale; Bottan Anna (59 anni), lavandaia presso ospedale, ospedale; Veronese Lucia (16 anni), studentessa, ospedale; Contarin Veronica (40 anni), infermiera, ospedale; Rovere Rina (25 anni), infermiera, ospedale; Luppi Giuseppina “suor Ildefonsa” (40 anni), suora, ospedale; Giusto Maria ” suor Angiolina” (33 anni), suora, ospedale; Badanai Santa (41 anni), casalinga, ospedale; Bonora Iolanda (30 anni), casalinga e il figlio Fusaro Dante (15 giorni), ospedale; Bortoluzzi Luigia (40 anni), casalinga, ospedale; Cappelletto Gina (19 anni), casalinga, ospedale; Gaiotto Maria (67 anni), casalinga, ospedale; Bobbo Maria (25 anni), casalina, e la figlia Merani Rita (3 giorni), ospedale; Ongaro Giuseppe (35 anni), bracciante, ospedale; Tolon Giuseppe (12 anni), ospedale; Cupresi Casimira (6 giorni), ospedale; Sari Jolanda (25 anni), ospedale, di lei furono trovati solo dei resti umani che solo in secondo tempo si pensa possano essere associati al suo nome; Bellese Maria (3 anni), Piccolo Rifugio; Orlando Maria (81 anni), invalida, Piccolo Rifugio; Fingolo Maria (77 anni), invalida, Piccolo Rifugio; Trevisiol Giovanna (8 anni), Piccolo Rifugio; Maschietto Antonio (76 anni), invalido, Piccolo Rifugio.

Il peggior bombardamento, non l’ultimo
L’interno della chiesetta dell’Ospedale “Umberto I” distrutta nel 1944

La distruzione dell’ospedale diffuse ancor più terrore nella popolazione civile e molti scelsero di abbandonare il centro cittadino, tanto più che quello non fu l’ultimo bombardamento. Molti altri ne seguirono seppur non con quelle stesse tragiche conseguenze. Tra tutti si ricorda quello del 22 novembre che distrusse ancor di più il ponte della ferrovia. Ricorda Savio Taker nel suo libro (2) il numero delle famiglie sfollate e i paesi dei dintorni nei quali erano state accolte. Con scrupolo all’epoca Monsignor Saretta tenne aggiornato questo elenco con tanto di pubblicazione nel foglietto parrocchiale e a turno si recava nei vari paesi a visitare le famiglie sfollate, l’arciprete non aveva dimenticato della perigliosa profuganza a cui lui e tanti sandonatesi erano stati costretti durante la prima guerra mondiale. Tanti mesi mancavano prima di arrivare alla fine della guerra e le tragedie non erano ancora terminate. L’emergenza principale dopo quel tragico bombardamento fu sostituire l’ospedale che da allora venne trasferito provvisoriamente presso Villa Ancillotto. Solo nel dopoguerra venne iniziata la costruzione del nuovo Ospedale Civile dove ancor oggi si trova, nemmeno quella fu impresa facile e ci vollero parecchi anni prima di vederlo inaugurato nel 1953, ma questa è un’altra storia.

(1 – Prima parte « Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti »); (2 – Seconda parte); (3 – Terza parte « Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944 »)

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti

Nel 1940 l’Italia entra in guerra a fianco della Germania, l’esercito italiano verrà impegnato in tanti fronti ma alla fine sarà la popolazione italiana tutta a ritrovarsi al fronte stretta tra eserciti stranieri, italiani contro e distruttivi bombardamenti. Il peggior flagello che l’Italia ricordi e anche San Donà ne pagò un prezzo.

Il Monumento ai Caduti di San Donà di Piave

L’Italia in guerra vi entrò nel 1940 ma già dagli anni Trenta i soldati italiani stavano combattendo in molti fronti, presenti in Libia e in Somalia gli italiani conquistarono l’Etiopia nel 1936 occupando poi l’Albania nel 1939. Conflitti che dal punto di vista economico avevano minato le finanze italiche, tanto più che l’autarchia di regime contrapposta alle sanzioni internazionali non avevano regalato prospettive dorate alla popolazione italiana sempre più alle prese con pesanti ristrettezze. Con il 10 giugno 1940 l’entrata in guerra a fianco della Germania contro Francia ed Inghilterra non fa che acuire i problemi ma al tempo stesso rende esplicito quel prezzo che si dovrà pagare alla guerra. Se da un lato continuano i tanti arruolamenti degli elementi più e meno giovani della popolazione dall’altro già nella notte tra il 10 e l’11 giugno Torino e Genova subirono il primo bombardamento da parte della RAF inglese. Il settore industriale di Liguria, Piemonte e Lombardia divenne un obiettivo delle incursioni aeree notturne inglesi e francesi, ma anche le raffinerie di Porto Marghera subirono il loro primo attacco aereo francese nella notte tra il 13 e il 14 giugno. Francesi che di lì a poco saranno costretti alla resa dall’invasione nazista e contro cui solo poco prima della resa l’esercito italiano aveva iniziato ad avanzare da sud. Se la minaccia francese venne meno grazie al governo collaborazionista di Vichy, i bombardamenti continuarono negli anni a venire da parte di inglesi e alleati: inizialmente ebbero obiettivi economici e bellici, ma che nel proseguo del conflitto mondiale videro sempre più colpita la popolazione civile e lo stesso patrimonio artistico italiano ne pagò un caro prezzo.

In guerra anche contro gli Stati Uniti

Nel dicembre 1941 gli Stati Uniti subirono l’attacco giapponese a Pearl Harbour e la loro neutralità venne meno, subito dopo la Germania e l’Italia dichiararono guerra agli Stati Uniti in nome dell’alleanza instaurata con il Giappone. Se inizialmente le forze dell’Asse trassero beneficio dal tener impegnato il nemico americano da parte dell’alleato giapponese, poi le sorti del conflitto cambiarono quando un anno dopo gli Stati Uniti rinforzarono gli inglesi in Africa dove gli italiani prima e i tedeschi poi avevano attaccato l’Egitto controllato dagli inglesi. Nel mezzo vi era stata la rovinosa invasione della Russia da parte delle truppe dell’Asse, che costò carissimo alla Germania e ai suoi alleati. Tra offensive e controffensive furono soprattutto i due inverni russi a mietere migliaia di morti. Un’Italia in guerra su infiniti fronti ma che già prima del 1939 era conscia della propria impreparazione militare e che suo malgrado ora vedeva le sue truppe impegnate in Etiopia, nel Nord Africa, in Russia, in Grecia, in Jugoslavia.

La guerra alle porte di casa
19 luglio 1943 il bombardamento di Roma, 3mila morti e 11mila feriti

Con la sconfitta in Nord-Africa, per l’Italia le prospettive si fecero rapidamente cupe. Gli angloamericani sbarcarono il 10 luglio 1943 in Sicilia, nel giro di poche settimane arrivarono a controllare l’isola. Un incontro di Mussolini con Hitler nei pressi di Feltre non offrì vie d’uscita all’Italia tanto che in quelle stesse ore un pesante bombardamento aereo alleato colpì per la prima volta Roma. Lo stesso Mussolini venne messo in minoranza il 25 luglio dal Gran Consiglio del Fascismo e successivamente fu dimissionato da Vittorio Emanuele III, imprigionato, e sostituito con Badoglio. Quella via d’uscita la monarchia pensò di trovarla firmando un armistizio con gli alleati, e reso pubblico l’8 settembre, il re e il governo italiano presero la via prima di Pescara e poi di Brindisi. La reazione tedesca fu violenta tanto che liberarono Mussolini il 12 settembre e attuarono quello che avevano sempre fatto in ogni altro paese dell’Asse ribelle: controllo militare tedesco e costituzione di un governo amico, in questo caso la Repubblica di Salò con a capo nuovamente Mussolini. Con l’esercito italiano in rotta e i comandi senza ordini, per i tedeschi fu gioco facile prendere il sopravvento e requisire armamenti e rifornimenti. Tra l’altro il comando tedesco aveva già previsto un passo indietro italiano e si era quindi preparato ridispiegando e rinforzando le truppe nella penisola. Pesanti furono i bombardamenti che colpirono le città meridionali, gli alleati si preparavano a sbarcare in Puglia, in Calabria e in Campania. Con l’operazione “Slapstick” gli alleati sbarcarono a Taranto e l’armistizio fu una chiave per farlo con il minimo danno, nel giro di qualche settimana riuscirono a controllare l’intera Puglia. Dal punto di vista strategico l’occupazione del Salento permise agli alleati di ripristinare le numerose basi aeree italiane, funzionali sia per l’avanzata nel meridione che per colpire il Nord Italia. E proprio dalla Puglia partirono gli aerei della 15° USAAF che colpirono anche le nostre zone.

Dopo l’armistizio s’intensificano i bombardamenti
7 aprile 1944 bombardamento di Treviso, 1470 morti – “Palazzo dei Trecento”

Se nel settembre 1943 l’Italia cercò una via d’uscita firmando l’armistizio, la massiccia presenza tedesca non rese meno tenace la guerra. Anzi il conflitto divenne più crudo con un ruolo sempre più subalterno dei fascisti della Repubblica di Salò nei confronti dell’esercito germanico divenuto ancor più d’occupazione agli occhi di una popolazione stanca e insofferente. Se da un lato oramai la popolazione italiana a fronte dei tanti bombardamenti aveva per la gran parte abbandonato le città e cercava di tenersi lontano dai possibili obiettivi militari, dall’altro le distruzioni di interi quartieri di una guerra tutt’altro che selettiva fece registrare tante perdite tra la popolazione civile. Uno dei bombardamenti più duri nello scenario veneto fu quello che subì Treviso il 7 aprile 1944 che costò 1470 morti ed una distruzione generalizzata del centro cittadino, ne fece le spese anche il Palazzo dei Trecento, uno dei simboli artistici della città.

La guerra alle porte di casa
Il ponte stradale negli anni trenta

In quei primi mesi del 1944 i bombardamenti di Treviso e quelli continui di Mestre e di Porto Marghera avevano prodotto un alto numero di sfollati che cercarono scampo nelle zone circostanti, non ultima San Donà di Piave che accolse numerose famiglie e riuscì a raccogliere per la diocesi ferita ben cento mila lire di offerte. Ma le stesse autorità di San Donà incominciarono in quella primavera del 1944 ad invitare la popolazione ad abbandonare il centro cittadino e soprattutto a tenersi a distanza da quegli obiettivi militari come potevano essere il ponte stradale e quello ferroviario, sottolineandone le zone e le vie da cui era consigliata l’evacuazione specie di chi non sarebbe stato in grado di farlo celermente in caso di pericolo. Ed in particolare di notte ad osservare gli orari del coprifuoco per non offrire il fianco ai sorvoli dei caccia alleati notturni.

Le prime bombe cadono sul sandonatese

Con il fronte che si avvicinava alla Romagna si intensificarono nell’estate i bombardamenti delle città, particolarmente cruenti quelli intorno a Bologna, ma non di meno le incursioni imperversarono verso i porti di Venezia e Trieste. Inutile dire che la direttrice degli aerei portava al sorvolo continuo dei cieli sandonatesi, una minaccia costante e pur se molte missioni prendevano la direzione della Germania tra gli obiettivi multipli che avevano, anche le nostre zone entrarono spesso nel mirino degli attacchi alleati. I timori dei tanti sandonatesi che scrutavano i cieli solcati dagli aerei alleati presto si materializzarono. Le prime bombe caddero nella zona della Casa Paterna in via Calnova e a Chiesanuova il 18 luglio, mentre particolarmente importanti furono i danni subiti da Musile il 21 luglio con le prime vittime, danni anche dal lato sandonatese subì la strada arginale verso Grisolera.

Le truppe tedesche prendono possesso di San Donà
Il ponte della ferrovia colpito dai bombardamenti alleati

A fine luglio le truppe tedesche rafforzarono la loro presenza a San Donà occupando in modo stringente molte zone della città e requisendo numerose abitazioni, lo stesso Oratorio Don Bosco era pieno di soldati tedeschi con cui i salesiani furono costretti ad una scomoda convivenza. Una presenza tedesca che si manifestava in tutto il sandonatese con continue retate nelle quali i tedeschi si alternavano ai fascisti alla ricerca di partigiani, disertori del regio esercito e sempre più di militari alleati sopravvissuti agli abbattimenti degli aerei che sorvolano i cieli sandonatesi e non. Il 3 agosto di un nuovo pesante bombardamento fu fatto oggetto Musile dove caddero un centinaio di bombe, un’altra ventina caddero su San Donà. L’obiettivo palese erano sempre i ponti sul Piave ma è inevitabile che a farne le spese furono i centri cittadini. Alla fine di agosto a finire sotto le bombe fu il ponte della ferrovia pesantemente danneggiato.

Quella sirena divenuta incubo
Le sirene antiaeree ancora esistenti sui tetti di Roma

Numerosi erano gli allarmi aerei che risuonavano ogni giorno a San Donà e la tarda mattinata era l’orario solito in cui tutti erano costretti a cercare di sfuggire alle possibili esplosioni, chi in rifugi predisposti chi in ripari di fortuna. Decisamente più scomodi quando a risuonare erano le sirene di notte con uno stato di apprensione perenne della popolazione che aveva deciso di rimanere in città. Come racconta Savio Teker nel suo libro (2.): « I segnali d’allarmi erano tre: Limitato pericolo (tre segnali da 10 secondi con intervalli di 10 secondi); Pericolo (dieci segnali di 3 secondi con intervalli di 3); Cessato allarme (un segnale di 60 secondi) ». Gli inviti all’evacuazione della città verso le zone di campagna divennero sempre più assillanti e numerose erano oramai le famiglie che ingrossarono le fila degli sfollati.

Il campanile come rifugio notturno
Immagine aerea del centro di San Donà di Piave del 1930

Tra i simboli di quel periodo fatto di continue minacce aeree diurne e notturne a sorpresa vi è stato il Campanile. Ne dà conto Savio Teker inserendo nel suo libro (2.) un racconto pubblicato su un foglietto parrocchiale e scritto dallo stesso Monsignor Saretta a Liberazione di San Donà avvenuta: « Ci sono dei cittadini che hanno proprio chiesto ospitalità al campanile per fare i loro sonni tranquilli, e su per le scale, in tutti i piani del grattacielo, fino alla cella campanaria, ogni notte si dispone con mezzi di fortuna una folla silenziosa e trepidante per sottrarsi ai colpi micidiali di “Pippo” tenebroso. Tutto lo spazio disponibile è utilizzato. Non cadrebbe per terra un grano di miglio. Vi sono i “sediari” pigiati l’uno vicino all’altro, diritti, avvolti nelle ampie coperte per ripararsi dal freddo che entra col vento dalle finestre senza vetrate. Stanno immobili, rigidi, per tutta la notte, come pietrificati. Più disgraziati sono quelli che devono accomodarsi in qualche modo su per la scala. Ciascuno ha il suo gradino, e guai a chi osasse toccarla! Il diritto del primo occupante è riconosciuto in pieno. Qualche fortunato, di proporzioni più abbondanti, si è assicurato l’uso anche di due o tre gradini. E se durante la notte si potesse far luce su quella folla di accoccolati, sarebbe uno spettacolo strano, macabro, pietoso quello che si presenterebbe al nostro sguardo. Poi ci sono i privilegiati, che hanno imbastito un letto di fortuna, con reti metalliche, con materassi. Devono però essere puntuali, all’ora fissata, perché non v’è spazio fra letto e letto e chi arriva in ritardo deve passare sopra i malcapitati, che già riposano sotto le coperte, con pericolo di sentirsi mettere il piede,,,,in fallo. Non mancano le sentinelle, s’intende, senz’armi: sono i ricoverati sporadici, che nel momento del pericolo cercano rifugio in campanile e vi si introducono a furia di spintoni, e vi restano per ore e ore, nelle posizioni più incomode, ma sempre in piedi, a disagio, in attesa di…. Riveder le stelle. Piccole fiammelle a olio, accese davanti al Crocefisso, illuminano la strana catacomba (in senso verticale), quel tanto che è indispensabile per evitare pericoli e disordini, e rendono il soggiorno anche più tetro e misterioso. Così per settimane, per mesi, per tutte le notti, da quando gli aerei notturni vanno spargendo il terrore e la morte ».

(1 – Prima parte); (2 – Seconda parte « Morte e distruzione nel tragico autunno 1944 »); (3 – Terza parte « Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944 »)

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

Antonio Pasinetti, un fotografo di San Donà

Cartolina viaggiata del 1940 (Ed. Fratelli Dall’Oro, fotografia Antonio Pasinetti, Fotocelere di A. Campassi – Torino)
I fotografi di San Donà dall’Annuario del Regno d’Italia 1935

In via Borgo, poi via Vittorio Emanuele, quindi corso Silvio Trentin sempre vi è stato un fotografo. Che sia egli Battacchi, oppure Pasinetti, o anche Striuli le loro immagini sono rimaste impresse nella storia sandonatese in quanto sono state oggetto di cartolina. Un biglietto da visita importante di San Donà di Piave e come tale oggetto da collezione e testimanianza da tramandare ai posteri.

Foto da cartolina

Una macchina fotografica a pellicola dell’epoca.

E allora ci par di vederli i fotografi di quegli anni muoversi con quei loro strumenti di lavoro, solo lontani parenti di quelli sconfinati nell’oggi dell’era digitale. Doveva essere una strumentazione piuttosto ingombrante quella che veniva utilizzata all’epoca che sicuramente non sfuggiva agli occhi dei passanti, molti dei quali divenivano parte attiva degli scatti del fotografo anche perchè liberare la scena poteva risultare un pò complicato. E allor si capisce come i fotografi cercavano sovente degli orari dove i soggetti in movimento fossero pochi e non costringessero gli stessi a sprecare inutilmente lastre e pellicole in cerca del giusto scatto che solo in un secondo tempo avrebbero potuto controllare.

Tutto in una notte, degli indimenticabili scatti

Cartolina viaggiata del 1942 (Foto Antonio Pasinetti, Fotocelere di A. Campassi – Torino)

E viaggiando ancora di immaginazione pensiamo ad Antonio Pasinetti che in fatto di cartoline ha contribuito in modo importante, con degli scatti di assoluto valore beneficiati all’epoca anche da dei formati che valorizzavano al massimo l’immagine proposta nelle cartoline. In particolare gli scatti notturni di Piazzetta Trevisan devono avere avuto una preparazione particolarmente accurata. I lampioni accesi, la fontana pienamente funzionante, di sicuro non furono pochi nemmeno i permessi per riuscire a realizzare il tutto. Non ci stupiremo che la sua opera fosse stata richiesta dalle autorità dell’epoca, un modo per celebrare artisticamente la collocazione della nuova fontana al centro della piazza di fronte al Duomo. E allora pensiamo al fotografo mentre studia la scena, guarda le luci a disposizione e cerca la giusta angolazione per trovare la migliore inquadratura. Un lavoro talmente accurato che di quella piazza possiamo ora ammirarne ben tre scatti divenuti cartolina. Sembra quasi di accompagnare l’autore in quel notturno contesto seguendo quel suo obiettivo quasi fosse uno guardo reale. Un accompagnarci passo passo intorno a quella piazza sentendo i rumori e apprezzando le luci, le ombre e i precisi contorni dei dettagli.

Cartolina viaggiata del 1935 (foto di Antonio Pasinetti, Fotocelere di A. Campassi – Torino)

La fontana di Piazzetta Trevisan

Il duomo distrutto nel 1918 ritratto dalle case che all’epoca erano poste nello spazio che poi sarà destinato a piazzetta Trevisan

Le cartoline sono della metà degli anni Trenta e furono più volte riproposte anche in successive edizioni sino agli anni sessanta. Quella Piazza fu voluta dall’arciprete Luigi Saretta all’alba della ricostruzione dopo il buio e la distruzione della grande guerra. Prima di fronte al vecchio duomo la città si era interamente sviluppata lungo la via principale che dinanzi passava, oltre quella linea di case non vi era nulla. Nel ridisegno della città con la riedificazione del nuovo duomo venne sviluppata frontalmente anche una piazza appena oltre il corso il principale intitolata ad Angelo Trevisan, esponente di quella casata a cui è legata l’origine stessa di San Donà. Uno spazio che venne pienamente utilizzato nel 1925 in occasione del Congresso Eucaristico e che successivamente vide la collocazione della fontana. L’anno preciso lo si può desumere da una cartolina dell’epoca, alla base della fontana viene indicato l’anno fascista XII°, ovvero il 1934. Il che ci riconduce a quegli scatti fotografici di Antonio Pasinetti, poi divenuti cartolina.

La fontana di Piazzetta Trevisan in una cartolina viaggiata del 1934, l’iscrizione alla base indica lo stesso anno della cartolina ovvero il XII° anno fascista.
Quell’angolo del Duomo nel 1932

Quell’angolo del Duomo nel 1932

Il timbro della cartolina del 1932

Quelle storie sospese che s’incrociano nelle cartoline hanno un nuovo capitolo. Non tanto per lo scritto questa volta ma per i protagonisti della storia. Di sfuggita avevo intravisto solo l’immagine, sembrava quasi il classico soggetto religioso che talvolta s’incrocia in talune cartoline. A guardarla bene aveva un qualcosa di famigliare, un già visto che poteva avere un nesso passato ma non certezza. Ed invece una volta arrivatami in mano ecco scoprirne anche la didascalia. Il velo subito è sceso e il nesso sandonatese è stato subito scoperto, quel granello di ricordo è divenuto montagna. L’approfondimento poteva iniziare.

La cappella del Duomo di San Donà di Piave
Il fronte della cartolina viaggiata del 1932, con l’altare della Cappella del Duomo di San Donà

L’immagine è della fine degli anni venti, ovvero di quel periodo nel quale anche il nuovo Duomo sandonatese conobbe la sua completa ricostruzione dopo la grande guerra. La stessa immagine la si trova nel libro di Monsignor Chimenton “S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella” (1928). E’ uno scatto del fotografo sandonatese Batacchi, molte le sue immagini della città contenute nel libro del Chimenton e ancor più numerose quelle divenute cartoline in quegli anni. Il soggetto ritratto in questa immagine è l’altare dedicato San Vincenzo Ferreri presente nella Cappella della Fonte Battesimale nel Duomo di San Donà di Piave, la prima cappella alla destra dell’altare principale. Offerto alla parrocchia dal cav. Dott. Vincenzo Janna, sopra l’altare campeggia una pala dipinta dal pittore Cherubini incastonata in un mobile fatto dall’intagliatore Papa su disegno dell’architetto Torres.

Così descriveva Monsignor Chimenton la pala dedicata a San Vincenzo Ferreri: « La Madonna delle Grazie campeggia in posto d’onore, su quella tela, seduta su di un ricco trono, come una matrona; fra le sue braccia sostiene il Bambino. Riccamente vestita, in un atteggiamento dolce e delicato, unitamente con il suo Figliuolo Divino volge il suo sguardo verso i Santi che stanno ai piedi del suo trono, e verso i fedeli che presentano le loro venerazioni: sembra ripetere che la sorgente della sua grandezza e dei suoi trionfi è nella Divina Maternità. Dietro il trono della Vergine, sullo sfondo che si allunga come in una visione di panorama, si scorge il nuovo tempio di S. Donà di Piave, ultimato in tutte le sue parti, anche nel suo nuovo pronao, e il campanile ».

Una fotografia odierna della pala dedicata a San Vincenzo Ferrer

« Ai piedi del trono della Vergine stanno i Santi patroni della cittadina, che ricordano la diocesi di Treviso e la vecchia Gastaldia di S. Donà: S. Liberale, che regge lo stendardo del Comune di Treviso, è in atteggiamento di perfetto guerriero, dalla divisa romana, e la corazza sul petto; tiene la sua fronte rivolta alla Vergine; con le mani congiunte sembra impetrare da Maria nuove grazie per la diocesi di cui è patrono, come ne ottenne per la stessa durante la guerra; San Vincenzo Ferreri, nel suo abito domenicano, la più bella fiugura, forse, del quadro, che additando con la mano sinistra la Vergine, la mano destra poggiata sul petto, ricorda in parte almeno, il programma della sua predicazione; S. Donato Vescovo sostiene nella sua destra il pastorale e nella sinistra il libro del Vangelo: è la figura solenne del patrono della Gastaldia; S. Marco evangelista, austera figura di pensatore e d’inspirato, che, la fronte leggermente sollevata, l’occhio raccolto come di chi medita su quanto sta compiendo, o meglio su verità che devono formare la base della nuova fede, scrive il suo Vangelo: seduto su d’un masso, ha presso di sé il fulvo leone, simbolo della gloriosa repubblica di Venezia ».

Una cartolina sorprendentemente rara che non ricordo di aver mai incrociato e che potrebbe essere parte anche di una serie di cartoline.

Nella mappa del Duomo l’esatta ubicazione dell’altare nella cappella della Fonte Battesimale
La tipografia S.P.E.S. San Donà di Piave
La tipografia S.P.E.S. con vista Duomo

Anche il retro porta una sorpresa relativa alla stampa della cartolina. A editare e stampare la stessa è la S.P.E.S. di Evaristo Da Villa che delle cartoline poi farà una missione con una sterminata varietà nei decenni successivi anche se la tipografia sandonatese non la si trova più stampigliata sul retro. Riguardo alla S.P.E.S. ci viene in soccorso ancora Monsignor Chimenton che di questa tipografia scrive « La tipografia Spes sorse dopo la guerra. Iniziò il suo lavoro in casa Gnes, in viale Margherita. Nel 1926 si trasportò in un locale più ampio, più adatto, in via Giannino Ancillotto, presso il nuovo teatro Verdi. Ne è proprietario Evaristo Da Villa, la direzione tecnica è affidata al signor Guido Zottino.

Quel destinatario depositario di una storia
Il destinatario della cartolina del 1932

La cartolina è  del 1932 e venne inviata a Roma presso l’Ospizio Salesiano del Sacro Cuore dove risiedeva il chierico Luigi Ferrari. Questi altri non era che uno dei tre salesiani che nel 1928 arrivarono a San Donà di Piave per partecipare alla fondazione dell’Oratorio Don Bosco, all’epoca già in costruzione. Oltre al chierico, vi erano il direttore don Riccardo Giovannetto e il coadiutore Mauro Picchioni. I tre legarono la loro permanenza sandonatese non solo in ottica costruzione dell’Oratorio ma prestarono la loro opera anche all’Orfanotrofio fondato subito dopo la conclusione della prima guerra mondiale.

L’arrivo dei salesiani a San Donà di Piave
Bollettino Salesiano nr. 11 novembre 1928

Una descrizione molto significativa dell’arrivo dei tre salesiani a San Donà di Piave è contenuta nel Bollettino Salesiano nr. 11 del novembre 1928 (pag. 7):  « Il 24 settembre, giorno in cui il popolo di S. Donà di Piave celebrava la festa in onore della Madonna del Colèra, i Salesiani fecero ingresso in città per dar principio al loro apostolato tra la gioventù. L’accoglienza che il buon popolo fece ai nostri confratelli, fu la più entusiastica che si possa immaginare.  Alla stazione erano ad attenderli l’Arciprete Mons. Luigi Saretta, che tanto si adoperò per avere in S. Donà i Figli di Don Bosco, e con lui erano la Contessa Corinna Ancilotto, benemerita Presidente dell’Orfanotrofio, Donna Amelia Fabris e Donna Maria Bortolotto del Comitato d’onore; le signore Perin, Bastianetto e Bagnolo del gruppo Donne Cattoliche; il Cav. Magg. Peruzzo, il cav. Marco Bastianetto, l’ing. Ennio Contri, il geom. Attilio Rizzo, i sig. Giuseppe Bizzarro, Alberto Battistella, Umberto Roma ed altri di cui ci sfugge il nome, per il Comitato esecutivo pro Oratori e per gli Uomini Cattolici. Dopo un breve saluto e colloquio nella sala d’aspetto, gentilmente concessa dal Capo Stazione, li attendeva una immensa folla che li accolse con evviva ed esclamazioni mentre i fanciulli eseguivano con l’accompagnamento della Banda locale, apposito inno composto dal Rev.mo Arciprete. »

In corteo verso il sentro cittadino. « S’iniziò il corteo aperto dai bambini dell’Orfanotrofio, dai Fanciulli della Dottrina, dagli Aspiranti al Circolo, dal Circolo Giovanile, e dietro agli Uomini Cattolici, venivano i Salesiani circondati dal Clero locale, dal Comitato Esecutivo dell’Oratorio e dalle Autorità. Seguiva una folla immensa di signore, di donne del popolo, di giovanette del Circolo, di Piccole Italiane, e in coda per adesione in segno di onore, una interminabile fila di automobili delle principali Famiglie del paese. Il corteo imponente si diresse al Duomo fra una festa di sole, di canti, di suoni, uno sventolio di bandiere e due ali di popolo reverente e festante. Da tutte le case su tutti gli alberi erano scritte inneggianti ai Salesiani. Giunti in Piazza del Duomo il corteo si fermò su l’atrio ove, accompagnato dalla Banda fu di nuovo eseguito l’inno da migliaia di voci.

In una immagine fatta all’Orfanotrofio in quegli anni, sono presenti i tre salesiani. Nella foto si riconoscono tra gli altri: il primo seduto a sinistra MAURO PICCHIONI, il chierico P. Pretz, MONSIGNOR LUIGI SARETTA, don RICCARDO GIOVANNETTO, il sig. G. Rocco. In alto in veste nera, uno dei protagonisti di questa nostra storia il chierico LUIGI FERRARI

Il saluto in Duomo.  Entrati nella Chiesa affollata di popolo, i Salesiani ricevettero il saluto da mons. Vescovo di Treviso. Mons. Longhin ricordò la lunga attesa, le preghiere, le suppliche dell’Arciprete e prendendo lo spunto dall’immensa moltitudine presente fece rilevare come tutto il popolo avesse desiderata ed attesa la venuta dei Salesiani. In nome di tutti e in nome proprio, Egli si disse lieto di salutarli: Benedicti! Sicuro che traendo lo spirito e gli auspici del grande Educatore don Bosco, essi avrebbero compiuta opera feconda di bene nella vasta Parrocchia. Si augurò di veder presto sugli Altari il Fondatore della Famiglia Salesiana, lieto di tornare a S. Donà per celebrare le virtù e le glorie di Giovanni Bosco.

La processione in onore della Madonna del Colera del 24 novembre 1928 tratta da Inoratorio

Dopo la Messa solenne celebrata da mons. Valentino Bernardi con assistenza di S. E. Mons. Vescovo e di numeroso Clero, i Salesiani furono accompagnati in Canonica dove ricevettero l’omaggio del l’ill.mo sig. Podestà Dr. Costante Bortolotto e dei due vice podestà sig. Giuseppe Fornasari e sig. Giuseppe Davanzo.

Sul mezzogiorno Autorità e Clero in bella armonia di gioia e di festa, si raccolsero in Canonica a banchetto insieme con mons. Vescovo e i Padri Salesiani. Al levar delle mense brindarono, acclamatissimi l’Arciprete e il Podestà. Rispose il Rev.mo Ispettore Don Festini ringraziando commosso.

La processione pomeridiana.    Nel pomeriggio si svolse la tradizionale interminabile Processione sigillata da un ispirato discorso di monsignor Vescovo. Tal festa rimarrà in benedizione ed in memoria nel cuore di tutti i Sandonatesi. »

Questa la relazione pubblicata dall’ottimo AVVENIRE D’ITALIA del 29 settembre . « Sentiamo il dovere di esprimere a Mons . Longhin, al R .mo Sig. Arciprete, alle Autorità e a tutte le egregie persone che ebbero parte attiva in questa dimostrazione, la nostra riconoscenza. Particolarmente a Mons. Saretta, che volle con un bellissimo Numero Unico intitolato : I Salesiani a S . Donà di Piave far conoscere alla buona popolazione l’opera di D. Bosco e l’apostolato dei suoi figli. Nella lettera con cui annunziava la venuta dei Salesiani, diceva ai suoi parrocchiani : Fin dal primo istante i Salesiani devono sentire la simpatia, la benevolenza, il cuore di S. Donà di Piave. Li accompagneremo all’Altare, per sciogliere l’inno della riconoscenza e per invocare la benedizione del Signore sopra di loro e sopra i nostri figli». I salesiani hanno sentito ciò nell’accoglienza del 24 settembre e sperano che la benedizione del Signore e la benevolenza del popolo sandonatese li aiuteranno a esplicare con frutto la propria missione. »

E come d’incanto anche il mittente è d’eccezione

Ricca la storia contenuta in questa cartolina, da ogni parte la si guardi offre spunti di approfondimento. Manca solo di conoscere chi abbia scritto al chierico Luigi Ferrari in quel 1932. Come la ciliegina sulla torta è da sempre considerata l’ultima preziosità ivi depositata, anche il mittente è la giusta conclusione di questa nostra storia. Lo scritto è breve quasi una stringata risposta ad una precedente missiva. “Anch’io….ricordando” è l’unica frase inserita, accompagnata dalla firma: Luigi Saretta, ovvero l’arciprete di San Donà di Piave.

Le poche parole scritte da Monsignor Saretta.

Per approfondimenti: 1. « S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella » (1928) di Mons. Costante Chimenton; 2. « Storia cristiana di un popolo – San Donà di Piave » (1994, De Bastiani Editore) di Domenico Savio Teker; 3. « Ancora un giro in giostra » (2006, Tipolitografia Colorama) di Wally Perissinotto; 4. « Cent’anni di carità » (2021, Digipress Book) a cura di Marco Franzoi; 5. le pagine dei siti Inoratorio.it e Duomosandona.it