29 ottobre 1917, San Donà di Piave inizia ad essere attraversata dalle truppe italiane in ritirata

Tratto da “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Monsignor Costante Chimenton (1928, capitolo IV pp. 172-179)

Dal 29 al 31 ottobre la città di S. Donà di Piave fu invasa dall’esercito nostro in vera dissoluzione : per S. Donà di Piave passò tutta la terza armata che così mirabilmente aveva per lunghi mesi resistito sul Carso, e recentemente si era ricoperta di gloria sulla Bainsizza. Quei forti soldati portavano scolpiti sulla fronte lo sconforto e la speranza ; qualche frase imprecante alla guerra, qualche imprecazione inconsulta alla pace, in quei momenti che potevano segnare un lungo periodo di schiavitù per tutta la nazione, erano repressi da queste esclamazioni: “L’ultima carta non è ancor giocata; Caporetto sarà vendicato; maledizione ai traditori!”. In tutti la persuasione, che, superata la prima crisi, l’Italia avrebbe ritrovata la sua via, la via sanguinosa ma fulgida della vittoria su quelle stesse campagne che stavano per essere martoriate dal nemico (4 – Cfr. Mario Bernardi, ex ten. Difesa prima Zona Costiera, Dal Tagliamento al Piave, tip. M. Carra e C.).

Il primo novembre il centro di S. Donà pareva un camposanto, o meglio una località sulla quale incombeva lo spettro della morte : sospeso il suono delle campane e interrotto il servizio liturgico; non fu però sospesa la processione al camposanto : ma la chiesa, dopo il vespero, rimase deserta. Le comunicazioni si erano fatte impossibili : la lunga colonna di profughi e carriaggi, provenienti dal Friuli e dalla regione di Portogruaro, continuava lentamente il suo passaggio attraverso il ponte sul Piave, spettatore questo pure, sotto una pioggia torrenziale che tormentava anche i più impassibili, della catastrofe che si era abbattuta, per la viltà di pochi, sulla nostra patria.

Il ponte carrozzabile sul Piave

Il 2 novembre continuò la mestissima processione : erano giunte, la sera precedente, in S. Donà, le ultime compagnie di sanità provenienti dalla Bainsizza e dagli ospedaletti da campo più avanzati : le sacrestie della chiesa furono occupate dai sacerdoti soldati; la casa canonica e le case della piazza, lasciate libere dai cittadini già allontanatisi fin dai primi giorni, furono occupate dalla truppa ; le stesse stanze di casa canonica furono riempite di paglia e di fieno, prezioso giaciglio per chi da vari giorni non aveva potuto riposare ed era rimasto esposto a tutte le intemperie. Il giorno 2 novembre circa trecento sacerdoti soldati celebrarono nell’arcipretale di S. Donà di Piave.

L’autorità comunale non venne meno, in quei giorni, al suo compito delicatissimo : in un proclama al popolo il sindaco, cav. Giuseppe Bortolotto, raccomandò la calma, ed emanò le disposizioni più rigorose per impedire quello scempio alle abitazioni e alle proprietà, che avrebbe costituito un nuovo danno irreparabile. Le disposizioni si mantennero rigorose fino al giorno 4 novembre, quando il succedersi degli avvenimenti e le notizie del ripiegamento dei nostri anche dal Tagliamento, costrinsero l’autorità comunale ad organizzare nei modi consigliati dalle circostanze eccezionali, l’allontanamento delle persone e la requisizione degli oggetti di maggior valore.

Il giorno 4 novembre, domenica, cominciò l’esodo della popolazione. Solo chi vide con i propri occhi e pianse sullo strazio di quelle tristi giornate ; chi in quei giorni mangiò un pane rammolito di lagrime, può comprendere lo stato d’animo di un popolo, che abbandonava tutto per gettarsi nella miseria, in braccio alla fatalità. Donne strillanti, con i bambini stretti al petto; vecchi quasi cadenti che salutavano con la mano, per l’ultima volta le loro case; fanciulli che spingevano innanzi le poche riserve di qualche giorno ; uomini robusti, irrigiditi nelle loro stesse forze, dal dolore. “Dove andremo?”, era la domanda angosciosa di quei giorni, domanda a cui nessuno poteva dare una risposta definitiva, pacificatrice (5 – Tutti gli episodi raccolti in questo capitolo, e nel capitolo seguente, sono ricavati dai “Diari di guerra”, scritti da Mons. Luigi Saretta, don Umberto Marin, don Innocenzo Zandomeneghi, don Giovanni Contò, comm. Costante Bortolotto, diari inediti e manoscritti che si conservavano in archivio di Curia di Treviso, incarto “San Donà di Piave durante la guerra”.).

L’arciprete, Mons. Luigi Saretta, perplesso lui pure sul da farsi, presago deo gravissimi pericoli che avrebbe incontrati se fosse rimasto prigioniero, ma persuaso pure che la sua partenza avrebbe provocato un abbandono, nelle mani del nemico, della grande maggioranza della classe povera di S. Donà che non si sarebbe persuasa alla partenza, inviò a Treviso il chierico Salvatore Favaretto per chiedere disposizioni tassative a S.E. Mons. Vescovo. La risposta giunse lo stesso giorno, 4 novembre, e fu risposta decisiva: “L’arciprete non si muova ; rimanga con il suo popolo ; si allontani da S. Donà quando tutto il popolo si sarà allontanato ; veda di moltiplicarsi per lenire tanti patimenti, per mitigare tante miserie”. E il ceto tutto di S. Donà rimase fedele alle disposizioni impartite dal Vescovo, e affrontò serenamente i patimenti più odiosi di un anno intero in prigionia : il popolo ebbe così la prova più rassicurante che il suo vero amico, che si manifesta fedele nei patimenti e nel dolore, è sempre il sacerdote.

Si provvide tosto alla salvezza degli arredi sacri. Questi furono distribuiti per le famiglie di S. Donà che sarebbero rimaste invase : a queste famiglie fu affidato l’incarico della custodia ; una parte di questi arredi sacri fu nascosta in casa Sorgon, di proprietà del Co. Giusti ; la parte principale, però, e che non si sarebbe potuta asportare nel caso di uno sgombero imposto dal nemico, rinchiusa in una forte cassa, la notte del 5 novembre fu trasportata in casa di Giacomo Sgorlon, in località Palazzetto, nella tenuta del cav. Natale Vianello e sepolta di fronte alla cassa stessa, sotto il baracchino che serviva di rifugio agli animali domestici.

In quella cassa era stato rinchiuso il vero tesoro dell’arcipretale di S. Donà : l’oro offerto alla Madonna, le lampade d’argento, vari oggetti sacri, reliquiari, calici e pissidi, i paramenti più preziosi. Ma pochi giorni dopo l’invasione, quel pollaio, adocchiato dagli Austriaci e violentemente depredato, fu trasformato in una stalla per muli e asini : le povere bestie, spinte dalla rabbia e dalla fame, si affrettarono a smuovere il terreno e la cassa fu scovata : una grossa mancia al soldato di guardia pose la cosa in silenzio, e la notte successiva Giacomo Sgorlon, anima forte e coraggiosa, veramente benemerita di S. Donà, aiutato dai suoi familiari, seppellì quella cassa nel mezzo del letamaio. Gli avvenimenti che si susseguirono mutarono il personale tedesco, ma Giacomo Sgorlon, che rimase a Palazzetto fino al 19 febbraio 1918, fu sempre custode zelante, accurato di quel sacro deposito.

La casa colonica si era trasformata in un ritrovo di confusione estrema, vero porto di mare, dove accorrevano tutti coloro, – ed erano la grande maggioranza della popolazione, – che si sentivano tormentati dalla incertezza sulla decisione da prendersi : “Che cosa pensa? Che cosa facciamo? E come partire se ritornano anche quelli che si sono già allontanati l’altro ieri?” – L’ultima frase alludeva ad un altro fatto stranissimo, succeduto in quei giorni in S. Donà, fatto che in nessun modo si deve interpretare quale atto di dedizione o di vigliaccheria da parte della popolazione profondamente religiosa e patriottica, ma unicamente prodotto della cattiva organizzazione dei servizi logistici e dell’impossibilità dei movimenti regolari per quelle strade ingombre di materiale bellico e di combattenti : ogni organizzazione trovò il suo massimo ostacolo nello sviluppo catastrofico della grande sciagura nazionale. Il bando Cadorna aveva requisito tutti gli uomini, dal Tagliamento al Piave, dai sedici ai sessant’anni : a S. Donà si ubbidì da tutti a questa disposizione, ma non si potè, per mancanza di mezzi, provvedere al trasporto di tanta gente. I nuovi richiamati dovevano portarsi a piedi fino a Ponte di Piave, procedendo per la via di Noventa e Salgareda ; ma dovevano essere in gruppi di venticinque persone! Molte compagnie, respinte dagli stessi RR. CC. lungo la strada, ritornarono alle loro case e si congiunsero con i loro cari la notte dal 4 al 5 novembre.

Monsignor Saretta

La mattina del 5 novembre Mons. Saretta credette giunto il momento di esporre chiaramente al popolo tutto il suo pensiero. E fu esplicito : il popolo ricorda anche oggi le sue parole : “Non mi sento di dare consigli, né di assumere responsabilità ; se il popolo parte, partirò anch’io ; se il popolo rimane, e crede impossibile ormai la via della profuganza, il clero rimarrà in sua compagnia, compirà tutto il suo dovere, pronto a condividere la sorte della prigionia e le sofferenze e i patimenti che potranno essere inflitti dal nemico!”.

Prudentissima questa esplicita dichiarazione. Un ordine superiore aveva imposto al clero di fermarsi sul campo del dovere e affrontare, a bene della popolazione, il sacrificio ; ma la popolazione non doveva essere trattenuta ed esposta ad un pericolo gravissimo per seguire l’esempio del sacerdote : il sacrificio della prigionia sarebbe cessato anche per il sacerdote, quando tutta la popolazione avesse deciso di allontanarsi. – Un altro motivo indusse Mons. Saretta ad esporre francamente il suo pensiero. La classe dirigente si era ormai allontanata, tranne i medici, dott. Pietro Perin e dott. Vincenzo Dal Negro, che avrebbero potuto allontanarsi all’ultimo momento.

E’ importante la lettera del dott. cav. uff. Vincenzo Dal Negro, dettata da Musile il 5 novembre 1917 : si prendono gli ultimi provvedimenti per l’ospedale, lasciato in abbandono, e si offre a Mons. Saretta l’occasione per mettere al sicuro, nell’interno d’Italia, le suore e mamma sua : “Dopo quanto abbiamo sentito dal maresciallo, credo che non vi sia più dubbio sulla convenienza che anche le suore se ne vadano, Gli ammalati dell’ospedale possono, temporaneamente, essere assunti dall’ospedale 189, che, almeno fino a iersera, stava ancora costì. Per le suore partenti, treni di sgombero ve ne devono essere anche oggi. Ella potrebbe affidare alle suore anche la mamma sua. Per quanto le occorresse di parteciparvi, non posso darle per ora che l’indirizzo di mia figlia Giovanna, presso l’Istituto del S. Cuore, in Firenze. Non posso descriverle lo stato dell’animo mio nell’abbandonare S. Donà ; l’ultima spinta alla partenza mi è stata data dall’assicurazione avuta dagli ufficiali alloggiati in casa mia, che io sarei immancabilmente internato. D’altra parte non le nascondo che le preoccupazioni per la mia famiglia andavano crescendo al punto da essere insopportabili. Speriamo di rivederci presto, quantunque io tema che deva passare parecchio tempo, a meno che anch’ella non sia obbligata a partire ; nel qual caso, in quanto posso sono a sua disposizione”. E a Mons. Saretta si affidarono nuovi incarichi delicati: “Ho pregato il Sig. Capitano Medico, che alloggia in questa casa, di consegnare a lei, possibilmente facendoli trasportare in canonica, tutti i registri, materassi, coperte, biancheria, scarpe ecc., che ci sono al momento della partenza. Pregola di usarne bene e… come crede, e la ringrazio anticipatamente”.

Prudentissimo il consiglio del dott. Dal Negro ; dovette allontanarsi in seguito ad imposizione dell’autorità militare e per non mettere la sua vita ad un pericolo inutile, nella certezza di non poter giovare al popolo ; l’ultimo momento, passato ormai il Piave, il dott. Dal Negro volle pensare a quei disgraziati a cui era riservato un anno di martirio. Ma le suore non accettarono il consiglio : votate alla carità, e prive di disposizioni da parte dei loro superiori, conobbero che la loro missione le attendeva in un campo più vasto di azione, dove avrebbero esplicata la loro maternità spirituale, affrontando serenamente, fra i poveri, gli ammalati e i bambini, le umiliazioni più gravi ; la mamma poi di Mons. Saretta non si sentì in animo di abbandonare il figlio in quei momenti di trepidazione. Un consiglio, chiamiamolo così, di famiglia, tenuto in casa canonica di S. Donà di Piave tra l’arciprete e i cappellani don Giovanni Rossetto e don Umberto Marin e le suore, decretò l’ultimo provvedimento : restare prigionieri con il popolo che era costretto restar prigioniero!

Doveva restare prigioniero : ogni movimento ormai era reso impossibile ; la fiumana di profughi, procedente per Musile o per Noventa, era ostacolata, nei suoi lenti movimenti, dai movimenti stessi della truppa che aveva ricevuto l’ordine di iniziare la resistenza sul Piave.

Wikipedia: San Donà di Piave;

San Donà di Piave il sito ufficiale del Comune

L’occupazione raccontata da Monsignor Chimenton in “San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” nei post dedicati:

29 ottobre – 5 novembre 1917 prima parte; 6 – 9 novembre 1917 seconda parte; 9 – 11 novembre 1917 terza parte; 9 – 12 novembre 1917 (Passarella) quarta parte; 12-14 novembre 1917 (Passarella) quinta parte; 14 – 15 novembre 1917 (Chiesanuova) sesta parte; 13 novembre 1917 (Grisolera) settima parte; 14 – 18 novembre 1917 ottava parte; 16 – 21 novembre 1917 (Passarella e Chiesanuova) nona parte; 19 – 22 novembre 1917 (San Donà) decima parte; 23 – 30 novembre undicesima parte; 22 – 30 novembre 1917 (Torre di Mosto) dodicesima parte; 1 – 5 dicembre 1917 tredicesima parte; 6 – 8 dicembre 1917 quattordicesima parte; 8 – 15 dicembre 1917 quindicesima parte; 16 – 30 dicembre 1917 sedicesima parte; 31 dicembre 1917 – 5 gennaio 1918 diciassettesima parte