Tratto da “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Monsignor Costante Chimenton (1928, capitolo IV pp. 210-217)
Un giogo che non sembra allentarsi
Le vessazioni, i soprusi, le violenze aumentavano intanto con un crescendo spaventevole, raddoppiato dalla disillusione in cui era caduto l’esercito austriaco in seguito ai disastrosi scontri sulla destra del Piave.
La notte dal 5 al 6 dicembre, in una cascina, presso casa Sant, alcuni soldati austriaci, che avevano tentato di rubare quel po’ di pollame che costituiva l’unica ricchezza di un povero vecchio, certo Bevilacqua di S. Donà, quando si videro scoperti dal proprietario che gridò al soccorso, spararono contro di lui diversi colpi di rivoltella : una pallottola lo colpì alla guancia destra, e gli spezzo la mascella. Compiuta quell’eroica azione, quei delinquenti se ne andarono canticchiando una canzonaccia e bestemmiando a Salandra e a Sonnino (nota: presidente del consiglio il primo, ministro degli esteri il secondo, che portarono l’Italia nel campo dei paesi dell’Intesa e alla conseguente guerra contro l’Austria), abbandonando in una pozza di sangue quel vecchio. Il poveretto fu assistito da Mons. Saretta, che mandò subito per un medico ungherese, che era sul posto, a pochi passi dalla località : ma il medico si rifiutò di prestare il suo soccorso ad un italiano, e a Mons. Saretta che insisteva, in nome dei primi elementi di umanità, per ottenere la sua presenza, in chiara lingua toscana rispose : ‹‹ Così possano crepare tutti i borghesi! ››.
Solo alla mattina la ferita gravissima fu disinfettata da una suora infermiera ; ma il sangue perduto durante la notte e che non riuscì a fermare con una medicazione provvisoria, annunziò prossima la morte del vecchio : Mons. Saretta gli somministrò i conforti religiosi ; poi si rivolse al capitano Paolo Hertzog, che sempre si era dimostrato generoso e caritatevole verso i nostri profughi, e ottenne che il ferito fosse trasportato in un ospedale. Sulla sera del giorno 6 l’infelice partiva sopra un rozzo carro da trasporto, accompagnato da due soldati ; Mons. Saretta, incontratolo per strada, gli somministrò l’Estrema Unzione : all’ospedale di Torre di Mosto, dove era diretto, il Bevilacqua giunse cadavere. Le prove più dure non erano ancora giunte : Mons. Saretta doveva affrontare umiliazioni ancor più forti prima di giungere ad una sistemazione un po’ tranquilla in Portogruaro, dove già si era concentrato un forte nucleo di sandonatesi.
Ordine di sgombero per le comunità di casa Sgorlon, casa Sant e casa Catelan
Il 6 dicembre si impose tutto lo sgombero della zona : il provvedimento, che poteva essere giustificato da necessità tattiche e di incolumità per gli invasi, assunse un aspetto odioso per il modo con cui fu attuato. Già alcune famiglie avevano, in antecedenza, presa la via della profuganza, senza meta, senza direzione, senza viveri. Mons. Saretta si portò quella mattina in casa Catelan ; chiamò a raccolta gli uomini per prendere con questi gli accordi nel caso venisse singolarmente imposta la partenza : non sarebbe stato prudente lasciarsi colpire da un improvviso ordine di sgombero. Poco lontano da casa Catelan stava stanziando il comando di un battaglione.
Monsignor Saretta raggiunge un accordo sullo sgombero, subito disatteso
Il giorno 7 dicembre, un venerdì che non si dimenticherà mai dai profughi prigionieri di S. Donà, Mons. Saretta chiese un abboccamento con il colonnello : aiutato da un interprete, potè perorare la causa del suo popolo in modo efficacissimo e ottenere promessa formale che, qualora fosse stata sgomberata la zona Catelan-casa Sant, i profughi di S. Donà, sotto la responsabilità del loro arciprete, avrebbero potuto rimanere, o certamente non avrebbero avuto noie finchè non si fossero trovati i mezzi di trasporto e un rifugio sicuro nelle retrovie. Il permesso scritto doveva essere consegnato a Mons. Saretta un po’ più tardi : il colonello si impegnava intanto a notificare la cosa al Comando di divisione, da cui dipendeva il settore. Mons. Saretta era appena tornato con il fausto annunzio in casa Catelan e in casa Sant, quando una strana visita fece comprendere che gli eventi precipitavano. Il maggiore medico ungherese, l’assassino che il giorno innanzi si era rifiutato di curare il Bevilacqua, in compagnia del sergente che comandava la pattuglia, entrò in casa Sant per una minuta perlustrazione di tutte le stanze. Fu il segnale della catastrofe : imprecando alla guerra e a chi l’aveva dichiarata, quel maggiore si allontanò, lanciando prima un’occhiata sprezzante e quasi di compiacenza sui due vecchi di Passarella, che giacevano miseramente accovacciati in un angolo della cucina.
Giungeva intanto la notizia che casa Sgorlon era stata sgomberata. Mons. Saretta si precipitò sul luogo per impedire lo sgombero e ottenere che si rispettasse l’ordine del colonnello. Lungo il percorso ebbe chiara la visione di quell’ultimo strazio ; nei cortili delle case erano state gettate a terra le povere masserizie dei contadini, mentre la truppa, avida di impadronirsi del bottino, piantonava le stanze, e con la rivoltella in mano, minacciava chiunque ardisse avvicinarsi. Dopo un mese di strazi, la nuova odissea veniva così ufficialmente ripresa. Nessun riguardo ai bambini, alle donne, agli ammalati : la soldatesca, costituita di elementi bosniaci, la mezzaluna intrecciata sull’elmetto, laceri, sporchi, senza camicia, veri banditi da galera, pareva scelta apposta per compiere l’ultimo scempio di un popolo, reo unicamente di essere italiano!
In casa Sgorlon erano ricoverate più di cento persone assistite dal cappellano don Marin. Nel cortile dell’ampio fabbricato, tre carri erano ormai già carichi di masserizie gettate alla rinfusa. Il vecchio padrone di casa, un tipo patriarcale girava intorno attonito, con due cappelli in testa, un paletot e un giubbone d’inverno sulle spalle ; i bambini strillavano ; le donne scapigliate sembravano impazzite, mentre, dentro, nella casa, i mussulmani consumavano il saccheggio di quanto non era stato gettato sui carri. Una vecchia, che non poteva scendere dalle scale, fu afferrata per il collo per essere gettata giù dalla finestra : due testimoni che tentarono di salire per salvarla, furono respinti col calcio del fucile : la disgraziata, trascinata in modo brutale giù per la scala da due bosniaci, rimase tutta pesta.
L’ira di Monsignor Saretta per lo sgombero forzato, ad un passo dalla fucilazione
Un furioso cannoneggiamento di abbatteva intanto su S. Donà e Grisolera, e un tenente a cavallo impartì l’ordine della partenza. Mons. Saretta non seppe più contenersi, e, furente contro quel nuovo sistema di assassinio, gridò che si attendesse almeno la risposta del comandante di divisione e si rispettassero gli ordini superiori. Il cappellano don Marin fu mandato ad informare del fatto il colonnello ; ma il percorso era lungo quattro chilometri, e nell’attesa, acconsentita dal tenente, fu una lotta continua tra i soldati che chiedevano una partenza precipitosa e Mons. Saretta che reclamava giustizia e umanità. Quel giorno non si pranzò ; neppure i bambini chiesero cibo, colpiti dalla scena del tutto nuova e dall’atteggiamento dell’arciprete, il quale aveva imposto ai suoi di non allontanarsi, e che, le mani incrociate sul petto, misurando in tutte le direzioni il cortile di casa Sgorlon, non cedeva dinanzi alle minacce dei Bosniaci e del loro comandante.
Verso le due del pomeriggio un sergente, seguito da due soldati bosniaci, in tenuta di servizio, si accostò a Mons. Saretta e gli impose di seguirlo : fu condotto in casa Sant. La casa era in uno stato di vero assedio, tutta piantonata da truppa. Il maggiore medico, in atteggiamento di minaccia, attendeva l’arciprete : lo investì con sarcasmi e con parole asprissime, e gli impose la partenza, sotto pena di fucilazione immediata. Mons. Saretta reagì fortemente agli insulti di chi abusava di una forza brutale e rimbeccò ad una ad una le osservazioni e le offese di quel medico degenerato : un sergente triestino si frappose fra i due litiganti, e Mons. Saretta, sbalzato da quel triestino che bestemmiava in lingua toscana perfetta, si vide perduto : rispose che cedeva alla violenza! Volle però salire nella cappellina di casa Sant, dove consumò l’Eucarestia distribuendo la Comunione alle suore e ai bambini più teneri ; fece poi gettare su due carri quelle poche masserizie che erano state salvate sino allora ; si interessò perché le suore mettessero in salvo il corredo liturgico della chiesa di S. Donà e i documenti riguardanti l’ospedale e l’asilo ; poi…. Si diede in mano ai soldati. Erano le tre pomeridiane.
Inizia l’esodo verso Torre di Mosto
Si organizzò il corteo per la partenza. Ogni suora fu fiancheggiata da due gendarmi armati ; l’arciprete, come l’elemento più torbido e pericoloso, da quattro gendarmi : a lui non si permise di scambiare una parola. Una bambina, che lo vide in quello stato di arresto, gli si avvicinò per baciargli l’ultima volta la mano : fu cacciata lontano bruscamente con un calcio.
Sul volto di tutti era scolpito lo spavento : la preoccupazione più angosciosa era per la sorte riservata all’arciprete. Mons. Saretta era pallido come la morte : un sudore freddo gli imperlava la fronte e non poteva parlare. Si scosse da quell’atteggiamento unicamente quando il maggiore medico impose che i due vecchi ammalati, rincantucciati in cucina, non venissero trasportati. Tentò allora di parlare, ma la voce gli si strozzò in gola. Mentre da tutti si attendeva che la strana compagnia si mettesse in moto, con un fare sdolcinato che in altre epoche avrebbe avuto del comico, il maggiore medico, sotto pretesto di assistenza ai due vecchi, requisiva due suore, suor Luigia Cernesoni e suor Battistina Lanza, e ordinò venissero rinchiuse in una stanza. Le due requisite piansero e scongiurarono ; supplicarono che i due ammalati fossero sì affidati alle loro cure, ma trasportati con la carovana : col calcio del fucile furono sospinte dai Bosniaci su per la scala, mentre due soldati con la baionetta che toccava loro il petto gridavano che le avrebbero finite se non avessero smesso di strillare. Alle quattro precise del 7 dicembre la carovana si mosse : a questa era stata aggiunta, travolta dalla stessa sorte, tutta la famiglia Sant che aveva ospitato le suore e l’arciprete. Anche quella sera il sole tramontava in un mare di fuoco.
Pochi minuti dopo giungeva il cappellano militare, P. Tecelin Joseph Jaksch, accompagnato da don Marin, con il permesso del Comando di divisione, con cui si concedeva all’arciprete di S. Donà e ai suoi parrocchiani l’ordine scritto di rimanere sul posto. Troppo tardi! Il permesso giovò soltanto per la famiglia Sgorlon che riprendeva e rioccupava le proprie stanze, dove rimase indisturbata fino al 19 febbraio 1918.
La sosta notturna presso Stretti
Dopo tre ore di cammino angoscioso, sempre in silenzio, si giunse in località chiamata Stretti, a sette chilometri da Grisolera e cinque da Torre di Mosto. Qui i soldati ordinarono la sosta e il riposo per la notte. La posizione era deserta ; nessun vestigio di abitazione umana ; una stamberga abbandonata, al di là del canale, raccolse quella notte un centinaio di persone. ‹‹ E noi dovemmo passare la notte così, dopo una giornata di tante vicende. Prendemmo posto, con la poca roba che ci era rimasta, in una orribile stanzaccia ; per coricarci in qualche modo, stendemmo un po’ di fieno che doveva aver servito alle sentinelle del ponte sul vicino canale, e che doveva contenere molti inquilini poco graditi. In un’altra stanzaccia prese ricovero la famiglia Sant che era stata cacciata con noi. Faceva freddo, un freddo umido che saliva dalle acque circostanti con una nebbia fitta che penetrava le ossa. I bambini impauriti, privi di nutrimento, piangevano. ̶ ̶ ̶ Ci siamo raccolti per la preghiera : i soldati bosniaci guardavano e sorridevano ; un po’ di polenta fredda, portata dalla famiglia Sant, fu l’unico cibo di quella giornata, condito con le lagrime più amare : poi, vestiti come eravamo, ciascuno si gettò sulla terra, sulla paglia, accovacciato lungo le pareti ; qualche coperta sulle spalle alle donne e ai bambini, e si cercò il riposo. Ma non fu possibile il riposo dopo una giornata di tante lotte e di tante emozioni ; fuori, i soldati avevano acceso un gran fuoco che minacciava quel tugurio mezzo coperto di paglia, e tra le risa, i frizzi e gli schiamazzi attendevano il sorgere del nuovo sole. Più lontano, in un sussulto monotono, cadenzato, rumoreggiava il cannone››.
La mattina dell’8 si ritrovarono soli nel viaggio verso Torre di Mosto
Spuntò finalmente il mattino del giorno 8 dicembre, festa dell’Immacolata : gli uni dubitavano sulla sorte degli altri. Quando si videro tutti in vita, dinanzi alla catapecchia, imbrattati di fango e di lordura, ma ancora salvi ; quando si videro soli e senza soldati che si erano allontanati senza lasciare nuovi ordini e nuove disposizioni ; quando si riconobbero liberi da tante angherie, respirarono e ringraziarono la Provvidenza. ̶ Le due suore rimaste prigioniere furono ugualmente protette dalla mano di Dio : otto giorni dopo raggiunsero le consorelle a Torre di Mosto, accompagnate dal cap. Hertzog. Il capitano anzi, che le precedette a cavallo, permise che quelle sue suore potessero trasportare a Torre quel materiale che era rimasto abbandonato in casa Sant, e, di più, concedette loro una armenta per provvedere di latte gli ammalati. Una brina gelata dava tutto attorno alla campagna deserta lo spettacolo della morte.
Bisognava provvedere a tanta gente per non lasciarla morire di fame e di freddo in quella località ; bisognava provvedere ai mezzi di trasporto. Mons. Saretta, staccatosi subito dalla compagnia, si diresse verso Torre di Mosto per celebrarvi la Messa e per provvedere alle necessità più urgenti.
Quel grave pericolo corso da Monsignor Saretta
Fu durante quel viaggio disastroso del 7 dicembre che Mons. Saretta corse il pericolo di venir soppresso per sempre. Teneva rinchiuso nel taschino della veste la copia di un discorso pronunciato nell’arcipretale di S. Donà di Piave alla presenza di tutto il popolo e delle autorità civili e militari, in occasione dell’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia ; e, sotto le calze, il suo minuscolo diario di guerra, caduto ora nelle nostre mani, e che ci serve per la ricostruzione di queste scene dolorosissime. Erano due documenti assai pericolosi : il primo poteva essere carpito alla più semplice perquisizione ; il secondo poteva rimanere nascosto. Il primo documento doveva scomparire ; e scomparve in un modo semplicissimo, del tutto originale. Imbacuccato nel su mantello, quando Mons. Saretta percepì che la sua condanna alla fucilazione poteva essere racchiusa in quelle poche pagine, piegò la testa fino a coprirsi la bocca, estrasse, dal disotto, quell’opuscolo e cominciò a lacerarlo con i denti fino a ridurlo, lentamente, pezzo a pezzo, in una pontiglia : poi lo sputò, a varie riprese, sulla lunga strada. ‹‹ Sta male, Reverendo ! ››, gli ripeteva sghignazzando un interprete triestino, veramente poco triestino, che lo accompagnava unitamente ai soldati di guardia ; ‹‹ ringrazi Cadorna ! ››. All’ironia si aggiungevano gli insulti e le beffe ! ‹‹ No ! signore, ̶ rispose sollevando la testa pallida Mons. Saretta, ̶ sto benissimo ; oggi non ho nessuno da ringraziare, e neppure lei ! ››.
L’interprete comprese la risposta, e più non fiatò ; prima del tramonto quel documento compromettente era scomparso del tutto.
L’occupazione raccontata da Monsignor Chimenton in “San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” nei post dedicati:
29 ottobre – 5 novembre 1917 prima parte; 6 – 9 novembre 1917 seconda parte; 9 – 11 novembre 1917 terza parte; 9 – 12 novembre 1917 (Passarella) quarta parte; 12 – 14 novembre (Passarella-Chiesanuova) quinta parte; 14 – 15 novembre 1917 (Chiesanuova) sesta parte; 13 novembre 1917 (Grisolera) settima parte; 14 – 18 novembre 1917 ottava parte; 16 – 21 novembre 1917 (Passarella e Chiesanuova) nona parte; 19 – 22 novembre 1917 (San Donà) decima parte; 23 – 30 novembre 1917 undicesima parte; 22 – 30 novembre 1917 (Torre di Mosto) dodicesima parte; 1 – 5 dicembre 1917 tredicesima parte; 6 – 8 dicembre 1917 quattordicesima parte; 8 – 15 dicembre 1917 quindicesima parte; 16 – 30 dicembre 1917 sedicesima parte; 31 dicembre 1917 – 5 gennaio 1918 diciassettesima parte