Quando l’Italia si ritrovò sotto i bombardamenti

Nel 1940 l’Italia entra in guerra a fianco della Germania, l’esercito italiano verrà impegnato in tanti fronti ma alla fine sarà la popolazione italiana tutta a ritrovarsi al fronte stretta tra eserciti stranieri, italiani contro e distruttivi bombardamenti. Il peggior flagello che l’Italia ricordi e anche San Donà ne pagò un prezzo.

Il Monumento ai Caduti di San Donà di Piave

L’Italia in guerra vi entrò nel 1940 ma già dagli anni Trenta i soldati italiani stavano combattendo in molti fronti, presenti in Libia e in Somalia gli italiani conquistarono l’Etiopia nel 1936 occupando poi l’Albania nel 1939. Conflitti che dal punto di vista economico avevano minato le finanze italiche, tanto più che l’autarchia di regime contrapposta alle sanzioni internazionali non avevano regalato prospettive dorate alla popolazione italiana sempre più alle prese con pesanti ristrettezze. Con il 10 giugno 1940 l’entrata in guerra a fianco della Germania contro Francia ed Inghilterra non fa che acuire i problemi ma al tempo stesso rende esplicito quel prezzo che si dovrà pagare alla guerra. Se da un lato continuano i tanti arruolamenti degli elementi più e meno giovani della popolazione dall’altro già nella notte tra il 10 e l’11 giugno Torino e Genova subirono il primo bombardamento da parte della RAF inglese. Il settore industriale di Liguria, Piemonte e Lombardia divenne un obiettivo delle incursioni aeree notturne inglesi e francesi, ma anche le raffinerie di Porto Marghera subirono il loro primo attacco aereo francese nella notte tra il 13 e il 14 giugno. Francesi che di lì a poco saranno costretti alla resa dall’invasione nazista e contro cui solo poco prima della resa l’esercito italiano aveva iniziato ad avanzare da sud. Se la minaccia francese venne meno grazie al governo collaborazionista di Vichy, i bombardamenti continuarono negli anni a venire da parte di inglesi e alleati: inizialmente ebbero obiettivi economici e bellici, ma che nel proseguo del conflitto mondiale videro sempre più colpita la popolazione civile e lo stesso patrimonio artistico italiano ne pagò un caro prezzo.

In guerra anche contro gli Stati Uniti

Nel dicembre 1941 gli Stati Uniti subirono l’attacco giapponese a Pearl Harbour e la loro neutralità venne meno, subito dopo la Germania e l’Italia dichiararono guerra agli Stati Uniti in nome dell’alleanza instaurata con il Giappone. Se inizialmente le forze dell’Asse trassero beneficio dal tener impegnato il nemico americano da parte dell’alleato giapponese, poi le sorti del conflitto cambiarono quando un anno dopo gli Stati Uniti rinforzarono gli inglesi in Africa dove gli italiani prima e i tedeschi poi avevano attaccato l’Egitto controllato dagli inglesi. Nel mezzo vi era stata la rovinosa invasione della Russia da parte delle truppe dell’Asse, che costò carissimo alla Germania e ai suoi alleati. Tra offensive e controffensive furono soprattutto i due inverni russi a mietere migliaia di morti. Un’Italia in guerra su infiniti fronti ma che già prima del 1939 era conscia della propria impreparazione militare e che suo malgrado ora vedeva le sue truppe impegnate in Etiopia, nel Nord Africa, in Russia, in Grecia, in Jugoslavia.

La guerra alle porte di casa
19 luglio 1943 il bombardamento di Roma, 3mila morti e 11mila feriti

Con la sconfitta in Nord-Africa, per l’Italia le prospettive si fecero rapidamente cupe. Gli angloamericani sbarcarono il 10 luglio 1943 in Sicilia, nel giro di poche settimane arrivarono a controllare l’isola. Un incontro di Mussolini con Hitler nei pressi di Feltre non offrì vie d’uscita all’Italia tanto che in quelle stesse ore un pesante bombardamento aereo alleato colpì per la prima volta Roma. Lo stesso Mussolini venne messo in minoranza il 25 luglio dal Gran Consiglio del Fascismo e successivamente fu dimissionato da Vittorio Emanuele III, imprigionato, e sostituito con Badoglio. Quella via d’uscita la monarchia pensò di trovarla firmando un armistizio con gli alleati, e reso pubblico l’8 settembre, il re e il governo italiano presero la via prima di Pescara e poi di Brindisi. La reazione tedesca fu violenta tanto che liberarono Mussolini il 12 settembre e attuarono quello che avevano sempre fatto in ogni altro paese dell’Asse ribelle: controllo militare tedesco e costituzione di un governo amico, in questo caso la Repubblica di Salò con a capo nuovamente Mussolini. Con l’esercito italiano in rotta e i comandi senza ordini, per i tedeschi fu gioco facile prendere il sopravvento e requisire armamenti e rifornimenti. Tra l’altro il comando tedesco aveva già previsto un passo indietro italiano e si era quindi preparato ridispiegando e rinforzando le truppe nella penisola. Pesanti furono i bombardamenti che colpirono le città meridionali, gli alleati si preparavano a sbarcare in Puglia, in Calabria e in Campania. Con l’operazione “Slapstick” gli alleati sbarcarono a Taranto e l’armistizio fu una chiave per farlo con il minimo danno, nel giro di qualche settimana riuscirono a controllare l’intera Puglia. Dal punto di vista strategico l’occupazione del Salento permise agli alleati di ripristinare le numerose basi aeree italiane, funzionali sia per l’avanzata nel meridione che per colpire il Nord Italia. E proprio dalla Puglia partirono gli aerei della 15° USAAF che colpirono anche le nostre zone.

Dopo l’armistizio s’intensificano i bombardamenti
7 aprile 1944 bombardamento di Treviso, 1470 morti – “Palazzo dei Trecento”

Se nel settembre 1943 l’Italia cercò una via d’uscita firmando l’armistizio, la massiccia presenza tedesca non rese meno tenace la guerra. Anzi il conflitto divenne più crudo con un ruolo sempre più subalterno dei fascisti della Repubblica di Salò nei confronti dell’esercito germanico divenuto ancor più d’occupazione agli occhi di una popolazione stanca e insofferente. Se da un lato oramai la popolazione italiana a fronte dei tanti bombardamenti aveva per la gran parte abbandonato le città e cercava di tenersi lontano dai possibili obiettivi militari, dall’altro le distruzioni di interi quartieri di una guerra tutt’altro che selettiva fece registrare tante perdite tra la popolazione civile. Uno dei bombardamenti più duri nello scenario veneto fu quello che subì Treviso il 7 aprile 1944 che costò 1470 morti ed una distruzione generalizzata del centro cittadino, ne fece le spese anche il Palazzo dei Trecento, uno dei simboli artistici della città.

La guerra alle porte di casa
Il ponte stradale negli anni trenta

In quei primi mesi del 1944 i bombardamenti di Treviso e quelli continui di Mestre e di Porto Marghera avevano prodotto un alto numero di sfollati che cercarono scampo nelle zone circostanti, non ultima San Donà di Piave che accolse numerose famiglie e riuscì a raccogliere per la diocesi ferita ben cento mila lire di offerte. Ma le stesse autorità di San Donà incominciarono in quella primavera del 1944 ad invitare la popolazione ad abbandonare il centro cittadino e soprattutto a tenersi a distanza da quegli obiettivi militari come potevano essere il ponte stradale e quello ferroviario, sottolineandone le zone e le vie da cui era consigliata l’evacuazione specie di chi non sarebbe stato in grado di farlo celermente in caso di pericolo. Ed in particolare di notte ad osservare gli orari del coprifuoco per non offrire il fianco ai sorvoli dei caccia alleati notturni.

Le prime bombe cadono sul sandonatese

Con il fronte che si avvicinava alla Romagna si intensificarono nell’estate i bombardamenti delle città, particolarmente cruenti quelli intorno a Bologna, ma non di meno le incursioni imperversarono verso i porti di Venezia e Trieste. Inutile dire che la direttrice degli aerei portava al sorvolo continuo dei cieli sandonatesi, una minaccia costante e pur se molte missioni prendevano la direzione della Germania tra gli obiettivi multipli che avevano, anche le nostre zone entrarono spesso nel mirino degli attacchi alleati. I timori dei tanti sandonatesi che scrutavano i cieli solcati dagli aerei alleati presto si materializzarono. Le prime bombe caddero nella zona della Casa Paterna in via Calnova e a Chiesanuova il 18 luglio, mentre particolarmente importanti furono i danni subiti da Musile il 21 luglio con le prime vittime, danni anche dal lato sandonatese subì la strada arginale verso Grisolera.

Le truppe tedesche prendono possesso di San Donà
Il ponte della ferrovia colpito dai bombardamenti alleati

A fine luglio le truppe tedesche rafforzarono la loro presenza a San Donà occupando in modo stringente molte zone della città e requisendo numerose abitazioni, lo stesso Oratorio Don Bosco era pieno di soldati tedeschi con cui i salesiani furono costretti ad una scomoda convivenza. Una presenza tedesca che si manifestava in tutto il sandonatese con continue retate nelle quali i tedeschi si alternavano ai fascisti alla ricerca di partigiani, disertori del regio esercito e sempre più di militari alleati sopravvissuti agli abbattimenti degli aerei che sorvolano i cieli sandonatesi e non. Il 3 agosto di un nuovo pesante bombardamento fu fatto oggetto Musile dove caddero un centinaio di bombe, un’altra ventina caddero su San Donà. L’obiettivo palese erano sempre i ponti sul Piave ma è inevitabile che a farne le spese furono i centri cittadini. Alla fine di agosto a finire sotto le bombe fu il ponte della ferrovia pesantemente danneggiato.

Quella sirena divenuta incubo
Le sirene antiaeree ancora esistenti sui tetti di Roma

Numerosi erano gli allarmi aerei che risuonavano ogni giorno a San Donà e la tarda mattinata era l’orario solito in cui tutti erano costretti a cercare di sfuggire alle possibili esplosioni, chi in rifugi predisposti chi in ripari di fortuna. Decisamente più scomodi quando a risuonare erano le sirene di notte con uno stato di apprensione perenne della popolazione che aveva deciso di rimanere in città. Come racconta Savio Teker nel suo libro (2.): « I segnali d’allarmi erano tre: Limitato pericolo (tre segnali da 10 secondi con intervalli di 10 secondi); Pericolo (dieci segnali di 3 secondi con intervalli di 3); Cessato allarme (un segnale di 60 secondi) ». Gli inviti all’evacuazione della città verso le zone di campagna divennero sempre più assillanti e numerose erano oramai le famiglie che ingrossarono le fila degli sfollati.

Il campanile come rifugio notturno
Immagine aerea del centro di San Donà di Piave del 1930

Tra i simboli di quel periodo fatto di continue minacce aeree diurne e notturne a sorpresa vi è stato il Campanile. Ne dà conto Savio Teker inserendo nel suo libro (2.) un racconto pubblicato su un foglietto parrocchiale e scritto dallo stesso Monsignor Saretta a Liberazione di San Donà avvenuta: « Ci sono dei cittadini che hanno proprio chiesto ospitalità al campanile per fare i loro sonni tranquilli, e su per le scale, in tutti i piani del grattacielo, fino alla cella campanaria, ogni notte si dispone con mezzi di fortuna una folla silenziosa e trepidante per sottrarsi ai colpi micidiali di “Pippo” tenebroso. Tutto lo spazio disponibile è utilizzato. Non cadrebbe per terra un grano di miglio. Vi sono i “sediari” pigiati l’uno vicino all’altro, diritti, avvolti nelle ampie coperte per ripararsi dal freddo che entra col vento dalle finestre senza vetrate. Stanno immobili, rigidi, per tutta la notte, come pietrificati. Più disgraziati sono quelli che devono accomodarsi in qualche modo su per la scala. Ciascuno ha il suo gradino, e guai a chi osasse toccarla! Il diritto del primo occupante è riconosciuto in pieno. Qualche fortunato, di proporzioni più abbondanti, si è assicurato l’uso anche di due o tre gradini. E se durante la notte si potesse far luce su quella folla di accoccolati, sarebbe uno spettacolo strano, macabro, pietoso quello che si presenterebbe al nostro sguardo. Poi ci sono i privilegiati, che hanno imbastito un letto di fortuna, con reti metalliche, con materassi. Devono però essere puntuali, all’ora fissata, perché non v’è spazio fra letto e letto e chi arriva in ritardo deve passare sopra i malcapitati, che già riposano sotto le coperte, con pericolo di sentirsi mettere il piede,,,,in fallo. Non mancano le sentinelle, s’intende, senz’armi: sono i ricoverati sporadici, che nel momento del pericolo cercano rifugio in campanile e vi si introducono a furia di spintoni, e vi restano per ore e ore, nelle posizioni più incomode, ma sempre in piedi, a disagio, in attesa di…. Riveder le stelle. Piccole fiammelle a olio, accese davanti al Crocefisso, illuminano la strana catacomba (in senso verticale), quel tanto che è indispensabile per evitare pericoli e disordini, e rendono il soggiorno anche più tetro e misterioso. Così per settimane, per mesi, per tutte le notti, da quando gli aerei notturni vanno spargendo il terrore e la morte ».

(1 – Prima parte); (2 – Seconda parte « Morte e distruzione nel tragico autunno 1944 »); (3 – Terza parte « Quel ricordo che ti riporta all’ottobre 1944 »)

Per approfondimenti: 1. « Lucia Schiavinato » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1988); 2. « Storia Cristiana di un Popolo: San Donà di Piave » di Domenico Savio Teker (De Bastiani Editore, 1994); 3. « San Donà di Piave » di Dino Cagnazzi (Amministrazione Comunale di S. Donà di Piave, 1995); 4. « L’Ospedale civile di San Donà di Piave 1900-2000 » di Autori Vari (Tipolitografia Adriatica, 2000); 5. « Un soffio di libertà » di Morena Biason (Nuova Dimensione, 2007); 6. « Monumento ai caduti in guerra 1915-18 » di Roberto Gattiboni (Passart Editore, 2018); 7. « Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale del Comune di San Donà di Piave » di Luisa Florian e Maria Trivellato (Digipress Book, 2019); 8. « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi (Digipress Book, 2021); 9. « L’Italia bombardata: Storia della guerra di distruzione 1940-1945 » di Marco Gioannini e Giulio Massobrio (Mondadori, 2021)

Antonio Pasinetti, un fotografo di San Donà

Cartolina viaggiata del 1940 (Ed. Fratelli Dall’Oro, fotografia Antonio Pasinetti, Fotocelere di A. Campassi – Torino)
I fotografi di San Donà dall’Annuario del Regno d’Italia 1935

In via Borgo, poi via Vittorio Emanuele, quindi corso Silvio Trentin sempre vi è stato un fotografo. Che sia egli Battacchi, oppure Pasinetti, o anche Striuli le loro immagini sono rimaste impresse nella storia sandonatese in quanto sono state oggetto di cartolina. Un biglietto da visita importante di San Donà di Piave e come tale oggetto da collezione e testimanianza da tramandare ai posteri.

Foto da cartolina

Una macchina fotografica a pellicola dell’epoca.

E allora ci par di vederli i fotografi di quegli anni muoversi con quei loro strumenti di lavoro, solo lontani parenti di quelli sconfinati nell’oggi dell’era digitale. Doveva essere una strumentazione piuttosto ingombrante quella che veniva utilizzata all’epoca che sicuramente non sfuggiva agli occhi dei passanti, molti dei quali divenivano parte attiva degli scatti del fotografo anche perchè liberare la scena poteva risultare un pò complicato. E allor si capisce come i fotografi cercavano sovente degli orari dove i soggetti in movimento fossero pochi e non costringessero gli stessi a sprecare inutilmente lastre e pellicole in cerca del giusto scatto che solo in un secondo tempo avrebbero potuto controllare.

Tutto in una notte, degli indimenticabili scatti

Cartolina viaggiata del 1942 (Foto Antonio Pasinetti, Fotocelere di A. Campassi – Torino)

E viaggiando ancora di immaginazione pensiamo ad Antonio Pasinetti che in fatto di cartoline ha contribuito in modo importante, con degli scatti di assoluto valore beneficiati all’epoca anche da dei formati che valorizzavano al massimo l’immagine proposta nelle cartoline. In particolare gli scatti notturni di Piazzetta Trevisan devono avere avuto una preparazione particolarmente accurata. I lampioni accesi, la fontana pienamente funzionante, di sicuro non furono pochi nemmeno i permessi per riuscire a realizzare il tutto. Non ci stupiremo che la sua opera fosse stata richiesta dalle autorità dell’epoca, un modo per celebrare artisticamente la collocazione della nuova fontana al centro della piazza di fronte al Duomo. E allora pensiamo al fotografo mentre studia la scena, guarda le luci a disposizione e cerca la giusta angolazione per trovare la migliore inquadratura. Un lavoro talmente accurato che di quella piazza possiamo ora ammirarne ben tre scatti divenuti cartolina. Sembra quasi di accompagnare l’autore in quel notturno contesto seguendo quel suo obiettivo quasi fosse uno guardo reale. Un accompagnarci passo passo intorno a quella piazza sentendo i rumori e apprezzando le luci, le ombre e i precisi contorni dei dettagli.

Cartolina viaggiata del 1935 (foto di Antonio Pasinetti, Fotocelere di A. Campassi – Torino)

La fontana di Piazzetta Trevisan

Il duomo distrutto nel 1918 ritratto dalle case che all’epoca erano poste nello spazio che poi sarà destinato a piazzetta Trevisan

Le cartoline sono della metà degli anni Trenta e furono più volte riproposte anche in successive edizioni sino agli anni sessanta. Quella Piazza fu voluta dall’arciprete Luigi Saretta all’alba della ricostruzione dopo il buio e la distruzione della grande guerra. Prima di fronte al vecchio duomo la città si era interamente sviluppata lungo la via principale che dinanzi passava, oltre quella linea di case non vi era nulla. Nel ridisegno della città con la riedificazione del nuovo duomo venne sviluppata frontalmente anche una piazza appena oltre il corso il principale intitolata ad Angelo Trevisan, esponente di quella casata a cui è legata l’origine stessa di San Donà. Uno spazio che venne pienamente utilizzato nel 1925 in occasione del Congresso Eucaristico e che successivamente vide la collocazione della fontana. L’anno preciso lo si può desumere da una cartolina dell’epoca, alla base della fontana viene indicato l’anno fascista XII°, ovvero il 1934. Il che ci riconduce a quegli scatti fotografici di Antonio Pasinetti, poi divenuti cartolina.

La fontana di Piazzetta Trevisan in una cartolina viaggiata del 1934, l’iscrizione alla base indica lo stesso anno della cartolina ovvero il XII° anno fascista.
Quell’angolo del Duomo nel 1932

Quell’angolo del Duomo nel 1932

Il timbro della cartolina del 1932

Quelle storie sospese che s’incrociano nelle cartoline hanno un nuovo capitolo. Non tanto per lo scritto questa volta ma per i protagonisti della storia. Di sfuggita avevo intravisto solo l’immagine, sembrava quasi il classico soggetto religioso che talvolta s’incrocia in talune cartoline. A guardarla bene aveva un qualcosa di famigliare, un già visto che poteva avere un nesso passato ma non certezza. Ed invece una volta arrivatami in mano ecco scoprirne anche la didascalia. Il velo subito è sceso e il nesso sandonatese è stato subito scoperto, quel granello di ricordo è divenuto montagna. L’approfondimento poteva iniziare.

La cappella del Duomo di San Donà di Piave
Il fronte della cartolina viaggiata del 1932, con l’altare della Cappella del Duomo di San Donà

L’immagine è della fine degli anni venti, ovvero di quel periodo nel quale anche il nuovo Duomo sandonatese conobbe la sua completa ricostruzione dopo la grande guerra. La stessa immagine la si trova nel libro di Monsignor Chimenton “S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella” (1928). E’ uno scatto del fotografo sandonatese Batacchi, molte le sue immagini della città contenute nel libro del Chimenton e ancor più numerose quelle divenute cartoline in quegli anni. Il soggetto ritratto in questa immagine è l’altare dedicato San Vincenzo Ferreri presente nella Cappella della Fonte Battesimale nel Duomo di San Donà di Piave, la prima cappella alla destra dell’altare principale. Offerto alla parrocchia dal cav. Dott. Vincenzo Janna, sopra l’altare campeggia una pala dipinta dal pittore Cherubini incastonata in un mobile fatto dall’intagliatore Papa su disegno dell’architetto Torres.

Così descriveva Monsignor Chimenton la pala dedicata a San Vincenzo Ferreri: « La Madonna delle Grazie campeggia in posto d’onore, su quella tela, seduta su di un ricco trono, come una matrona; fra le sue braccia sostiene il Bambino. Riccamente vestita, in un atteggiamento dolce e delicato, unitamente con il suo Figliuolo Divino volge il suo sguardo verso i Santi che stanno ai piedi del suo trono, e verso i fedeli che presentano le loro venerazioni: sembra ripetere che la sorgente della sua grandezza e dei suoi trionfi è nella Divina Maternità. Dietro il trono della Vergine, sullo sfondo che si allunga come in una visione di panorama, si scorge il nuovo tempio di S. Donà di Piave, ultimato in tutte le sue parti, anche nel suo nuovo pronao, e il campanile ».

Una fotografia odierna della pala dedicata a San Vincenzo Ferrer

« Ai piedi del trono della Vergine stanno i Santi patroni della cittadina, che ricordano la diocesi di Treviso e la vecchia Gastaldia di S. Donà: S. Liberale, che regge lo stendardo del Comune di Treviso, è in atteggiamento di perfetto guerriero, dalla divisa romana, e la corazza sul petto; tiene la sua fronte rivolta alla Vergine; con le mani congiunte sembra impetrare da Maria nuove grazie per la diocesi di cui è patrono, come ne ottenne per la stessa durante la guerra; San Vincenzo Ferreri, nel suo abito domenicano, la più bella fiugura, forse, del quadro, che additando con la mano sinistra la Vergine, la mano destra poggiata sul petto, ricorda in parte almeno, il programma della sua predicazione; S. Donato Vescovo sostiene nella sua destra il pastorale e nella sinistra il libro del Vangelo: è la figura solenne del patrono della Gastaldia; S. Marco evangelista, austera figura di pensatore e d’inspirato, che, la fronte leggermente sollevata, l’occhio raccolto come di chi medita su quanto sta compiendo, o meglio su verità che devono formare la base della nuova fede, scrive il suo Vangelo: seduto su d’un masso, ha presso di sé il fulvo leone, simbolo della gloriosa repubblica di Venezia ».

Una cartolina sorprendentemente rara che non ricordo di aver mai incrociato e che potrebbe essere parte anche di una serie di cartoline.

Nella mappa del Duomo l’esatta ubicazione dell’altare nella cappella della Fonte Battesimale
La tipografia S.P.E.S. San Donà di Piave
La tipografia S.P.E.S. con vista Duomo

Anche il retro porta una sorpresa relativa alla stampa della cartolina. A editare e stampare la stessa è la S.P.E.S. di Evaristo Da Villa che delle cartoline poi farà una missione con una sterminata varietà nei decenni successivi anche se la tipografia sandonatese non la si trova più stampigliata sul retro. Riguardo alla S.P.E.S. ci viene in soccorso ancora Monsignor Chimenton che di questa tipografia scrive « La tipografia Spes sorse dopo la guerra. Iniziò il suo lavoro in casa Gnes, in viale Margherita. Nel 1926 si trasportò in un locale più ampio, più adatto, in via Giannino Ancillotto, presso il nuovo teatro Verdi. Ne è proprietario Evaristo Da Villa, la direzione tecnica è affidata al signor Guido Zottino.

Quel destinatario depositario di una storia
Il destinatario della cartolina del 1932

La cartolina è  del 1932 e venne inviata a Roma presso l’Ospizio Salesiano del Sacro Cuore dove risiedeva il chierico Luigi Ferrari. Questi altri non era che uno dei tre salesiani che nel 1928 arrivarono a San Donà di Piave per partecipare alla fondazione dell’Oratorio Don Bosco, all’epoca già in costruzione. Oltre al chierico, vi erano il direttore don Riccardo Giovannetto e il coadiutore Mauro Picchioni. I tre legarono la loro permanenza sandonatese non solo in ottica costruzione dell’Oratorio ma prestarono la loro opera anche all’Orfanotrofio fondato subito dopo la conclusione della prima guerra mondiale.

L’arrivo dei salesiani a San Donà di Piave
Bollettino Salesiano nr. 11 novembre 1928

Una descrizione molto significativa dell’arrivo dei tre salesiani a San Donà di Piave è contenuta nel Bollettino Salesiano nr. 11 del novembre 1928 (pag. 7):  « Il 24 settembre, giorno in cui il popolo di S. Donà di Piave celebrava la festa in onore della Madonna del Colèra, i Salesiani fecero ingresso in città per dar principio al loro apostolato tra la gioventù. L’accoglienza che il buon popolo fece ai nostri confratelli, fu la più entusiastica che si possa immaginare.  Alla stazione erano ad attenderli l’Arciprete Mons. Luigi Saretta, che tanto si adoperò per avere in S. Donà i Figli di Don Bosco, e con lui erano la Contessa Corinna Ancilotto, benemerita Presidente dell’Orfanotrofio, Donna Amelia Fabris e Donna Maria Bortolotto del Comitato d’onore; le signore Perin, Bastianetto e Bagnolo del gruppo Donne Cattoliche; il Cav. Magg. Peruzzo, il cav. Marco Bastianetto, l’ing. Ennio Contri, il geom. Attilio Rizzo, i sig. Giuseppe Bizzarro, Alberto Battistella, Umberto Roma ed altri di cui ci sfugge il nome, per il Comitato esecutivo pro Oratori e per gli Uomini Cattolici. Dopo un breve saluto e colloquio nella sala d’aspetto, gentilmente concessa dal Capo Stazione, li attendeva una immensa folla che li accolse con evviva ed esclamazioni mentre i fanciulli eseguivano con l’accompagnamento della Banda locale, apposito inno composto dal Rev.mo Arciprete. »

In corteo verso il sentro cittadino. « S’iniziò il corteo aperto dai bambini dell’Orfanotrofio, dai Fanciulli della Dottrina, dagli Aspiranti al Circolo, dal Circolo Giovanile, e dietro agli Uomini Cattolici, venivano i Salesiani circondati dal Clero locale, dal Comitato Esecutivo dell’Oratorio e dalle Autorità. Seguiva una folla immensa di signore, di donne del popolo, di giovanette del Circolo, di Piccole Italiane, e in coda per adesione in segno di onore, una interminabile fila di automobili delle principali Famiglie del paese. Il corteo imponente si diresse al Duomo fra una festa di sole, di canti, di suoni, uno sventolio di bandiere e due ali di popolo reverente e festante. Da tutte le case su tutti gli alberi erano scritte inneggianti ai Salesiani. Giunti in Piazza del Duomo il corteo si fermò su l’atrio ove, accompagnato dalla Banda fu di nuovo eseguito l’inno da migliaia di voci.

In una immagine fatta all’Orfanotrofio in quegli anni, sono presenti i tre salesiani. Nella foto si riconoscono tra gli altri: il primo seduto a sinistra MAURO PICCHIONI, il chierico P. Pretz, MONSIGNOR LUIGI SARETTA, don RICCARDO GIOVANNETTO, il sig. G. Rocco. In alto in veste nera, uno dei protagonisti di questa nostra storia il chierico LUIGI FERRARI

Il saluto in Duomo.  Entrati nella Chiesa affollata di popolo, i Salesiani ricevettero il saluto da mons. Vescovo di Treviso. Mons. Longhin ricordò la lunga attesa, le preghiere, le suppliche dell’Arciprete e prendendo lo spunto dall’immensa moltitudine presente fece rilevare come tutto il popolo avesse desiderata ed attesa la venuta dei Salesiani. In nome di tutti e in nome proprio, Egli si disse lieto di salutarli: Benedicti! Sicuro che traendo lo spirito e gli auspici del grande Educatore don Bosco, essi avrebbero compiuta opera feconda di bene nella vasta Parrocchia. Si augurò di veder presto sugli Altari il Fondatore della Famiglia Salesiana, lieto di tornare a S. Donà per celebrare le virtù e le glorie di Giovanni Bosco.

La processione in onore della Madonna del Colera del 24 novembre 1928 tratta da Inoratorio

Dopo la Messa solenne celebrata da mons. Valentino Bernardi con assistenza di S. E. Mons. Vescovo e di numeroso Clero, i Salesiani furono accompagnati in Canonica dove ricevettero l’omaggio del l’ill.mo sig. Podestà Dr. Costante Bortolotto e dei due vice podestà sig. Giuseppe Fornasari e sig. Giuseppe Davanzo.

Sul mezzogiorno Autorità e Clero in bella armonia di gioia e di festa, si raccolsero in Canonica a banchetto insieme con mons. Vescovo e i Padri Salesiani. Al levar delle mense brindarono, acclamatissimi l’Arciprete e il Podestà. Rispose il Rev.mo Ispettore Don Festini ringraziando commosso.

La processione pomeridiana.    Nel pomeriggio si svolse la tradizionale interminabile Processione sigillata da un ispirato discorso di monsignor Vescovo. Tal festa rimarrà in benedizione ed in memoria nel cuore di tutti i Sandonatesi. »

Questa la relazione pubblicata dall’ottimo AVVENIRE D’ITALIA del 29 settembre . « Sentiamo il dovere di esprimere a Mons . Longhin, al R .mo Sig. Arciprete, alle Autorità e a tutte le egregie persone che ebbero parte attiva in questa dimostrazione, la nostra riconoscenza. Particolarmente a Mons. Saretta, che volle con un bellissimo Numero Unico intitolato : I Salesiani a S . Donà di Piave far conoscere alla buona popolazione l’opera di D. Bosco e l’apostolato dei suoi figli. Nella lettera con cui annunziava la venuta dei Salesiani, diceva ai suoi parrocchiani : Fin dal primo istante i Salesiani devono sentire la simpatia, la benevolenza, il cuore di S. Donà di Piave. Li accompagneremo all’Altare, per sciogliere l’inno della riconoscenza e per invocare la benedizione del Signore sopra di loro e sopra i nostri figli». I salesiani hanno sentito ciò nell’accoglienza del 24 settembre e sperano che la benedizione del Signore e la benevolenza del popolo sandonatese li aiuteranno a esplicare con frutto la propria missione. »

E come d’incanto anche il mittente è d’eccezione

Ricca la storia contenuta in questa cartolina, da ogni parte la si guardi offre spunti di approfondimento. Manca solo di conoscere chi abbia scritto al chierico Luigi Ferrari in quel 1932. Come la ciliegina sulla torta è da sempre considerata l’ultima preziosità ivi depositata, anche il mittente è la giusta conclusione di questa nostra storia. Lo scritto è breve quasi una stringata risposta ad una precedente missiva. “Anch’io….ricordando” è l’unica frase inserita, accompagnata dalla firma: Luigi Saretta, ovvero l’arciprete di San Donà di Piave.

Le poche parole scritte da Monsignor Saretta.

Per approfondimenti: 1. « S. Donà di Piave e le Succursali di Chiesanuova e di Passarella » (1928) di Mons. Costante Chimenton; 2. « Storia cristiana di un popolo – San Donà di Piave » (1994, De Bastiani Editore) di Domenico Savio Teker; 3. « Ancora un giro in giostra » (2006, Tipolitografia Colorama) di Wally Perissinotto; 4. « Cent’anni di carità » (2021, Digipress Book) a cura di Marco Franzoi; 5. le pagine dei siti Inoratorio.it e Duomosandona.it

La tipografia G.B. Bianchi (fotografia), 1918

Via Maggiore a San Donà di Piave nel 1918

Qualche mese fa raccontavamo la storia della Tipografia G.B. Bianchi ( « Tipografia G.B. Bianchi, San Donà di Piave » ) la sua venuta a San Donà di Piave e la sua importanza nella vita cittadina con le varie pubblicazioni, non ultime le cartoline. A distanza di qualche mese è stato possibile trovarne traccia in una fotografia austriaca scattata durante il terribile periodo dell’occupazione nemica nel primo conflitto mondiale. Ora ne abbiamo la giusta ubicazione, si trovava in via Maggiore nel tratto che dal ponte sul fiume Piave portava al centro cittadino. Nella foto la si nota con la sua insegna sulla destra, sullo sfondo si intravede il Duomo gravemente danneggiato dai cannoneggiamenti dell’esercito italiano posizionato oltre la linea del Piave.

Racconta Monsignor Chimenton che dopo la guerra riprese la sua attività in una sede più onorifica, solo che quella via Nazionale che il Chimenton cita al momento non è ben identificabile, anche se potrebbe essere il primo tratto di dell’attuale corso Silvio Trentin e che nel periodo successivo alla prima guerra mondiale venne denominata via Vittorio Emanuele.

Quel terribile inverno russo del ’42

« Mannaggio u freddu ca fa » (cit. Alessandro Marini, 277° Regg. Fanteria – Divisione Vicenza)

Cartolina viaggiata di San Donà di Piave (Chiesa – Interno). La cartolina porta nell’immagine un’imperfezione, è sporcata dall’inchiostro di un timbro particolarmente grande.

Ci sono cartoline sulle cui immagini ci soffermiamo incuriosendoci sui soggetti, i dettagli, i ricordi. Spesso questi ultimi nemmeno ci appartengono essendo legati ad un altro tempo, ad un’altra generazione. Eppure lì ci soffermiamo pensando se e dove abbiamo visto questa stessa immagine. In questo caso l’interno del Duomo è una di quelle immagini che sono state riproposte più volte nelle cartoline dedicate a San Donà di Piave. La stessa immagine la possiamo trovare sia negli anni trenta-quaranta che successivamente, magari in edizioni sgranate per le prime e patinate per le seconde. La storia che ci viene da questa cartolina è però un’altra e la scelta di quell’interno chiesa non era che una preghiera, una speranza.

La Storia nascosta nel retro

Come talvolta accade è il retro della cartolina che ti spinge ad approfondire, a vedere chi la scrive e chi ne era il destinatario regalandoti un vissuto vero. Siamo negli anni Quaranta, quelli terribili della seconda guerra mondiale, quelli conclusivi del ventennio fascista. L’Italia ormai in guerra vedeva le proprie migliori generazioni partire per i vari fronti, poco prima che l’Italia divenisse essa stessa oggetto del contendere. Quei giovani che avevano attraversato il periodo della grande guerra e che magari avevano vissuto le privazioni e la fame di quel crudo primo dopoguerra, erano lì zaino in spalla a ripercorrere lo stesso destino attraversato dai loro padri.

La madre, mittente della cartolina spediata il 27 dicembre 1942

A scrivere la cartolina è una madre il cui figlio era stato arruolato in un reggimento di fanteria. Lucia Marini, questo il suo nome, la inviava al figlio Alessandro spedendola ad uno di quegli indirizzi speciali che poi l’avrebbero smistata ai vari reggimenti. E’ questo un dettaglio importante perché ci racconta chiaramente lo scenario lungo il quale questa cartolina ha iniziato il suo viaggio.

La posta militare
Timbro « 156 »

Pur non essendo indicata la destinazione, quel numero accanto alla posta militare segnala la divisione a cui è stata inviata la cartolina. Erano molti all’epoca gli indirizzi di questo tipo, nel caso della spedizione in Russia erano addirittura 28. Dei semplici uffici postali dedicati operanti inizialmente presso il comando di Divisione e che poi iniziarono a spostarsi al seguito delle truppe. Una presenza importante quella di questi uffici postali itineranti che dava modo alla truppa di mantenere un contatto con le famiglie in Patria in epoche dove la lettera e lo scritto erano l’unico modo per comunicare. La posta militare 156 in particolare era stata assegnata alla « Divisione Vicenza ».

Posta militare 156, Divisione « Vicenza »
La posta militare delle truppe nella campagna di Russia

La Divisione “Vicenza” era stata ricostituita nella primavera del 1942 dopo le glorie conquistate nella prima guerra mondiale e il successivo scioglimento nel 1919. A farne parte vennero chiamati il 277° e il 278° Reggimento di Fanteria e il 156° Reggimento di Artiglieria. A fine settembre la Divisione “Vicenza” iniziò il suo trasferimento in Russia. Ad affiancare la Divisione anche il servizio postale denominato posta militare 156. Inizialmente il servizio operava da Brescia poi dal 10 ottobre al seguito delle truppe si insediò a Kupjansk, in Ucraina. A metà dicembre gli attacchi russi furono particolarmente cruenti e anche Divisione “Vicenza” venne trasferita a Rossoš. Dopo il lungo trasferimento il 277* Reggimento venne subito schierato in prima linea con le truppe alpine. Gennaio fu un mese terribile per l’esercito italiano attestato sulla linea del Don. I nomi di Nikitowka, Nikolajevka e Valniki divennero presto sinonimi di sofferenza e tragedia. A metà gennaio alla pari delle truppe alpine la Divisione Vicenza venne travolta dall’avanzata dell’Armata Rossa, pesanti furono le perdite ancor più accresciute dalla successiva rovinosa ritirata dove la fanteria pagò a caro prezzo l’inadeguatezza del proprio equipaggiamento. Il 17 gennaio 1943 la posta Militare 156 cessò di esistere, con essa la 108 (Corpo Alpino), la 201 (Divisione Tridentina), la 202 (Divisione Julia) e la 203 (Divisione Cuneense). Altre resistettero sino a marzo, poche altre fino a maggio quando il destino della spedizione in Russia era oramai segnato.

Una speranzosa attesa affidata ad una cartolina

Tornando alla cartolina in questione, questa era solo parte di una fitta corrispondenza tra madre e figlio, tipica di quei tempi di guerra. Talune volte a scrivere e a leggere questi scritti era un sacerdote perchè non sempre le generazioni nate a cavallo del secolo avevano potuto usufruire di un’adeguata istruzione. La scarsa puntualità della consegna portava a ricevere più lettere assieme con delle risposte che si accavallavano. Marini Alessandro che la madre nello scritto chiama Dino apparteneva al 277° Reggimento Fanteria, inquadrato nella Compagnia Comando con incarico telefonista.

Cartolina scritta da Lucia Marini il 27 dicembre 1942

Caro Dino,

ieri ho ricevuto due cartoline in data 5 e 7 corr. e lettera in data 11 corr. dove mi dici che sei in viaggio. Coraggio, caro Dino, speriamo sempre nel Signore. Noi stiamo bene augurando a te. Spero che almeno il secondo telegramma ti sia giunto, ad ogni modo ti mando tanti auguri e ti raccomando di continuare a scrivermi sempre. Ti scriverò presto lettera, intanto ti mando tanti baci.

Tua mamma

Saluti auguri per il nuovo anno. (scritta alla rovescia)

Il triste epilogo

Spedita subito dopo il Natale del 1942 questa cartolina si incamminò verso la Russia ma non è dato sapere fin dove arrivò, di certo non tra le mani del figlio. Come detto la posta militare 156 cessò di esistere il 17 gennaio 1943 quando il fronte cedette. Quale sia stato il destino di Alessandro ce lo indica l’albo dei caduti della seconda guerra mondiale dove il suo nome è incluso e che particolarmente nel caso della Russia unisce accanto ai caduti anche i dispersi. Il soldato Alessandro Marini viene segnalato in questo elenco dal 31 marzo 1943, sul database del sito della Divisione Vicenza viene inserita un’ulteriore informazione relativa al luogo della morte identificato nel campo di prigionia 56 di Uciostoje, nella regione russa di Tambov. Era nato il 10 ottobre 1920 a Cessalto, poco più che maggiorenne morì sul fronte russo.

L’incredibile opera del fato

Il ricordo è un qualcosa di vivo che talvolta è capace di sorprendere quando meno te lo aspetti. E allora può capitare che un documento recuperato tanti anni fa si possa infilare nel mezzo di un altro ricordo che stai sfogliando pretendendo giustamente di esserne parte. Quasi nello stesso momento in cui sua madre scriveva la cartolina, Alessandro Marini scriveva una « cartolina postale per le forze armate » inviando i migliori auguri di buone feste ai funzionari dei Consorzi di Bonifica di San Donà di Piave presso cui evidentemente lavorava aggiungendo uno speciale saluto a Berto Maschietto presumibilmente suo collega. Anche in questo caso l’uso dei nomi è importante Alessandro è il suo nome ufficiale, che lui riduceva a Sandro ma tutti compresa sua madre lo chiamavano Dino. E così si firma per l’amico-collega scrivendogli: “Mannaggio u freddu ca fa”. Dalla stessa si evince che faceva parte della Compagnia Comando del 277° Reggimento Fanteria, 1° Battaglione, ovvero lo stesso reparto che nell’offensiva russa di metà gennaio schierato in supporto alle truppe alpine nel coprire il fronte, venne praticamente decimato. Queste le parole scritte nelle sue memorie dal Col. Giulio Cesare Salvi, comandante del 277° Reggimento: « La situazione peggiora. Il 15 gennaio 1943 il 1/277° dislocato alla difesa di Rossoch, viene travolto dai carri armati russi e pochissimi Ufficiali e soldati riescono a sfuggire…. »

La cartolina postale scritta da Alessandro Marini il 26 dicembre 1942, timbro postale posta militare 156 del 1 gennaio 1943
Il ritorno al mittente
Il destinatario della cartolina e il timbro del mancato recapito

Quella cartolina spedita da Lucia Marini da San Donà di Piave il 27 dicembre 1942 con il timbro « Al mittente, non potuto recapitare per eventi bellici » tornò il 26 agosto 1943. L’immagine rovinata dell’interno del duomo dall’inchiostro di un timbro altro non era che la sovrapposizione successiva di più cartoline che non era stato possibile recapitare. Centinaia, migliaia di missive che tornavano in Patria con tutti i loro irrisolti desideri e le perdute speranze, solo pochi vedranno poi tornare i loro cari. Un triste epilogo che trovò una San Donà su cui gli echi della guerra si materializzarono con il rombo degli aerei in cielo e i successivi bombardamenti. Come molte città venete anche San Donà di Piave ne pagò un prezzo. Ma questa per il momento è un’altra storia.

Per approfondimenti:

1. Divisione Vicenza ; 2. Memoriale del Col. Giulio Cesare Salvi (comandante del 277° Reggimento Fanteria); 3. Posta Militare 156 – La Divisione “Fantasma”; 4. L’elenco dei caduti della Divisione “Vicenza” (Marini); 5. Campagna italiana in Russia (agosto 1941-20 gennaio 1943); 6. Prima battaglia sul Don (20 agosto-1° settembre 1942); 7. Seconda battaglia sul Don (11 dicembre 1942 -31 gennaio 1943); 8. Offensiva Ostrogožsk-Rossoš’ (12 gennaio-27 gennaio 1943); 9. U.N.I.R.R. (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia);

Il sacrificio dei legionari cechi sul fronte del Piave

I cinque legionari cechi giustiziati il 19 giugno 1918 a Calvecchia, presso casa Davanzo vicino alla scuola (foto originale)

Una delle tante Storie che si sono intrecciate con le vicende della Grande Guerra è stata indubbiamente quella incentrata sui legionari cecoslovacchi. Alcune di quelle strazianti vicende sono accadute nelle nostre terre, flagellate esse stesse dal loro essere prima linea nel conflitto mondiale.

L’impero diviso

Quell’insieme di popoli rappresentato dall’impero austroungarico si presentò sullo scenario della prima guerra mondiale tutt’altro che unito. Molte erano le spinte indipendentiste al suo interno che nemmeno la crudezza della guerra seppe nascondere, tra queste anche quelle nelle regioni della Boemia e della Slovacchia. Durante la guerra si formò un governo in esilio che cercò una sponda negli stati dell’Intesa allo scopo in un futuro prossimo di ottenere il riconoscimento di un nuovo stato con capitale Praga. Tra le varie iniziative ci fu quella di costituire un gruppo di legionari che dopo la rotta di Caporetto venne inquadrato nell’esercito italiano. Per la gran parte formato da ex prigionieri dell’esercito austro-ungarico costituirono il I° battaglione del 33° reggimento, a comando italiano già nel maggio del 1918 parte di esso venne dislocato sul fronte del Piave. Chiaramente costoro venivano considerati dei traditori dal comando austroungarico e il loro ruolo avrebbe dovuto essere di solo supporto alle truppe italiane. Nonostante l’accordo di un loro immediato ritiro in caso di combattimento gli eventi portarono a tutt’altro e a metà del giugno 1918 l’intero battaglione era schierato tra Casa Fasan e Fossa delle Millepertiche.

I cinque legionari giustiziati a Calvecchia

Racconta Eugenio Bucciol nel suo libro che l’offensiva austriaca del 15 giugno 1918 colse il battaglione dei legionari schierato accanto agli italiani e contrariamente agli accordi presi questi non vennero ritirati ma parteciparono attivamente ai combattimenti e alle controffensive di quei giorni. Costretti al ripiegamento assieme alle truppe italiane, nel pomeriggio  del 17 giugno venne ordinata la controffensiva e i legionari si trovarono a fronteggiare la 10ª divisione austroungarica costituita principalmente da soldati cechi come loro. Al termine della battaglia i legionari avevano catturato duecento prigionieri e otto mitragliatrici; otto di loro erano morti, sessantatrè feriti o dispersi. « …Sei dei legionari dichiarati dispersi erano caduti nelle mani dei loro connazionali della 10ª divisione, comandata dal generale polacco Gologòrsky, con sede a Ceggia. Essi erano:

Antonín Kahler (2)

Hynek Horák, nato il 25 marzo 1899 a Bohdane (Boemia), fatto prigioniero dagli italiani il 2 agosto 1917 a Hermada. Contadino, sposato, due figli.

Antonín Kahler, nato il 6 giugno 1883 a Praga. Caduto prigioniero degli italiani sull’Isonzo il 15 settembre 1917. Orefice, sposato, una figlia.

Emanuel Kubeš (2)

Jozef Kříž, nato il 31 maggio 1888 a Šebanovice (Boemia), fatto prigioniero dagli italiani il 9 ottobre 1916 presso Jamiano. Scalpellino, sposato, un figlio.

Emanuel Kubeš, mato l’8 agosto 1880 a Praga, arresosi agli italiani il 7 agosto 1916 sul Monte Sabotino. Imbianchino, sposato, due figli.

František Viktora, nato il 24 dicembre 1875 a Purkarec (Boemia), caduto prigioniero degli italiani il 5 maggio 1917 a Jamiano. Macchinista, celibe.

František Viktora (2)

Una ferita alla coscia con frattura del femore salvò la vita del sesto legionario catturato, Antonin Vokřínek. Nel lazzaretto di San Stino fu interrogato, ma ottenne il rinvio del processo. Trasferito a Udine, alla fine di ottobre era già tornato a casa in convalescenza. Pochi giorni dopo cessava per lui, con la guerra perduta, ogni presupposto di colpa.

Il 18 giugno i cinque legionari furono processati dal tribunale della 10ª divisione. Condannati a morte per alto tradimento, vennero impiccati alle ore 14 del giorno seguente, tra gli insulti del capitano di cavalleria Maier che comandava l’esecuzione, agli ippocastani davanti alla scuola, presso l’agenzia Giustiniani, con il privilegio di avere ciascuno una pianta per sé. Alla sera furono sepolti nel vicino vigneto. » Sulla sepoltura la versione di Bucciol differisce da quella di Mons. Chimenton secondo cui i cinque legionari rimasero appesi agli ippocastani per due giorni.

Un sesto legionario giustiziato a Calvecchia

Continua Eugenio Bucciol:  « Il 21 giugno 1918 fu giustiziato a Calvecchia, nella campagna di San Donà di Piave, sulla strada per Ceggia, il legionario Bedřích Havlena, nato a Nova Lbota (Boemia) il 18 maggio 1888, impiegato delle imposte, celibe, catturato dagli italiani a San Michele del Carso il 28 novembre 1915.

La targa posta a Calvecchia in ricordo del legionario Bedřích Havlena (2)

Nell’offensiva del Solstizio si era arreso ai cechi del 98°, il suo reggimento di provenienza. L’avevano condotto a Calvecchia, nella fattoria Bertolotti, detta, in virtù dell’intonaco, “la Casa rossa”, sede del comando della 10ª divisione cui subentrò, all’arrivo del legionario, quello della 46ª che lo prese in consegna nella stalla.

Condannato a morte, si dovette attendere che inchiodassero un legno al palo del telegrafo davanti alla “Casa rossa” per ricavare il braccio della forca. Alle 11.30 il legionario si diresse con passo sicuro verso il luogo dell’esecuzione. Aveva ottenuto che gli slegassero le mani. Accanto all’improvvisato patibolo, anticipò gli esecutori aggrappandosi con una mano alla traversa e infilandosi con l’altra il capestro; ma il sostegno cedette al suo peso. Lo ricondussero nella stalla. La consuetudine voleva che fosse graziato e in tal senso si pronunciò il comando interpellato. Ma il presidente del tribunale, il capitano Von Fröhlich, insistette affinché l’operazione venisse ripetuta. Alle 14.30 il legionario fu fatto uscire nuovamente dalla stalla dove aveva scritto una cartolina ai famigliari. Accanto al palo si aggrappò ancora al sostegno che resistette. Parendogli tuttavia troppo basso, pregò che sterrassero il suolo. Lo accontentarono. Alla base del palo fu posta una cassetta-. Bedřích Havlena vi salì sopra per infilarsi il cappio. Un militare diede un calcio alla cassetta. Lo tolsero alle 19 per seppellirlo nel campo davanti al palo telegrafico. »

Furono tristi giorni per i legionari cechi catturati dagli austroungarici, lungo tutto il fronte ripetute furono .le esecuzioni ai danni dei legionari catturati. Complessivamente alla fine della guerra saranno 46 i legionari giustiziati dagli austroungarici, 8 dagli italiani e 2 giustiziati in Slovacchia.

I tre legionari cechi giustiziati il 18 giugno 1918 ad Oderzo (foto originale)

I cinque legionari di Calvecchia nel ricordo di Mons. Chimenton

″ Le forche ufficiali, le più speciose, funzionarono di fronte alle scuole di Calvecchia, sui cinque ippocastani prospicienti quell’edificio scolastico.

Su questi ippocastani furono giustiziati i czeco slovacchi. Fatti prigionieri sul fronte italiano del Carso, incorporati nel nostro esercito, presero parte alla battaglia del giugno in località di Fossalta di Piave e caddero prigionieri degli Austriaci : giudicati dal tribunale di guerra con una procedura sommaria, dichiarati traditori, furono trascinati attraverso Noventa e San Donà fino a Calvecchia e immediatamente giustiziati. Ferveva sul Piave la grande battaglia : essi rimasero appesi alle corde di quei cinque ippocastani per due giorni interi : le truppe austriache che movevano all’assalto lessero così in quelle vittime la loro sentenza. Le salme furono gettate confusamente nell’orto della famiglia Carlo Carpenè, in proprietà di Federico Colosso, e vi rimasero fin dopo l’armistizio quando, come già accennammo, furono esumate e sepolte nel cimitero militare di San Donà. Su molte di quelle salme penzolanti fu posta in un cartellino a stampa, questa dicitura : Così si puniscono i traditori della Patria!.

Sulla parete di quella scuola, prospiciente la strada, di fonte agli ippocastani, dopo l’armistizio fu posta una lapide su cui furono incise queste parole, dettate in cattiva lingua italiana da qualche prigioniero di guerra: « Qui morirono per la patria 5 legionari – Czeco slovacchi, – combattendo in Italia – per la libertà del popolo – dalla vendetta l’Austria gli impiccava – 18 giugno 1918 »

Nel 1921 l’esumazione dei legionari caduti

Nel 1921 le salme dei legionari cechi furono trasportate in patria. Così lo racconta Monsignor Chimenton nel capitolo dedicato al cimitero militare di San Donà attiguo a quello comunale:  « In questo cimitero erano state deposte anche le salme dei vari soldati czeco slovacchi, che, caduti prigionieri degli Austriaci, durante la battaglia del giugno 1918, furono impiccati dinanzi le scuole di Calvecchia. Le salme furono esumate e trasportate a Praga il 2 aprile 1921. – Il loro riconoscimento fu semplicissimo. Dal cimitero degli impiccati di Calvecchia le salme erano state trasportate nel cimitero comunale subito dopo l’armistizio : occupavano la prima fila nord; nella traslazione le salme esumate e avvolte separatamente in una tela da campo erano state rinchiuse in apposite casse funebri. L’autorità boema volle accertarsi dell’autenticità di quelle salme : esumate le casse e aperte, le salme apparvero scheletrite ; ma le loro braccia erano ancora legate dietro la schiena, con il filo telefonico usato dall’Austria in simili esecuzioni, e attorno al collo le vittime portavano ancora un nodo scorsoio e un pezzo di fune che aveva servito alla loro esecuzione capitale. L’autenticità apparve evidente : rinchiuse in doppia cassa quelle salme furono composte nuovamente e trasportate in Boemia. »

Il 24 aprile 1921 in occasione della traslazione dei legionari giustiziati in Italia, ebbe luogo una grande cerimonia e ad essi furono tributati i più grandi onori militari in una grande cornice di popolo. Furono poi tumulati nel cimitero Olsany di Praga (2)

La terra sandonatese a ricordo del sacrificio dei legionari

Nel 1924, come racconta Chiara Polita, un’Associazione cecoslovacca per le onoranze ai caduti in guerra volendo ricordare in occasione dell’inaugurazione di un nuovo cimitero i propri legionari caduti sul fronte italiano inviò una richiesta particolare al Comune di San Donà di Piave. Desiderava avere della terra dei campi di battaglia italiani da inserire in una nicchia. Venne dato l’assenso da parte del Comune e di quel prelievo è rimasta traccia in un verbale. Il solenne prelievo venne effettuato dal Sindaco Costante Bortolotto assieme al sig. Antonio Bincoletto, dell’Associazione Mutilati e Invalidi di guerra, al rag. Ippolito Gianasso, della sezione sandonatese dell’Associazione Nazionale ex combattenti, e al segretario comunale Livio Fabris. Il prelievo venne effettuato l’11 giugno 1924: « …in territorio di questo Comune e precisamente sulla riva destra del Piave in prossimità del ponte distrutto durante la guerra mondiale 1915-1918 e nella zona delle ex trincee interrate ». Posta in un doppio sacchetto con i sigilli del Comune e i colori nazionali quella terra venne inviata al Console cecoslovacco a Trieste.

Fonti: Approfondimenti sulle vicende dei legionari cechi sul fronte del Piave è possibile trovarli in questi testi: 1. « S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e Passarella » di Mons. Costante Chimenton (1928); 2. « Dalla Moldava al Piave – I legionari cecosclovacchi sul fronte italiano nella Grande Guerra » di Eugenio Bucciol (Ed. Nuova dimensione, 1998); 3. « Di qua e al di là del Piave – La grande guerra degli ultimi » di Chiara Polita (Mazzanti Libri, 2015)

San Donà di Piave, il sacrificio dei 13 Martiri

Tratto dalla « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° Anniversario della Resistenza » (6 settembre 1964)

L’imponente omaggio di San Donà di Piave ai resti mortali dei tredici Martiri quando furono traslati in città terminata la guerra
Motivazione della Medaglia d’Argento al V.M.

« Fiera città di prima linea, già duramente provata dalla guerra, subito dopo l’armistizio sosteneva con decisione la lotta di liberazione, dando centinaia di valorosi combattenti alle formazioni partigiane e pagando sanguinoso tributo di vittime alla repressione tedesca. Duramente colpita anche da aerei non piegava la decisa volontà di resistenza. Insorgeva in presenza di ben seimila tedeschi e liberava il suo territorio tre giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate, dopo aver catturati tremi cinquecento prigionieri »

San Donà di Piave, settembre 1943 – 25 aprile 1945

L’introduzione del Sindaco Dott. Franco Pilla
Il sindaco Franco Pilla in una immagine di repertorio del 1968 (Tratta da “Il Piave”)

A nome della Civica Amministrazione presento queste modeste pagine che si propongono di ricordare i 13 Martiri nel ventennale del Loro sacrificio a tutti coloro che vissero il Secondo Risorgimento e di FarLa conoscere ai giovani, a quelli che sono venuti quando l’alba della Libertà era già risorta sulla nostra Città e sulla Patria.
Il 28 luglio 1944 a Cà Giustinian vennero fucilati per nessun delitto, per nessun tradimento, ma solo per aver scelto la libertà e l’onore: Attilio BASSO, Stefano BERTAZZOLO, Francesco BIANCOTTO, Ernesto D’ANDREA, Giovanni FELISATI, Angelo GRESSANI, Enzo GUSSO, Gustavo LEVORIN, Violante MOMESSO, Venceslao NARDEAN, Amedeo PERUCH, Giovanni TAMAI e Giovanni TRONCO.
Non tutti erano sandonatesi; Gressani di Ceggia, Felisati di Mestre e Levorin di Padova. Ma da allora e per sempre nostri Concittadini, perché accomunati dallo stesso sacrificio.
L’Amministrazione Civica nel 20° anniversario dell’eccidio, che, nelle immani proporzioni , ha toccato il vertice della tragedia vissuta dalla Patria in una delle ore più oscure della Sua storia, ha dedicato la giornata del 6 settembre per onorare, con i 13 Martiri, tutti i Caduti della Resistenza e per celebrare i grandi valori ideali che la Resistenza rappresentò, nella lotta contro la dittatura per la conquista della Libertà.
Non sarebbe patrimonio vero, consapevole, operante, la libertà in Italia se non fosse stata conquistata dal coraggio, dalla fede, dall’eroismo del sacrificio dei suoi figli migliori; da coloro che dimostrarono di credere nella Libertà e nella Democrazia, con il sangue, che ci insegnarono un modo nuovo di fedeltà agli ideali.
Così intendiamo ricordare i 13 Martiri e con Loro tutta la Resistenza Sandonatese.
Si, anche gli altri: Attilio RIZZO, animatore e capo, Medaglia d’Argento al Valor Militare, Giovanni BARON, suo collaboratore, Medaglia di Bronzo al Valor Militare, Primo BIANCOTTO, Carlo VIZZOTTO, Verino ZANUTTO, Luigi GUERRATO, Luigi CAROZZANI, Bruno BALLIANA, Giodo BORTOLAZZI, Flavio STEFANI, Casimiro ZANIN; Antonio FERRO, Erminio ZANE, Esterino DALLA FRANCESCA, Cesira ed Elvira CAROZZANI, la Brigata Eraclea, la Brigata Piave, Reparti dell’Esercito della Libertà, nati ed organizzati nella nostra amatissima terra del Basso Piave, dove mai il fascismo era riuscito a piantare radici profonde.
Per quanto, mentre ancor oggi ci raccogliamo accomunati in un sentimento di immensa pietà e profonda commozione attorno a queste 13 salme sacrificate dall’odio e dalla violenza, eleviamo insieme la nostra protesta di popolo civile contro la tirannide e la dittatura.
Per questo ancora, sentiamo il diritto di pronunciare l’implacabile condanna, poiché conosciamo attraverso il sacrificio dei nostri Martiri quale sia il prezzo che un popolo deve pagare per la conquista della Libertà.
Le celebrazioni del 6 settembre costituiscono per tutti un profondo e grave ammonimento ad essere degni di questo bene inestimabile.

Il Sindaco
Dott. Franco Pilla
San Donà di Piave, 6 settembre 1964

I Tredici Martiri

Sono ormai trascorsi vent’anni dal giorno in cui il plotone d’esecuzione stroncava la vita ai tredici eroici combattenti della libertà, undici dei quali figli della nobile terra di San Donà di Piave, e il ricordo di quei luttuosi avvenimenti ci riempie ancora l’animo di profonda costernazione. Ogni idea grande per vivere, prosperare e trovare pratica attuazione ha bisogno di essere alimentata dal sangue ed il sangue non mancò di scorrere e di bagnare ogni lembo della nostra Patria martoriata, percorsa da eserciti stranieri e dilaniata dalla guerra civile.
Nei tristi giorni che seguirono alla disfatta del nostro esercito, tutti i partiti antifascisti serrarono le file, si strinsero insieme per resistere al germanico invasore che completava l’opera di distruzione materiale e morale della Patria. Uomini di ogni credo politico e d’ogni classe sociale, popolani, operai, contadini, impiegati ed intellettuali non esitarono a gettarsi nella mischia, senza badare al rischio, con la coscienza serena di compiere un imprescindibile dovere.
« Appena l’invasione nazista fu un fatto compiuto, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 28 luglio 1945, appena strappatosi la maschera di alleato, il tedesco riapparve agli Italiani tutti sotto le sue vere spoglie di nemico spietato del nostro paese; appena dietro le sue baionette ricominciarono ad innalzarsi le nere insegne della morte che si speravano abbattute per sempre il 25 luglio, essi, i futuri Martiri di Cà Giustinian, non ebbero un momento di esitazione: bisognava combattere, bisognava impugnare un’arma per la difesa della propria terra, per la conquista della indipendenza e della libertà perdute.
« Respingere l’aggressione, da qualunque parte essa provenga », era stato l’ultimo incerto e timido ordine che essi avevano sentito impartire all’esercito ». Quest’ordine fu da loro raccolto ed essi pagarono con la vita la loro dedizione al dovere e alla Patria. Fra la gloriosa schiera dei combattenti della libertà brillano i nomi dei tredici Martiri di Cà Giustinian.

Basso Attilio

BASSO ATTILIO. Era un giovane di ventitre anni di San Donà di Piave, dov’era nato il 9 settembre 1922; fattorino di banca e coniugato con un figlio. Di salute cagionevole, cattolico praticante ed alieno ad ogni avventura. Come gli altri, aveva dato la sua collaborazione alla lotta clandestina, e per questo fu arrestato e condotto nelle carceri di S. Maria Maggiore, inconsapevole della triste sorte che lo attendeva. « Era tanto felice negli ultimi suoi giorni, scrive G. Galdi, tanto felice, malgrado le sue condizioni fisiche; aveva avuto notizia che gli era nato un bambino, un bambino che ancora non conosceva, che non avrebbe mai conosciuto ma del quale parlava sempre ».

Bertazzolo Stefano

BERTAZZOLO STEFANO. Aveva venticinque anni quando immolò la sua vita nella lotta di liberazione nazionale. Era nato a Carrara San Giorgio il 6 febbraio 1919, ma risiedeva con la famiglia a San Donà di Piave. Contadino di origine, era ritornato dalla guerra in condizioni tali da non poter attendere proficuamente al duro lavoro della terra. Benchè invalido di prima classe, era riuscito a farsi assumere in qualità di impiegato presso uno zuccherificio. Fu anch’egli arrestato per la sua attività partigiana e trascorse i lunghi mesi di prigionia sul letto, nell’infermeria, in attesa della liberazione. La sorte volle invece che scontasse con la morte il suo amor di Patria.

Biancotto Francesco

BIANCOTTO FRANCESCO. Falegname di professione, era nato a San Donà di Piave il 2 aprile 1926 ed aveva aderito, nel fior degli anni, con slancio, alla G.A.P. (Gruppo di Azione Patriottica) della Città, prodigandosi in ogni modo per rendersi utile ai compagni di lotta. Cavaliere senza macchia e senza paura, non permetteva che si toccasse un innocente o che si recasse danno ai suoi concittadini. Basterebbe averlo visto una notte con che sprezzo del pericolo rimosse una mina dai binari quando s’accorse che, invece d’una tradotta militare, stava per transitarvi un treno passeggeri, per comprendere la tempra di questo giovane. «Piuttosto di far morire un civile, diceva ad impresa avvenuta, preferirei perdere la vita ». Arrestato il 13 gennaio 1944, tradotto nelle carceri di Venezia, dove diede prova di forza d’animo fino al triste giorno della sua fucilazione.
Di Francesco Biancotto così scriveva Giorgio Bolognesi ne “Il Mattino del Popolo” del 14 dicembre 1946: « E’ uno dei 13 fucilati di Cà Giustinian, dove domenica sarà scoperta una lapide a ricordo del loro olocausto. Diventammo amici alla prima stretta di mano. In cella con noi c’era un ragazzetto di tredici anni, Rolando, arrestato per una bricconata, Francesco era il suo protettore, Rolando in cambio gli preparava la branda alla sera. Quando il buio impediva la lettura, Francesco si alzava e veniva alla mia branda a prendermi per la passeggiata. La passeggiata del pomeriggio era basata su un numero infinito di giri di quattordici passi, sullo stretto spazio tra le brande. A contarli ci pensava il prigioniero della cella sottostante. Nei primi giri gli dava disposizioni perché gli altri cinque abitanti prendessero posto nelle brande, si fermava un istante e invitava chi aveva fede ad unirsi in una preghiera strana che aveva letto sul libro dei “Tre Moschettieri”. Essa diceva: Ma verrà il Dio della liberazione perché Dio è giusto e forte se chi vi spera avrà delusione avrà pur sempre il martirio e la morte.
Era stato Francesco a leggerla per primo e lui l’aveva insegnata agli altri. Ancora oggi nella parete della cella 108 devono essere leggibili quelle parole. Assolto il dovere religioso, lui stesso rimboccava la branda del piccolo Rolando, e di nuovo riprendeva la passeggiata con me. Era allora che lui mi raccontava della notte dell’arresto, del tradimento dei compagni lasciati fuori, della certezza della condanna a morte temperata da una leggera speranza di liberazione che si spegneva ogni giorno di più. Andavamo sotto braccio avanti ed indietro, finchè le gambe non ci costringevano a sederci sull’orlo della branda a continuare le nostre confidenze con voce sommessa. Mi parlava della sua casa, della sua famiglia, (e ricordava con affetto la buona sorella) e con affetto parlava dei suoi compagni e perfino di chi lo aveva tradito, parlava della notte della dinamite, degli interrogatori, della sua fede politica. E allora mi confessava i suoi dubbi sulle teorie politiche; mi confessava di ammirare Mazzini perché in Mazzini sentiva parlare di Dio e di libertà. Mi parlava del suo lavoro, del suo padrone che amava come un maestro, e del dispiacere di non poter più continuare ad apprendere l’arte che amava.

D’Andrea Ernesto

D’ANDREA ERNESTO. Era un operaio di Musile di poco più di trent’anni: era nato infatti il 10 dicembre 1913. Risiedeva però a San Donà di Piave ed era occupato a Marghera. Fu uno dei primi organizzatori del movimento clandestino della nostra zona; comandò fino al momento del suo arresto un Gruppo di Azione Patriottica con il quale prese parte a numerose e rischiose imprese. Anima intrepida, dal carcere di Venezia non tralasciava occasione per incitare i compagni alla lotta. Il suo ardimento venne meno solo il giorno in cui egli cadde sotto il piombo fratricida, sulle rovine ancor fumanti di Cà Giustinian, assieme con gli altri dodici compagni di sventura. Commoventi sono le poche righe che riuscì a scrivere e a far pervenire ai suoi cari: « Saluti e baci a tutti. Siate forti come lo sono il. Ciao alla mamma, al babbo a tutti, a Maria, a Ghidetti ».

Felisati Giovanni

FELISATI GIOVANNI. Di Carpenedo, è una delle più belle figure della resistenza mestrina. Anima nobile e generosa, fin dall’otto settembre di era prodigato in ogni modo per organizzare i primi nuclei di combattenti della libertà nella zona di Mestre e di Carpenedo, ma questa sua attività fu stroncata pochi mesi dopo con l’arresto: gli fu trovato in casa materiale esplosivo. In carcere ebbe un comportamento ammirevole; e per quanto nessuna attività delittuosa fosse emersa a suo carico, tanto che le autorità repubblichine erano propense al suo rilascio, pur tuttavia la notte tra il 27 ed il 28 luglio fu visto partire calmo e sereno, assieme con i suoi compagni, verso il suo tragico destino. La notizia della sua morte destò, in quanti lo conoscevano, un senso di vivo e profondo cordoglio. Aveva trentanove anni.

Gusso Enzo

GUSSO ENZO. Sandonatese per nascita, italiano e cristiano di sentire, di professione impiegato, di anni 31, collaborò alla lotta di liberazione nonostante le sue cagionevoli condizioni di salute, partecipandovi attivamente. Imprigionato, sopportò coraggiosamente i maltrattamenti e le sofferenze infertegli in carcere. Anch’egli, con la serenità del martire, cadde eroicamente sotto i colpi del plotone d’esecuzione, fidente nel trionfo degli ideali di bontà e di giustizia per il quali aveva tanto sofferto. Fu a tutti i compagni di esempio e sprone per l’insuperabile consapevole tranquillità di spirito con la quale affrontò il martirio.

Gressani Angelo

GRESSANI ANGELO. Nato ad Ovaro (Udine) il 29 febbraio 1896, coniugato con due figli; era da poco trasferito a Ceggia. Di professione orologiaio, ma dotato di vasta cultura. La sua spiccata personalità s’impose sui compagni, tanto è vero che fu nominato tenente partigiano della Brigata “Piave”. Sappiamo inoltre che contribuì alla lotta di liberazione nazionale riparando armi e dando il suo valido aiuto ai compagni; che era un instancabile lavoratore e che in carcere mantenne un comportamento fermo e dignitoso. La sua gloriosa fine all’età di quarantotto anni resterà un fulgido esempio di dedizione al dovere e di amor di Patria.

Levorin Gustavo

LEVORIN GUSTAVO. Operaio tipografo, nato a Padova il 6 ottobre 1905. Convinto assertore della lotta senza quartiere al fascismo, non risparmiò fatiche e pericoli pur di vedere un giorno la Patria libera da ogni oppressione politica e sociale. Già provato da cinque anni di reclusione per le sue idee e la sua attività, riprese solo l’8 settembre 1943 con l’animo di sempre ad organizzare a Mestre i primi gruppi armati di operai e contadini. Arrestato nel 1944, non si lasciò mai sfuggire parola che potesse in qualche modo tradire i compagni, ma sopportò le privazioni e le torture del carcere con animo indomito. Affrontò la morte sereno e tranquillo, con la convinzione che il suo sacrificio non sarebbe stato vano.

Momesso Violante

MOMESSO VIOLANTE. Era un giovane contadino di Noventa di Piave della classe 1923; risiedeva a San Donà di Piave. Fece il suo servizio militare nel Genio guastatori a Verona. Rientrato in famiglia, dopo l’8 settembre, si arruolò subito nella Brigata Piave, partecipando a numerose azioni di sabotaggio delle vie di comunicazione e al trasporto di armi ai combattenti della montagna. Arrestato l’11 gennaio 1944 con gli altri compagni, affrontò il carcere e la morte da eroe. Una lettera autografa scritta dal Momesso alla madre, pochi giorni prima d’immolare la vita sulle macerie di Cà Giustiniani rivela l’intrepida fede di questo giovane nell’idea per la quale combatteva. « Un’idea è un’idea – diceva – e nessuno al mondo sarà capace di troncarla ». Morì infatti con sulle labbra il grido della sua fede: « Viva l’Italia libera! ».

Nardean Venceslao

NARDEAN VENCESLAO. Giovane falegname, nato a Noventa di Piave e residente a San Donà. Era un anno più giovane del Momesso e come questi, aveva preso parte alla lotta di liberazione nazionale. Di intelligenza pronta e vivace, svolgeva un’attiva propaganda antifascista. Preparava da solo i manifesti che, sempre senza aiuti, affiggeva un po’ per tutta la città invitando alla lotta ed inneggiando alla libertà. Arrestato, subì il carcere e la morte associato con i suoi compagni di lotta e di avventura.

Peruch Amedeo

PERUCH AMEDEO. Era un sandonatese di vecchio stampo, dedito al lavoro dei campi e affezionato alla sua famiglia. Cattolico fervente e praticante, era incapace di far del male. Pur nella sua istintiva bontà, volle anch’egli offrire il suo modesto contributo alla causa della liberazione nazionale ed entrò a far parte della G.A.P. di San Donà con l’incarico di depositario dalle armi. Scoperto, riuscì a fuggire, ma venne arrestata la moglie come ostaggio. Saputa la cosa, pur consapevole del pericolo a cui andava incontro, si costituì per liberarla, Ad essa poche ore prima di essere fucilato riusciva a far pervenire le poche parole che qui riportiamo.
« Saluti cara Marcella sono le ultime ore. Tanti baci Peruch Amedeo. Mi saluterai tutti i miei fratelli e cognati ».

Tamai Giovanni

TAMAI GIOVANNI. Era nato a San Donà di Piave l’8 febbraio 1924, dove viveva facendo il meccanico, Le misere condizioni della sua famiglia lo costrinsero a lavorare fin da fanciullo, perciò non sapeva né leggere e né scrivere. Prese parte come i compagni alla lotta di liberazione e con essi condivise i pericoli, il carcere e la morte.

Tronco Giovanni

TRONCO GIOVANNI. Era un meccanico aggiustatore di San Donà di Piave, coniugato con una figlia che adorava. Quando cadde sotto il piombo fraticida aveva trentanove anni, era del 1905. Era stato arrestato sotto l’accusa d’aver rifornito di viveri ed armi i combattenti della resistenza ed aver aiutato prigionieri inglesi a raggiungere le file partigiane. Mancavano però le prove. Dalla prigionia il suo pensiero corre di frequente alla figlia Tinetta che ha lasciato e che non rivedrà mai più.
« Cara Maria, ti raccomando di essere forte. Ti domando perdono di tutto. Ti raccomando Tinetta e tutti. Addio tuo Giovanni ».
Queste sono le ultime parole rivolte alla moglie da questo intrepido campione della libertà prima di essere fucilato.

Il precipitar degli eventi

[…] Quando nel carcere di Santa Maria Maggiore si sparse la voce dell’attentato dinamitardo di Cà Giustinian, si ebbe la netta sensazione che qualche cosa di grave stava per accadere. Le notizie contradditorie che si diffondevano tra i carcerati ne accrescevano la trepidazione e lo sgomento.

Una cosa sola era certa: qualcuno avrebbe dovuto pagare! La notte che seguì l’attentato passò insonne; venne l’alba del nuovo giorno senza nulla di nuovo fosse avvenuto. Un’aria greve regnava nelle anguste e buie celle di quel luogo di dolore; un triste presentimento stringeva il cuore di tutti, perchè l’attesa è più snervante e dolorosa della sorte stessa. Così passò anche quel giorno, che fu l’ultimo della loro vita.

« Verso la mezzanotte del 27 luglio, si legge nel “Giornale delle Venezie” del 4 giugno 1945, essi venivano bruscamente svegliati nelle loro celle, invitati a vestirsi e a partire. Partirono per non più ritornare. Alla soglia del carcere, gli assassini li attendevano, quaranta uomini armati di tutto punto contro tredici uomini inermi e legati mani e piedi.

Per giustificare l’eccidio, un simulacro di processo venne tenuto, clandestinamente, in qualche luogo. La sentenza, già preparata in anticipo, venne letta ai morituri nei pressi del luogo dell’esecuzione. E quando l’alba stava per spuntare, ripetute scariche di mitra falciavano i loro poveri corpi, dai quali, come ultima manifestazione di una vita spesa per il bene della Patria, uscì un sol grido: « Viva l’Italia ».

Da quel mattino in cui i Caduti cessarono di essere degli esseri viventi, essi diventarono un simbolo di dedizione al dovere, della volontà di lotta, delle sofferenze e del martirio di tutto un popolo e presero un nome comune: i tredici Martiri di Cà Giustinian ».

Il ricordo

[…] Alla fine del conflitto una delle prime cure di San Donà fu di riportare le salme dei tredici Martiri alla terra per la quale di erano immolati. Tutto il popolo si riversò sulle vie e sulle piazze per l’estremo saluto.

Camera ardente allestita nella sala consiliare del Comune

Il libretto in pdf edito a cura dell’Amministrazione Comunale di San Donà di Piave nel 1964 « Commemorazione del sacrificio dei tredici Martiri nel XX° anniversario della Resistenza” è possibile scaricarlo a questo link: SCARICA

Cartoline che raccontano: il Vecchio Cimitero

Una cartolina di San Donà presumibilmente del 1927 o precedente, le case del Foro Boario, il vecchio Cimitero, la Caserma “Tito Acerbo” o “San Marco”, ancora non c’era l’Oratorio Don Bosco

Quel vecchio cimitero nel mezzo di San Donà è forse l’elemento che è stato meno fotografato e meno riprodotto nelle cartoline del secolo scorso. La maggior parte delle immagini che sinora si sono viste sono state legate al periodo della prima guerra mondiale. Quelle austriache in particolare lo han ripreso nelle mura di cinta e nella sua entrata. Poi in qualche scorcio lo si incrocia ancora ma sempre per caso, di sfuggita, un contorno lontano da cercare. In questa cartolina degli anni venti un po’ sfumata dal tempo lo si vede dall’alto in una distesa sandonatese libera da costruzioni. Una San Donà che ancora doveva svilupparsi in quella direzione: le case del Foro Boario, il vecchio Cimitero, ancor non vi era l’oratorio Don Bosco, un po’ più in là la caserma « Tito Acerbo » o « San Marco » come nei vari periodi si è chiamata. La datazione dell’immagine è indubbiamente precedente al 15 maggio 1927, data della posa della prima pietra dell’Oratorio Don Bosco. Una immagine che mette insieme tante storie, una di queste è legata a quel vecchio cimitero.

In principio il cimitero s’accompagnava alla chiesa
Il cimitero di San Donà in una immagine austriaca del 25 nov. 1917

Quel cimitero di via Calnova è rimasto lì sin quasi la metà del secolo scorso, quando è stato dismesso definitivamente allorchè un allargamento del nuovo cimitero ha poi portato alla chiusura definitiva del vecchio a quasi vent’anni dall’ultima sepoltura.
E’ Teodegisillo Plateo, colui che per primo ci ha accompagnato attraverso la storia sandonatese, a raccontare che sin dalle sue origini a San Donà le sepolture dei morti erano svolte nelle vicinanze della chiesa cittadina. Quando nel 1475 venne costruita la nuova chiesa per talune personalità di particolare importanza la tumulazione poteva avvenire anche dentro la chiesa. Come ben sottolineava Plateo, poi ripreso da Monsignor Chimenton: « …Gli avelli (tombe) della chiesa e sagrestia erano ornate di lapidi, con iscrizioni che si confondevano con i simboli della religione e stavano a provare che le distinzioni di casta continuavano, come continuano anche oggi, anche nel sonno eterno ciò che avveniva presso gli egiziani, gli ebrei, i romani ed i greci ». Al popolo rimaneva lo spazio esterno che sino alla metà del cinquecento aveva una sua precarietà ed incuria a cui il vescovo Monsignor Francesco Pisani cercò di porre rimedio tanto che dal 1557 il cimitero fu provvisto di mura di cinta, furono tolti gli alberi da frutto e lasciate solo le piante d’olivo, i cui rami dovevano servire nella domenica delle palme.

Il peso del tempo su chiesa e cimitero

Il destino del cimitero andò di pari passo con quello della chiesa. La stessa con il passar degli anni cominciò a sentir il peso del tempo. L’ultima tumulazione in chiesa è della metà del settecento, ma con una San Donà che oramai superava i tremila abitanti sia gli spazi religiosi che quelli nel vicino cimitero divennero sempre più limitati. Tanto più quando le periodiche epidemie si diffondevano tra la popolazione e le decine di morti che causavano faticavano a trovare un posto decoroso nel camposanto. Scrive ancora Monsignor Chimenton, citanto Plateo: « Nel 1764 si sentì il bisogno di ingrandire il cimitero. Ma un ampliamento non fu possibile : il terreno che avrebbe dovuto essere destinato ad accogliere le salme, si trovò, in quell’epoca, rinchiuso fra due strade interne, le attuali Via Maggiore e via Calnova, e la canonica e la proprietà Pesaro, e precisamente nella località oggi conosciute coi nomi di Pescheria, Largo della Chiesa e Foro Boario- Si ricorse allora, per la prima volta, al rimedio di seppellire le nuove salme sopra i cadaveri già sepolti molti anni prima.»

Nell’ottocento il nuovo Cimitero
Il duomo in una immagine del 1915, lo stesso fu inaugurato ne 1842 mentre per il campanile si dovrà attendere cinquant’anni dopo

Dopo il periodo napoleonico e passati sotto il dominio austriaco, l’emergenza del cimitero trovò una prima soluzione grazie a Mons. Angelo Gallici che perorò la causa dell’apertura di un nuovo cimitero, sin quando nell’aprile 1825 fu inaugurato in via Calnova il nuovo sepolcreto, non troppo lontano dalla chiesa e ai margini dell’allora centro cittadino. Proprio la chiesa fu il successivo grosso intervento che conobbe San Donà. Nel 1838 su spinta del nuovo Monsignor Angelo Rizzi dopo la costruzione di una chiesa provvisoria in legno venne iniziata la demolizione del vecchio duomo e la successiva costruzione di quello nuovo inaugurato nel 1842, tutto molto ben raccontato da Mons. Chimenton ma che tralasciamo proseguendo nel verso del cimitero.

Il nuovo cimitero s’affaccia al nuovo secolo
Il registro degli atti di morte del 1880 del Comune di San Donà di Piave. In quell’anno sono stati 341 gli atti di morte redatti

Il nuovo cimitero di via Calnova non ebbe vita facile. Quando venne costruito San Donà aveva una popolazione di quattromila abitanti. Nonostante una grave carestia che colpì le campagne prima con la siccità e poi con le malattie che danneggiarono i bachi da seta e i vitigni, e buon ultimo un’epidemia di colera, trent’anni dopo gli abitanti erano divenuti seimila. Il nuovo cimitero visse sin da subito una grave emergenza. E’ Giacomo Carletto nel suo libro a raccontarci le varie traversie e i problemi che afflissero le diverse amministrazioni comunali costringendole sempre ad impegnarsi nel cercare soluzioni. Al problema degli spazi si sommò ben presto l’incuria che inevitabilmente divenne una emergenza sanitaria. Il cimitero era oramai nelle vicinanze delle case e nei periodi di grandi piogge le tombe sovente venivano allagate con il conseguente scorrere di queste acque impure verso i fossi rischiando di inquinare anche la falda da dove i pozzi privati attingevano. Frattanto nel 1890 venne eretta anche la cappella dedicata al Santissimo Redentore nella quale trovò ospitalità la lapide sepolcrale di Mons. Angelo Rizzi.

Il nuovo secolo e l’esigenza di un altro cimitero

Accanto a continue opere di costosa manutenzione, si arrivò ben presto ad avvertire l’esigenza della costruzione di un nuovo cimitero. Lo sviluppo di San Donà oramai lo imponeva, nel 1911 la popolazione aveva raggiunto i tredici mila abitanti. Sin dall’anno prima il dibattito in Consiglio Comunale aveva portato ad un unanime consenso, come ricorda il professor Giacomo Carletto nel suo libro: « Queste constatazioni, da tutti condivise, indirizzarono il dibattito verso una nuova direzione: la Giunta stessa sottopose al Consiglio un articolato programma che prevedeva lo spostamento del Cimitero in una località periferica, lontana dal centro, individuata “lungo la strada delle Code”, a mezzogiorno del canale consorziale Molina e a 450 metri circa dal quadrivio della strada Carbonera, sopra il terreno del cav. uff. Cesare Bortolotto” ».
Senonchè il progetto approntato si arenò sullo scoglio finanziario dopo che una revisione del progetto stesso imposta dalla Prefettura ne incrementò notevolmente la previsione di spesa. Per l’ennesima volta si optò per una importante manutenzione del vecchio cimitero, l’approssimarsi della guerra rimandò il tutto ad un futuro prossimo.

La grande guerra che tutto distrusse
La facciata del cimitero di San Donà di Piave in una immagine austriaca del 7 gennaio 1918

Il conflitto mondiale colpì duramente San Donà, tutto il centro ne fece le spese e il cimitero non fu da meno. Una porzione dello stesso tra l’altro divenne anche cimitero militare dove vennero sepolti decine di caduti della guerra. Ne dà conto anche Monsignor Chimenton: « Il cimitero militare è attiguo al cimitero comunale ; molte salme però sono sepolte dentro il recinto dello stesso cimitero comunale. Si può definire austriaco : pochissime le salme italiane. Sono circa 500 tombe, che contengono in gran parte, salme ignote ; quelle tombe sono curate con passione, visitate spesso dal forestiero, adorne di fiori dal nostro buon popolo. Le poche salme di italiani furono inumate negli ultimi giorni di Caporetto, o nei primi momenti della grande offensiva del giugno. ».

Il cimitero di San Donà di PIave subito dopo la guerra in una immagine dall’interno
Nel 1920 iniziano i lavori per un nuovo Cimitero
Una veduta aerea delle distruzioni della guerra, sulla destra si notano le mura in rovina del Cimitero Comunale

Dopo la guerra il problema del camposanto tornò d’attualità. Il progetto del nuovo cimitero manteneva tutta la sua urgenza ma al tempo stesso i tempi sarebbero stati lunghi, per cui il cimitero di via Calnova venne ripristinato superando le distruzioni causate dalla guerra. Il progetto del nuovo cimitero prese il via nel 1920 quando iniziarono già i lavori sul terreno di via Code. A differenza del vecchio progetto per raggiungere via Code venne decisa anche la costruzione di una nuova strada, una direttrice che dalla strada del Foro Boario incrociasse la via del Casermone (l’odierna via Eraclea) per poi attraverso i terreni di proprietà dei Bortolotto incrociare via Carbonera, per arrivare sino al nuovo cimitero, dopo l’attraversamento di un nuovo ponte a superar lo “scolo delle Code”. Il progetto della strada si rivelò un po’ più complicato del previsto, l’opera venne comunque consegnata alla fine del 1925, in pratica in quegli anni vennero costruite le attuali strade di via Giodo Bortolazzi e di viale Primavera.

Nel 1927 l’inaugurazione del nuovo Cimitero in zona Code

Quanto al nuovo cimitero lo stesso venne inaugurato il 19 giugno 1927 con la consacrazione da parte del vescovo di Treviso Monsignor Giacinto Longhin alla presenza delle autorità civili e religiose. Da quel 19 giugno il Podestà Costante Bortolotto avvertiva che non si sarebbero più potuti inumare cadaveri nel vecchio cimitero. Quando venne inaugurato non era ancora stato completato, come ricorda il professor Carletto, rispetto al progetto originario molto ancora mancava, come la casa del custode, la camera mortuaria, le due cappelle ossario e la chiesa a pianta circolare. « Nulla di questo progetto, eccetto il grande cancello in ferro battuto, fu costruito. Negli anni successivi la funzionalità più modesta sembrò guidare il completamento delle parti essenziali mancanti forse a causa della crisi economica che aveva costretto a ridimensionare i grandi progetti collegati alla ricostruzione del paese ».

Giannino Ancillotto, un illustre ospite del vecchio come del nuovo Cimitero
Nel primo anniversario della morte di Giannino Ancillotto, una manifestazione ricordo all’interno del vecchio cimitero (1925)

Durante la costruzione del nuovo cimitero un grave lutto colpì San Donà, in un incidente stradale morì la medaglia d’oro Giannino Ancillotto, eroe della prima guerra mondiale. I solenni funerali si tennero il 21 ottobre 1924 e la sua salma venne tumulata provvisoriamente nel vecchio cimitero presso la tomba della famiglia De Faveri. La traslazione nel nuovo cimitero tardò come ricorda Chiara Polita nel libro monografico dedicato all’eroico aviatore e al monumento a lui dedicato. L’imponente monumento in Piazza Indipendenza venne inaugurato solennemente nel 1931 alla presenza di migliaia di persone, poi iniziò un lungo carteggio per trovare la giusta collocazione nel nuovo cimitero della tomba dedicata all’eroe dell’aria. Come ricordato nel 1927 venne consacrato il cimitero ma risultava ancora incompleto, tanto che alla fine la tomba di Giannino Ancillotto venne edificata nello spazio che inizialmente era previsto per la casa del custode, sulla sinistra dell’entrata del cimitero. Nel 1938, a quattordici anni dalla scomparsa, la salma di Giannino Ancillotto venne traslata dal vecchio al nuovo cimitero, quel 16 ottobre 1938 fu un’altra grande giornata per la San Donà dell’epoca.

Il vecchio cimitero fine di una storia
Il Vecchio Cimitero in una immagine degli anni trenta ripresa dall’Oratorio Don Bosco (Foto Battistella)

Quanto al vecchio cimitero dal 1927 non è stato più oggetto di nuove inumazioni. Tutte le nuove sepolture sono state dirottate verso il nuovo con il risultato che già negli anni quaranta si rivelò insufficiente a ricevere tutte le salme. Tanto più che nel frattempo in vista della chiusura era iniziato il trasferimento da parte dei famigliari a proprie spese delle salme dal vecchio cimitero al nuovo. Come ricorda il libro di Luisa Furlan e Maria Trivellato la soluzione venne trovata nei primi anni quaranta ma perfezionata solo dopo la guerra nel 1946. I fratelli Bortolotto cedettero un’ampia area attorno al nuovo cimitero ed in permuta ebbero l’area del vecchio cimitero accanto all’Oratorio Don Bosco. Iniziò così l’urbanizzazione anche di quell’area di San Donà adiacente all’oratorio Don Bosco e che per centoventi anni era stata adibita a cimitero comunale.

In una processione religiosa del secondo dopoguerra sullo sfondo si nota l’Oratorio Don Bosco mentre non ci sono più le mura del vecchio Cimitero (Foto Battistella, tratta da San DOnà di Piave: una finestra sul passato, 2007)

Approfondimenti sull’argomento del Vecchio Cimitero si possono trovare sui seguenti libri: (1) “Il territorio di S. Donà nell’agro d’Eraclea” di Teodegisillo Plateo (1907); (2) “S. Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella” di Mons. Costante Chimenton (1928), (3) “San Donà di Piave” di Dino Cagnazzi (1995); (4) “Il disegno della città tra utopia e realizzazione” di Dino Casagrande e Giacomo Carletto (2002); (5) “Il monumento all’aviatore Giannino Ancillotto” di Chiara Polita (2010); (6) “La grande guerra degli ultimi” di Chiara Polita (2015); (7) “Attività amministrativa – Primo mandato elettorale – Vita Sociale” di Luisa Florian e Maria Trivellato (2019)

«Cent’anni di carità», il nuovo libro su San Donà

Ieri, sabato 13 marzo 2021, è stato presentato un nuovo libro sulla storia di San Donà di Piave: « Cent’anni di carità – Casa Saretta e le Suore di Maria Bambina a San Donà di Piave » a cura di Marco Franzoi. Un altro capitolo della lunga storia sandonatese, un’altra prospettiva di quel periodo storico che vide San Donà crescere ad inizio novecento per poi subire il disastro della prima guerra mondiale ed il suo successivo ridisegno. Una parte importante di quella rinascita vide come protagonista assoluto monsignor Saretta ma ebbe nelle Suore di Maria Bambina delle preziose collaboratrici, sia prima che durante e soprattutto dopo la Grande Guerra. Cento anni fa sorgeva l’Orfanotrofio a San Donà di Piave, in questo libro viene raccontata la sua lunga storia e l’opera delle suore di Maria Bambina al servizio di San Donà. Un servizio svolto non solo all’interno dell’Orfanotrofio ma anche presso l’Istituto San Luigi, l’Ospedale civile, la Casa di riposo ed in altre infinite attività lungo questi cento anni.

Il libro è disponibile presso Casa Saretta, via Pralungo 12, 30027 San Donà di Piave (Ve). LINK

Il 14 aprile 1975 su “Il Piave” è stata pubblicata un’intervista a Suor Aurelia Giacobetti e Suor Aurelia Baldasso firmata da Gianfranco Bedin. Le due religiose sono state parte della storia dell’Orfanotrofio di San Donà di Piave sin dai primi anni. Di seguito pubblichiamo la lunga intervista integrale.

Due Suore raccontano

di Gianfranco Bedin

Monsignor Costante Chimenton nel suo volume « Storia di San Donà di Piave e le succursali di Chiesanuova e di Passarella » (1928) scrisse: « L’educazione della gioventù fu sempre riconosciuta il problema più delicato e più impellente per la vita di un popolo; il problema più assillante anche per la vita moderna, religiosa e civile. Delicato ed impellente perché nulla v’ha di più sacro dell’ingenuità dell’infanzia; assillante, perché dall’educazione dei primi anni dipende la vita intera dell’uomo.
A San Donà di Piave si affrontò questo problema; lo si affrontò sotto tutti gli aspetti: le opere già compiute e le opere in corso costituiscono un’assicurazione che nulla si trascurò per salvare la gioventù da quelle rovine, morali e fisiche, che manifestano le loro funeste conseguenze nei delinquenti della pubblica strada o nei sacrificati alla morte stessa primavera della vita ».


Una di queste prime opere fu l’Orfanotrofio, la cui costruzione, seppur con scopi diversi (asilo nido), iniziò nel 1914 per opera di Monsignor Giovanni Battista Bettanin.
I lavori, causa la prima guerra mondiale, furono interrotti: gli uomini furono chiamati alle armi e non si parlò più del costruendo asilo.
Nel 1919, su iniziativa di Monsignor Luigi Saretta, prevalse l’idea di riprendere la costruzione dell’edificio per ospitare i bambini rimasti orfani. Fra innumerevoli problemi e sacrifici, i lavori vennero ultimati nel 1921.
L’Orfanotrofio rappresenta quindi per San Donà una ricca pagina della sua storia, seppur triste per le vicissitudini patite dal primo al secondo conflitto mondiale.
Fra i testimoni di queste vicende sono ancor oggi la sorella Aurelia Giacchetti, nata nel 1901 a Valle di Cadore, e la sorella Aurelia Baldasso, nata nel 1899 a Sant’Andrea (Treviso), due suore che ancora operano nel locale Orfanotrofio e che nonostante il peso degli anni e le sofferenze patite ci ricordano nell’intervista che pubblichiamo quei tristi anni di vita dell’Opera e della nostra città.
Suor Aurelia Giachetti è giunta nella nostra città nel lontano 1923, suor Aurelia Baldasso pochi anni dopo, nel 1928.

Suor Aurelia Giacchetti e Suor Aurelia Baldasso

¤ Suor Aurelia Giachetti, lei è venuta a San Donà nel lontano 1923; cosa ricorda in articolare di quell’anno? « Quell’anno eravamo andate a Biadene nella villa del comm. Gaviolo, che era presidente dell’Opera. Il presidente aveva invitato tutti gli orfani e anche le ragazze che erano nell’asilo alle scuole di lavoro. Ci ha fatto trascorrere una giornata bellissima: aveva preparato il pranzo nel suo stupendo boschetto. Abbiamo trascorso la giornata in tutta serenità e prima di partire abbiamo fatto una fotografia ricordo. »
¤ Quanti orfani c’erano allora? « Venti interni e altrettanti esterni ».
¤ Si trattava di poveri? « No, erano tutti orfani di guerra: bambini e bambine ».
¤ Come era San Donà in quegli anni? « La città era tutta distrutta. Mi ricordo che, venendo dalla stazione ferroviaria, gli alberi erano ridotti a tronchi o abbattuti; c’era una grande demolizione. Il “Borsa” era l’unico albergo del centro del paese ancora abbastanza funzionante ».
¤ La situazione di San Donà com’era? E la gente? « Erano tutti malandati, c’erano le baracche. Il campo sportivo era tutto coperto di baracche. Quando andavamo là ricordo che c’erano tanti bambini: bisognava vedere in che condizione erano! Dove ora c’è la casa del Mutilato, allora c’era il macello attorniato da un fosso. I rifiuti del macello venivano scaricati proprio in quel fosso: può immaginare che puzza c’era nella zona, i ragazzi volevano sempre evitarla per andare in paese ».
¤ Lei, suor Aurelia Baldasso, è venuta a San Donà nel 1928; cosa era cambiato dal quadro fattoci da suor Giachetti? « Non ho trovato niente di cambiato: c’era poca gente, tante baracche, tanta miseria e poi tutti erano pieni di malaria. Ogni sabato venivano qua a prendersi il pane e una tazza di latte o altri generi alimentari, raccolti dall’Opera San Vincenzo. C’era tanta e tanta miseria. Nel 1929 la situazione si era aggravata, soprattutto d’estate, per la grande siccità. La gente correva a prendere l’acqua del Piave che però era salata; l’aspetto era desolante, tutte le piante seccavano, i campi non producevano niente, i pozzi si asciugavano ad uno ad uno…, erano anni che pativamo anche la sete ».
¤ Quante suore eravate in quel tempo? « Eravamo in nove, mentre i bambini erano centoventi. Poi sono venuti i Salesiani, in attesa che costruissero la loro sede, per cui ci siamo divisi i maschi (a loro) e le femmine (a noi).
¤ Si ricorda qualche fatto particolare accaduto ad un bambino o ad una bambina? « La morte della “Ginetta” causata da una peritonite. L’avevamo portata all’Ospedale, ma non c’era più nulla da fare. Ricordo poi un altro fatto dovuto ad una peritonite che aveva colpito un altro nostro ragazzo. All’Ospedale la nostra superiore disse al professor Girardi: “Professore me lo salvi”. Lui rispose: “Senta Superiora, in chi ha fiducia?” “Prima nel signore – disse lei – e poi anche nel professor Girardi”. Ricordo poi che nei primi anni i bambini erano stati quasi tutti colpiti dalla “tigna”: erano tutti senza capelli. Che pena, poveretti! »
¤ I bambini a quanti anni lasciano l’Orfanotrofio? « I maschi dopo la quinta elementare, le bambine dopo la terza media. Poi hanno la possibilità di tornare in famiglia, altrimenti vengono ospitati a Venezia dove frequentano le scuole medie superiori ».
¤ Quando diventano adulti, vengono mai a trovarvi? « Si, vengono spesso con tanta nostalgia e riconoscenza. Tanti si sono fatti anche un’ottima posizione nella società ».
¤ Come vi sembra si sia trasformata la vostra città dalla vostra venuta? « Quando eravamo venute, San Donà era praticamente distrutta: ora è risorta. Ci pare di essere in un altro mondo. C’è stato uno sviluppo straordinario da allora. Ricordo che gli amministratori del Comune erano molto scoraggianti: è stato monsignor Saretta a dare loro il coraggio necessario. C’è poi un particolare. Il Duomo era stato distrutto dai bombardamenti della prima guerra mondiale: nessuno andava più a Messa. Ma nel 1923, durante la settimana Santa, monsignor Saretta raccolse tutti i fedeli e tenne la S. Messa tra le rovine del Duomo alla quale intervennero moltissime persone ».
¤ Avete avuto momenti difficili nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale? « Si, abbiamo sofferto molto, anche per la pesante situazione economica: non avevamo i soldi per fare le compere. Avevamo allora centoventi bambini da sfamare ».
¤ Come avete risolto il problema? « Con molta fatica, soffrendo. I bambini andavano a scuola ma non si poteva dare loro la merenda perché altrimenti ci mancavano i viveri per il pranzo: si soddisfaceva in qualche modo la fame dando loro una patata bollita. Con le patate e la farina facevamo anche la polenta, Possiamo comunque affermare che i ragazzi, nonostante la situazione, non hanno mai patito la fame: magari polenta e formaggio, ma hanno sempre mangiato ».
¤ Come riscaldavate le camere dei bambini? « Si prendevano delle braci che mettevamo in uno scaldarello. Questo veniva “passato” su e giù sulle lenzuola, quel poco per togliere “il crudo”. Ad ogni bambino si dava poi una bottiglia di ferro contenente dell’acqua calda ».
¤ Che differenza avete notato tra i bambini d’allora e quelli di quest’era? « Un’enorme differenza. Allora nelle famiglie, causa la guerra e le sue conseguenze, soffrivano parecchio e si adattavano, per forza di cosem alla situazione. Erano “tremendi” una volta, ma, poveretti, non avevano colpe. Ora, invece, pretendono di più e ci sono in tutte le famiglie le possibilità economiche per accontentarli ».
¤ In quei difficili momenti, la cittadinanza sandonatese vi ha aiutato? « Poco. Non avendo quasi nulla per loro, non potevano logicamente aiutarci ».
¤ Andavate anche a questua? « Si, per sfamarci andavamo per i campi a raccogliere le spighe rimaste dopo la mietitura del frumento: un anno ne abbiamo raccolte, assieme ai bambini, circa dieci quintali. Nella seconda guerra mondiale, dopo la distruzione dell’Ospedale Civile Umberto I°, ci siamo trasferiti per sette mesi a Campodipietra, nel locale asilo. Là c’era anche un comando tedesco. I bambini andavano a chiedere ai soldati del pane o altro e loro li accontentavano sempre. Davano loro anche il dolce. Ricordo che ai bambini piaceva moltissimo andare a legna dai contadini che gli offrivano sempre del pane, salame e del vino ».
¤ Come siete stati trattati dai tedeschi durante la loro occupazione? « Ci hanno sempre rispettato. Qui davanti all’Orfanotrofio, nella villa Velluti, c’erano un comando di S.S.: quanta paura! Ci hanno comunque sempre rispettato, anzi ogni settimana ci mandavano dodici chili di carne per i nostri bambini. Erano momenti veramente brutti, per non parlare poi del bombardamento dell’Ospedale Umberto I°. Là c’era un comando tedesco. Quando hanno saputo che gli italiani volevano bombardare l’Ospedale sono scappati, lasciando là gli ammalati: che disastro, che macello! Anche noi siamo accorse per prime a prestare i necessari aiuti. Momenti di terrore li abbiamo passati invece con gli indiani che ci hanno devastato la cucina e tutti i locali ».
¤ Molti anni sono ormai passati; ora come vi trovate? « Ora siamo veramente in un altro mondo! ».
Così suor Aurelia Giachetti e Suor Aurelia Baldasso ci hanno raccontato, in questa semplice e forse disordinata intervista, le tristi vicissitudini del loro passato trascorso all’Orfanotrofio, un passatche molti sandonatesi ricordano e che i giovani devono sapere.
« Ora siamo in un altro mondo », così ci hanno detto. E’ una dichiarazione che deve far meditare, cos’ come da meditare sono le parole scritte da Monsignor Chimenton in apertura del nostro servizio. Erano i problemi di allora, sono i problemi dei nostri giorni.

Documenti:

In un post di novembre la Relazione Morale e Finanziaria dell’Orfanotrofio di San Donà di Piave del 1920, con il link per scaricarne la versione in pdf.

Giulietta Masina e le sue origini sandonatesi

Giulietta Masina (copertina libro “Giulietta Masina, donna e attrice”)

Sono trascorse poche settimane da una data importante per il cinema italiano. Come sempre accade le ricorrenze tonde hanno un valore speciale, se poi queste solo legate ad un 100 lo sono infinitamente di più. Sono trascorsi cento anni dalla nascita di Giulietta Masina una delle più grandi attrici del cinema italiano il cui essere stata la moglie di Federico Fellini potrebbe apparentemente aver messo in un cono d’ombra la sua immensa bravura. Ma proprio questo loro vivere in simbiosi ha ancor più accresciuto la qualità dell’una come dell’altra carriera.

Giulietta e quella mamma di San Donà di Piave
Angela Flavia Italia Pasqualini nel 1919 (“Giulietta Masina, donna e attrice”, 2013)

Solo in epoca recente ho ben capito il perchè nel sandonatese vi fosse un attaccamento particolare nei confronti di quest’attrice dal marcato accento bolognese, nonostante fin da piccola abbia vissuto lungamente a Roma. Le radici di Giulietta Masina erano venete, ed in particolare di San Donà di Piave. La mamma Angela era originaria di San Donà di Piave, qui era nata e vissuta per quasi trent’anni, sino a quando si sposò nel paese bolognese di San Giorgio di Piano con il violinista Gaetano Masina. Questa è un’altra particolarità della giovane attrice che negli anni quaranta muoveva i primi passi sulle scene italiane, a differenza di tante colleghe dell’epoca lei non adottò un nome d’arte. Il nome di Giulia Anna Masina rimase praticamente tale con l’unico utilizzo del vezzeggiativo Giulietta come la “battezzò” il giovane Federico Fellini quando l’incontrò a Roma e con il quale appena maggiorenne subito si fidanzò, sposandolo nel 1943 ed iniziando un lungo sodalizio famigliare e lavorativo di oltre cinquant’anni.

Giulietta Masina e le radici sandonatesi

Scrivere di Giulietta Masina è però solo uno spunto per conoscere meglio le radici sandonatesi della grande attrice italiana. E’ bastato spulciare un pò i registri dell’epoca per trovare tra la polvere del passato tante piccole particolarità che fanno una storia. La madre di Giulietta era una maestra di scuola, i genitori della mamma erano ambedue dei maestri di scuola e addirittura il nonno paterno di Angela Flavia era un maestro di scuola. Una famiglia dunque che ha avuto un ruolo importante tra la gioventù della San Donà di quel tempo. E decine e decine di anni dopo alle elementari di San Donà di Piave sia io che mio fratello abbiamo avuto un maestro con lo stesso cognome, sarà un caso o semplice maestra discendenza?

La famiglia Pasqualini a San Donà
14 dicembre 1873, le pubblicazioni del matrimonio tra Giuseppe e Giovanna (Archivio Stato Civile, San Donà di Piave)

Vi è una particolarità nella famiglia della mamma di Giulietta, sia il padre che la madre avevano lo stesso cognome di Pasqualini. Se il padre Giuseppe era originario di Grisolera, la madre Giovanna lo era di Noventa di Piave, paese dal quale era comunque originaria anche la famiglia di Giuseppe Pasqualini. Un grande cerchio che sconfina prima dell’unità d’Italia, il che rende difficile dire se tra le due famiglie Pasqualini ci fossero altri legami di parentela. La cosa certa è che il 23 dicembre 1873 Pasqualini Giuseppe Annibale e Pasqualini Giovanna convogliarono a nozze a San Donà di Piave. Entrambi erano maestri di scuola in città, quasi coetanei, lui il giorno prima delle nozze aveva compiuto 26 anni, lei ne aveva 28. Giuseppe era nato a Grisolera nel 1847, il padre Luigi vi si era trasferito da Noventa di Piave per fare il maestro di scuola ed era sposato con Canella Maddalena. Giovanna, detta Anna come attestato nelle numerose trascrizioni nel registro delle nascite del Comune di San Donà, era figlia di Ferdinando che in quel di Noventa di Piave assieme alla moglie Menon Angela era offelliere, e magari aveva una offelleria. Termini un pò oscuri oggigiorno anche se tuttora esistenti (l’Antica Offelleria Bernardi tutt’oggi a Montebelluna produce le squisite «Angeliche»), oggi il termine ben più comune per definirne il mestiere è quello di pasticcere. Sempre a San Donà di Piave ma in località Mussetta vi era un altro Pasqualini, Francesco, anche lui di professione offelliere e sicuramente vi sarà stato un legame con i Pasqualini di Noventa di Piave.

Dopo le nozze arrivano i figli

Il primo anno di matrimonio non fu facile per i coniugi Pasqualini che risiedevano al civico cinquanta della Piazza a San Donà di Piave. Subito in dolce attesa Giovanna diede alla luce il primo figlio proprio il giorno del compleanno del marito Giuseppe, il 22 dicembre 1874. Purtroppo il neonato morì dopo un solo giorno. Gli fu comunque dato il nome di Luigi, lo stesso del nonno paterno. Proprio Pasqualini Luigi, padre di Giovanni, che per tanti anni era stato maestro a Grisolera morì nel 1877, all’età di 61 anni.

Il Vecchio Duomo di San Donà di Piave, poi distrutto nella prima guerra mondiale, i Pasqualini vivevano al civico numero cinquanta nel centro cittadino

Giovanna “Anna” Pasqualini nel momento del matrimonio aveva 28 anni, i successivi quindici vedrà la maestra sandonatese impegnata anche nel non facile compito di madre. Dopo la perdita del primogenito Luigi nel 1874, già nel novembre successivo ci fu la nascita di un nuovo figlio maschio, Eugenio. Nell’agosto del 1878 fu la volta di Luigi, il cui nome ricordava sia il fratello primogenito morto dopo un solo giorno che il nonno paterno scomparso l’anno prima. La tradizione di associare i nomi di famigliari a quello dei propri figli fu ampiamente praticata dai coniugi Pasqualini. Detto dei primi tre, nel marzo 1880 nacque Giuseppe Ferdinando. Erano tempi tristi quelli per i nascituri, tanti erano quelli che non riuscivano a superare l’anno di vita, e ancora una volta la famiglia Pasqualini dovette sopportare un’altra tragedia dopo quella del primogenito: Ferdinando morì dopo solo dieci giorni. Nel giugno 1881 torna il sereno in famiglia con la nascita della prima figlia Maria Maddalena Angela, i cui nomi sono a ricordar le nonne. Nell’ottobre del 1883 nacque Angela Flavia Margherita la stessa morì prematuramente nel settembre 1885, un mese prima era nato Giuseppe che anni dopo divenne sacerdote. Il 3 dicembre 1888 nacque Angela Flavia Italia, futura mamma di Giulietta Masina, parte dei nomi assegnateli è a ricordo della sorella prematuramente scomparsa e quell’Angela è anche a ricordo della nonna paterna, la “pasticcera”. Quando nacque Angela Flavia, la mamma Giovanna aveva quasi quarantaquattro anni, otto i figli dati alla luce di cui cinque viventi.

I figli nel nuovo secolo
San Donà di Piave in una veduta di Viale Stazione dei primi anni del novecento, si narra che affacciate alle finestre della loro casa ci fossero la maestra Pasqualini con la figlia Angela Flavia

Sia Eugenio, classe 1875, che Luigi, classe 1878, si vedranno poi iscritti all’ufficio leva per quel militare che dopo l’unità d’Italia divenne un’incombenza dei primi figli maschi. Eugenio all’epoca era ancora studente poi proseguirà gli studi sino a divenire professore, la parte alta dell’insegnamento, e lo ritroveremo ancora protagonista della nostra storia dopo la nascita di Giulietta Masina. Nel 1903 la sorella di Angela, Maria Maddalena si sposò con Borini Alessandro un daziere originario del padovano. Il secondogenito Luigi divenuto disegnatore nel 1904 sposerà la bellunese Bortoletti Annita, una ventenne possidente rimasta orfana. Nel 1909 muore la mamma di Angela, Giovanna o Anna come la si trova in tanti atti, ormai pensionata viveva in viale Stazione 10, l’odierno inizio di via Garibaldi. Angela Flavia quasi maggiorenne divenne in seguito maestra, era lei a occuparsi del padre di cui però non conosciamo la data della morte. Sino al 1915 non è riportata nei registri comunali sandonatesi, ma nel 1914 nell’atto nel quale si segnalava la morte del figlio sacerdote Giuseppe avvenuta a Montebelluna, la paternità era preceduta da un “fu”, come a dire che il padre Giuseppe Pasqualini era nel frattempo morto anche se non esisteva la trascrizione nei registri di San Donà. Oppure potrebbe essere un semplice errore e il maestro Giuseppe sia scomparso successivamente.

Angela Flavia da San Donà di Piave a San Giorgio di Piano
9 maggio 1920 le pubblicazioni del matrimonio di Gaetano e Angela (Archivio Stato Civile, S. Giorgio di Piano)

L’approssimarsi della guerra tutto cambiò, Angela Flavia divenuta maestra iniziò ad insegnare. San Donà di Piave venne travolta dall’invasione austro-ungarica e presumibilmente anche la maestra sandonatese fu costretta a vivere da profuga. Pur mantenendo la residenza a San Donà di Piave la ritroviamo insegnante a San Venanzio di Galliera nel bolognese, qui incontra il coetaneo Gaetano Masina. Lui era in quel momento violinista in un’orchestra ma aveva molto viaggiato per il suo lavoro sia in Italia che all’estero, tanto che alla pari di Angela Flavia alla soglia dei trent’anni ancora non si era sposato. Tra i due fu subito amore e il sabato prima di Pentecoste del maggio 1920 si sposarono a San Giorgio di Piano, il paese dello sposo. Al tempo entrambi i genitori di Angela erano morti, mentre erano viventi quelli di lui, due famiglie che comunque erano accomunate dal fatto che questi sposi trentenni quando nacquero avevano i loro genitori ormai quarantenni, quasi un egual destino che li unì. Il matrimonio portò subito alla nascita della prima figlia, Giulia Anna Masina il 22 febbraio 1921. La tradizione dei Pasqualini di ricordare i propri famigliari nei nomi dei propri figli ancora una volta è rispettata, quell’Anna è a ricordo della mamma di Angela Flavia, così come sarà per la secondogenita chiamata Eugenia come il fratello. La futura Giulietta nacque in casa, la levatrice Angiolla Garelli raccontò che era nata con la camicia, ovvero ancora avvolta nella placenta che all’epoca era ritenuto un auspicio di fortuna per la nuova nata. Poi in rapida successione nacquero la sorella Eugenia, quindi i gemelli Mario e Mariolina.

I Masina e lo zio Eugenio
Angela Flavia con il marito Gaetano Masina (“Giulietta Masina, donna e attrice”, 2013)

Il padre Gaetano inevitabilmente si trovò costretto a sacrificare la sua passione per la musica e a trovarsi una nuova occupazione presso la fabbrica Montecatini per dare un minimo di sicurezza economica ad una famiglia che in poco tempo aumentò di numero. La mamma Angela Flavia continuò il suo lavoro di maestra mentre in casa assunse un ruolo importante la domestica Ermelinda. Masina che in seguito per lavoro si trasferiranno anche a Mestre e a Vicenza. A questo punto della storia entra nuovamente in scena lo zio Eugenio. Il primogenito di casa Pasqualini era divenuto professore e si era sposato con Giulia Sardi. I genitori di Giulia erano comproprietari assieme alla famiglia Trolli del Calzaturificio di Varese, un’attività in grande espansione che durante la grande guerra accrebbe la propria fortuna divenendo fornitore dell’esercito italiano. La coppia non aveva figli e viveva a Roma dove lo zio Eugenio era divenuto nel frattempo il preside del prestigioso Liceo « Torquato Tasso », una famiglia molto agiata per i canoni dell’epoca. Fu così che Giulietta ancora fanciulla passò un primo periodo dagli zii a Roma per poi tornare per le vacanze a casa.

Giulietta rimane a Roma con la zia Giulia
La famiglia di Gaetano Masina e Angela Flavia Pasqualini, 1930 (“Giulietta Masina, donna e attrice”, 2013)

Nel maggio 1926 lo zio Eugenio morì prematuramente, Giulietta iniziò a passare gli inverni a Roma dalla zia per poi trascorrere le vacanze con i genitori. La zia assicurò alla giovane nipote un’ottima educazione anche se negli anni delle elementari preferiva farla studiare a casa, poi durante l’estate era la madre che preparava la figlia per l’esame privato di settembre. In seguito venne iscritta dalle Orsoline per completare gli studi ginnasiali e il liceo. Durante tutto questo periodo romano oltre alla zia era accudita anche dall’austera governante Anna originaria dalle terre trentine di Montagnaga di Pinè, anche se tutti la ricordano veneta. I monti della Valsugana erano una delle mete preferite della famiglia Masina per le vacanze. La lontananza da casa indubbiamene segnò il carattere della giovane Giulietta, ma i contatti erano costanti e il piacere del ritorno a casa era ogni volta infinito. La zia ebbe un ruolo importante nell’incoraggiarla alla recitazione nei primi anni quaranta quando si iscrisse all’università « La Sapienza », quindi l’incontro con Federico Fellini con cui subito si fidanzò presentandolo alla famiglia. Federico Fellini era nato a Rimini dove aveva trascorso l’adolescenza per poi trasferirsi a Roma, città natale della mamma, per frequentare l’università.

Giulietta Masina e Federico Fellini
Il matrimonio con Fellini, il successo e la sua famiglia a Roma
Giulietta Masina e la madre Angela Flavia nella villa di Fregene dell’attrice, 1956. (GettyImage)

Il 30 ottobre 1943, in piena guerra, si celebrarono le nozze anche per far evitare a Federico la chiamata alle armi. La cerimonia si tenne nell’appartamento della zia Giulia e venne officiata da Monsignor Luigi Cornaggia de Medici che viveva nello stesso palazzo, Rinaldo Geleng e Vittorio Caprioli i due testimoni. E per viaggio di nozze si concessero due passi al Teatro Galleria dove recitava l’amico Alberto Sordi. I due vissero inizialmente presso la zia e il 22 marzo 1945 nacque Pier Federico. Purtroppo quel fatal destino che aveva colpito spesso i Pasqualini anche in questo caso vide il neonato morire il 2 aprile dello stesso anno. Giulietta non ebbe più la gioia di divenire madre e con il suo Federico si immerse nella carriera artistica che le diede comunque enormi soddisfazioni. Il suo desiderio di famiglia lo espresse riunendo la propria famiglia di origine a Roma così da vivere assieme quel tratto che ne rimaneva e prodigandosi in mille maniere nei confronti delle sorelle e del fratello. Quella separazione che tanto le aveva dato grazie alla zia ma anche tolto nella qualità degli affetti famigliari, l’accompagnerà sempre nella vita come nella carriera artistica alla pari del suo indissolubile legame con Federico Fellini. Indimenticabile la scena agli Oscar 1993 quando il regista venne insignito con una statuetta alla carriera e durante la consegna sul palco da parte di Sofia Loren, Fellini riprese la moglie che in platea si stava sciogliendo per la commozione in un pianto irrefrenabile, un ultimo ciak chiamato dal grande regista davanti ad una platea mondiale. Fellini morì in quello stesso ottobre, Giulietta nel marzo successivo, un mese dopo il suo settantatreesimo compleanno.

La famiglia Masina nel 1959 in occasione del matrimonio di Mariolina Masina. Da sinistra; Eugenia Masina con il marito e i due figli, Giulietta Masina e Federico Fellini, Angela Flavia e Gaetano Masina, Mariolina Masina con il marito, Mario Masina con la moglie. (“Giulietta Masina, donna e attrice”, 2013)

Fonti: Archivi Stato Civile dei Comuni di San Donà di Piave, San Giorgio di Piano. Roma; “Giulietta Masina” di Gianfranco Angelucci (Edizione Sabinæ, 2021); “Giulietta Masina – donna e attrice” (Rotary Club San Giorgio di Piano, 2013)